APPENDICE – I commenti di “Bambola di Pezza” (e oltre)

 
 
Questo blog è nato come nascono molte situazioni di vita: per caso. Inutile quindi cimentarsi in una rilettura postuma degli eventi, per imporgli una logica col beneficio della retrospettiva.
 
Il blog è nato per caso, d’accordo. Poi, però, è stato sviluppato con metodo, rigore, precisione, per quanto nelle mie capacità, e diverse persone hanno giocato un ruolo, in questo percorso di messa a punto e perfezionamento delle idee: ho avuto commenti, feedback, critiche, opinioni, domande, che si sono rivelate altrettante occasioni di approfondimento, per migliorare i contenuti dei vari moduli.
 
Dalla massa variegata di ciò che ho ricevuto, si staccano per quantità e qualità i commenti di Bambola di Pezza, un’acuta e brillante lettrice del blog che ha sistematicamente “sfidato” i post col piglio di chi desidera imparare senza cadere nell’accettazione incondizionata, ma senza neppure contestare per puro spirito di contrapposizione, finendo così per offrire un eccellente banco di prova per le tesi proposte.
 
Ho quindi ritenuto – in prima battuta – di raccogliere tutti i suoi commenti in un modulo dedicato, scrivendoli in azzurro e col font Didact Gotich, per renderne immediata l’identificazione, e usando il suo avatar – una bambola di pezza, appunto – per separarli dalle mie repliche.
 
Con la logica ottimizzante propria della scrittura, gli interventi di Bambola di Pezza hanno poi fatto da sponda alla costruzione di una vera e propria “appendice” al corso, la cui struttura risente della sua genesi, e perciò si mantiene più libera, maggiormente flessibile rispetto all’impostazione dei moduli veri e propri. 
 
Puoi vedere questa appendice come come una sezione open-ended, in cui far confluire tutte le considerazioni di dettaglio, ogni volta che ve ne sarà l’opportunità, per rendere sempre più precisi e raffinati i contenuti dei moduli. La sua lettura presume quindi un abito mentale tutt’altro che scolastico.
 

 
Un beta-reader – nelle fasi preliminari di stesura del manuale – mi ha fatto osservare l’importanza di essere precisi nella definire le parole-chiave (keywords) con cui comunicare i concetti fondamentali.
 
In questo ordine di idee, ad esempio, andrebbe fatta una distinzione tra le parole “convincere” e “persuadere”, che invece nel modulo 2 sono usate in modo interscambiabile.
 
Sì, è vero, “convincere” e “persuadere” non hanno lo  stesso senso, e del resto è ben noto che i sinonimi non esistono, che tra parole diverse è sempre presente una sfumatura di significato (ovvio: perché mai dovrei avere due parole per identificare la stessa identica cosa?).

L’indicazione quindi è corretta, ma se l’avessi assecondata sino alle sue conseguenze ultime, magari prestando attenzione anche all’etimologia delle parole, sarei finito come Alfred Whitehead e Bertrand Russell con i loro Principia Mathematica, in cui sono necessari lunghi passaggi formali anche per esprimere enunciati ovvi al senso comune. “Se servono 27 passaggi per dimostrare che 1 è un numero” – chiosava ironicamente Poincaré – “quanti ne serviranno per dimostrare un qualsiasi risultato minimamente interessante?”.

Mi viene da dire – provocatoriamente e paradossalmente, visto che si parla di scrittura – che noi ci intendiamo non già grazie a le parole, ma nonostante le parole: continuiamo a chiamare “atomo” una cosa che atomo non è (che abbiamo bellamente frantumato ormai da tempo) e continuiamo a dire “il Sole sorge” restituendo l’immagine di un Sole in movimento (ma come dovremmo dire, per non passare sostenitori del sistema tolemaico?) così come “chiudi la finestra, che entra freddo” (quando – principî della Fisica alla mano – è il caldo a uscire, e non il freddo a entrare).

Da parte mia c’è stato e ci sarà sempre l’impegno a usare la massima attenzione nella scelta delle parole, ma da parte tua deve esserci il buon senso di interpretare le parole in funzione del contesto in cui si trovano, in modo da poter ignorare certe sfumature di significato che, dato il contesto, sono irrilevanti o di poco peso. Altrimenti – temo – comunicare sarà davvero impossibile.

 

 
Questo è stato il primo commento di Bambola di Pezza.
 
Cerchi un terreno comune con la controparte dietro lo schermo. Il ritmo sale, trasmette il tuo vissuto. Ci sono diverse cose che mi colpiscono nel modulo 0. Anzitutto, la quantità di parallelismi con altre discipline: la musica, la matematica e soprattutto l’edilizia (perché scienza applicata). Li ho trovati efficaci, e sono curiosa di vedere se e come verranno approfonditi nei moduli successivi.

Poi mi colpisce quando parli di una metrica per valutare la qualità di un’opera letteraria, e i discorsi conseguenti. Trovo giusto, e interessante, ribaltare la prospettiva e introdurre questo punto di vista fin da subito, il punto di vista del lettore. Credo che ci sia molto da dire al lettore-aspirante-scrittore durante questa fase di demolizione c
he prospetti.
 
Anyway, gli studenti fenomeni pullulano dove imperano cattivi maestri; in caso contrario, la selezione naturale porterà gli esemplari riottosi a perdere progressivamente la capacità riproduttiva.

 
 
I parallelismi con altre discipline e la necessità di una metrica valutativa vogliono restituire alla scrittura la sua natura artistica, e l’arte rimane pur sempre immaginazione dentro una camicia di forza, per parafrasare il fisico Richard Feynman.

Ci tengo piuttosto a enfatizzare un fatto che rischia di passare in sordina: questo blog – senza esagerazioni, vi assicuro – offre il miglior corso di scrittura gratuito disponibile sull’intero web, e – senza falsa modestia – superiore persino a buona parte dei corsi a pagamento (che il più delle volte, all’atto pratico, non insegnano davvero scrivere, ma servono solo a “introdurre nell’ambiente”, a far entrare in contatto con il mondo dell’editoria, a lasciar intravedere la possibilità di pubblicare, solleticando la vanità presente in ogni aspirante autore, per quanto merdoso possa essere ciò che ha scritto).
 
E il più grande problema del blog – paradossalmente – è proprio il fatto di poterlo fruire senza costi.
 
Viviamo in un’economia monetaria, un sistema economico dove i rapporti di scambio di beni e servizi sono regolati con quel mezzo che gli economisti chiamano “moneta” e che per il resto del mondo è il denaro, i soldi. Il denaro si presenta prima face come un semplice tecnicismo – strumentale a render fluide le transazioni, altrimenti vischiose in un sistema alternativo, basato ad esempio sul baratto – ma poi, nei fatti, retroagisce sulle nostre percezioni, sui nostri atteggiamenti, sui rapporti sociali. Il denaro – c’è poco da fare – cambia le persone, i loro modi di pensare e agire.

Il meccanismo psicologico, qui, è davvero infido.
 
Siamo abituati a pensare che un prodotto di qualità –  un capo di abbigliamento, un auto, un i-Phone, un soggiorno in un albergo o un corso di scrittura – ha un costo monetario più elevato della media, il che è sicuramente vero. Non vale però il reciproco: avere un costo elevato – o avere un costo tout court – non è garanzia di qualità.
 
Ebbene – per quanto sembri pazzesco – la maggior parte delle persone non riesce a distinguere tra un’affermazione e la sua reciproca. I più non capiscono che “tutti i ladri sono rumeni” e “tutti i rumeni sono ladri” sono affermazioni diverse, che la prima è innocua e la seconda è un’ingiuria a un intero popolo. E – allo stesso modo – l’affermazione  “se è di qualità, allora costa molto” è spesso considerata equivalente a “se costa molto, allora è di qualità”.
 
E se poi – per avventura – il prodotto “non costa”, se viene offerto gratuitamente, allora “non vale nulla”. È triste, ma serve riconoscerlo: siamo incapaci di dare un valore alle cose se non attraverso il loro prezzo, e se il prezzo non c’è, allora non c’è neppure valore, perché se valesse qualcosa lo farebbero sicuramente pagare (perché, fondamentalmente, siamo incapaci di immaginare un’azione che non abbia il denaro come movente, che non sia quantomeno eterodiretta dalla logica del denaro).

Paradosso nel paradosso – infine – spesso ci lamentiamo perché le cose “costano troppo” e non possiamo permettercele; vorremmo che fossero più economiche, e sogniamo di averle gratuitamente; ma quando poi – per avventura – arrivano davvero gratis, ecco che ci scopriamo impossibilitati a coglierne il senso e il valore, non ci interessano più, non riusciamo a godercele, e vorremmo pagarle, almeno un po’.
 
Cosa volete che vi dica?  Se anche voi appartenete alla maggioranza – quelli che se non pagano non riescono a dare valore alle cose e ad auto-disciplinarsi – allora scrivetemi in privato: vi farò avere l’IBAN a cui bonificare l’importo necessario a dare valore al blog.

 

 
Ci sono due direttrici, e nel commento cercherò di rimanere nel solco – anche se non c’è setting migliore dei fuori pista per caratare il maestro di sci.

La prima direttrice è una stilizzazione del lettore da prendere a riferimento, che vuol mettere in luce le caratteristiche principali della “sfida” con cui lo scrittore decide di cimentarsi. Ritrovo con piacere la musica nelle provocazioni di Klaus, tutte orientate a scardinare il pregiudizio per cui si possa automaticamente considerarsi scrittori poiché si è stati alfabetizzati durante la scuola dell’obbligo.
 
La seconda direttrice del modulo è un accorato tentativo di rinforzare e attualizzare il paradigma dell’estetica tradizionale, che sovrappone fino alla fusione tecnica e arte. Trovo in chiusura uno stralcio di Pontiggia che rinforza il bisogno di demolizione già introdotto nel modulo 0.

Rispetto alla definizione del lettore-tipo, ritengo che fissare la sua propensione iniziale alla lettura in una scala di temperatura sia senz’altro uno strumento funzionale al corso.
 
Questo settaggio è utile a corroborare le tue argomentazioni successive, quando sostieni che sarà la tecnica (passo ulteriore rispetto all’applicazione delle solite regole formali di ortografia, sintassi, grammatica, etc.) a scaldare il lettore “tiepido”, e permetterci – eventualmente – di sfidare un lettore “freddo”, arrivando a sostenere che, in termini generali, sarà questo approccio a restituire alla scrittura una dignità artistica.
 
Ad ogni modo, mi sono domandata più volte durante le mie letture del modulo se le qualità che hai attribuito al lettore definito “tiepido” siano sufficienti a digerire, da studente, questa importantissima discriminante.
 
Le informazioni fornite su questo lettore di riferimento, ad oggi, sono relative al suo interesse per l’argomento e per il genere; viene descritto come un lettore esigente e impaziente al quale si sta sottraendo una risorsa preziosa, il tempo.
 
Ti sarei grata se potessimo approfondire un minimo questo argomento e, in attesa di questo eventuale approfondimento, vorrei solo accennare una riflessione che mi sono appuntata durante lo studio.
 
Questa distinzione sembra includere alcuni dati psicografici – poiché è impossibile capire quanto un lettore è interessato, per dire, ad un dato argomento o ad uno specifico genere da una semplice indagine demografica. Mi domando, quindi, se e quanto incidono nella tua definizione le logiche di marketing e se ci stiamo avvicinando alla declinazione del cosiddetto buyer personas nel declinare il “lettore tiepido”. A fondare la mia domanda è anche la tua chiosa, quando sostieni che “Visualizzazioni, commenti, like, vendite, applausi, denaro si otterranno per ricaduta”.
 

 
Sono stati toccati almeno due punti interessanti.
 
Iniziamo dal protagonista del post: il lettore tiepido.
 
… viene descritto come un lettore esigente e impaziente al quale si sta sottraendo una risorsa preziosa, il tempo. Ti sarei grata se potessimo approfondire un minimo questo argomento.

Amare la scrittura significa prima di tutto smitizzarla.
 
“Non leggere”, ancora sino a una decina di anni fa, era uno stigma. Oggi non è più così. Una playlist di Alessandro Barbero può rivelarsi più emozionante, coinvolgente e formativa della gran parte dei romanzi storici, solo per dirne una. Non siamo più in un’epoca in cui “o leggevi o leggevi”, e se non leggevi venivi giudicato con sufficienza. La lettura di narrativa, oggi, è solo un’opzione tra le tante, con numerosi punti di debolezza (di cui si parla nel modulo 6) e un solo vero, autentico punto di forza (discusso nel modulo 18A).

Pensiamo allo studio del latino, se il paragone può essere d’aiuto.

“Il latino sviluppa la capacità di ragionamento” era la risposta standard che veniva data (e viene data ancor oggi) a chi chiedeva quale fosse la ragione per imparare una lingua morta. Giusto, vero: il latino favorisce il ragionamento, perché la traduzione di una versione non può mai ricondursi a un atto meccanico.

Ora, però, chiediamoci come, dove e quando nasce il mito del latino come materia che aiuta a ragionare. Fondamentalmente in un’epoca in cui era pressante l’esigenza di una alfabetizzazione massiva della popolazione, e di conseguenza la gran parte degli insegnamenti dovevano essere mandati giù a memoria, spesso senza capirne il senso. E questo stile didattico – per quella inerzia che segna tutte le cose umane – si è trascinato nel tempo sino ad arrivare molto vicino a noi. Ancora a metà degli anni ’80 del secolo scorso – ne sono testimone diretto – nelle scuole elementari si insegnava la cosiddetta “prova del 9” (per verificare la correttezza di una moltiplicazione o di una divisione) che si doveva imparare a memoria (si dovevano cioè solo memorizzare i passaggi da compiere per eseguirla, senza bisogno di capirne il senso); persino la matematica, quindi, veniva ridotta a degli automatismi.

In questo mondo – che era ancora il mondo degli anni ’80 del secolo scorso – è chiaro che lo studio del latino era una marcia in più: perché la traduzione non poteva realizzarsi “parola per parola”, serviva ragionare sul testo e sulla struttura delle frasi, e quindi, sì, il latino obbligava a sviluppare quella capacità di ragionamento che si poteva evitare altrove.

Ma oggi – viva Iddio! – non è più così. Oggi – seppur a fatica, all’interno di un processo peraltro da ultimare – ci siamo spostati su ben altri livelli didattici. Per imparare a ragionare – oggi – abbiamo a disposizione il latino… e altre n possibilità, con n che tende a crescere sempre più (altro, poi, è se una persona ama il latino di per sé, per suo gusto e interesse, per cultura personale).

Quando parlo di un lettore esigente e impaziente mi riferisco – per restare nel parallelo scolastico – all’equivalente di una figura che non ha più un bisogno stretto del latino, se vuole imparare a ragionare.

Fuor di parallelismo, un lettore esigente e impaziente è una figura per noi anonima – a cui cioè non siamo vincolati da rapporti affettivi o da obblighi di reciprocità – che dispone di n alternative alla lettura, e tutte in apparenza molto più attraenti, per svagarsi, imparare, emozionarsi.
 
Perché dovrebbe scegliere proprio la lettura – e per di più la lettura del nostro romanzo – e non una qualsiasi delle altre n possibilità?

Perché – per ritornare al parallelo scolastico – dovrei studiare latino per imparare a ragionare? Perché proprio il latino e non una qualsiasi altra materia, in primis la matematica, che è la regina del ragionamento, e oggi – grazie alla tecnologia, alla possibilità di visualizzare calcoli, formule e teoremi in modo accattivante – può manifestare a pieno il suo fascino ineguagliabile?
 
La spocchia del sedicente scrittore svanisce, quando la cose le si osservano da questa angolazione; e di conseguenza si comincia a ragionare su cosa sia  davvero la scrittura, e su come se ne possano sfruttare al meglio le (poche) potenzialità.
 
Ho divagato, ne sono consapevole, ma era necessario. Comunque, per tornare alla domanda iniziale, diamo pure un semplice esempio di “lettore esigente e impaziente”.

Un lettore esigente e impaziente – oggi – inizierà a leggere “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno”, ma non arriverà mai a leggere “lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni” (con cui il passo si conclude). Avrà mollato prima.
 
O meglio: il lettore esigente e impaziente leggerà pure tutto – da “Quel ramo del lago di Como” fino a “in nuovi golfi e in nuovi seni” – se sta proprio leggendo Manzoni, ma abbandonerà sicuramente la lettura se sta leggendo un testo scritto oggi con lo stile di Manzoni. Perché – scusate tanto – se devo leggere uno che scrive come Manzoni, leggo direttamente Manzoni, mica i suoi emuli, vi pare?

Il lettore esigente e impaziente, oggi, ha bisogno di entrare quanto prima nella storia, già nella prima pagina. E chi scrive oggi – per lettori esigenti e impazienti – ha quindi l’obbligo di far capire quanto più rapidamente possibile, già dall’incipit, chi è il personaggio, dove si trova e qual è il suo obiettivo, e questo schema deve guidare la scrittura dell’intera storia. Ogni scena, da un lato deve essere interessante in sé, dall’altro deve settare un’aspettativa o mettere curiosità sul seguito (va cioè concepita per incentivare la lettura). Non c’è più spazio, oggi, per i rami sul lago di Como (e di cui, in tutta sincerità, probabilmente non è mai fregato niente a nessuno nemmeno all’epoca di Manzoni).

Proseguiamo.
 
Mi domando, quindi, se e quanto incidono nella tua definizione le logiche di marketing.

Risposta secca: nessuna.

Semplicemente va capita la gerarchia delle fonti, per dirlo al modo dei giuristi.

Noi scriviamo narrativa per un motivo preciso – presentato nel modulo 2 nei suoi aspetti generali, qualificato nel modulo 3 e indirizzato tecnicamente nel modulo 5 – e tutto il blog è pensato e realizzato per far sì che questo unico motivo trovi le migliori modalità attuative.

Dopodiché – citando Umberto Eco – l’unica cosa che si scrive per sé stessi è la lista della spesa; e la letteratura ha sempre presupposto un pubblico, ci ricorda Pontiggia.

E quindi, sì, la nostra narrativa dovrà passare al vaglio di un pubblico di lettori, che potranno essere – a seconda dei casi – lettori in senso stretto (gente che compra libri) oppure gli utenti di una piattaforma di scrittura, o magari i giudici di un concorso letterario, o vedi tu che altro.

E in un certo senso l’artista vive per il pubblico, per l’applauso del pubblico, che può essere semplicemente l’applauso vero e proprio, o la fila al botteghino per assistere allo spettacolo, o la fiducia accordata acquistando il libro.

E quindi, sì, finiremo in qualche modo col parlare di marketing, in senso ampio, per capire come un’opera possa incontrare il favore del pubblico.

Siamo al punto: tu – lettore del blog – vuoi incontrare il favore del pubblico solo ed esclusivamente come conseguenza di ciò che nella sua essenza trovi nei moduli 23 e 5, o per dirlo più rapidamente, il favore del pubblico deve essere sempre una conseguenza di ciò che hai scritto e mai l’obiettivo per cui scrivi.

Sembra una distinzione sottile, e per molti versi lo è, ma è una sottigliezza che cambia tutto: in una versione stai lottando per esprimere te stesso, le tue qualità, la tua visione del mondo (e poi, sì, probabilmente arriveranno anche le gratificazioni esterne); nell’altra vuoi assecondare direttamente una pletora di sollecitazioni esterne, anche quando non hanno alcuna base solida nella tua interiorità.

E la motivazione (sbagliata) cambia tutto: perché un conto è manifestare il meglio di quel che si ha dentro, per renderlo osservabile all’esterno, altro è proiettare la propria identità su qualcosa di esterno, che alla lunga non potrà sostenerla.
 


Rispetto al parallelismo musicale, prendo le mosse dal tuo parlare di standard, canoni, studio e apprendimento continuo. Tengo la barra dritta sul pianoforte, perché ne ho avuto esperienza diretta. Posso ascoltare per ore l’Alborada del Gracioso di Ravel, ed anche essere trasportata emotivamente dall’ascolto, ma non mi sto avvicinando allarte di Ravel. Ne sto semplicemente godendo, perché a questo l’arte è finalizzata: al godimento.
 
Se mi salta in testa di praticare la disciplina, la prima cosa che devo fare è cambiare il mio modo di ascoltare, rinunciando per così dire ad una fetta di quel godimento immediato. Il mio ascolto deve divenire prodromico prima, e complementare poi, all’apprendimento della disciplina stessa. E qualcuno dovrà dirmi come fare.
 
Si pensa che aver imparato a leggere le righe della pagina sia educazione alla lettura? Davvero dobbiamo ribadire questo? Così pare.
 
Resto interdetta nello scoprire che è ancora necessario, dagli anni ottanta dello scorso secolo, dover ribadire che scrittori non si nasce, come non si nasce pianisti, fornai, carpentieri. Avvicinarsi alla pratica di qualsivoglia disciplina richiede di esservi introdotti. Il desiderio di voler praticare una disciplina (in senso artistico, aggiungiamolo) presuppone un altro desiderio: quello di relazione umana. Bisogna accettarlo, da entrambe le parti. Sono convinta che la relazione tra chi educa e chi viene educato sia di per sé una forma d’arte.
 
Il punto focale del parallelismo, a mio avviso, è che quando parliamo di musica parliamo di un apprendimento interdisciplinare e multilivello, oltre che circolare e continuo.
 
Nello studio della musica esistono delle discipline complementari: sono materie indispensabili, ineludibili. Si vedrà che non è possibile diplomarsi se non si ha superato gli esami complementari di solfeggio, armonia e storia della musica. Per diplomarsi in pianoforte si tiene un concerto, è evidente. In aggiunta all’esecuzione, però, c’è da sostenere una “Prova di cultura” che consiste in un’analisi tecnica orale delle partiture, che pure dovranno essere eseguite (parzialmente) per motivare le proprie risposte.
 
Ne desumiamo, ora possiamo farlo, che per il conseguimento del titolo finale è necessario padroneggiare la tecnica non solo durante l’esecuzione, ma è necessario saperla declinare in forma orale, avvalorando assunti teorici con esempi pratici allo strumento. Suonare quindi, ma senza barare, senza camuffare alcunché.
 

 
Ci sono almeno due punti da riprendere in questo commento, uno da precisare, l’altro da stressare.

perché a questo l’arte è finalizzata: al godimento.
 
L’affermazione non è sbagliata, ma è parziale, e perciò rischia di essere equivocata, senza una qualificazione ulteriore (a causa della solita limitazione percettiva per cui – spesso – non siamo capaci di distinguere tra una affermazione la sua reciproca).

Dire che l’arte è finalizzata al godimento – seppur corretto – può indurre a vedere erroneamente dell’arte in qualsiasi opera capace di suscitare un godimento. Follia! Perché “se è arte, allora emoziona, fa godere” è molto diverso dal dire “se fa godere, se emoziona, allora è arte”.

Posso godere o emozionarmi per un’infinità di cose – la visione di un film porno, un giro di giostra a Disneyland, una doccia calda dopo aver corso un’ora sotto la pioggia – che manifestamente non hanno nulla di artistico.

Qual è, dunque, il tratto qualificante del godimento indotto dall’arte? Cos’è che permette di distinguere tra un’emozione suscitata dall’arte e tutte le altre emozioni? Fondamentalmente il suo saper portare lo spettatore oltre il godimento immediato o l’emozione del momento, far sì che quel godimento o emozione finiscano col condizionare in una certa misura tutta la vita, che lascino un segno duraturo, che restituiscano un qualche messaggio, suggestione o intuizione che ci accompagnerà per sempre.

Se invece il godimento nasce con l’inizio dell’atto e muore con la sua fine – come accade per un porno, un giro di giostra, o una doccia calda – allora non è arte.

È importante capirlo, perché a volte – per quanto possa sembrare folle – mi sono sentito dire che in fondo “è sufficiente far emozionare”, per poter dire di aver realizzato un’opera valida, dimenticandosi, appunto, che lo stesso effetto lo avrebbe avuto un porno, un giro di giostra o una doccia calda.
 
Passiamo al secondo punto.

Se mi salta in testa di praticare la disciplina, la prima cosa che devo fare è cambiare il mio modo di ascoltare, rinunciando per così dire ad una fetta di quel godimento immediato.

La risposta secca sarebbe “sì, in una certa misura devi rinunciare a una fetta di quel godimento immediato che ti procura la lettura di un testo narrativo”.

E questo, ammettiamolo, può risultare fastidioso: non riuscire a godersi un’opera perché il nostro piglio artistico ce ne fa notare tutti gli errori – pensiamo al più classico: l’infodump – può rendere la lettura un’esperienza frustrante.

La soluzione consiste nel “prendere il sopravvento sul nostro cervello” (il che non è facile, non è immediato, e richiederebbe quanto meno di fornire delle linee direttive su come fare).

Pensiamo ai bambini con genitori di diversa nazionalità, se vogliamo un’analogia immediatamente afferrabile. Il bambino imparerà quasi subito che – ad esempio – con la mamma si parla solo inglese e col papà solo italiano. Perdonate il linguaggio assolutamente informale e approssimativo, ma – nello spirito del als ob di Vaihinger – è come se il suo cervello ogni volta si riconfigurasse, a seconda che stia parlando con la mamma o col papà.

Qualcosa di simile deve avvenire nel cervello dello scrittore. Perché sto leggendo quest’opera? Per documentarmi, per gusto e interesse personale o per migliorare nella mia scrittura? O che altro? Il cervello dovrà riconfigurarsi ogni volta in funzione dell’obiettivo perseguito, come quello del bambino che parla lingue diverse in funzione del genitore a cui si rivolge.

 
Nella musica, ogni lacuna negli apprendimenti complementari, seppur forse non così grave da aver impedito al discente di superare gli esami, apre una falla.
 
Lo studente oggi, e domani il pianista, più o meno consapevole delle proprie lacune, rimedierà inconsciamente come potrà, alla bisogna, a seconda del contesto. Se il pianista ha molta agilità nelle dita, svolazzerà con diteggiature ardite per camuffare, a volte imbellettare le proprie mancanze. Se ha sviluppato una buona sensibilità esecutiva, il pianista potrà giocare con gli abbellimenti, i fraseggi e le espressioni, secondo il principio per cui è bene alloggiare in bella vista ciò che si vuol nascondere, camuffando un errore in un’interpretazione personale.
 
Ho ragionevoli sospetti che questo accada anche nella scrittura. 
 
Ad ogni buon conto, il fatto che il pianista sappia colmare la lacuna tecnica con altro e cavarsi d’impaccio in certi contesti, non intacca il dato di base: esiste una lacuna, ogni vuoto ha una sua precisa forma e misura, e il fatto che si riesca a coprire le tracce della propria impreparazione riempiendo un vuoto tecnico con uno svolazzo artistico non è mai un’operazione meritoria. Mai: non lo è mai, se guardata dalla giusta angolazione, ovvero dall’angolazione che viene richiesta qui nel blog.
 
La riflessione che chiude il mio ragionamento sul parallelismo musicale, quindi, si articola in forma di domanda: siamo in grado di schematizzare, con una ragionevole approssimazione, in che modo l’uso consapevole e funzionale della lettura la configuri come una disciplina complementare alla scrittura?
 
 
 
Per dirlo in due parole – riservandomi di qualificare meglio il concetto nell’appendice ai moduli 25 e 26 – l’uso consapevole e funzionale della lettura si configura come una disciplina complementare alla scrittura, nella misura in cui si ha chiaro l’obiettivo da raggiungere con la lettura al fine di migliorare la propria scrittura.

E poiché gli obiettivi possono essere numerosi e variegati, è fondamentale sapere quale sia il motivo per cui si sta leggendo, sia per indirizzare la scelta verso la lettura migliori (rispetto all’obiettivo) sia per non vedere in quelle letture dei pregi che non hanno (sempre rispetto all’obiettivo).
 


Poi, c’è la tua difesa dell’estetica tradizionale, argomento sul quale risulta troppo ambizioso per me rimanere nel solco. Di conseguenza, mi limito ad una riflessione estremamente circostanziata su Pontiggia e il nuoto.
 
Accetto in pieno l’assunto per cui esista un elemento di artificialità (le protesi umane, in questo caso) che caratterizza l’uomo come animale. La tecnica, in effetti, non si aggiunge all’uomo ma è co-originaria all’uomo stesso, alla sua costituzione. Credo che Heidegger intendesse qualcosa di simile con “l’essenza della tecnica non è niente di tecnico”: antropogenesi e tecno-genesi si sovrappongono fino a divenire inscindibili. Con la postilla per cui mentre ogni altro animale adatta le proprie funzioni corporee alle condizioni naturali, l’uomo le depotenzia a favore degli strumenti artificiali che lo sostituiscono. Non è un caso che laddove venga richiesta l’eccellenza nella disciplina non sia concesso sfruttare l’artificio oltre una certa soglia: ti ricordi la diatriba sulle mute ad alta tecnologia fra il 2008 e il 2009, per restare a mollo con Pontiggia?

 
 
mentre ogni altro animale adatta le proprie funzioni corporee alle condizioni naturali, l’uomo le depotenzia a favore degli strumenti artificiali che lo sostituiscono. Non è un caso che laddove venga richiesta l’eccellenza nella disciplina non sia concesso sfruttare l’artificio oltre una certa soglia
 
Questa annotazione fa da sponda naturale a un tema di stretta attualità e destinato ad acquistare sempre maggior rilevanza in futuro: l’uso dell’intelligenza artificiale nella scrittura di narrativa, o per dargli un’intonazione drammatica, la creatività dello spirito umano contro le possibilità della macchina ChatGPT.
 
L’argomento imporrebbe – come minimo – un post dedicato (che comunque non basterebbe a dare anche solo un quadro d’assieme o un’introduzione generale); figurarsi cosa si può dire in una semplice appendice; poco, davvero poco, oggettivamente.
 
Più che impostare un discorso strutturato, quindi, mi accontento di sfatare un luogo comune tenacemente persistente, al fine di mettere l’intero argomento nella giusta prospettiva.
 
La più grande sciocchezza in fatto di intelligenza artificiale suona più o meno così: “l’intelligenza artificiale non è vera intelligenza, perché non capisce realmente ciò che crea, ma procede semplicemente per regolarità statistiche”.
 
Siediti e fai un bel respiro, ché sta per arrivare una notizia shocking: anche l’intelligenza umana procede per regolarità statistiche.
 
Se io dico “forchetta e…”, tu come completi la frase? Probabilmente con “coltello”. Forchetta e coltello, giusto? Sì, giusto.
 
Ma perché hai scelto proprio la parola “coltello”? Perché non “cucchiaio”, “mestolo”, “pentola” o “mutande”? Cos’è che ti ha portato a creare proprio questa specifica associazione tra “forchetta” e “coltello”? La statistica!
 
Il tuo cervello – la tua intelligenza – ha sistematicamente registrato nel corso della vita l’accoppiata “forchetta e coltello”, e non ha mai censito – o ha censito pochissime volte – accoppiate alternative (del tipo “forchetta e cucchiaio”). Quindi, non appena il cervello sente la frase sospesa “forchetta e…”, la completa con “coltello”, mettendo in atto le sue statistiche. Esattamente come farebbe una macchina che avesse nella sua memoria (nel suo database) le stesse statistiche.
 
Però, sì dirà, noi umani sappiamo che oggetti sono la forchetta e il coltello, sappiamo come sono fatti, che forma hanno, a cosa servono e come si usano, laddove la macchina lo ignora bellamente.
 
Falso. Noi sappiamo cosa sono la forchetta e il coltello, sappiamo come sono fatti, eccetera, eccetera, eccetera, sempre per un fatto di statistiche. Riconosciamo la loro forma, il loro scopo e le modalità d’uso in virtù della regolarità di una serie ripetuta di osservazioni, che, volendo, si potrebbero trasmettere anche a una macchina.
 
E per quanto si volesse spingere indietro il ragionamento, per quanto si cercasse un principio primo che sia afferrabile solo dall’intelligenza umana, ma non comunicabile a una macchina, ci si troverebbe sempre a dover gettare la spugna, ad alzare bandiera bianca, a meno di non voler far entrare in gioco un’asserzione metafisica per cui il “pensiero” è prerogativa umana… perché sì.
 
Non è facile da accettare, lo so: veder fare a una macchina qualcosa che, se fosse opera dell’uomo, sarebbe sicuramente attribuita alla sua specifica intelligenza, a qualità umane non replicabili, è fonte di disagio, di inquietudine.
 
Non se ne viene fuori se non con un approccio massimamente razionale, che bandisca le speculazioni filosofiche, per riportarsi a una teoria basata su fatti osservabili.
 
Estratto da Macchine “che pensano” (e che fanno pensare), di Bruno de Finetti.
 
Invece di discutere in continuazione su questo punto” – e cioè sul fatto che il pensiero sia una prerogativa umana piuttosto che un’attività replicabile da una macchina – “è normale attenersi alla educata convenzione che ognuno pensi”, e cioè che tanto gli uomini quanto le macchine siano in grado di pensare.
 
Sono parole di Alan Turing, che invitano a spostare la questione sul piano empirico: posto che “ognuno pensi” – uomo o macchina che sia – è possibile discriminare tra forme di pensiero?
 
Vedi un’automobile percorrere una strada, fermarsi al semaforo rosso e ripartire col verde; la vedi poi arrestarsi davanti alle strisce pedonali, per consentire ai passanti di attraversare la strada; la vedi rispettare i sensi unici, i divieti di sosta e i limiti di velocità; la vedi evitare i parcheggi riservati ai disabili.
 
Ma non vedi chi la sta guidando, perché i vetri sono oscurati. Riesci a dire, allora, se al volante c’è un essere umano o un computer?
 
Dico sul serio, perciò niente battutine del tipo “se rispetta il codice della strada, allora sarà di sicuro un computer, perché figurati se un essere umano sarebbe così preciso”.
 
Dico sul serio: le automobili guidate da intelligenze artificiali sono una realtà (ne ho sperimentata una, con mia grande paura, lo ammetto) e il fatto che una volta una di queste intelligenze abbia scambiato un camion per una nuvola (e abbia quindi provocato un incidente) è forse un’osservazione sufficiente a consentirti di individuarla? Per quello che ne sai – con i vetri oscurati, senza poter vedere chi è alla guida – si sarebbe potuto trattare semplicemente di un sorpasso azzardato, come ne avvengono a centinaia tra i cosiddetti “umani”.
 
La verità è che non sai dire se l’auto è guidata da un essere umano o da un computer, quindi, a tutti gli effetti, esseri umani e computer pensano allo stesso modo, relativamente alla guida di un’auto.

 
Ora sostituisci pure “guida di un’auto” con qualsiasi altra azione (ad esempio “scrivere un romanzo”) e poi chiediti se osservandone semplicemente l’esito, senza sapere chi vi sia dietro (se un uomo o un computer) sei in grado di qualificare la natura del suo autore (se uomo o computer).
 
È il cosiddetto “test di Turing” – spiegato all’ingrosso, molto alla buona –  nella versione proposta nel film Imitation game, dedicato all’uomo – Alan Turing – che diede un contributo decisivo all’esito della Seconda Guerra Mondiale, decifrando il codice “Enigma” dei tedeschi.

 

Puoi divertirti a creare le varianti che desideri.

Per dire: sei sicuro che uomini e donne abbiano pensieri diversi, al punto da ragionare in modo distinguibile, rispetto all’argomento “sesso” (o “famiglia” o “carriera”, o vedi tu che altro)?

Immagina – anche qui – di effettuare un’intervista “a vetri oscurati”, di non sapere se stai parlando con un uomo o una donna, né ti poterlo inferire da segni come il timbro di voce o la grafia. Semplicemente, tu fai delle domande, e ti vengono fornite delle risposte (ad esempio scritte al computer) da cui devi capire chi sia il tuo interlocutore, se uomo o donna appunto. Saresti in grado di farlo? E se dietro il vetro oscurato non si celasse né un uomo né una donna, ma semplicemente una macchina – un computer, un’intelligenza artificiale – sei sicuro che saresti capace di capirlo?
 
Perché – vedi – il filosofeggiare sulle specificità dell’intelligenza umana, non replicabili in una macchina, è un’attività sterile: qualunque cosa tu voglia dire, qualsiasi tesi ti piaccia sostenere, nessuna evidenza potrà darti né torto né ragione. Conta solo ciò che tu riesci a distinguere, a separare nettamente.

Quindi – arrivando finalmente alla scrittura – il punto è: sei in grado di distinguere un testo di narrativa (racconto, romanzo) scritto da un’intelligenza umana e un altro scritto da ChatGPT? Perché se non ne sei capace, allora le capacità scrittorie di ChatGPT valgono tanto quanto l’arte (presunta) del (sedicente) scrittore.

Di sicuro – al momento – un testo narrativo costruito con la scrittura dei mattoncini (da uno scrittore in carne e ossa) sarà perfettamente riconoscibile rispetto a uno sputato fuori da ChatGPT. Non perché l’artigianato dei mattoncini abbia in sé chissà quale potere magico, ma solo perché ChatGPT ancora non la conosce, e non la conosce perché – al momento – la narrativa dei mattoncini non ha ancora prodotto un numero di testi sufficienti da poter essere processati e riconosciuti da una macchina, al punto da riprodurne di simili.
 
Quindi, sì, per il momento la scrittura dei mattoncini rimane un tratto distintivo dell’intelligenza umana. Domani chissà…

 

 
Scriviamo narrativa (e saggistica) per convincere un lettore tiepido che “abbiamo ragione noi”.
 
E di nuovo, siccome convincere gli altri delle nostre idee e posizioni è un qualcosa che facciamo di continuo – fuori dal mondo della pagina – abbiamo la presunzione di supporre che saremo naturalmente capaci di farlo. Di più, presumiamo di poter ottenere nella pagina risultati migliori di quelli riscontrati nella vita reale, proprio perché del mondo che creiamo noi pensiamo automaticamente di conoscere ogni meccanismo di funzionamento.
 
Non fa una piega e non ho nulla da aggiungere.
 
Ti segnalo con piacere un testo, sulla scia dei tuoi Hume e Smith: Maria Montessori e le neuroscienze, Fogassi e Regni, 2019. Le recenti scoperte, come quella dei neuroni specchio che la Montessori aveva intuito molto tempo fa, ci stanno dando nuove consapevolezze su “come gira la vita nel mondo reale”.
 
Prosegui argomentando che senza piena consapevolezza del (meta)messaggio che vogliamo inviare con la nostra narrativa, l’effetto persuasivo sarà depotenziato, in quanto ogni lettore (tiepido) farà riferimento ai propri valori e alla propria etica per indirizzare il messaggio laddove “risuona con la sua anima”. Ho trovato, personalmente, un po’ difficile seguire questo passaggio e credo sia perché nel modulo si sfiorano, quasi si sovrappongono, i concetti di (meta)messaggio e morale.
 
Il (meta)messaggio, dunque, deve essere recepito dal lettore nel modo più vicino possibile a quello focalizzato dall’autore, e mai esplicitato: ecco perché si tratta di un meta-messaggio, ed esistendone degli altri (sì, certo, congruenti a quello principale) va distinto necessariamente.
 
Mi viene molto da pensare che questo sia un modulo veramente cruciale, senza che ciò abbia nulla (o poco) a che vedere con la distinzione tra narrativa e saggistica, che accenni superficialmente e che mi pare più un (utile) pretesto per indagare la relazione fra retorica e persuasione in letteratura. Argomentino da poco, direi 😉
 
Dunque, ho provato a settarmi su questo registro. La mia riflessione è: più un testo risponde alle regole e ai canoni della retorica (attualizzata, è evidente, e quindi ai canoni della moderna persuasione, quella dei copy, fammi banalizzare) più rapidamente il testo diventa obsoleto dal punto di vista stilistico (questo si può dedurre anche dal tuo modulo 0, e sono pienamente d’accordo).
 
Di conseguenza, più siamo attaccati alla regola, più scriviamo testi che verranno superati rapidamente. Di conseguenza, la narrativa cosiddetta commerciale, da sbranare in atto unico senza che resti null’altro se non un effimero senso di sazietà (e il portafoglio più leggero) deve necessariamente rispondere alla regola il più possibile, altrimenti non funziona.
 
Per rendersi conto di questo, basta volgere lo sguardo al lavoro dei copywriters. Una volta che hanno costruito uno spot, uno spot che funziona, hanno automaticamente raso al suolo ogni possibilità di replicarlo, l’effetto che si otterrebbe a copiare una pubblicità che funziona è quello, indirettamente, di fare un favore alla concorrenza, anche laddove non si violasse il copyright.
 
Per tornare alla narrativa, potrei sbagliarmi, ma da quanto appreso finora come lettrice ho potuto dedurre che il romanzo/racconto di genere (e particolarmente il giallo) sia l’ambito narrativo in cui più è necessario applicare le regole, pena l'afflosciarsi come un soufflé dell’intera intelaiatura narrativa senza via di scampo.
 
Cosa succede, però, se ci distanziamo dalla narrativa di genere? Cosa dovrebbe rimanere di quei romanzi/racconti che non si incasellano con precisione nel genere, tradizionalmente, commercialmente inteso?
 
Sgrassando di molto (ma davvero di molto) restano i contenuti, il (meta)messaggio univoco, i (diversi) messaggi che conferiscono profondità e spessore, la morale, ove ne esista una. E basta? Siamo  proprio sicuri?
 
In questo modulo, e per la prima volta, si parla di autore e autorialità, tratteggiando la caratteristica numero uno: avere qualcosa da comunicare oltre e attraverso la regola; avere qualcosa da comunicare anziché essere focalizzati (com’è focalizzato giustamente lo scrittore, inteso in questo senso) sull’efficacia della trasmissione.
 
Questa, a mio avviso, è la prima, capitale differenza tra uno scrittore e un autore. Proprio perché il modulo sorpassa (con un’accelerata che non immaginavo) la scrittura e si affaccia all’autorialità, mi sento di poter rimbalzare il parallelismo coi copy anche fuori dalla logica del marketing pubblicitario: ogni qual volta poniamo attenzione alla regola, alla tecnica, essa non funziona più.
 
Ti arrabbierai, ma cerca di seguirmi ugualmente.
 
Ho letto, per approfondire il tuo modulo, una lezioncina di Pontiggia (che ti è caro) nella quale ha smontato l’incipit de Il club dei Parenticidi, di Bierce. Una splendida lezione. Alla fine, quando sono tornata a rileggere l’incipit con la consapevolezza della regola, mi sono resa conto che l’effetto della regola è irreplicabile. L’effetto non c’era più. Quella sensazione, quella intuizione grezzissima e potentissima che mi era arrivata come lettore dalla parola “profondamente” contenuta nella prima frase dell’incipit e che Pontiggia (con un’esattezza cristallina) considera il pilastro di tutto l’incipit… era svanita. Le analisi di Pontiggia in nessun modo mi permetteranno di replicare da scrittore il sorgere nel mio lettore di quell’intuizione grezzissima e potentissima. Quello che invece posso (tentare) di fare, da autore, è cristallizzare l’intuizione, e cercare una nuova strada per replicarne l’effetto. 
 
Esiste, comunque, una regola che non potrà mai essere disattesa, non potrà essere flessa dall’uso e forgiata in una nuova declinazione ed è quella che ha guidato tutto il percorso della narrazione scritta della storia dell’umanità: l’immagine precede la regola che la codificherà. 
 
Prima l’occhio vede, prima la mano tocca: la frase è una declinazione. L’immagine sopravvive alla regola: a salvarsi (scusa, non potevo sgrassare così tanto, a me piace la scarpetta) saranno saranno forse alcuni contenuti (ma anche tu sei in dubbio: “potremmo pure dire che alcuni contenuti sono eterni”) ma sicuramente saranno quelle immagini poetiche che precedono la regola, se davvero immagini, se davvero poetiche.
 
Mi rendo conto che lambisco l’off-topic e forse ci sono impantanata dentro, me ne scuso, ma sono disgustata da certi finti autori (che sto imparando essere, oltretutto, anche scrittori tecnicamente mediocri) che nascondono dietro a una “licenza poetica” il loro vuoto pneumatico, perché ogni vuoto ha una sua esatta forma e misura e bla bla bla.
 

 
Di più, presumiamo di poter ottenere nella pagina risultati migliori di quelli riscontrati nella vita reale, proprio perché del mondo che creiamo noi pensiamo automaticamente di conoscere ogni meccanismo di funzionamento.
 
Ben detto: “presumiamo di”. Ed è una presunzione vera e propria, nel senso dispregiativo del termine, di chi è presuntuoso e presume (dà per acquisite) quelle cose che invece dovrebbe dimostrare.

A questo argomento, e in particolare all’equivoco che “del mondo che creiamo noi pensiamo automaticamente di conoscere ogni meccanismo di funzionamento”, sarà dedicato il modulo 6.
 
… più un testo risponde alle regole e ai canoni della retorica (attualizzata, è evidente, e quindi ai canoni della moderna persuasione, quella dei copy – fammi banalizzare); più rapidamente il testo diventa obsoleto dal punto di vista stilistico. […]. Di conseguenza, più siamo attaccati alla regola, più scriviamo testi che verranno superati rapidamente. 
 
Attenzione! Quando si scrive entrano in gioco due elementi: la tecnica e lo stile. Sono due parole dal significato apparentemente chiaro, ma quando se ne discute nel merito si arriva presto a un “muro contro muro”, alla totale incomunicabilità, perché ognuno si ritiene legittimato ad avere una sua idea di cosa siano la tecnica e lo stile.

Nel modulo 15 si farà chiarezza sul punto; la tecnica è una cassetta degli attrezzi uguale per tutti, alla quale ormai c’è ben poco (nulla?) da aggiungere (“la tecnica serve a dimenticarsi della tecnica”, diceva Pontiggia); lo stile, al contrario, è totalmente libero, in continua evoluzione, ed esprime il modo con cui ognuno di noi sceglie di “colorare” la tecnica, e ogni epoca avrà le sue colorazioni preferite.

Quindi, sì, in generale “più un testo risponde alle regole e ai canoni della retorica più rapidamente il testo diventa obsoleto dal punto di vista stilistico… più siamo attaccati alla regola, più scriviamo testi che verranno superati rapidamente”, perché ogni opera è figlia del suo tempo, e quindi passa insieme al tempo che passa.

Poi però, di quando in quando, vengono fuori opere immortali: questo avviene quando – che se ne sia stati o no consapevoli – si è costruita una bella storia con un meta-messaggio intimamente connesso agli aspetti più profondi della natura umana, e quindi, in un certo senso, invarianti nel tempo e nello spazio.

  

 
Questo è un modulo più breve, dopo un modulo lungo, e in previsione di un modulo ancor più lungo, dove si realizza un primo collegamento tra concetti (che darà in esito qualcosa di più della semplice somma delle singole componenti).
 
Riepiloghiamo.

La scrittura di narrativa ha per scopo “persuadere emozionando” (modulo 2).
 
Ma noi leggiamo narrativa per “vivere la vita di un altro” (modulo 3).

Come si raccordano i due obiettivi?

Pensaci…

  

 
Prima di scrivere qualunque cosa, chiediti sempre se ne sai almeno un po’ di più di ciò che si può vedere in film e serie tv, altrimenti astieniti signorilmente.
 
Non ho avuto modo di verificare personalmente, ma mi fido di chi me lo ha riportato e quindi lo riporto a mia volta.

La comunità BDSM reagì malamente alla pubblicazione di Cinquanta sfumature di grigio, perché le pratiche sessuali descritte nel libro – nel giudizio di chi quelle pratiche le conosceva davvero – altro non erano che la trasposizione narrativa di film soft-porn per donne.

Non c’è da meravigliarsi: il BDSM, o lo pratichi, e quindi ne hai esperienza diretta, o altrimenti non vedo come se ne possa fare conoscenza. È uno di quei casi – insomma – in cui è possibile solo l’esperienza diretta, e se l’esperienza diretta non c’è, allora si vanno a cercare informazioni laddove le reperiscono tutti: nei film e nelle serie tv (che in questo caso, poi, sono film porno, per loro natura scadenti, nel senso – già precisato – che non lasciano nulla oltre il godimento immediato).

E il giudizio tecnico non cambia per il fatto che Cinquanta sfumature sia un best-seller, perché la qualità della scrittura – tecnica e stile – si valuta su parametri indipendenti dalla risposta commerciale (che segue tutt’altro tipo di processi, come accennato nel modulo 21C).
 
 
 
L’autrice di Cinquanta Sfumature non era affatto intenzionata ad attrarre a sé un pubblico esigente come quello della comunità BDSM.

Il libro, come ogni libro commerciale, è stato “scritto” (leggasi: prodotto) con in mente un pubblico estremamente preciso, che solo incidentalmente poteva incrociare la comunità BDSM. Si tratta di una trama che ricalca sia quella classica del romance sia quella tradizionale del porno per donne.

Giusto per chiarire, comunque, non è affatto necessario che le pratiche in oggetto vengano descritte con dovizia di particolari: di nuovo, se questo fosse lo scopo, basterebbe attingere alla (buona) pornografia di genere.

Direi che il libro ha funzionato “nonostante” tale scivolone sul BDSM, perché si è trattato di un prodotto costruito ad arte, modellato su un pubblico di riferimento al quale doveva piacere, le cosiddette “casalinghe annoiate”.

Porto specularmente l’esempio di un film (tratto dal libro, di cui il regista è anche autore) che si intitola Hellraiser (1987) di Clive Barker, ascrivibile al genere horror, che pesca molto anche dal Chaos Magick. Ebbene, anche in questo film – e nel libro – le pratiche BDSM vengono accennate soltanto, sono un orpello alla narrazione, e la trama (come per Cinquanta Sfumature) segue una struttura diversa, quella horror appunto. Tuttavia, fra i tanti, anche la comunità BDSM ne ha fatto un cult. Perché?

Facile. Perché quelle pratiche, benché abbozzate, vengono incastonate in tematiche e forme estetiche mai viste nel mainstream fino a quel momento. Barker punta alla reazione sdegnata del conservatorismo sessuale di stampo borghese (che ottiene, e che appaga la comunità BDSM in via indiretta, avvicinandola a Hellraiser come Cruising incuriosì la comunità omosessuale qualche anno prima) e, sopra ogni altra cosa, Barker scrive (e sceneggia) un anti-horror dove il male e il bene non hanno caratteristiche polarizzate ma dove “il male assume il carattere di un dispositivo disciplinare”. Ed è questa, a livello metacognitivo, la chiave che ha aperto le porte percettive della comunità in oggetto perché è questa la regola aurea di ogni patto fra dominante e dominato, vale a dire la base operativa di ogni rapporto BDSM.

Quindi, per scrivere bene di qualcosa di cui non si ha esperienza diretta, oltre che doverne fare molta indirettamente, è necessario saper astrarre dalla pratica, dal fenomeno di cui si scrive gli assunti metacognitivi ritenuti importanti (ad esempio, per Barker, i cenobiti non erano “cattivi”, svolgevano esclusivamente un “servizio”) e riproporli nel testo a livello più ampio, infondendoli e giustificandoli con chiarezza nella struttura del libro.
 


 
Ogni opera la si può pensare come un sasso: cade in un punto del lago, magari proprio dove si voleva che cadesse, e lì produce l’impatto maggiore (a esempio sulle “casalinghe annoiate”); poi però le onde si propagano, e lambiscono anche ambienti a cui magari non si era pensato (la comunità BDSM, per quanto prevedibile potesse essere la loro reazione).

Ora, uno può dire: “alle casalinghe annoiate è piaciuto, era stato pensato per loro e ha funzionato alla grande, è stato un best-seller ed è diventato un ‘cult’, c’hanno fatto pure un film, tutti hanno incassato un pozzo di denaro, e vissero per sempre felici e contenti”. Ottimo. Perché alla fine, sì, ha ragione chi fa goal.

Ma il test di qualità dell’opera poteva aversi solo col vaglio della comunità BDSM, perché se la merda si vende a € 17,50 a mattoncino, gli editori stamperanno merda a € 17,50 euro a copia. Semplice, no?

E qui veniamo proprio al tema del post. Voglio scrivere una storia dove sono presenti pratiche BDSM. Bene. Tutto dipende fin dove decido di spingermi, o meglio, fin dove posso spingermi prima che la mia ignoranza in materia diventi manifesta.

Non conoscevo il libro-film Hellraise, ma – se ben intendo – si è avuta l’intelligenza, uno, di fermarsi in tempo, e due, di creare una “combo” con “forme estetiche mai viste nel mainstream”; e qui torna il tema fondamentale dell’originalità come riconfigurazione non ancora nota di singoli elementi di per sé noti, da cui deriva la qualità della creazione artistica.

C’è anche un altro punto su cui mi sento di sbilanciarmi, pur non conoscendo l’opera.
 
Barker scrive (e sceneggia) un anti-horror dove il male e il bene non hanno caratteristiche polarizzate.

Questo è fondamentale, quando si ha a che fare con un pubblico adulto, evoluto, culturalmente maturo. Alle persone (adulte, in senso ampio) non piacciano le situazioni nette, perché  si presume che abbiamo sviluppato un minimo di sensibilità sulla complessità della vita.

Il bene e il male, il bianco e il nero, esistono solo nelle favole per bambini, perché sono i bambini ad aver bisogno di classificare ogni cosa in poche categorie distinte e speculari – bene-male, giusto-sbagliato, buono-cattivo – con l’aspettativa di veder prevalere sempre la categoria positiva.
 
Io credo che tutte le forze dell’ordine – polizia, carabinieri, reparti speciali, e mettiamoci dentro anche la Guardia di Finanza – si fanno le più grandi risate ogni volta che leggono un giallo o un poliziesco, o anche un thriller dove siano coinvolti degli investigatori. O più probabilmente non li leggono proprio, ormai stufi di vedere violentata così manifestamente la loro professione.

Giusto per dirne una: poniamo che il vostro personaggio non dia più segni di sé da giorni; telefono spento, non risponde alla mail, non si presenta al lavoro, e neppure i familiari più stretti ne hanno notizie.

Dopo quanto tempo si può decidere di sfondare la porta di casa sua?

E chi lo decide?

C’è bisogno dell’autorizzazione di un magistrato o la polizia può procedere in autonomia?

E operativamente come funziona? Servono i pompieri?

Ma se uno non sa nemmeno queste cose basilari – o, il che è lo stesso, se si illude di smarcarle vedendo cosa accade nei film – come gli viene in testa di scrivere una storia in cui il personaggio non si fa vivo da giorni e bisogna sfondare la porta di casa sua?

Vorrei però che fosse chiaro un punto: non è che se uno non ha un pozzo di conoscenze su un argomento, allora è inibito a scriverne; uno può scrivere sicuramente di ciò che vuole, ma sempre in proporzione a quanto ne conosce, vale a dire sino al punto in cui il lettore può ancora credere che l’autore ne sappia abbastanza per poterne scrivere.

L'unico modo per non far conoscere agli altri i propri limiti, è di non oltrepassarli mai”. L’ammonimento di Leopardi va sempre tenuto presente.
 
Fornisco ancora una precisazione, per aiutarti a regolare il difficile rapporto tra “ciò che si conosce” e “ciò di cui si può scrivere”: tieni sempre conto del target di lettori (senza dimenticare che sotto un lettore tiepido non si può scendere).
 
Ti porto un esempio, per far capire subito cosa intendo.

Mi sono divertito a scrivere una scena di stampo storico: il viaggio di Re Francesco II in nave, verso Gaeta, in vista dello scontro con l’esercito garibaldino. Ovviamente, essendo un racconto storico, nessuna conoscenza diretta e indiretta sarà mai possibile (banalmente: io non c’ero su quella nave né avro mai modo di parlare direttamente con chi c’era). Restava solo la conoscenza teorica, desumibile dalle “fonti” (intese in senso ampio). Ho così mescolato un po’ di cose, ma il principale riferimento è stato il volume II dell’opera La fine di un Regno, di Raffaele de Cesare. La scena ha riscosso un discreto successo in tutti coloro che l’hanno letta, fin quando non è arrivata una lettrice particolarmente esigente che mi ha fatto notare un bel po’ di sbavature:
  • Raffaele de Cesare non era uno storico, ma semplicemente un “appassionato di storia”, perciò la mia fonte, se non proprio debole, era comunque meno solida di quanto pensassi;
  • ho messo in bocca a Re Francesco delle frasi che non sono state pronunciate sulla nave, in viaggio verso Gaeta, ma in un Consiglio di Stato, quando era ancora a Napoli;
  • ho messo in bocca a Re Francesco un’espressione (“Potenze occidentali”) che in realtà è stata tirata fuori da Re Vittorio Emanuele molti anni più tardi, e ovviamente in tutt’altro contesto (questa espressione – “Potenze occidentali” – l’avevo peraltro ripresa dal volume di de Cesare, dove viene virgolettata e attribuita a Re Francesco, questo a conferma – se si vuole – della debolezza della fonte).
Come la mettiamo?

La mettiamo che bisogna avere un’idea anche solo sommaria del lettore di riferimento.
 
Se scrivo per semplici “appassionati del romanzo storico”, certe approssimazioni possono pure andar bene, perché tanto non saranno notate (poi però bisogna starci, e abbozzare, quando arriva chi le nota e te le addebita).
 
Se scrivo per un pubblico di “storici di professione” (o giù di lì) le cose cambiano radicalmente, e la massima precisione diventa un requisito minimo (Alessandro Barbero, per dire, racconta di faticare parecchio a leggere romanzi storici, perché si ferma di continuo a rilevarne tutte le inesattezze).

Il mio suggerimento – se volete fare della scrittura un’attività gratificante – è di tenere alto lo standard dei lettori di riferimento, e di resistere alle lusinghe di quei lettori in stile “oh mio dio che bello, c’è gente che fa sesso prendendosi a frustate!”.

 

Sei incontri un Budda sul tuo cammino, uccidilo” è il paradossale e provocatorio suggerimento delle filosofie orientali, di cui va colto il senso generale, di là della provocazione e del paradosso.

Nulla deve ostacolarti lungo la via dell’illuminazione, nemmeno un Budda, che in teoria dovrebbe essere d’aiuto, ma che se invece si rivela d’ostacolo, va soppresso senza esitazioni.

Allo stesso modo, per essere “come Dio nella creazione”, non devi essere fan(atico) di nessuno.

Devi avere il massimo rispetto verso chi ne sa più di te – per chi ha studiato di più, per chi ragiona su certe cose da più tempo, per chi ha la possibilità di confrontarsi con altri a un livello superiore – ed evitare sicuramente l’atteggiamento da bimbominkia, già stigmatizzato nel modulo 0, che porta a credere di poter realizzare un personalissimo 14 luglio 1789 a colpi di ricerche estemporanee su internet o assecondando intuizioni ingenue, se non proprio veri e propri bias cognitivi.

Ma non devi neppure cadere nella venerazione di nessuno. Ogni cosa devi crederla vera perché la senti vera, perché l’hai davvero capita, perché saresti in grado di ripeterla perfettamente anche da ubriaco o se svegliato nel cuore della notte.

Se una cosa non la capisci, chiedi e ragiona sulla risposta che ti viene data; di regola, dubita della tua comprensione o delle capacità didattiche dell’insegnante, ma non della cosa in sé. Poi, però, dopo aver acquisito tutte le informazioni, e ragionato a modo, se qualcuno insiste a dire che “calda estate” è meglio di “estate calda”, e a te la cosa proprio non torna, perché inconciliabile con tutte le altre tue conoscenze, allora non avere timore a dire che questa idea della “calda estate” stilisticamente superiore a “estate calda” è una stronzata, anche se ad affermarla è Giuseppe Pontiggia.

Non avere timore a essere netto nelle tue espressioni, quando sono la manifestazione di convinzioni ben maturate. “Quando io vedo una vanga, la chiamo vanga”, fa dire Oscar Wilde a Cecilia, in The Importance To Being Earnest. Quando sentite stronzate, chiamatele con il loro nome, stronzate, chiunque sia a dirle.

L’unico problema, non da poco, è che nessuno può marcare dall’esterno gli esatti confini entro cui dovete muovervi. Nessuno può tracciare per voi una linea di separazione tra il sano scetticismo e stupidaggine del bimbominkia, tra la necessaria fiducia in un formatore e la sua venerazione. Questo potete farlo solo voi, e dipende in definitiva dalla vostra cultura.
 
La mia idea di “cultura” l’ho esposta nella recensione al libro Saper leggere di Prezzolini, e ne stralcio un passo particolarmente significativo ai fini del messaggio che vorrei far passare.

«Tutto è buono, tutto è valido, per farsi una cultura e mantenerla viva, per non trasformarla in un feticcio mummificato. Tutto vale, anche gli strumenti giudicati “deboli” da professionisti e specialisti: antologie e giornali, riviste e cinema, radio e TV – a cui possiamo oggi aggiungere internet, con i suoi giacimenti di informazioni – sono tutti ausili validi, potenzialmente utili, purché se ne comprendano significati, portata e limiti. Vagliare, criticare e filtrare sono gli atteggiamenti propri della persona di cultura. A ogni sorgente di conoscenza ci si rapporta “con una mente disposta a controllare e a contraddire”, il suo impiego è un’operazione “piena di riflessi, di giudizi, di paragoni, di interrogazioni”, simile a un processo istruttorio in cui il giudice deve “raccogliere le testimonianze, vagliarne il valore, metterle in paragone, esaminarle in relazione al tempo ed al luogo ed all’occasione all'interesse, studiare la persona del testimonio, ossia la sua storia”, per sentenziare infine “con la sua testa perché non c’è altro modo”»
 
Ti suggerisco di approcciare così ad ogni argomento, e non solo alla scrittura, e in primis – si intende – a ciò che leggete nel mio blog.
 
 
 
Che l’Universo abbia avuto un inizio – ormai – non è più argomento aperto alla discussione dagli esperimenti sui satelliti COBE del ’92.
 
Ciò che è aperto alla discussione (oserei dire la discussione per antonomasia che tutti ci intrattiene da duecentomila anni) è ove sia riscontrabile la volontà creativa.
 
Alcuni scienziati che propendono per l’esistenza di tale volontà portano solitamente a prova un fattore probabilistico, statistico. Porto una delle argomentazioni, per esemplificare il senso di tutte: il tasso di espansione. Se subito dopo il big-bang il tasso di espansione dell’Universo “fosse stato inferiore anche di una parte su centomila milioni di milioni, l'universo sarebbe ricaduto su se stesso”; sto citando Hawking. Lo stesso discorso viene portato ai livelli meso: la nostra galassia, il sistema planetario che orbita attorno al Sole, fino ad arrivare sempre più al “micro”, come l’atmosfera terrestre, l’equilibrio chimico degli elementi e via andando.

Il fatto è però, che la stessa statistica e teoria delle probabilità possono essere impiegate per sostenere la tesi opposta: qualsiasi lancio, se effettuato un numero congruo di volte, centra il bersaglio.

Nato per volontà o come risultato di una casistica fortunata, esiste ora un mondo, ove noi personaggi ci muoviamo, e dai soliti duecentomila anni è esattamente per interfacciarsi con quel Dio (per assimilazione o negazione, giusto) che abbiamo lungamente parlato, e poi ci siamo evoluti ed abbiamo iniziato a studiare il vocabolario con cui questo essere sembra volersi rivelare a noi (la matematica) e siamo riusciti ad arrivare dove siamo, cioè molto lontano dal capirci qualcosa. Guarda come ci siamo arenati con la teoria del tutto, guarda come ci tocca rimettere la coda fra le gambe e riavvolgere il nastro e ricominciare, ad ogni tre per due. 

Questo Dio, dici, è manifesto nel funzionamento stesso delle leggi fisiche, parli di albe e tramonti e mi torna in mente (grazie!) l’esclamazione di Evey in V for Vendetta, quando sbuca sul tetto del rifugio di V dopo l’esperienza atroce di una prigionia disciplinare: “Dio è nella pioggia”.
 
Sì, la bellezza di Dio è senz’altro evidente nella bellezza del creato, che è la risultante poetica della perfezione tecnica incarnata dal funzionamento delle leggi fisiche.
 
Eppure, siamo sicuri che Dio non ci “narra” il suo mondo?
 
Che cos’è la sezione aurea, se non una narrazione della visione di Dio?

Che cos’è la sequenza di Fibonacci?
 
E i frattali, che cosa sono, se non “strutture che si ripetono di continuo” e che qualcuno qui mi anticipa vadano impiegate random, per nasconderle?
 
Ma si nasconde, forse, Dio? S’è nascosto a Hawking, a Galileo, a Kip Thorne?
 
No, non credo.
 
Dio è metodo, schema, ripetizione ossessiva, declinazioni continue della medesima ossessione.

Questo modulo dice tutto, senza spiegare nulla. Arriva a essere pratico, perché è esclusivamente concettuale. Diverrà pratico. È lo stesso meccanismo di Aristotele quando distingue filosofia pratica e filosofia teoretica: medesimo tipo di legame concettuale.
 
Ho lasciato alcune suggestioni per la me stessa che tornerà a leggerlo più avanti.
 
  
 
Per imparare a fare una cosa servono esempi in entrambe le direzioni: non basta sapere “cosa fare”, bisogna aver chiaro anche “cosa non fare”; e disgraziatamente – e il modulo lo dimostra – ai più manca proprio questa distinzione.

E – bada bene – ho preso testi amatoriali solo perché mi veniva più comodo; gli stessi identici errori li avrei potuti esibire avendo a riferimento testi di autori noti (e magari anche di successo); quando si parla di errori di scrittura, di mera scrittura, sbagliano tanto i dilettanti quanto i professionisti (lo vedremo nel modulo finale sui line editing).

Mettiamola così, che forse si capisce meglio.

La composizione di questo libro è stata per l’autore una lunga lotta d’evasione […] da modi abituali di pensiero e di espressione. Le idee che qui sono espresse tanto laboriosamente sono estremamente semplici e dovrebbero essere ovvie. La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”.

È uno dei passaggi più celebri e citati della Prefazione alla Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di John Maynard Keynes, ma potrebbe essere anche la dichiarazione di apertura di questo blog.

Dobbiamo prima bonificare i cervelli dalle “idee vecchie” ramificate “in tutti gli angoli”, perché solo così potremo avere l’ambiente migliore per recepire e sviluppare le “idee nuove”.

   

 
In questo modulo, non si parla di calciatori di serie A, B o C; e non si parla neppure di dilettanti né di amatoriali che giocano il giovedì sera nel campetto di quartiere.

Qui si parla di sapersi allacciare gli scarpini, per evitare di inciampare nelle proprie stringe lungo il tragitto che va dagli spogliatoi al campo, cadere a faccia in giù, frantumarsi tibia e perone, e mettere fine da soli alla propria carriera, ancor prima di iniziarla, qualunque poteva essere (fosse anche la semplice partitella con gli amici).

Tra le mie numerose convivenze, ai tempi dell’università fuori sede, vi fu pure un ragazzo che studiava teatro. Ricordo le sue perplessità nel mettere in scena, sul palco, situazioni in cui gli attori stavano mangiando. Perché – diceva – “ho sempre il timore che il pubblico possa smettere di seguire, per chiedersi se stiamo mangiando davvero o solo fingendo”.

È così che ci si rapporta all’arte, con questa consapevolezza e sensibilità, sapendo che può bastare poco, e sicuramente meno di quanto si crede, a distruggere tutto.

Pensate – per esibire il caso più pacchiano – a un film in cui un centurione romano sfila la spada dal fodero, la brandisce per aria e noi vediamo un orologio al suo polso. È finito tutto: l’illusione di trovarsi nell’antica Roma – semmai si era riuscita a crearla – ora è irrimediabilmente distrutta.
 
Al cinema o al teatro – in generale – non si danno poi così tante occasioni di “distrazione”, ma in scrittura le cose stanno diversamente, e l’equivalente di un centurione con un orologio da polso può sbucare fuori in qualunque punto della pagina, in qualunque momento, se non rimani vigile, se non sorvegli ogni tuo passo con la massima attenzione.

Chi sottovaluta l’importanza di questo modulo, chi lo considera la ramanzina del grillo parlante, non potrà mai produrre nulla di valido, perché col suo atteggiamento snobistico mostra perfettamente tutta la sua inconsapevolezza sull’entità della sfida che fronteggia: creare un mondo reale nella testa del lettore attraverso meri segni grafici sulla pagina.
 
   
 
Bene Dottoressa, adesso bisogna che rendiamo questo capitolo leggibile”.
 
Queste sono state le parole dell’assistente di cattedra che ha curato la stesura della mia tesi magistrale dopo sei mesi di ricerca per la stesura del capitolo introduttivo che settava i ToR della tesi.
 
Anche solo per sottoporla in prima visione al relatore, era necessario formalizzare i contenuti seguendo istruzioni precise e coerenti, alle quali il relatore (la disciplina, la commissione d’esame, la facoltà, l’Università degli Studi) era abituato.
 
L’assistente di cattedra mi inviò un documento di una pagina e mezza con le norme redazionali e bibliografiche che facevano parzialmente al caso mio, alle quali comunque dovevo aderire; ci accorgemmo presto che non erano sufficienti al nostro scopo, per via della natura sperimentale e interdisciplinare del mio lavoro.
 
Così, mischiai un protocollo “ortodosso” in uso al Dipartimento cui afferiva il relatore, e in generale al tipo di pubblicazioni relative alla mia materia di laurea, con un protocollo “eterodosso” che pescava dall’informatica e dal linguaggio della programmazione.
 
Mi sono riportata a casa l’intuizione grezza che aderire alle convenzioni è un segno di rispetto per chi ci legge e che da queste si può (si deve) deviare solo in caso di manifesta necessità, assicurando (questa la chiave) coerenza esplicita nei protocolli e negli standard impiegati.
 
Quel che accadde fu che il capitolo introduttivo dovette essere rivisto sulla base della convenzione mista applicata, mentre la scrittura degli altri capitolo la organizzai già in prima stesura applicando la convenzione creata.
 
Questo scrivere con in testa un protocollo preciso aiutò molto, moltissimo, a fare chiarezza in me – scrittore – sui contenuti, portandomi ad apprendere la lezione oltre l’intuizione grezza è che avere ben chiare le formalità aiuta a chiarirsi interiormente in fase di scrittura.
 
Ciò detto, due parole sugli elementi “distrattivi” che hai “collezionato” e che sono stati qualificati con una “pavida” (benché obbligata, ma senz’altro odiata da tutti gli studenti seri di tutti i tempi) lista non esaustiva, al fine di “palesare la remota distanza dei più dal mondo della pagina”.
 
Il che, direi, è ampiamente condivisibile in termini generali ma è un’esternazione nulla dal punto di vista dell’apprendimento, se coniugato appunto alla stesura di una lista non esaustiva.
 
Letto per apprendere, questo tuo statement diventa: se fai errori distrattivi diviene palese, smascherato e stigmatizzabile il tuo non conoscere le tecniche di scrittura.
 
Poiché la lista è non esaustiva, io ho provato io a categorizzarli come segue:
  • assenza di/confusione nel protocollo di notazione e/o applicazione di protocolli e standard misti, incoerenti, gratuiti;
  • battute di dialogo senza andare a capo, e in generale wall of words;
  • uso incoerente di corsivo e maiuscolo;
  • utilizzo di assonanze, allitterazioni;
  • utilizzo errato delle figure retoriche;
  • abbreviazioni arbitrarie.
Derivandone due categorie generali:

        1.    protocolli di notazione e standard convenzionali;

        2.    utilizzo improprio delle figure retoriche.

Dunque sono questi – e solo questi – gli errori “distrattivi”? Perché esulando dai contenuti specifici del modulo e rileggendo tutto ciò che lo ha preceduto, a me pare che per il tuo metodo ogni errore si configuri come distrattivo, perché ogni errore fatalmente impatta sulla immedesimazione del lettore.

Se l’argomento del modulo erano i protocolli di notazione e relativi standard (argomento utilissimo), siamo andati credo troppo oltre e soprattutto io non ritrovo aderenza fra le critiche mosse agli errori segnalati e l’effetto sul lettore.
 
Una volta chiariti i termini del patto sulla notazione con il lettore (e cioè la prima volta che scegliamo di usare le caporali invece che le alte per i dialoghi, ad esempio, e le tutte “le prime volte” in questi termini) la cosa importante è che tale utilizzo resti coerente durante tutto il testo.
 
E questo è quanto, per quel che concerne il lettore tiepido che ci hai tratteggiato.
 
Questo è l’unico senso in cui, per me, può reggere il “distrattivo” (“potenziale”: per fortuna che l’hai scritto) come attributo del “corsivo” per il lettore tiepido, estendo l’osservazione all’intero discorso sugli standard di notazione. Il protocollo, una volta esplicitato, non va tradito. 
 
Due parole, poi, sul lettore tiepido.
 
Possiamo ragionevolmente sostenere che ogni nostro errore in scrittura si riverbera sul lettore tiepido anche fosse solo a livello inconscio?
 
Perdonami: cosa ne sa il lettore tiepido delle conoscenze dell’autore in termini di tecnica di scrittura? Perché se imputiamo al lettore tiepido questo tipo di conoscenza, allora dobbiamo imputargli anche la conoscenza del processo di scrittura, editing, publishing, distribution, marketing e quant’altro. Per come abbiamo definito il lettore tiepido, questa imputazione è come minimo da giustificare. Che cos’è, il lettore tiepido forse frequenta corsi di scrittura creativa per scovare nei libri che legge gli errori di tecnica? Mi sembra un attributo improprio per il lettore tiepido. Magari il lettore tiepido si è formato delle abitudini, delle preferenze sull'uso delle virgolette? Non mi suona credibile, in verità.
 
Andiamo avanti.
 
Al lettore tiepido interessa l’argomento magari, e allora sì, ci può muovere critiche simili a quelle della comunità LGBT al Cinquanta sfumature di grigio. Oppure al lettore interessi tu, autore, in parte forse anche per l’argomento, in parte la linea del tuo editore, ma molto più probabilmente no, nessuna delle due cose. Verosimilmente, il lettore ti considera degno, in anticipo, dei suoi soldi prima ancora che del suo tempo. Ti legge dopo aver pagato, sperando quindi di poter confermare il suo (pre)giudizio su di te, che magari si è formato con una, due, tre esperienze di lettura dei tuoi libri. O se l’è formato sulla base di chiacchiere avute con altri lettori o chissà che altro. Ad ogni modo, come ho sentito giustamente sottolineare, a nessun cervello piace riconfigurare, perché la prima cosa che deve fare per modificare il suo settaggio è accettare di avere sbagliato.
 
Proseguiamo.
 
Primo esempio, primo stralcio, prima didascalia: “gli editori (non a pagamento) cestinano all’istante…”.
 
Ma cosa c’entrano adesso gli editori? Che ci fanno nel modulo sulla fragilità intrinseca del testo di narrativa – ammesso pure che sia condivisibile inquadrare tutta la faccenda in questo modo – le reazioni degli editori? E vabbè, mi sono detta, non fare “l’irriducibile rompicoglioni” (cit.).
 
Poi però, eccoti di nuovo “Dietro a una forma così sciatta, quale sostanza potrà mai esserci?” e di nuovo non mi torna il discorso. Come, questa sarebbe una delle 1001 ragioni per cui l’esigente e impaziente lettore tiepido ti abbandona alla prima pagina? La sciatteria nella notazione? Non mi convince. Già ricondurre la confusione nella notazione all’essere in qualche modo “sciatti” è un ragionamento molto elaborato e raffinato che proprio non torna con quel lettore tiepido che ci hai declinato. No, no. A me viene in mente un altro tipo di lettore.
 
C’è sicuramente, infatti, un lettore che è pesantemente infastidito dagli errori di notazione, dalla “sciatteria”, da uno scrittore che invia testi da leggere senza neanche preoccuparsi di aderire a convenzioni “semplici”, uno scrittore che non vuole dedicarsi nemmeno a un po’ di “pulizia grafica a costo zero”, uno scrittore che accolla a me che lo leggo “la fatica” (prova a sostituire questa parola con “il piacere”) di barcamenarmi nella sua confusione.
 
Indovina un po’ chi è questo tipo di lettore. 
 
Non ho letto Cinquanta sfumature di grigio, quindi ti chiedo (se tu lo hai fatto): accade sovente nel testo che i pensieri siano in virgolette alte? Accade per tutti i personaggi? Accade in contesti particolari? O accade ad cazzum? E ti chiedo, di conseguenza: se sono virgolettati così tutti i pensieri di tutti i personaggi, davvero pensi che l’eccesso di notazione abbia qualche tipo di effetto sul lettore tiepido? Quel caso dimostra che non ne ha avuta. Eppure, riesco a immaginare un lettore a cui può invece aver dato estremo fastidio trovare quelle virgolette alte a notare i pensieri.

“Tu non vuoi che il lettore pensi: quant’è bravo lo scrittore a usare le figure retoriche”. Certamente. Ma il lettore tiepido, quanto ne sa di figure retoriche? Più o meno di quanto ne sa mediamente la gente in Italia, oggi, 13 marzo 2023?
 
Tu dici che il lettore tiepido “non si impressiona” con le figure retoriche, ma qui non sono d’accordo per niente.
 
Le figure retoriche sono la base della comunicazione efficace perché persuasiva. Velocizzano l'emozione, sono nate per questo. Tu puoi ragionevolmente sostenere che se io bombardo di metafore mando il lettore in overload "emotivo" e azzero l'effetto: giusto. Tu puoi dire di dosare bene: giusto. Potrai darmi suggerimenti pratici su quali figure, dove, come, perché: eccellente. Ma non puoi sostenere che il lettore tiepido "non si impressiona con le figure retoriche". È proprio perché si impressiona, e molto, che sarà opportuno conoscere intanto l'effetto (sempre neurofisiologico eh, questo ormai è scontato) che producono - attesa, climax, focalizzazione, etc. - e usarle in senso per così dire strutturale. In fondo un romanzo è una metafora, no? Tutto il modulo sulla persuasione declina questo concetto, in diverse forme. Eppure…di nuovo ti seguo e penso a un tipo di lettore che le nota, le conosce e le riconosce, probabilmente le aborrisce per precise ragioni e sa dire l'uso e l'abuso che se ne è fatto nel testo. 
 
Poi sono arrivata qui: “Questi errori “di forma” sono un campanello d’allarme, per chi vi sta intorno: nessuno vorrà mai lavorare con voi – a nessun livello: né da editor né da insegnante – perché vi scorgerà l’arrivo di una valanga di errori “di sostanza”, impossibili da correggere; e pure i lettori tiepidi non ne vorranno sapere più nulla di ciò che scrivete, se tutto quel che siete capaci di offrire è un testo che si fa notare per le sue stranezze anziché per i contenuti”. Ed ecco che ho tirato un sospiro di sollievo: stavolta, stai scrivendo da editor, e il lettore qui non c’entra nulla: al lettore il testo arriverà dopo (diamo per scontato un testo pubblicato non in self da una casa editrice, anche piccola) e sarà per forza di cose coerente con i protocolli di notazione, editoriali (quindi anche grafici, possiamo spingerci più avanti: tipografici, relativi al font, ai margini di pagina, hai voglia quanto in dettaglio si può andare…). Qui la tua discussione è squisitamente sul livello precedente, sono considerazioni da editor queste.

A me sembra sempre più evidente, andando avanti nella lettura della versione formalizzata di questi tuoi moduli, che il lettore tiepido (anello debole già segnalato in fase di tassonomia) sia un espediente per celare un diverso tipo di lettore, un editor. In questo modulo è evidentissimo: queste sono le (giuste) osservazioni che potrebbe fare uno che per mestiere ha da leggere, e prima ancora che deve progettarsi un sistema per scegliere rapidamente cosa vale la pena leggere e cosa no, per trovare un testo che sia perlomeno correggibile e mediamente in linea con le esigenze di una committenza (reale o potenziale).

PS: usare il CAPS nello scritto è indice di maleducazione e strafottenza. Concordo 😊
 
 
    
 
Vediamo di fare un discorso il più possibile unificante su lettori tiepidi, editor ed editori (non a pagamento).
 
Quel che ho voluto dire è semplicemente questo: ricordati che ciò che scrivi passerà al vaglio di un giudizio severo; potrà essere, di volta in volta, a seconda dei casi, quello di un lettore tiepido (che legge per suo piacere), di un editor (che legge con piglio tecnico), o di un editore (che legge per capire cosa pubblicare); ma in fondo parliamo di tre sfaccettature di un unico personaggio, di chi legge con la libertà di poter interrompere la lettura in qualunque momento, ognuno per ragioni sue proprie, ma tutte accomunate da uno stesso movente di fondo (l’incapacità dell’autore di creare un mondo della pagina a regola d’arte).
 
Al lettore tiepido interessa l’argomento magari.

No. Al lettore tiepido – per definizione – l’argomento non interessa; non ha una preclusione specifica, ma nemmeno una particolare propensione alla lettura di quell’argomento; è ciò che nel modulo dedicato (il numero 1) abbiamo definito “lettore 50 e 50”: con un 50% di probabilità potrà interessarsi alla storia, con l’altro 50% abbandonarla.

Il blog è pensato per coloro che si rivolgono a lettori tiepidi, e realizzato con l’idea di alzare il 50% delle chance di lettura grazie alla tecnica e allo stile di scrittura.
 
Cosa ne sa il lettore tiepido delle conoscenze dell’autore in termini di tecnica di scrittura?

A questa domanda viene data risposta nel modulo 15 (e precisamente nel racconto Vita da editor).
 
Se l’argomento del modulo erano i protocolli di notazione e relativi standard, siamo andati credo troppo oltre.

L’argomento del modulo era la presa di consapevolezza della fragilità del mondo della pagina, di quanto poco possa bastare a distrarre il lettore, a distruggere l’illusione narrativa.

Dopodiché, è vero, magari il lettore non dirà “ehi, quante virgolette alte ci sono in questo testo” e neppure si lamenterà dei doppi minore e maggiore in luogo delle virgolette caporali, e più in generale non paleserà mai il suo fastidio nei termini espliciti in cui io l’ho rappresentato in questo post.

Ma il fastidio – ti assicuro – c’è, viene avvertito, anche solo a livello inconscio. E non si legge narrativa per provare fastidio, giusto?

Quindi, no, l’argomento del modulo non erano gli standard di scrittura, a cui peraltro daremo un inquadramento generale nei moduli successivi, ogni volta che se ne presenterà l’occasione, ma senza avere un modulo interamente dedicato (che sarebbe fatalmente di una noia insopportabile).

L’obiettivo del modulo era suscitare la necessaria sensibilità verso la pagina, invogliare a una notazione sobria, essenziale, perché la scrittura cosiddette “trasparente” richiede una notazione essa stessa il più possibile “trasparente”, che sia percepita come “naturale” in fase di lettura.
 
Le figure retoriche sono la base della comunicazione efficace perché persuasiva
 
Il ruolo delle figure retoriche in narrativa sarà discusso nel modulo 15E; sarà chiarito il loro tecnicismo di impiego, e – sì, ho questa presunzione – il tecnicismo sconvolgerà il vostro modo di interpretarle, ogni volta che le incontrerete (in narrativa).

Sì, è vero, la figura retorica ha un ruolo centrale nel processo di conoscenza (una rapida ricerca in internet vi mostrerà quanta importanza Umberto Eco attribuisse alle metafore; e il filosofo Veighner fondò tutta una filosofia sul als ob, sul as if, sul è come se).
 
Sì, è vero, il cervello va in brodo di giuggiole quando legge una bella metafora (mi sembra – vado a memoria – che lo dicesse pure Will Storr in La scienza dello storytelling).
 
Sì, è vero, quando ho letto che “le bugie sono i guanti di gomma che consentono di maneggiare i fili ad alta tensione della verità”, sono stato tutto contento.

È tutto vero, nessuno lo mette in dubbio. Ma il punto è un altro. E – precisamente – che noi qui stiamo facendo narrativa scritta, vogliamo cioè capire come si fa a persuadere un lettore di una tesi – attraverso le emozioni – facendogli vivere la vita di un’altra persona, all’interno del mondo della pagina. Tutte le verità sulle figure retoriche vanno per così dire “mediate” per tener conto di questo obiettivo.

   

 
Il problema del dilettante è che all’infuori dello “sbaraglio”, egli dice di cercare e apprezzare critiche costruttive ma di per sé non ha idea di come siano fatte tali critiche – perché è appunto un dilettante – ed è altamente probabile che si aspetti considerazioni “non tecniche”, ma generaliste, sulla scorta di quelle ricevute dalla disgraziata famiglia, che saranno state sul genere incentivante “tanto per” (affetto; o per levarselo di torno il più presto possibile).

Per rimanere nel campo che hai tratteggiato, entrano in gioco due livelli:
  • cosa intendiamo, e accettiamo, per “studio” individuale;
  • che valore diamo ai cosiddetti “titoli”.
E poiché nel tuo lungo esempio qualifichi uno di questi titoli (la laurea in Lettere) bisognerà pure giustificare in che senso siano invalidi tout court nella situazione in oggetto oppure, per essere il più possibile utili alla “causa”, bisognerà focalizzare la relazione effettiva tra il “possedere dei titoli” e il (pre)giudizio di competenza tecnica in scrittura.
 
Siccome queste sono solo le premesse del modulo, non la tiro per le lunghe: nel mondo moderno, con tutte le possibilità formative e informative che offre a “costo (percepito) zero”, è contro natura pensare di parametrare la pregnanza delle affermazioni di qualcuno sul possesso di titoli, qualsiasi titolo.
 
A mio modo di vedere, se una laurea in Lettere (che io non posseggo) senz’altro facilita la comprensione di alcuni tecnicismi e dell’evoluzione generale della materia – non è un caso che il Borbone e il Liguori si siano attaccati sulla figura del narratore – essa non dice nulla, di per sé, rispetto alla questione specifica.
 
Possedere una cultura, invece, con la consapevolezza che la cultura è animale vivo, che può morire o evolversi in funzione del nostro rapporto con esso, è tutto quello che serve.
 
L’umiltà di riconoscere che non sappiamo di cosa l’altro ci stia parlando, che non siamo capaci di seguire i suoi ragionamenti nel dettaglio; la capacità di fare un passo indietro e dichiararsi incompetenti è una regola aurea di vita e di studio. Fra l’altro, si può apprendere il doppio, il triplo, forse in maniera esponenziale tanto più si è onesti ad accettare che non si è sul pezzo nell’argomento specifico, predisponendo l’interlocutore a dare il meglio di sé per “recuperarmi”. 
 
Beninteso: non c’è nulla di “prono” in questa postura. Non si tratta di fare i finti umili, o di fare strategia, si tratta di mettere sé stessi nella migliore posizione possibile per apprendere e contestualmente mettere l’interlocutore nella migliore posizione possibile per esprimere quello che sa (o crede di sapere) ed avere tutti gli elementi per poter fare la tara, eventualmente, o dissentire, eventualmente, sempre dopo un bel bagno di umiltà e tanto studio, con dati alla mano e una tesi da dimostrare.

Quanto invece al cuore del modulo, la difesa dei propri pregiudizi e dei propri errori, non trovo nulla da aggiungere, al netto della considerazione per cui non sono i dilettanti come categoria a difendere i propri errori, perché si può essere dilettanti con intelligenza, bensì coloro che si sentono attaccati invece che compresi. Posso confermare personalmente: anche la migliore delle critiche, quella più utile, rischia di perdere tutto il suo potenziale se viene percepita come un’aggressione. Possiamo farci poco sulle percezioni di chi ci legge… oppure no? 😊
 
Una battuta conclusiva sul “dilettante convinto di avere talento”.
 
Se io fossi un maestro, certamente qualificherei tale “dilettante” nella mia mente come un potenziale professionista che deve combattere per prima cosa una battaglia personale, contro i suoi pregiudizi e le storture dei suoi apprendimenti precedenti; battaglia con la quale io maestro c’entro relativamente. Solo dopo, se ancora il dilettante si ritiene consacrato alle intenzioni che lo muovevano – cioè imparare a scrivere in un modo completamente diverso – io da maestro lo considererei come uno studente che ha bisogno di essere motivato e formato, non sarcasticamente indirizzato a cambiare aria (datti ai numeri) perché alla fine la tesi che si vuol perorare è che scriveva da dilettante quando era un dilettante. Quale soddisfazione può ricavare un maestro dal dimostrare tale tautologia? Il maestro è ben poco maestro, se ha di tali interessi.

Qui si scherza, e il concetto che proponi è valido: anche in scrittura c’è chi ti smaschera, quindi non barare, non bluffare e più di tutto non arrampicarti sugli specchi a difendere l’indifendibile.
 
Ma noi siamo qui per imparare a scrivere, si suppone, e non impermalire gli studenti dopo essere faticosamente riuscito a ingaggiarli in uno studio serio è una buona strategia 😊
 
      

“Dilettante” è una parola che si carica spesso di un significato dispregiativo: “sei un dilettante” è un’espressione che il più delle volte veicola disistima e sfiducia.

Ma se eliminiamo questo giudizio di valore – che deriva tutto e solo dall’interpretazione prevalente della parola – e recuperiamo il significato “da vocabolario”, allora ci ricorderemo che “dilettante” è chi fa una determinata cosa “per diletto”, semplicemente per suo piacere, senza preoccuparsi granché del resto.

Adoro nuotare a mare, e sono capace di realizzare dei coast-to-coast, a nuoto, che possono richiedere oltre tre ore, senza mai fermarmi. Ma un nuotatore professionista rabbrividirebbe, nell’osservarmi: perché non sono capace di compiere un movimento tecnicamente corretto – come il professionista si aspetterebbe che venisse eseguito – neppure per sbaglio. Non mi importa. Sono un dilettante del nuoto: io nuoto come mi viene, come mi pare, nuoto per mio piacere, per mio diletto, mi va bene così e non voglio imparare altro.

Ricevo invariabilmente occhiate di sufficienza – come uno studente universitario che avesse superato un esame con “18” – quando dico ai veri runner che corro 10 km in un’ora. “È il minimo sindacale per definirsi runner”, è la loro replica, come il 18 all’università per superare un esame. Okay, d’accordo, ma non mi importa. A me va benissimo il “18” – se parliamo di correre – e non ho intenzione di migliorarmi: 10 km/h e sto!

Insomma, non c’è nulla di male a essere dei “dilettanti”, a fare le cose per proprio diletto, fottendosene di tutto e tutti, purché il diletto, il piacere personale, individuale, ci sia davvero.

Ma il cosiddetto “dilettante della scrittura”, il diletto non lo prova. Lui scrive sì per avere un piacere, ma poi gli serve l’apprezzamento dei lettori affinché quel piacere si concretizzi. Ma – santo cielo! – se quando hai scritto te ne sei fottuto sovranamente dei lettori, e hai scritto solo per dar sfogo ai tuoi impulsi, mi spieghi come puoi pretendere – ora – di avere il loro apprezzamento?

Ma se durate in rapporto sessuale – giusto per essere vividi e carnali – io sono preoccupato solo ed esclusivamente di me stesso, se tutto quel che mi importa è godere più che posso della situazione e dare sfogo a ogni mio piacere, ha poi senso chiedere alla mia compagna “ti è piaciuto?”. Mah, non so, forse le sarà anche piaciuto, sì, ma più per avventura che per merito. Non sarebbe stato più bello – per tutti e due – se ci fossimo “sintonizzati”?

Il “dilettante della scrittura” è per sua natura fatto così: chiede “ti è piaciuto?” senza aver fatto il minimo sforzo per fartelo piacere, pensando solo a sé stesso, ed è per questo che i metodi di insegnamento dalla scrittura – per essere efficaci – devono sempre essere un po’ bruschi, perché la presunzione del dilettante (in scrittura) non la rimuovi con coccole, baci e carezze.
 

 
A proposito del legame tra una laurea in Lettere e le abilità di scrittura di narrativa: semplicemente, non c’è.

La scrittura di narrativa – nel senso avanzato del termine, di frontiera – è una attività artigianale, da vivere con lo spirito della bottega rinascimentale: si impara facendo – learning by doing, diremmo oggi – si impara con il lavoro di tutti i giorni, col confronto sistematico con problemi pratici, che per essere risolti al meglio richiedono il possesso degli strumenti – della migliore teoria a disposizione – e una sicurezza nel loro utilizzo, che solo una ripetuta pratica sul campo può dare.

Molti laureati in lettere conoscono le tecniche di scrittura e sceneggiatura esattamente come conoscono i ramarri: ne hanno visto sbucare fuori uno ne canto XXV dell’Inferno di Dante. 

     
 
Colgo l’occasione per far notare un dettaglio stilistico, a proposito del racconto Poker d’assi.

Nella versione originaria ci sono due personaggi che si chiamano Pino e Gino. È un errore madornale, una scelta suicida, e per capirlo non serve studiare le modalità di attribuzione di nomi ai personaggi. È sufficiente una semplice comparazione. Pino e Gino sono due nomi praticamente uguali (sovrapposti, letteralmente, per il 75%) e per di più in rima. In una storia vera si finirebbe ben presto per confonderli, per quanto impegno l’autore possa aver messo per differenziarli (a livello caratteriale).

Io, per rimarcare l’errore, sono volutamente andato su nomi opposti: Fabietto (diminutivo) e Marione (accrescitivo), il che mi ha anche fatto gioco per rafforzare l’ambientazione romana (è tipico – a Roma – ridurre o ingigantire i nomi) lasciata intendere dal nome Cesare del protagonista.

Fai attenzione a battezzare i tuoi personaggi, anche perché il nome è sì importante, ma a volte si può persino omettere del tutto, senza violare nessuna regola.
 
      
 
Senza sapere neanche io come mai, ho preferito leggere prima il rewriting e poi l’originale del racconto L’ultimo caffè.
 
Provo a commentare nel senso in cui ci hai invitati a farlo, considerando questi rewriting come delle “demo”, e quindi esulando (o cercando di esulare) da discorsi marginali per quanto interessanti.
 
Nel racconto originale mi ha particolarmente disturbata questo bisogno di spiegare, chiarificare, giustificare (a me che leggo) il comportamento di Andrea e specularmente quello della protagonista, gli atteggiamenti extra testuali di Andrea, che nel testo afferiscono al suo carattere, al suo modo di vivere la relazione “senza impegno”, il suo essere solitamente “non selvaggio” nell’intimità e cose del genere. Tutto il brano è strutturato in questo modo, già dalla seconda riga: “Amavo Andrea, ma dopo cinque anni non era successo quello che mi sarei aspettata. Non voleva neanche parlare di convivenza, di figli, del nostro futuro…”.
 
Questo modo di procedere, dalla “resa” già pesante di per sé, mi ha infastidita ulteriormente perché la scena che viene descritta contiene un evidente climax, oltre che essere di per sé ad alto impatto emotivo configurando un sesso “violento” .
 
Fellini, il regista, nel commentare l’odiosa pratica degli spot televisivi che interrompono la visione di un film, ebbe a commentare che “non si interrompe un’emozione”. Aggiungo che non si interrompe nella maniera più assoluta un’emozione “in divenire”, oltretutto smorzandola con delle spiegazioni che per il lettore non sono solo inutili ma anche fuorvianti.
 
Sono inutili, perché io non ho certo bisogno di sapere chi fosse Andrea prima de L’ultimo caffè per figurarmi correttamente la scena: l’originale l’ho trovata una lettura “senza scampo”, dove la scrittrice era molto preoccupata di spiegare come stesse vivendo la situazione “presente” in funzione della relazione “passata” con Andrea.
 
Porto dei “piccoli” (!) esempi, con molta fatica, perché tutto il testo della versione originale è strutturato nello stesso modo: il primo e secondo paragrafo sono tutte informazioni che non mi serve conoscere per godermi la scena; non mi serve sapere che la protagonista si spaventa “perché non aveva sentito che (lui) l’aveva seguita” (anche se l’informazione rileva, moltissimo, non è in questo modo che il lettore deve introiettarla); “Perché il cuore batteva così forte? L’avevamo fatto tante volte. Certo, non con tanto trasporto. Non con quell’emozione. Andrea non era mai stato selvaggio. Mi abbassò le mutandine con urgenza, non c’era traccia dei suoi soliti modi gentili”; “Andrea era sempre stato educato e premuroso. A volte, anche troppo”.
 
Nel rewriting non succede niente di tutto questo. Ho ben chiaro dopo una riga lo stato emotivo presente di Valerio, che è diventato il personaggio “Punto di Vista, mentre nell’originale ho avuto due paragrafi di “stasi” per poter mappare lo stato emotivo presente della protagonista, senza peraltro coglierlo con esattezza: ’sto tizio l’abbiamo tradito, e va bene; avevamo tutte le ragioni per “tradirlo”, e va bene; si è arrabbiato con noi, abbiamo piagnucolato un po’ ma “stavo bene così”. E allora, mi domando, è bastato che Andrea si lasciasse crescere la barba per annullare i due paragrafi iniziali e configurare come “allettante” la possibilità di un sesso d’addio, o addirittura riconciliante secondo alcune interpretazioni? E se stavi tanto bene, com’è che ora Andrea è sulla porta di casa tua, con la scusa di riprendere le “sue cose”, e gli stai preparando un caffè? Analizzandola in questi termini, veniamo meno alla funzione dimostrativa del rewriting quindi lasciamo perdere.

Nel rewriting, ribadisco, in una riga ho chiaro lo stato emotivo di Valerio. Faccio notare che tale stato emotivo è altrettanto “ambiguo” di quello della protagonista nell’originale, con un’unica (rilevantissima) differenza: Valerio è arrabbiato, direi incazzato nero, e la rabbia è forse l’emozione più “titolata” per essere declinata in altre, se maneggiata con cura durante la scrittura ha un potenziale trasformativo tremendo. Invece qual è lo stato emotivo della protagonista della versione originale? Io non lo colgo con chiarezza. Non riesco a tornare all'emozione primaria della protagonista.
 
Nel rewriting, inoltre, ogni cambiamento nello stato emotivo di Valerio non è “spiegato”, è declinato nei fatti con degli espedienti che il lettore riesce a cogliere con chiarezza: è arrabbiat(issim)o quando arriva, e la prima cosa che lei fa quando lo vede è mettergli una mano al viso. La stessa mano con cui avrà carezzato le fattezze del barista. Io capisco al volo che la cosa faccia montare in Valerio emozioni ulteriori, che rifiniscono la rabbia iniziale; il rewriting procede tutto in questo modo, aggiungendo luoghi e dettagli che sono tutti utili e sufficienti al lettore (l’ingresso nel rewriting della camera da letto è emblematico secondo me) per aiutarlo a decifrare le emozioni del protagonista, che diventano le proprie.
 
C’è un punto dove forse hai “ceduto al gusto” di svelare il procedimento al lettore: “e forse se l’è scopato proprio qui, su questo letto, sul nostro letto… la troia che è…” e di questo ti ringrazio, tornando all’inizio del discorso, perché se davvero queste sono “demo” per capire, allora apprezzo doppiamente che siano state riscritte con “semplicità”, la stessa che serve a chi studia per notare cose mai notate prima e poterle valutare durante la lettura, per poi – eventualmente – provare a farle proprie in scrittura.
 
       

C’è un ulteriore elemento interessante, che però viene fuori da una puntualizzazione che si trova in uno dei tuoi commenti ad un altro rewriting, ovverosia l’empatia nei confronti di un personaggio “Punto di Vista che compie azioni eticamente, moralmente insostenibili per la gran parte dei lettori, un protagonista in cui non vorresti mai immedesimarti, perché sta per fare (o vivere, nella versione speculare del ragionamento) qualcosa che non ti piacerebbe fare (o vivere) nella vita reale. Giustamente hai parlato di scene di sesso e violenza.
 
Questo è un argomento molto, molto interessante sul quale sto ragionando e sono certa che ci sarà modo e tempo per argomentarlo, perché io non credo si possa dire che esistono delle “tematiche” universalmente valide, mentre restano e resteranno sempre validi argomenti in scrittura quelli che indagano le pulsioni che ci rendono umani, i nostri abissi, le nostre perversioni, il sesso, la violenza, la sopraffazione mentale o fisica, l’umiliazione, la bramosia di centrare una meta ad ogni costo, anche facendo del male agli altri e facendosene per sé stessi.
 
Insomma questo merita un discorso a parte, senza ombra di dubbio.
 
      
 
Hai gettato sul tavolo tutte le carte possibili, sia di tecnica di scrittura che di progettazione delle storie.

Le risposte arriveranno nei vari moduli, e molte già in quelli più immediati (dall’8 al 12).

C’è solo un punto che voglio anticipare, perché arriverà un po’ più in là (nel modulo 22).

Fai bene a ricordare che questi esercizi di riscrittura sono delle “demo”, delle semplici dimostrazioni di come si possa conferire forza espressiva (versione riscritta) a dei testi nati deboli (versione originaria). Non bisogna attribuirgli altro valore, e – in particolare – non ci si deve costruire intorno un proprio contesto, un’ambientazione personale, per poi magari delle dedurne conclusioni errate.

Dici bene: tutte le “demo” sono volutamente scritte “con semplicità” per rispondere a un obiettivo minimale – far risaltare le differenze macroscopiche – che non solo non giustificava sforzi maggiori, ma poteva addirittura essere compromesso da un impegno eccessivo.

“Semplicità” ha qui un significato operativo molto preciso. Io mi sono accontentato – visto lo scopo delle “demo” – di realizzare una semplice “sessione di scrittura”. Ma la “sessione di scrittura” – il momento in cui ti metti davanti al computer a battere i tasti – deve essere sempre preceduta – nei casi reali – dalla “scrittura” (cosa che io qui non ho fatto, per i motivi spiegati). Ne parleremo – appunto –  a conclusione del modulo 22, che per molti sarà un’autentica rivelazione.

 


L’argomentazione della prima parte di questo modulo, che si avvia alla chiusura con la famosa scommessa di Pascal, ha richiamato alla mia mente alcuni passaggi di un lungo scambio epistolare avvenuto tra uno scrittore italiano superbo ed un neuroscienziato. Le loro lettere, le lunghe telefonate e gli inevitabili scambi di prospettiva fra i due sono confluiti in un libro uscito due anni fa.
 
“Perché la scienza accetta di avere un magistero parallelo alle varie religioni e non dice con chiarezza che le religioni sono degli infingimenti che cozzano contro qualsiasi logica? Siamo fatti di microrganismi multicellulari destinati alla fine. Perché nessuno scienziato si prende la briga, nel 2021, di sconfessare le imposture delle religioni?” chiede lo scrittore.
 
“Aderisco ai riti della tribù che mi ospita come un antropologo, per studiarli, non per giustificarli: la scienza per me è un labirinto in cui sperimentare qualche contatto diretto con la verità. Non ha a che fare con la verità in senso assoluto, ma con la verificabilità delle ipotesi” risponde il neuroscienziato.
 
Peraltro questo neuroscienziato cognitivo, lo scorso anno, è tornato “sui passi” del nostro Sacks, aggiungendo prove incontrovertibili circa il fatto che il cervello (dei pulcini) è sensibile al concetto di “numerosità” sin dai primissimi giorni di vita.
 
È confortante, oltre che intellettualmente molto appagante, poter idealmente abbracciare in questo blog l’intero arco speculativo – dalle neuroscienze all’esistenza di Dio – perché il proponimento finale (imparare a scrivere), se elaborato con le premesse dei moduli introduttivi (una fra tutte, riportare la scrittura alla dimensione artistica che le spetta) non può essere raggiunto che in questo modo.
 
Il resto sono imitazioni, per voler rimanere molto educata.
 
      
 
Nello scambio epistolare a cui si accenna mi sembra di sentire l’eco di un’argomentazione che – vado a memoria – dovrebbe trovarsi nel Trattato sulla natura umana di Hume.
 
Nella scienza non vi è più verità che nei miti tribali; la scienza, in altri termini, sarebbe solo la mitologia generata dalla nostra moderna tribù occidentale. Una volta, provocato da un antropologo, decisi di formulare il mio pensiero nel modo più radicale. Supponiamo che vi sia una tribù, dissi, in cui si crede che la luna sia una zucca lanciata nel cielo da tempi immemorabili, e sospesa fuori portata appena al di sopra delle cime degli alberi. Affermereste seriamente che la nostra verità scientifica – che la luna è lontana un quarto di milione di miglia e che il suo diametro è un quarto di quello della Terra – vale quanto la zucca tribale? ‘Sì’, rispose l’antropologo. ‘Noi crediamo in una cultura che vede il mondo scientificamente. Altri crescono in una cultura che vede il mondo diversamente. E nessuno dei due mondi ha in sé più verità dell’altro’”.
 
Colgo l’occasione per chiarire la logica sottostate al voler “idealmente abbracciare in questo blog l’intero arco speculativo – dalle neuroscienze all’esistenza di Dio”, che è stata colta correttamente da Bambola di Pezza, ma ad alcuni potrebbe dare la sensazione di un approccio da tuttologo.
 
Primo: ho ben chiaro l’ammonimento di Leopardi – “l’unico modo per non far conoscere agli altri i propri limiti, è di non oltrepassarli mai” –, vedo bene linea che separa ciò che so da ciò che non so, e a quella linea non mi ci avvicino mai.
 
Secondo: “se cercate soluzioni economiche a problemi economici, probabilmente avete capito ben poco del problema”. Questo ammonimento di Luigi Einaudi va meditato, in generale. Il problema strettamente economico, così come si manifesta e viene percepito – alta disoccupazione, livelli di povertà, etc. – è solo l’ultimo stadio di un processo che il più delle volte parte da lontano, dalla società, dalla cultura, dagli assetti di potere, dai condizionamenti della propria storia. Pensare di risolverlo con approccio puramente economico – agire cioè sulle cause ultime, senza preoccuparsi delle cause remote – equivale spesso a usare un cortisone.
 
Lo stesso vale per la scrittura. Chi approccia alla scrittura con l’idea di impadronirsi esclusivamente dei ferri del mestiere, considerando tutto il resto come inutili divagazioni, non ha capito nulla di come funziona la scrittura. Prima devi vivere – imparare a vivere, a capire la vita, a non subirla passivamente, a osservala con spirito critico, a filtrarla – e poi (eventualmente) potrai metterti a scrivere.
 
E la vita è un flusso complesso, che ti impone una molteplicità di prospettive, se vuoi quanto meno inquadrarlo. Ecco perché si spazia dalle neuro-scienze all’esistenza di Dio, ed ecco perché si continuerà così, anche con giri sulle montagne russe, dalle vette dell’intelletto alla suburra della materialità, senza trascurare nulla di ciò che può essere rilevante, con l’idea di connettere tutto al meglio, sotto il costante ammonimento di Leopardi.
 
Poi, certo, resterà da vedere quanto le modalità attuative riusciranno a mantenere la qualità delle premesse, ma questo lo scopriremo alla fine (come si dice: se il budino era buono oppure no, lo sai solo il giorno dopo).
 

     
 
L’assunto generale del metodo è che il cervello, quando legge parole, visualizza immagini.
 
Dare contezza dello stato dell’arte circa la validità “scientifica” di questa affermazione, ovverosia concordare sul fatto che questa è una “riduzione” che accettiamo per muovere un passo innanzi all’altro con rinnovato impegno a selezionare l’essenziale da rendere nella pagina, è un segnale incontrovertibile di onestà intellettuale, di apertura mentale e di lungimiranza, oltre che un atto di amore (di cura) verso la scrittura.
 
Più di tutto mi piace mettere in luce in che modo il metodo possa giovarne in prospettiva lunga: accettando questa riduzione (che, hai ragione, non è né folle né strampalata: è il “massimo” a cui possiamo ambire, è una riduzione deliziosamente consonante al dato scientifico disponibile) e la sua premessa di base, rendi il modello teorico stabile e flessibile, capace di “accogliere” eventuali novità senza “rompersi” o divenire desueto.

Questo discorso, peraltro, ha a che fare con la scienza ma… non solo. È una postura coerente con tutto quello che via via hai esplicitato nei moduli introduttivi: tutto si è evoluto, la narratologia, la relazione fra l’essere umano e il libro, la psicologia, la drammatizzazione, possiamo continuare all’infinito.

Tutto in scrittura va reso aderente alla realtà (“l’anno domini 2023”) senza cadere nel tranello del cosiddetto “cherry picking”, ossia del pescare “innovazioni” che ci fanno comodo (penso a tutto il filone della scrittura “moderna” che qui nel blog è abbastanza spinto) e scansarne altre che ci fanno meno comodo (come poteva essere un approccio dogmatico alla frase “il cervello legge parole, e visualizza immagini”) con uno spirito che non rende giustizia alla scrittura, se considerata davvero come espressione artistica.

Un modello di scrittura così “onesto” e flessibile (la differenza che intercorre fra il tronco di quercia e la canna del bambù) non è solo un’ottima base per quelle che hai chiamato “espansioni” potenziali (che saranno utili, specialistiche, bellissime).

Un modello siffatto può reggere comodamente molto più di questo, può reggere la propria evoluzione, nel senso Darwiniano del termine.

Trovo, nella prima parte di questo modulo, qualcosa che non ho trovato mai nelle mie ricerche metodologiche sui metodi di scrittura attualmente proposti dal mercato.

Ti rendi conto della bellezza della cosa che hai fatto?
 
          
 
Tieni conto che il principio generale è uno: non conta quanto iper-precise siano le parole, conta solo la capacità de lettore di simularle in stretta coerenza con la simulazione che l’autore vuole attivare nella testa del lettore (insomma: non basta che il lettore simuli; deve simulare quello che voglio io, autore, relativamente alle cose di cui voglio avere il controllo; rimane invece libero su tutto il resto, di cui a me autore non importa).

 

 
Una delle cose che l’autore fa, nell’esempio di Agostina, è condannare il lettore al ruolo di proprio confidente, senza appello e senza speranza. Il lettore in quel momento non è partecipe emotivamente dei vissuti di Agostina, gli vengono restituiti sotto forma di riassunti, impedendogli di provare (per sempre, durante tutto l’arco del testo) l’emozione che ha vissuto Agostina quando (ad esempio) l’amore della sua vita è saltato per aria in un’esplosione. 
 
Io non entro in empatia con Agostina perché è “sfigata” e ha perso il marito in un incidente. Piuttosto la compatisco e sì, arriverà un modulo di sceneggiatura apposta, I know 😊
 
Nel frattempo, se fossimo nel mondo reale e di Agostina avessi questa descrizione restituita verbalmente da una sua amica, io non empatizzerei con Agostina. Invece, mi domanderei strabiliata quanto tempo possa aver passato l’amica a pensare a tutta la vicenda di Agostina, per arrivare a rielaborarne il vissuto in questi termini.
 
Trasportato nel mondo della pagina, va a finire che a me lettore neanche interessa più sapere cosa faccia o non faccia Agostina ai suoi figli ogni giorno (“sgranarli come rosari”), o che lavoro facesse il marito, perché Agostina semplicemente non c’è.
 
Hai fatto l’esempio di un regista che gira attorno alla sedia dove siede immobile il personaggio, raccontando del personaggio questo e quello. Ma qui (mi sembra) è anche peggio, perché Agostina non è neanche in scena (!).
 
Agostina è un espediente della sua amica (dell’autore) per raccontarmi qualcosa di sé stessa, di come percepisce il mondo lei, di come lei lo elabora.

Ora, io non so esprimermi nei termini propri della scrittura, ma sono abbastanza convinta che ci siano molte prospettive tecniche dalle quali è possibile inquadrare la faccenda, questioni tecniche che io non conosco, al netto di questa polemica mainstream sull’obsolescenza del narratore.
 
Proprio in virtù di tali considerazioni, questo è uno di quei casi in cui mi è utile ragionare da lettrice.

Io sono una lettrice che si offende a morte nel leggere di Agostina “in questo modo”. Sono una di quelle lettrici che mette il muso all’autore, non molla il libro per orgoglio ma si predispone ad accogliere il prossimo “sgarro” come quello definitivo.
 
Io, lettrice, è sull’autore che sono costretta a concentrarmi, “senza scampo”: l’autore infatti non mi lascia nemmeno la possibilità di vedere Agostina “in atto”, che già ha corrotto tutte le possibili Agostina “in potenza”, dentro al mio cervello. Mi fa sentire inutile, qualificando la mia esperienza di lettura di conseguenza.

È un’imprudenza grave entrare in confidenza in questo modo così diretto con il lettore, ben oltre i confini del pattuito, scavalcando personaggi e storia, con l’aggravante di provare a indorare la pillola usando la lingua e i suoi artifici; un’imprudenza che qualifica lo scrittore prima di tutto come un lettore che non sento affine, perché mi viene da pensare, dato che non ho una storia da leggere e un'altra vita da vivere, a che tipo di lettore possa essere uno scrittore che si relaziona al lettore in questo modo.
 
Devi aver scritto da qualche parte la locuzione “mondo protetto della pagina”. È a un simile senso di protezione – se non lo stesso – a cui faccio riferimento, in sottofondo. Sono una lettrice, Cognetti, non sono lo psicologo della mutua 😊
 
         
 
L’affaire musicale in narrativa non è nulla di nuovo.

Penso di non spoilerare nulla, in un blog frequentato da amatori della parola scritta, ricordando che l’episodio “Le Sirene”, nell’Ulisse di Joyce, è stato riconosciuto dalla critica come una maniacale trasposizione di una particolare forma musicale in narrativa.

Manco a dirlo, Joyce sceglie una fra le forme musicali più complicate, la fuga, che condisce con elementi che si ripetono invariabili – particolare, questo, che alla fuga non è attribuibile in senso strutturale – facendo parlare la critica di una forma musicale denominata “fuga per canone”. 
 
Lo stesso Joyce, in una conversazione con un suo studente, Georges Borach, ebbe a dire: “Since exploring them [the technical resources of music] in this chapter, I haven’t cared for music any more. I, the great friend of music, can no longer listen to it. I see through the tricks and can’t enjoy it any more”.

Tradotto: “Da quando ho esplorato le risorse tecniche della musica [per stendere] questo capitolo, non mi è più interessata la musica. Io, il grande amico della musica, non posso più ascoltarla. Ora vedo al di là dei [suoi] trucchi, e non riesco a godermela, non più”.

Le intenzioni che hanno mosso la stesura dell’episodio “Le Sirene” vengono chiarite ulteriormente da Joyce in una lettera indirizzata all’amica e attivista Harriet Weaver: quello che si voleva rendere era “the seductions of music beyond which Ulysses travels” e quel che gli è accaduto come essere umano, dopo aver portato un fenomeno acustico dentro alla pagina, è che “since I wrote the Sirens I find it impossible to listen to music of any kind”.

Questo è solo un punto, fra gli innumerevoli punti che si potrebbero (dovrebbero?) rilevare, e come tale va considerato: una luce accesa su un dettaglio specifico, ossia che una conoscenza approfondita della tecnica musicale è l’unica strada percorribile se si decide di avvicinarsi, anche solo vagamente, all’idea di trasportare il fenomeno “dell’ascolto dentro la pagina”. E per ora, credo, questa considerazione basta e avanza a declassare tutti gli (innumerevoli) altri approcci alla musica in narrativa.

Peraltro, qui il termine “declassare” non è impiegato per affibbiare una posizione inferiore su una scala “valoriale”, semplicemente bisogna separare le classi, come nel tuo vecchio esempio di mele e banane.

Asserire nella pagina che la musica che vi è rappresentata è “dolce”, “toccante”, “malinconica” significa scegliere una “mela renetta”.

Apporre una notazione grafica (come hai fatto tu con le note musicali ad aprire e chiudere la strofa – le parole – di una canzone) per segnalare al lettore che la frase che leggerà è parte del testo di una canzone, chiedendogli indirettamente di rievocarne l’intonazione, significa scegliere una “mela fuji”.

Scrivere una serie di note (che solo il cervello di un “musicista” è capace di leggere riproducendo la melodia che quelle note abbozzano) significa scegliere una “mela golden delicious”. 
 
Uno dei capitoli che ho più amato di uno dei libri che più amo è dedicato alla descrizione di un concerto. Ed è una mela annurca deliziosa. Tuttavia…

Radicalizzando: l’ascolto è attenzione, non è apprendimento; l’ascolto è testimonianza di quello che accade in quanto suono, non è conoscenza di quello che accade mediante il suono. Dunque: il suono è la presenza di un assoluto, la sua annunciazione ne costituisce la rivelazione, l’ascolto non è allora certamente l’atto col quale si giunge ad un apprendimento discorsivo, bensì il momento nel quale la percezione media e congiunge la molteplicità nell'unità della conoscenza formale. L’ascolto è esperienza immediata nella quale la conoscenza coincide con l’atto: l’ascolto è ascesi”.
 
Trovo che queste parole, di Franco Donatoni, contengano tutti gli elementi sui quali è necessario riflettere per operare un tentativo serio di resa musicale sulla pagina.

 

 
Ho ben chiaro che cosa sia una riduzione in termini didattici, a cosa serva, e perché si rende necessaria senza “se” e senza “ma”.
 
In questo blog, ad esempio, si parla di “scrittura dei mattoncini” e se ne qualificano cinque; in altri corsi ne vengono isolati tre, ma il senso non cambia. L’idea di fondo è identificare le componenti dell’esperienza sensibile di una persona in carne ed ossa e sequenziarle opportunamente (ricordando che in scrittura si procede un tassello alla volta, perché abbiamo a disposizione solo lettere e segni grafici) per poi riproporre lo schema nella pagina sostituendo quindi la “persona in carne ed ossa” con il “personaggio”. Di conseguenza, mi approccio all’argomento seguendo la logica suggerita dal modulo.
 
Nel mondo reale, il legame fra la percezione, l’azione e la cognizione è reso possibile dal fatto di possedere un corpo – capace in termini di funzioni percettive e motorie – e soprattutto “dal tipo di esperienze che tale corpo ha avuto la possibilità di compiere” (Iverson, Thelen, 1999). La chiave è “possedere un corpo”: si è arrivati ad isolare un fattore, la cosiddetta “body ownership illusion” – negli studi sulle realtà virtuali e aumentate, nella gamification in particolare – potendo ulteriormente specificare i comportamenti correlati a tale “illusione”.
 
Anche in scrittura, secondo il modello di questo blog, è necessario indurre tale illusione, quella di “possedere un corpo”, prerequisito indispensabile per evocare qualsivoglia emozione, immedesimazione, immersione. Ma non potremo mai produrre nulla di valido (nel 2023) se ci avviciniamo al concetto di “percezione” nel solito modo (obsoleto) con cui ci è stato propinato, facendoci scudo per secoli con la gerarchia aristotelica capeggiata dalla vista e quindi considerando sia il “numero” dei sensi sia la loro “gerarchia” come qualcosa di innato, universalmente valido ed immutabile.

Hai fatto più che bene ad accorpare dentro [PS] una varietà di percezioni, prima di tutto perché i sensi non sono cinque.
 
Anche a volerci fermare a quelli basilari, dobbiamo catalogare il senso dell’equilibrio e le sue relative percezioni secondarie, come quelle di accelerazione, decelerazione e più in generale la propriocezione.
 
Puoi essere bendato, imbavagliato, coi tappi alle orecchie, il naso turato e le mani in tasca e comunque accorgerti di essere “in movimento”, benché tu sia fermo, se sei posizionato in un veicolo che è a sua volta in movimento. In queste condizioni estreme (bendato, imbavagliato, etc.) non avresti alcun indizio di essere seduto su un veicolo, se questo non fosse in movimento: il tuo apparato vestibolare non avrebbe alcuna informazione da processare ed elaborare in tal senso.
 
Va menzionato anche il senso del tempo, che sappiamo essere una percezione solo in minima parte coadiuvata dalla vista (attraverso il filtro della retina) e forse legata al ciclo biochimico di attività di alcune componenti del nostro corpo, come quelle proteiche: questo ciclo si aggira attorno alle 24 ore, ed è l’intuizione che ci ha fatto parlare di “orologio biologico”.  
 
E poi che cosa facciamo, non parliamo della temperatura? Con quale senso percepiamo la temperatura? Non mi risulta che ci sia un “nome volgare” per questa percezione sensoriale, ma sappiamo che i recettori della temperatura (termocettori) sono sempre attivi (anche di notte) benché le scariche inviate al cervello variano ovviamente di intensità – proprio per informarci della temperatura circostante – e sono situati nell’organo più esteso del corpo umano: il tessuto epiteliale. Non è mica irrilevante: se la temperatura è troppo alta o troppo bassa, i termocettori smettono di funzionare e si attivano altri recettori cutanei, quelli del dolore (nocicettori).
 
Quindi il mio personaggio può liberamente “battere i denti” o “sudare a fiumi” in un range che ha come punto minimale i 5° e come massimale i 40° ma se andiamo sotto o sopra questi estremi, il mio personaggio deve percepire un’altra cosa: il dolore fisico.
 
Il mio personaggio prova lo stesso tipo di dolore fisico se viene bruciato con un ferro arroventato o se resta esposto al freddo per troppo tempo. Difatti, entro quel range di temperatura di parla appunto del “senso termico”, oltre quello (coi termocettori che passano il testimone ai nocicettori) si parla del “senso del dolore”.
 
Già: anche il dolore è un “senso” a tutti gli effetti, con buona pace di Aristotele che aveva risolto il problema catalogando il “dolore” come una “passione dell’anima”. Aristotele – che ha 2500 anni di scusanti che noi oggi non abbiamo – aveva probabilmente notato che al dolore ognuno reagisce diversamente, lo tollera diversamente. Da qui, forse, la confusione di allora, che oggi non ci è concessa, nel modo più categorico. 

Ben poco sorprendente che questo elenco “dal sesto senso in poi” potrebbe andare avanti ancora, isn’t it? Ci possiamo fermare, infatti.
 
Questo breve riassuntino è utile qui solo per sottolineare che continuando a studiare l’essere umano (stavolta non solo il cervello, dove – ad esempio – non esistono nocicettori: il cervello in quanto organo non è sensibile al dolore) diviene sempre più chiaro che i “sensi” sono molti, sono articolati e interconnessi in modi che non sospettavamo minimamente al punto tale da rendere forse desueto l’istituto del “senso” per come siamo abituati a concepirlo - ad esempio, la ricerca è unanimemente indirizzata a dimostrare che un odore può trasformarsi in un sapore e che senza le informazioni carpite dalle papille gustative un odore può essere confuso con un altro.
 
Per chiudere le mie osservazioni su questo modulo, vorrei riprendere questo tuo passaggio: “la vista è la percezione sensoriale più potente – perché è sempre presente – ma non c’è solo la vista nella realtà percepita”.
 
Non vorrei aver frainteso, ma è l’olfatto l’unico senso (fra i cinque che hai catalogato) ad essere sempre attivo, non la vista. Se davanti a me si erge una montagna fumante di escrementi, io posso chiudere gli occhi e non vederla ma, se mi tappassi il naso e iniziassi ad inspirare ed espirare con la bocca – pena soccombere – mi accorgerei ben presto di averlo “in bocca” l’odore di escrementi, dando vita alla dimostrazione pratica di un fenomeno che abbiamo capito di recente, ossia che i sistemi del gusto e dell’olfatto non sono separati ed indipendenti come si credeva (surprise!) e il loro giunto strutturale è la lingua (non il cervello, come si pensava) dove abbiamo scoperto esistere sia i recettori del gusto sia quelli dell’olfatto.
 
Quindi, ben vengano le riduzioni didattiche, ma ricordiamo che si semplifica sempre e solo per aiutare la comprensione e la classificazione, non perché alla scrittura siano sufficienti tali semplificazioni.
 
È importante rimarcarlo per un metodo che ambisce a rimanere solido e flessibile al contempo; capace di accogliere le nuove scoperte (“che hanno profonde implicazioni pratiche in scrittura”) senza snaturarsi, divenire obsoleto o rompersi del tutto. 
 
Lascio un link interessante, avendo accennato al fatto che la gerarchia fra i sensi non è senz’altro universale: si tratta di uno studio del 2018 pubblicato su PNAS, una rivista di peer review della National Academy of Sciences che è forse la fonte più rilevante rispetto a ricerche multidisciplinari che abbracciano le scienze biologiche, fisiche e sociali. 
 
Da questo studio (e da altri) è stato dimostrato, ad esempio, che gli inglesi descrivono bene gli input visivi e sonori, difettando molto nella descrizione di quelli gustativi; i volontari di lingua Lao e Farsi, invece, sono stati bravissimi a descrivere i medesimi stimoli gustativi; per non parlare degli aborigeni australiani di lingua Umpila che, rispetto agli altri 19 target group, hanno prestazioni eccellenti nella descrizione degli stimoli olfattivi.
 
Il tutto a dire che sì, esiste una base certamente biologica nell'elaborazione delle percezioni sensoriali, ma il grosso lo fanno fattori culturali, dunque variabili.
 
          

Questo insieme molto ben ordinato di informazioni sulle percezioni sensoriali ha grande valore in sé, perché ne arricchisce la nostra comprensione, anche in relazione agli aspetti di contesto (ho trovato stimolanti, a esempio, le osservazioni sul modo in cui i diversi popoli si rapportano ai diversi sensi). Al tempo stesso – se pur involontariamente – finisce col segnalare l’irriducibilità del mondo reale al mondo della pagina, e quindi possono essere intese come un segnale di “alert” per lo scrittore.

Va qualificata, in questo senso, l’affermazione per cui “ben vengano le riduzioni didattiche, ma ricordiamo che si semplifica sempre e solo per aiutare la comprensione e la classificazione, non perché alla scrittura siano sufficienti tali semplificazioni”.

Dobbiamo intenderci. Cos’è una “riduzione didattica”? È – ad esempio – una scrittura del tipo 1/∞=0. Questa scrittura non è sbagliata: è priva di senso. Perché ∞ non è un numero, quindi non può connettersi ad altri numeri secondo le regole tipiche dei numeri.

Si dovrebbe dire – a rigore – che il limite di 1/x, per x che tende a ∞ è uguale a 0, chiamando così in causa il concetto di “limite matematico”. Dire tout-court 1/∞=0 significa ridurre un concetto complesso (il limite) ad uno elementare (la divisione), che si può pure fare, in relazione al pubblico a cui ci si rivolge, purché non induca l’equivoco che ∞ sia un numero.

È questo che stiamo facendo qui, parlando di percezioni sensoriali? Stiamo usando 1/∞=0 come “riduzione didattica” per far passare subito il concetto?

No. Qui le cose sono diverse, una differenza piccola se vogliamo, che però cambia tutto. Come ora vediamo.
 
Ci sono molti modi di riassumere l’arte della scrittura in uno slogan, e uno potrebbe essere questo: la scrittura è l’arte di gestire la riduzione dimensionale, perché è la scrittura in sé ad essere un’operazione di riduzione.

Ne parlavo nel modulo 9: scrivere significa schiacciare un mondo multi-dimensionale in un mondo a-dimensionale.

In generale, quando si schiaccia una realtà n-dimensionale in una realtà m-dimensionale (con m<n) le proporzioni tra le cose – diciamo pure la realtà oggettiva delle cose – viene persa. Lo mostravo con l’esempio delle stelline azzurra e gialla, ben separate nel loro mondo bidimensionale e quasi sovrapposte nella loro riduzione unidimensionale.

In scrittura le cose sono ancor più drammatiche: si passa da un mondo tridimensionale e penta-sensoriale, che viaggia lungo la linea del tempo, a un mondo statico e a-dimensionale. È un esercizio che quasi non fa presa sulle capacità umane. Dove sta allora l’abilità dello scrittore? Sta, precisamente, nel sapere quali sono quelle cose che una volta schiacciate sulla pagina non risentiranno di un’alterazione drammatica rispetto alla loro vera posizione nel mondo reale.

L’arte di scrivere è l’arte di limitare il più possibile le distorsioni (ineliminabili) implicite in ogni operazione di riduzione dimensionale; è l’arte di tenersi lontano da quelle cose che, perfettamente distinguibili nel mondo reale, si sanno che finiranno molto vicine – se non addirittura sovrapposte, risultando quindi indistinguibili – nel mondo della pagina.

Mi prendo i miei rischi e azzardo un paragone musicale.
 
Se chiedete a un musicista perché le note sono sette, è probabile che lo vedrete alzare un sopracciglio e fare una smorfia. “Le note non sono sette” – vi dirà – “le note sono quante vuoi tu”. Vero. Posso sempre intercalare note sulla scala musicale, ma… cosa accade a un certo punto? Semplicemente che due note formalmente diverse finiranno così vicine da produrre suoni indistinguibili all’orecchio umano, e quindi, di fatto, diventeranno la stessa nota, per cui è inutile metterle entrambe. È forse una “riduzione didattica” dire che le note sono 7? No. È semplicemente la realtà delle cose, è un prendere atto di ciò con cui si può effettivamente lavorare.


Una delle migliori spiegazioni delle modalità di costruzione della scala musicale.

Bisogna conoscere perfettamente la realtà del mondo reale – e le precisazioni di Bambola di Pezza sono preziose, in questo senso – e poi bisogna sapere cosa accadrà a quella realtà-reale quando la si schiaccerà nella realtà della pagina. L’arte della scrittura – ridotta all’osso – è tutta qui.  

Un’ultima precisazione sul senso della vista, il mattoncino [PSV], che ho definito come “il più potente”.

La mia affermazione muove da considerazioni basiche, e sicuramente molto meno raffinate rispetto a quelle di Bambola di Pezza (che colgono sfumature parecchio avanzate).

Primo: la scrittura dei principianti la riconosci perché i loro personaggi per lo più “vedono”, e poi “sentono” quando qualcuno gli parla, ma sembrano castrati nelle loro altre facoltà sensoriali; quindi, se vogliamo, la mia affermazione voleva proprio “depotenziare la vista”, ricordando che esistono anche gli altri sensi.

Secondo: dico che la vista è la facoltà sensoriale più potente, nel mondo reale, perché se ci obbligassero a rinunciare a quattro dei nostri cinque sensi – se cioè per qualunque immaginifico motivo fossimo costretti ad abbandonare i 4/5 delle nostre percezioni sensoriali – è molto probabile che la più parte di noi salverebbe il senso della vista, fondamentale per muoverci e orientarci nel mondo, con tanti pur dolorosi saluti a tatto, olfatto, gusto e udito; se invece ne potessimo salvare due – abbandonare cioè i 3/5 della facoltà sensoriali – allora probabilmente tratterremmo vista e udito; è in questo senso che parlo di “gerarchia sensoriale”.

 

 
Questi moduli tecnici possono apparire un po’ noiosi, per quanto impegno possa metterci per farveli piacere. Lo so. Ma non ci si può far niente. È la tecnica a esser noiosa, tutte le tecniche lo sono (a meno che uno non provi un interesse specifico).

Mi è stato suggerito, tempo fa, di vedere un video di Alexandra Conunova, e da allora la metto sempre di sottofondo, ogni volta che scrivo. Ogni tanto la guardo pure. E quando vedo quelle dita viaggiare sul violino in un modo spontaneamente così innaturale – sì, spontaneamente innaturale: perché non c’è nulla di naturale in quei movimenti, eppure li compie in un modo incredibilmente spontaneo – penso a tutti gli anni di esercizio, di fatica sorda, di tecnica, che ci sono dietro (e sono davvero tanti, perché la ragazza ha iniziato a 6 anni, quindi praticamente da una vita).

Nessuno vede la tecnica, ma tutti sono affascinanti da ciò che crea, si parli di scrittura, musica, disegno, scultura, danza, canto. Tra la tecnica e i suoi esiti sembra esserci lo stesso rapporto che passa tra il bruco e la farfalla; e alla fine chi è l’artista, se non chi comprende che non possono esserci farfalle senza bruchi, e ama i bruchi tanto quanto le farfalle, vedendo tutto come una cosa sola?

Per altro verso, potete prenderlo come un test sulla vostra passione: se proprio non ce la fate a seguire – perché voi, in fondo, volete solo scrivere, scrivere, scrivere, per esprimere voi stessi – allora, forse, la scrittura come forme d’arte non fa per voi.

 

 
Ho trovato utilissimo questo modulo, oltre che particolarmente chiara la spiegazione sulle possibili strutture di dialogo.
 
Peraltro, fra subordinate, incisi, barrati e una simpatica ironia di fondo (la voce fuori campo che ci avvisa del borbottio di Daniela mi ha fatto davvero sorridere, fa molto Peter Griffin) ci sono molte, molte informazioni utili da recepire e che coi dialoghi in senso stretto hanno poco a che fare.
 
Mi aggancio ad una tua frase per introdurre qualche riflessione sul rapporto (ahimè inesistente) fra lo scrittore e la grafica del suo testo quando diviene “libro”.
 
Parto da questa frase: “Una battuta è breve se il tag cade nel campo visivo del lettore già quando inizia a leggere il dialogue. [] Le frasi vengono sì lette parola per parola, ma interi pezzi di frase vengono percepiti in un colpo solo, non appena lo sguardo si posa sulla pagina: abbiamo appena letto il “Ti” di “Ti amo”, ma nello stesso istante abbiamo anche percepito l’intera frase (“Ti amo”, sussurrò Daniela) per cui già alla lettura del “Ti” sappiamo che a parlare, anzi a sussurrare, è Daniela”.
 
Già in un altro modulo, quello dove si accennava agli standard di scrittura, avevi declinato alcuni concetti base di pulizia grafica del testo, come ad esempio la necessità di suddividere in paragrafi, per accompagnare il lettore ed evitare i muri di testo.
 
Rispetto al modello più accreditato, le funzioni del sistema visivo coinvolte in lettura sono molte ma fra quelle che ci interessano ricordiamo quella oculomotoria (i piccoli movimenti oculari – saccadi – intercalati da soste – fissazioni), accomodativa (fondamentale per la visione prossimale, quella che si realizza leggendo un testo in un libro) e viso-spaziale (le famose strutture a “F” oppure a “Z” che riproducono il “disegno” tracciato all’istante dai nostri occhi appena si appoggiano su una pagina scritta). Dalle analisi su come il sistema visivo si rapporta alla pagina vengono fuori dei dati interessanti, che possono dirci qualcosa anche mentre scriviamo o, più probabilmente, quando editiamo (?).
 
Innanzitutto, i cosiddetti lettori fluenti (che non significa divoratori di libri, ma persone che hanno completato il percorso di letto-scrittura e quindi non leggono per imparare a leggere, ma leggono per avere in cambio un significato) non concentrano la visione sulla parola intera, piuttosto su pezzi di parole, ipotizzando (tecnicamente, anticipando) il significato della frase.
 
I movimenti oculari rallentano, e il sistema visivo si concentra sull’elemento “parola” solo quando il cervello si accorge (auto-monitoraggio) che le sue approssimazioni, le anticipazioni, le ipotesi formulate rispetto al senso della frase non hanno senso a loro volta. Se stiamo leggendo parola per parola, è perché abbiamo già la percezione che qualcosa sia andato storto durante la fase di approssimazione precedente. Il che è confermato da altri dati: un lettore adulto fluente “sbaglia” (legge qualcosa di diverso da ciò che il testo dice) per un 20-40% del tempo di lettura.
 
Sono paradossalmente questi errori che consentono l’efficienza nella lettura. Quando ai tester viene chiesto di leggere parola-per-parola, e il margine di errore si abbatte anche sotto il 5%, ecco che iniziano i problemi “veri”: il cervello non applica strategie fonetiche, non salta parole, non è efficiente a trovare sinonimi quando perviene a parole che non conosce e così via, sino a far rilevare prestazioni nettamente deficitarie rispetto a quelle misurate dallo stesso tester durante una lettura “libera”.
 
Chi ci legge anticipa un significato (e da qui la bontà della tua osservazione circa il nome del personaggio che parla, il quale dev’essere apposto nel campo visivo del lettore, ad esempio, se non è evidente di per sé), chi legge si basa sul contesto per dare senso a parole e frasi; chi legge fonda il suo percorso dalla sensazione visiva alla “restituzione di significato” basandosi su indizi, indicatori logici, parole di collegamento, avverbi, tutti elementi che gli servono a formulare le suddette ipotesi, che saranno verificate col procedere della lettura.
 
I succitati movimenti oculari non sono continui lungo la riga del testo, ma saltano qui e lì tra le sillabe alla ricerca di questi indizi, indicatori logici e parole di collegamento. A ogni saccade (mediamente da 20 a 40 m/sec.) lo sguardo avanza di circa 2 gradi (che corrispondono a circa 7-9 caratteri) mentre ogni fissazione (di durata variabile in relazione a una molteplicità di fattori) corrisponde all’estrazione delle informazioni contenute nel testo. Più il lettore è abile, più il rapporto saccadi-fissazioni cambia: un daily reader ha fissazioni più brevi e saccadi più ampie di un lettore sporadico. Un bambino di prima elementare, mediamente, esegue 50 saccadi regressive (da destra a sinistra, per riesaminare quanto già letto alla ricerca di conferme/smentite) ogni 100 parole, uno studente di quinta superiore a parità di parole ne esegue 15.
 
Perché questa divagazione? Perché la lettura non è una decodifica rapida e automatica del segno grafico, bensì una capacità di risolvere con efficacia una serie di problemi, attraverso l’applicazione di una serie di strategie. Verrebbe da chiedersi che lettore sia il nostro lettore tiepido. Sono stati elaborati vari indici per valutare la leggibilità di un testo, ad esempio quello Gulpease, che ha il pregio di essere stato modellato in modo specifico per la lingua italiana. Il nostro lettore tiepido ha il diploma, un PHD o la licenza elementare? La domanda è provocatoria, ma non del tutto peregrina.
 
I movimenti oculari in lettura sono estremamente fascinosi da studiare: è acclarato che lo sguardo non si posa su tutte le parole. Questo dipende sia dalla lunghezza che dalla funzione della parola stessa: le parole che hanno un "contenuto" (nomi, verbi) sono fissate per l'85% del tempo, mentre quelle funzionali (ad esempio preposizioni, congiunzioni) lo sono per il 35% del tempo. Non stupisce, eppure se ne deduce una cosa rilevante: esiste una relazione fra la lunghezza delle parole e la probabilità che esse vengano fissate: più le parole che usiamo sono corte, più è facile che vengano saltate. Invece, i segni di interpunzione, sono veri e propri “pilastri” in lettura: fanno parte di quell’insieme di “indizi”, indicatori logici, etc., che servono al cervello per anticipare. Per quanto talebano tu possa apparire, anche questa è un’affermazione perentoria che difficilmente può essere smussata: hai letto alcune delle parole che ho scritto, hai registrato tutti i segni di interpunzione presenti nel testo.  

Quando leggiamo, leggiamo due volte: la prima lettura la fanno gli occhi, scegliendo quali parole fissare e quali saltare. Sulla base di tale scelta arbitraria del nostro sistema visivo, subentra la lettura del cervello, che ricompone le immagini e ricostruisce il senso del testo. Mi viene da pensare che certi integralisti, come quelli della "prosa paratattica", potrebbero focalizzare meglio le proprie riflessioni, perlomeno aggiornarle, ottimizzarle.
 
Altre considerazioni, grafiche, che potrebbero essere utili: ci siamo mai chiesti perché, al netto dei margini di stampa, il testo è "riquadrato" da diversi centimetri di bianco? Per i motivi suesposti. Gli occhi sono grati per quel bianco, che è un luogo riposante: l’occhio esige alcune aree neutre ove riposare mentre passa da una riga all'altra. Nel linguaggio grafico, importare il testo di modo che sia riposante si chiama impaginazione modulare: la gabbia tipografica viene creata per suddividere la pagina in orizzontale e in verticale, creando appunto spazi modulari, facilitando la lettura.
 
Spazio bianco significa riposo, perché mai non possiamo provare a sfruttare questo fattore (vuoto=riposo) in base alle nostre esigenze, in base alle esigenze della nostra storia? Gli occhi del mio lettore possono aver bisogno di un riposo ulteriore rispetto a quello dei margini, o a quello “dovuto” dagli a capo, dai nuovi paragrafi e capitoli.
 
Se il mio lettore è affaticato, (e io dovrò intuire, mentre scrivo, se lo sto “affaticando”, dovrò intuire come e quanto lavorano i suoi occhi, il suo cervello) io sento l’esigenza di farlo riposare. Preferisco, forse, contravvenire ad uno standard che lasciare che il lettore si riposi a modo suo, cioè chiudendo il libro e accendendo Netflix.
 
Risparmio la duplicazione di tali studi sui movimenti oculari davanti allo schermo, quindi le specifiche della lettura di un e-book, ad esempio. Basti pensare che ormai tutti gli smartphone, sulla base di tali studi, applicano il marketing pattern di default, ossia impaginano sulla base dei punti di fissazione oculare prevedibili mentre la pagina viene scrollata. Li risparmio, anche se sarebbe arrivata l’ora di applicare le conoscenze più raffinate che abbiamo circa la lettura non solo per fini commerciali, come invece si sta facendo con l’eye tracking applicato al neuromarketing, o per decidere dove inserire i banner commerciali in un sito internet o se è meglio che la testimonial guardi l’obiettivo o il prodotto “testimoniato”, per avere in cambio vendite più cospicue.
 
Ricordo di aver letto qui nel blog che è stupido (forse non hai usato la parola "stupido") non sfruttare in scrittura tutti gli strumenti a disposizione, proprio perché ne abbiamo davvero pochi. Albe Steiner, che non abbisogna di presentazioni, nel 1978: “Il formato del libro deve essere scelto secondo la sua destinazione ed il suo uso, i tipi e i corpi dei caratteri tipografici scelti in relazione alla lunghezza delle righe, devono corrispondere a criteri igienistici di leggibilità dello stampato secondo le leggi […] e se queste non sono sufficienti o incomplete studiarne e proporne altre migliori”.
 
         
 
È confortante avere dei riscontri formali alle proprie intuizioni. A volte si tende a sottovalutare questo aspetto, perché ci si dimentica di quante volte le proprie intuizioni si rivelano ingenue, fallaci, prive di senso, una volta analizzate a dovere. Sapere che non è “solo un’intuizione”, ma un dato di fatto convalidato, rassicura parecchio.

Quanto all’identikit del lettore tiepido – su cui giustamente si insiste, perché rappresenta il nostro target – il mio invito è a rimare un po’ più sfumati. Ha il diploma, un PhD o la licenza elementare? Non lo so.
 
Quel che posso dire – qualunque sia il suo titolo d studio e più in generale la sua cultura – è che ci sono n motivi per cui può continuare a leggere, e altri n motivi per cui può smettere. Se vogliamo includere il PhD tra gli n motivi per cui leggerà ancora, allora ci sarà sicuramente – anche se magari non lo conosciamo – un motivo opposto che lo spingerà ad abbandonare. Specularmente, se vogliamo includere la licenza elementare tra gli n motivi per cui può abbandonare, sappiamo che ce ne sarà un altro che lo compensa e lo invoglierà a continuare.
 
Con un lettore tiepido, insomma, si gioca sempre alla pari, quali che siano gli n motivi a favore e gli n contrari. O meglio: si parte sempre alla pari, perché poi, quando il gioco inizia, l’abilità sta nell’avvalersi della capacità di scrittura e sceneggiatura per sparigliare le carte, per far sì che – grazie alla scrittura e alla sceneggiatura in sé – le chance che prosegua nella lettura siano maggiori del 50%.
 
         

Giusto una chiosa – ma di ampio respiro – per provare a capire i motivi alla base del disagio di molti aspiranti autori verso i dialoghi (al punto che talvolta – lo vedremo – i formatori arrivano a proporre corsi interamente dedicati).
 
La scrittura che propagandiamo è realizzata tutta e solo con cinque mattoncini narrativi: azioni, [A]; pensieri, [P]; dialoghi, [D]; percezioni sensoriali, [PS]; percezioni psicologiche [PP].
 
Ogni mattoncino concorre allo stesso obiettivo: impostare la storia, svilupparla e portarla a conclusione. Possiamo pensare ai mattoncini come ai giocatori di una squadra di calcetto: ruoli e compiti diversi, ma tutti accomunati dallo stesso scopo – alto e generale – e cioè far goal e non subire goal.

Un dialogo (il mattoncino [D]) è quindi semplicemente un elemento della squadra. Resto perplesso, quando sento dire che lo scopo primario di un dialogo è “trasmettere informazioni sul personaggio”, oppure “comunicare gli obiettivi del personaggio”, o ancora “chiarire le relazioni tra personaggi”. Perché gli stessi obiettivi vengono assolti anche dalle azioni [A], dai pensieri [P] e dalle percezioni [PS] e [PP], sebbene in modo diverso.

Chi sente la necessità di un mini-corso sui dialoghi (su [D]), è probabile che ben presto finisca col chiederne uno sulle percezioni sensoriali (su [PS]), e poi uno sui pensieri ([P]) e infine anche sulle azioni ([A]) e le percezioni psicologiche ([PP]).

C’è qualcosa che non va, se abbiamo imboccato una strada che ci porta a frantumare l’apprendimento in una molteplicità di mini-corsi dedicati, ognuno guidato dalle sue regole specifiche, anziché seguire un solo corso, unitario, che soggiace a pochi principî generali da cui derivare poi una norma di condotta valida a 360 gradi. Frantumare l’apprendimento è un problema perché ci fa ritrovare in mano tanti prontuari, che se pure fossero validi di per sé, finiranno fatalmente con l’entrare in conflitto, quando li dovremo mettere assieme, non avendo chiara la struttura comune a cui rispondono.

Ma allora perché – in tanti – sono ossessionati dai dialoghi, al punto da reclamarne un insegnamento dedicato?

Riprendendo il paragone del calcetto, è come se l’attaccante fosse considerato un giocatore “più importante” perché è lui che più probabilmente segnerà i goal. E si dimentica tutto il lavoro di squadra, per portare l’attaccante a segnare. E si dimentica l’importanza della fase difensiva. Ci si dimentica, cioè, che una squadra non è la semplice somma delle individualità, che “il fare squadra” sta più nella qualità delle interrelazioni più che nel vlaore dei singoli elementi.

Per tornare alla narrativa, ci si dimentica che la forza di una scena (o anche di una micro-scena) non è tanto o solo nei singoli mattoncini, quanto nella loro corretta e più efficace messa in sequenza, nel cosiddetto flusso narrativo.

La scrittura dei mattoncini è una sequenza di scene, e in ogni scena – per definizione – deve essere presente un personaggio “Punto di Vista”, perché è solo attraverso l’intermediazione del “Punto di Vista” che si può accedere al mondo narrativo.

Possiamo classificare le scene in due tipologie:
 
1: quelle in cui il “Punto di Vista” è isolato (e allora, di regola, sarà in conflitto contro l’ambiente o contro il tempo);
 
2: quelle in cui il “Punto di Vista” è insieme ad altri personaggi (coi quali interagirà necessariamente attraverso il dialogo, più o meno lungo, ma sempre presente).
 
In una storia – di rgola –  le scene di tipo 2 sono più numerose di quelle di tipo 1, ed ecco perché in molti bramano un corso sui dialoghi: semplicemente perché – nella scrittura dei mattoncini – si troveranno a scriverne molti, e dovendone scriverne molti, desiderano sapere come farlo al meglio.

Ma il mattoncino [D] del dialogo non è diverso da qualsiasi altro mattoncino narrativo ([A], [P], [PS], [PP]) nella sua filosofia di base. A ogni mattoncino si dà forma con l’ingrediente del conflitto, e nel caso del dialogo serve aggiungere l’obliquità (nello scambio di risposte). Stop, fine.

Qual è allora il problema? Quello già segnalato nel modulo: che conflitto e obliquità bisogna imparare a dosarli.

Se crei dialoghi dove c’è solo conflitto, e non c’è obliquità, produrrai l’equivalente di una scazzottata.

Sei crei dialoghi dove c’è solo obliquità, e non c’è conflitto, produrrai l’equivalente di una discussione tra pazzi.

Se crei dialoghi dove c’è troppo conflitto e troppa obliquità, produrrai l’equivalente di una scazzottata tra pazzi.

Se crei dialoghi dove c’è poco conflitto e poca obliquità, produrrai l’equivalente di una discussione ordinaria (priva di valore narrativo).

Ecco, quindi, perché può essere utile un corso sui dialoghi: per imparare a dosarne i due ingredienti.

Però bisogna riportare l’eventuale corso sui dialoghi a ciò che è realmente: un allenamento specifico, particolare, ai margini dell’allenamento generale che deve rimanere il riferimento esclusivo.

Per riprendere l’esempio calcistico, si racconta che Nils Liedholm – l’allenatore della Roma degli anni ’80 – obbligasse Ciccio Graziani, ad allenamento finito, a palleggiare contro il muro alternando il piede destro e il sinistro (palla sul muro col destro, torna indietro e la ribatti col sinistro, torna indietro e la ribatti col destro, e avanti così per venti minuti buoni) perché il buon Ciccio Graziani, pur giocando in serie A, aveva i “piedi fucilati”, e doveva migliorare il tocco di palla.

Okay, d’accordo, posso pure palleggiare per venti minuti contro il muro (= fare il corso sui dialoghi) ma l’allenamento in vista della partita (= studiare scrittura e sceneggiatura) è tutt’altra cosa, e in un certo senso già incorpora il palleggio contro il muro, anche se non lo si vede in modo esplicito; e allora – a volte, in alcuni casi problematici (= scrittori deboli) – può essere “utile” isolarlo dal resto.

 

 
Il precipizio dell’amore di Mariangela Tarì – da cui ho stralciato un passo – non è l’ennesima storia di una persona su cui la vita si abbatte con una violenza inaudita. Il libro non ha nessuna velleità artistica (“Solo appunti di una madre”, recita il sottotitolo) e tuttavia è infinitamente superiore alla totalità della narrativa che si trova sugli scaffali delle librerie.

La sua forza non è nell’essere “una storia vera”, come può pensare solo chi cede alla più banale delle interpretazioni. La tv ci rimanda ogni giorno decine di storie vere – di drammi, di sofferenze, di dolore – che non ci tolgono né appetito né sonno. È brutto dirlo, ma è onesto riconoscerlo: quando si cena davanti a un telegiornale, si è più infastiditi da un’insalata mal condita, che non dalle immagini di migranti in mare o bambini morti.

Il meccanismo di condivisione del dolore non è banale. Noi possiamo pure commuoverci davanti a un dramma, e sul momento provare anche ammirazione per chi lo sta affrontando, con le sue forze, con le sue capacità. Ma questo non basta a segnarci nel profondo. Quando la narrazione finisce, tiriamo un sospiro e ci rituffiamo nei nostri affari come niente fosse, magari col retro-pensiero “fortuna che non è successo a me”.

Non ci basta vedere qualcuno affrontare il dolore, per condividerne lo stato d’animo. Abbiamo bisogno che quel dolore venga messo in prospettiva, che acquisti un significato.

Questo è esattamente ciò che è riuscita a fare Mariangela Tarì, nella vita prima e col suo libro dopo. “Il dolore è come l’amore, una potenza creatrice” – leggiamo nella prima pagina d’introduzione – “Quando è troppo forte deve diventare qualcos’altro”.

“Diventare qualcos’altro” è il cardine di ogni narrativa, di ogni sceneggiatura, come spiegato nei moduli 18A e 23).

     
 
… voglio gridarmelo: ce la farai, Mariangela. Non morirai di dolore”. Ecco il punto. Spesso restiamo distanti dalle sofferenze altrui è perché abbiamo la sensazione che quelle persone, per quanto stiano lottando, finiranno col “morire di dolore”, e noi invece vogliamo vivere, non morire di dolore con loro.

Quel che Mariangela è riuscita a fare – nella vita prima, e a trasporre nel suo libro dopo – è stato mettere in prospettiva il dolore, consegnargli un significato che tutti possiamo condividere, per quanto sgomento possa provocare all’inizio. “Accettare di essersi evoluti in qualcosa di positivo a causa della malattia di un figlio provoca nausea all’inizio”.

E ritornano il cambiamento, la trasformazione.

Il libro non ci parla del dolore tout-court del dolore punto e basta. Il libro ci parla della più travagliata e turbolenta delle trasformazioni, ma proprio per questo splendida ed educativa.

La storia di Mariangela e dei suoi figli, come si legge nell’introduzione, “è una storia grande perché ci riguarda tutti”, in cui tutti possiamo riconoscerci.
 
 
 
Quel che Mariangela è riuscita a fare – nella vita prima, e a trasporre nel suo libro dopo – è stato mettere in prospettiva il dolore, consegnargli un significato che tutti possiamo condividere, per quanto sgomento possa provocare all’inizio”.

In queste tue anticipazioni sulla sceneggiatura, che hanno il pregio di dare sostanza a quella circolarità dell'apprendimento di cui si è parlato tempo addietro, sono contenuti dei trampolini che  a lasciarsi trasportare oggi  permettono balzi spettacolari.
 
Questo tuo commento in particolare, saltandoci sopra, mi ha riportata a Ernesto de Martino e al suo concetto di presenza: “esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, trascenderlo in un valore particolare che definisce insieme la presenza come ethos (comportamento) fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto”.
 
Mettere in prospettiva il dolore – come dici – per dotarlo di un significato “di comunità”; dare al dolore e alla sofferenza una “posizione nella storia della comunità” è una delle questioni proto-filosofiche che accompagna l'uomo e si evolve con lui.
 
 
 
Questa citazione di Ernesto de Martino la possiamo vedere come la colorazione poetica del cosiddetto “arco di trasformazione del personaggio”.

Ed è molto importante recuperare queste sfumature, perché uno dei problemi della “didattica dell’arco” sta proprio nelle modalità di presentazione, ora fredde e asettiche, quasi meccaniche, ora inutilmente enfatiche, quindi distrattive; e invece serve senso della misura, dare peso a tutto e solo ciò che lo merita, così da apprezzarne il fascino.

Con un po’ di lavoro si potrebbe arrivare a collegare ogni passaggio della citazione di de Martino ai concetti tecnici di tema e premessa, di difetto fatale e posta in gioco, di midpoint ed esperienza di morte.

 

 
Vorrei aprire con delle citazioni estrapolate, poiché piacciono anche a te (arrivati al modulo 14 posso dirlo senza timore di sbagliare: le citazioni ti piacciono, e piacciono anche agli autori che citi e contro-citi). Forse questi spunti ci aiutano a scavare un solco comune dove passeggiare insieme, provando a goderci il viaggio, anziché piazzare cavalli di frisia ad ogni crocicchio.
 
Il primo autore che riporto – che senz’altro conosci e certamente ricordi, al netto di botte in testa estemporanee – nel 2023 ha dato questo consiglio ai suoi studenti aspiranti scrittori: “Più che leggi, leggi, leggi, il consiglio per chi vuol scrivere bene dovrebbe essere vivi, vivi, vivi: perché la scrittura attinge al giardino della vita, perché il dato di realtà è sempre il punto di partenza della scrittura, anche quando poi questo spazio viene trasfigurato in luoghi e personaggi immaginari”. Nella sua lezione ha citato anche Thoreau: “Com’è inutile sedersi a scrivere se non ti sei prima alzato a vivere”. In precedenza questo autore (non Thoreau) aveva anche sostenuto che: “Possedere una verità soggettiva – di cui persuadere il lettore – rimane il presupposto, il passaggio preliminare alla scrittura”.

Il secondo autore che ti cito è Massimiliano Parente, in una intervista del 2017 su Crapula.
 
Domanda (di Alfredo Palomba): E tuttavia, ha ancora senso credere ne La Grande Opera, in una natura intoccabile, vagamente venata di sacralità, di un’opera scritta? Alla luce anche di un romanzo come L’inumano (nel quale, peraltro, getti simbolicamente la Divina Commedia nell’Arno) che senso ha parlare ancora di Opera, di Grande Romanzo etc.; per esteso, di una letteratura che non sia mero intrattenimento e basta?
 
Risposta: La letteratura, in generale, mi interessa quando ha anche un valore epistemologico, cosa che raramente ha perché i letterati sono chiusi in se stessi, non sanno un cazzo, quali orizzonti vuoi che aprano? E non vale neppure la distinzione tra intrattenimento e letteratura alta, perché a volte gli schemi saltano. Per esempio Origin, di Dan Brown, è una grande opera, un’opera d’avanguardia, che i critici e letterati non leggono perché pensano di essere più alti, invece sono solo una retroguardia senza speranza.

Stralcio da un’altra intervista, dell’anno precedente, su Zest.
 
Domanda: I tuoi libri si adattano ai lettori oppure i lettori devono adattarsi ai tuoi libri?
 
Risposta: Ogni lettore deve adattarsi a un libro, se è un’Opera, mentre se è il libro che si adatta al lettore significa che non vale la pena di leggerlo.
 
Qui Parente è stato – come spesso è – polarizzato in senso provocatorio. L’ha distinta sopra la cosa che conta: l’Opera dal libro di “intrattenimento”.

E poi Borges, ripreso dall’introduzione di The Charles Eliot Norton Lectures, 1967-1968, con traduzione personale: “Per cominciare, vorrei rendere il dovuto avvertimento su cosa aspettarsi, o non aspettarsi, da me. […]. Ho passato tutta la mia vita a leggere, analizzare, scrivere (provare a scrivere) e divertirmi. Trovo l’ultima attività, il divertimento, quella più importante di tutte. […] ho quasi settant’anni, ho donato tutta la mia vita alla letteratura e tutto quello che posso offrire in cambio, sono: i miei dubbi”.
 
 
 
Questo campionario di citazioni, il modo in cui sono state intersecate, delinea un itinerario di discussione che richiederebbe un modulo a sé.

Il vincolo di spazio mi obbliga a pizzicarne solo due.

“… se è il libro che si adatta al lettore significa che non vale la pena di leggerlo”.

Certo, chiaro. Noi leggiamo per diventare qualcun altro, per vivere – nel mondo della pagina – un’esperienza che il più delle volte c’è preclusa nel mondo reale, e che ci sia da insegnamento. Quindi, sì, siamo sempre noi – lettori – a dover compiere il primo passo verso il libro, ad avvicinarci al libro, e non viceversa.

Dopodiché, da autori, dobbiamo però chiederci in tutta onestà cosa stiamo facendo noi – con la nostra storia, con la nostra scrittura – per mettere in moto il lettore, per condurlo a noi. Perché, sì, da un lato, leggiamo per vivere un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso, dall’altro però non è mai facile per nessuno dismettere il nostro paio d’occhiali attraverso cui filtriamo il mondo, per indossarne di nuovi.

Non bisogna perciò vedere il lettore come “un povero scemo che non c’arriva”, se non ha apprezzato la nostra storia. Vi assicuro che 99 volte su 100 il problema è nostro – degli autori – perché noi per primi abbiamo tradito il precetto fondamentale del “diventare qualcun altro”. Lo vedremo – mi auguro con sufficiente chiarezza – nel modulo 18A.

Due parole, poi, sul “divertimento”, l’attività “più importante di tutte”, che però viene citata solo alla fine, dopo “leggere, analizzare, scrivere”. Un caso? Non lo so, ma sicuramente la sequenza è corretta.

Il divertimento della scrittura è una forma di divertimento sofisticata, che presuppone una non banale fase preparatoria (lettura, analisi, tentativi di scrittura) in ultima analisi fondata sulla curiosità.

Se non provi curiosità per ciò che sta accadendo sulla pagina, se la scrittura non ti sta rivelando nulla di nuovo, allora significa che stai solo replicando te stesso: scrivere – citando Pontiggia a memoria – è pensare con la penna, perché la testa sa poco di ciò che la mano scrive, e deve scoprire quel che la penna vuol dire.
 
 
 
Nel tuo pizzicare, hai pescato un tema di importanza capitale, vero e proprio pilastro, sul quale anche in questo blog io ho spesso ribattuto ogni volta che ne ho avuto l'occasione, provocando e chiedendo sempre una parola in più: il lettore.
 
Per lui [lo scrittore] quel tema ha senso, ha significazione. Ma se tutto si riducesse a questo, servirebbe a poco; adesso, come ultimo termine del processo, come giudice implacabile, sta aspettando il lettore, anello finale del processo creativo, compimento o fallimento del ciclo. […]
 
Gli scrittori di racconti inesperti sono soliti credere al miraggio di immaginare che basterà loro scrivere in modo scorrevole e piano un tema che li ha commossi per commuovere a loro volta i lettori.
[…]
 
Col tempo, con gli insuccessi, lo scrittore di racconti, capace di superare quella prima fase ingenua, impara che in letteratura non bastano le buone intenzioni. Scopre che per tornare a creare nel lettore quella commozione che ha portato lui a scrivere il racconto, è necessario un mestiere di scrittore e che quel mestiere consiste, fra molte altre cose, nell'ottenere quel clima proprio di ogni grande racconto, che costringe a continuare a leggere, che cattura l’attenzione, che isola il lettore da tutto quanto lo circonda per poi, terminato il racconto, restituirlo alla sua circostanza in un modo nuovo, arricchito, più profondo o più bello.
 
E lunico modo in cui si possa ottenere quel sequestro momentaneo del lettore è mediante uno stile basato sullintensità e sulla tensione, uno stile in cui gli elementi formali ed espressivi si adattino, senza la benché minima concessione, all’indole del tema, gli diano la sua forma visiva e uditiva più penetrante e originale, lo rendano unico, indimenticabile, lo fissino per sempre nel suo tempo e nel suo ambiente e nel suo senso più primordiale. Ciò che chiamo intensità in un racconto consiste nell'eliminazione di tutte le idee o le situazioni intermedie, di tutti i riempitivi o le fasi di transizione che il romanzo permette e addirittura esige. […]

Contrariamente all'ottuso criterio di molti che confondono letteratura e pedagogia, letteratura e insegnamento, letteratura e addottrinamento ideologico, uno scrittore rivoluzionario ha tutto il diritto di rivolgersi a un lettore molto più complesso, molto più esigente in materia spirituale di quanto immaginino gli scrittori e i critici improvvisati dalle circostanze e convinti che il loro mondo personale sia l’unico mondo esistente, che le preoccupazioni del momento siano le uniche preoccupazioni valide.
[…]

Io ho visto l’emozione che presso la gente semplice provoca una rappresentazione di Amleto, opera difficile e sottile come poche, e che continua a essere oggetto di studi eruditi e di infinite controversie. È vero che quella gente non può capire molte cose che appassionano gli specialisti del teatro elisabettiano. Ma che importa? Soltanto la loro emozione importa, il loro stupore e il loro trasporto dinanzi alla tragedia del giovane principe danese.
[…] naturalmente, sarebbe ingenuo credere che ogni grande opera possa essere compresa e ammirata dalla gente semplice; non è così, e non può esserlo. […]
 
Non si fa nessun favore al popolo se gli si propone una letteratura che possa assimilare senza sforzo, passivamente, come chi va al cinema a vedere un film western. […]. I loro temi [degli scrittori cubani post rivoluzionari] conterranno un messaggio autentico e profondo, perché non saranno stati scelti per un imperativo di carattere didattico o di proselitismo, bensì per un’irresistibile forza che si imporrà all’autore e che questi, appellandosi a tutte le risorse della sua arte e della sua tecnica, senza sacrificare nulla a nessuno, dovrà trasmettere al lettore come si trasmettono le cose fondamentali: da sangue a sangue, da mano a mano, da uomo a uomo”.

Questo per Santoni è un Autore di cui si può estrapolare il concetto secondo il quale “a scrivere non si insegna”?
 
 
 
 
“… nell’ottenere quel clima proprio di ogni grande racconto”.

Tutta la storia della narratologia la si potrebbe mettere in prospettiva muovendo da questa frase, da riproporre come domanda: come fare ad ottenere quel clima proprio di ogni grande racconto?

Per secoli si è creduto che questo fantomatico “clima” fosse il portato di un immaginifico “talento naturale”, di una “predisposizione innata”, di qualcosa di indefinito e indefinibile che forse avevi (e potevi allora coltivare) ma più probabilmente non avevi (e quindi non c’era nulla da fare).

La narratologia, sostanzialmente, ha voluto sottrarre la progettazione e la scrittura delle storie alla superstizione del “talento naturale”, della “predisposizione innata”. Ha quindi passato al setaccio tutte le opere, con spirito critico e attenzione ai dettagli, per capire “cosa” funzionava, “perché” funzionava, e “quando” funzionava. Il risultato di questo lavoro ultradecennale lo troverete nel modulo 23.

Va da sé che sapere “cosa fare” non implica in automatico sapere pure “come farlo”, e questo delta tra il “cosa” e il “come” – ineliminabile e benefico – viene talvolta strumentalizzato per riportare la scrittura e la sceneggiatura all’epoca buia del “talento naturale” e della “predisposizione innata”.

Perché alla fine, sì, la credenza nelle streghe e nella stregoneria mantiene sempre il suo fascino…
 

 
Ho un bisogno quasi fisico di citare Julio, perché il “tuo” Santoni ha estrapolato una domanda da una lunga intervista (una serie di interviste, per la verità) di Llosa, che evidentemente alla sediata è sopravvissuto (almeno il tempo necessario per prendere il Nobel).
 
Inoltre, al netto del dissing con Santoni che mi interessa zero, ho la necessità di chiarire perché tu, Blogger, non hai bisogno di agire come Santoni per dimostrare che Santoni medesimo è indietro sulla realtà che vive, mentre Julio essendo sotto terra da 39 anni non deve dimostrare più un cazzo di niente a nessuno. Santoni estrapola una domanda fatta da Llosa a Cortázar nel 1965.
 
Peraltro, è stata tagliata la frase finale della risposta che è la seguente: “Potrebbe anche darsi che la sediata sia mortale, e allora ci sarebbe un epigono in meno”.
 
Sospetto che la difficoltà della parola “epigono” abbia convinto Santoni a finirla prima, la sua estrapolazione, in linea con il famoso principio di allineare quel che il lettore sa con quel che lo scrittore scrive, e magari per Santoni “epigono” era un po’ troppo, pensando a chi avrebbe letto il suo libro sul perché la scrittura non si insegna.
 
Poiché conosco l’intervista in oggetto, poiché so (ad esempio) che Julio si riferiva al racconto e non al romanzo (disse Julio ai tempi: “il romanzo, genere molto più diffuso, sul quale abbonda la precettistica…”); poiché ho financo imparato a leggere in spagnolo da autodidatta pur di leggere Cortázar nella sua lingua, non sarei arrivata al capitolo 1 del libro del Santoni.
 
Io ti propongo un estratto da “Alcuni aspetti del racconto”, che si trova in Bestiario ed è la trascrizione di alcuni interventi fatti a Cuba da Cortázar nel 1962-63. Teniamo per favore ferma la storia per quanto possibile: Cortázar produce dal 1948 al 1980 circa, è un autore “contaminato” se si pensa agli scrittori porteñi dello stesso periodo, figlio un diplomatico, nasce a Bruxelles, torna a Buenos Aires, città che lascia con l’avvento del peronismo. Infilare una citazione di Cortazár a secco in un dibattito che gli è stato sostanzialmente postumo (dal punto di vista dello svolgimento e per quanto concerne il panorama italiano), in termini intellettuali, non è dissimile da una penetrazione anale non consensuale. Si vede che a Santoni piace, che ti devo dire? A me fa schifo.
 
Ecco il brano che ti propongo, invece.
 
Poiché mi occuperò di alcuni aspetti del racconto come genere letterario, ed è possibile che qualcuna delle mie idee sorprenda o traumatizzi coloro che ascoltano, mi pare di un’elementare onestà definire il tipo di narrazione che mi interessa, accennando al mio particolare modo di intendere il mondo.
 
Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere chiamato fantastico per mancanza di un termine migliore e si contrappongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose si possano descrivere e spiegare come dava per scontato l’ottimismo scientifico e filosofico del diciottesimo secolo, e cioè, nell’ambito di un mondo retto più o meno armoniosamente da un sistema di leggi, di principî, di rapporti causa-effetto, di psicologie definite, di geometrie ben cartografate.
 
Nel mio caso, il sospetto che un altro ordine più segreto e meno comunicabile, e la feconda scoperta di Alfred Jarry, per il quale il vero studio della realtà non risiedeva nelle leggi bensì nelle eccezioni a tali leggi, sono stati alcuni principî orientativi della mia ricerca personale di una letteratura a margine di qualunque realismo troppo ingenuo.
 
Perciò, se nelle idee che seguono riscontrerete una predilezione per tutto quanto è eccezionale nel racconto, siano i temi, siano, pure, le forme espressive, credo che questa presentazione del mio personale modo di intendere il mondo spiegherà la mia presa di posizione e il mio approccio al problema.
 
In ultima analisi si potrà dire che ho solo parlato del racconto tale e quale lo pratico io. E, tuttavia, non credo sia così. Ho la convinzione che esistano certe costanti, certi valori che si applicano a tutti i racconti, fantastici o realistici, drammatici o umoristici. E penso che forse è possibile illustrare qui delle invarianti che danno a un buon racconto la sua atmosfera peculiare e la sua qualità di opera d’arte”.
 
Questa gliela dovevo, non agisco come Santoni.
 
Ora però ti “spiego” con le parole sue, quelle di Cortázar, che cosa intendesse dire con la faccenda della sediata (siamo sempre su “Alcuni aspetti del racconto”).
 
Per veterano, per esperto che sia uno scrittore di racconti, se gli manca una motivazione viscerale, se i suoi racconti non nascono da una profonda esperienza personale, la sua opera non andrà oltre il mero esercizio estetico. Ma il contrario sarà ancora peggio, perché non servono a nulla il fervore, la volontà di comunicare un messaggio, se si manca degli strumenti espressivi, stilistici, che rendono possibile la comunicazione. […].
 
Quanto a me, credo che lo scrittore rivoluzionario sia quello in cui si fondono indissolubilmente la coscienza del libero impegno individuale e collettivo, con quell’altra sovrana libertà culturale che conferisce il pieno dominio del mestiere. […]
 
E pensiamo che uno scrittore non lo si giudica solo per il tema dei suoi racconti, o romanzi, bensì per la sua presenza viva in seno alla collettività, per il fatto che l’impegno totale della sua persona è una garanzia innegabile della verità e della necessità della sua opera”.
 
  

Ti ringrazio per il tempo speso a creare un contesto – sia temporale che culturale – con cui dare senso a frasi che altrimenti, esibite “in vitro”, apparirebbero delle semplici spiritosaggini. Non ho molto da aggiungere. Ognuno capirà da sé.

C’è però un passaggio che voglio staccare dal resto. “Ho la convinzione che esistano certe costanti, certi valori che si applicano a tutti i racconti, fantastici o realistici, drammatici o umoristici”.

Questo punto è decisivo.

Tutte le persone serie, quando si occupano in modo serio di cose serie, cercano tutte la stessa cosa: gli “invarianti”.

Tutti hanno sentito parlare della teoria della relatività di Einstein; in pochissimi la conoscono, ma nell’immaginario collettivo si riduce a dire che “tutto è relativo”. Sì, d’accordo, può anche essere giusto dire così, ma ciò che Einstein cercava erano gli “invarianti”: in un mondo in cui tutto è relativo, quali sono i punti fermi, le cose che non cambiano mai, gli “invarianti” appunto?

C’è un intero settore della matematica – la topologia – fondata sul principio di invarianza. Immagina di disegnare una figura geometrica su una superficie gommata, quindi deformabile (allungabile, piegabile, contraibile, etc.). E ora chiediti: quali proprietà della mia figura saranno preservate, quando avrò storpiato a più non posso la superficie su cui si trova? Cos’è che non varia, quando tutto cambia?

L’intelligenza umana ha sempre cercato gli “invarianti”, ogni volta che ha voluto capire il funzionamento profondo di qualcosa, la sua essenza mi verrebbe da dire. Vale per tutto, e quindi anche per la progettazione delle storie, come vedremo nel modulo 23, che potremmo definire – a questo punto – “il modulo degli invarianti di una sceneggiatura”.
 
 
 
La scrittura creativa, come materia di studio, è un sottoprodotto della cultura statunitense, e di quella cultura si è nutrita per autonomizzarsi: è l’ennesima derivata del sogno americano, “creative, progressive, creative, progressive”.
 
La sua origine “colta”, per quanto oggi la si voglia spazzare sotto il tappeto, non può essere negata, neanche da coloro che la abbracciano nella sua declinazione più radicale (etichettando tutto quello che non corrisponde ai canoni come “literary fiction” e gettandolo al rogo dopo 20 righe di incipit): Emerson che parla di creative writing alla Phi Beta Kappa (una confraternita di Cambridge), English composition di Hill si teneva a Harvard, e poi Princeton, e via andando. Si trattava di letterati che si mettevano in cattedra in virtù della chiara fama, in virtù delle loro prodezze letterarie.
 
Le cose sono un po’ cambiate, anche negli Stati Uniti, figuriamoci in Europa dopo il recepimento della scrittura creativa come “materia di insegnamento”.

Bisogna capirci, però: quel che può essere insegnato, mi disse il primo autore citato in precedenza, è “racchiudibile in cinque e-mail”, anche se il percorso di apprendimento è generalmente molto più lungo e accidentato, in virtù di diversi fattori, per prima mi è stato riportata l’abitudine alla lettura di testi che, sul piano della “mera scrittura”, non contemplano il contenuto delle cinque mail (semplifico per chiarezza non per svilire il corso che sto frequentando, mi pare evidente).
 
La diatriba che hai riportato in questo intermezzo (a me più che un rifiatare dopo una sessione di ripetute in salita  i moduli precedenti  questo “intermezzo” ricorda le parole del mio personal trainer di qualche anno fa, dopo una sessione di allunghi: “adè se riposamo, famo un lento, dieci-dodici km, ma lento eh, riposamo i muscoli”, con codazzo di mie bestemmie in contrappunto), se la spogliamo delle ideologie, degli storicismi, delle prese di posizione partigiane, ha una sola cosa interessante da mostrarci: una storia scritta tecnicamente bene, tecnicamente all’avanguardia, è una storia scritta tecnicamente bene, che incontra quella “sensibilità odierna” che spesso nomini, e niente più di questo.
 
Questo è infinitamente di più rispetto a quel che si trova di norma esposto nelle nostre librerie? Sì. È un’operazione necessaria quella di diffondere una cultura della “buona scrittura” che inizi a rimarcare un solco che oggi non sembra più esistere - quello fra lo “scrittore” e “lo scrittore e…”, di cui parla spesso anche il mio Parente? Sì. È auspicabile che a salire in cattedra, e insegnare ad aspiranti scrittori “come si fa”, siano oggi dei professionisti della tecnica della scrittura (editor, ad esempio) e non gli “scrittori” (che diventano quindi “scrittori e insegnanti”, aggiungendo declinazioni a “scrittore e giornalista”, “scrittore e opinionista”, “scrittore e conduttore televisivo” fino ad arrivare a “scrittore e testimonial”)? Assolutamente sì.
 
In questo senso, Santoni non solo sbaglia, ma lo fa con chiarissima malafede, e il discorso invece è veramente interessante, ed è un peccato svolgerlo come fosse una sessione scadente di “debate” organizzata da ragazzini di seconda media.
 
Non usciamo dal solco sacrosanto che abbiamo tracciato, e diciamo questa cosa con la chiarezza necessaria: nessuna tecnica di scrittura (immersiva, trasparente, sensoriale, elegante, chiamala come vuoi tu) aiuterà uno scrittore a divenire un autore.
 
Le tecniche di scrittura, se interiorizzate, faranno quel che fa lo studio della partitura musicale all’autodidatta. O lo faranno desistere, perché si accorgerà che si diverte di più a strimpellare a orecchio (e che male c’è, anche quando dovesse strimpellare sul pianoforte “Play me” ormai presente in ogni stazione del treno o aeroporto) che a passare ore e ore a suonare “robaccia” tecnica); oppure gli faranno scoprire che dietro a quella sua inclinazione naturale, dietro alla propria “vanità” (l’autodidatta musicale, come lo scrittore autodidatta, magari è capace intuitivamente di riproporre allo strumento una melodia che ha sentito, pur non conoscendone la partitura, così come lo scrittore autodidatta può essere “intrinsecamente” capace di riprodurre  da epigono qualcosa “nei modi” in cui l’hanno fatto altri prima di lui) vanno stabilizzate come minimo delle misure “correttive” al proprio dilettantismo, che potrà spendere se ne sarà capace  durante la stesura di un testo. Come minimo.
 
Non siamo ancora arrivati alla sceneggiatura, ma onestamente parlando, nemmeno una conoscenza approfondita delle tecniche di sceneggiatura farà di uno scrittore un autore di un’opera. 
 
Il primo personaggio che ho citato l’ha detto con semplicità, è vero, una semplicità di cui però c’è molto bisogno: possedere una “verità soggettiva” è un prerequisito per la scrittura. Se esiste qualcosa che possiamo concettualizzare come “tratto distintivo dell’autorialità” (e non so se possiamo farlo) io teorizzo che sia questo, la propria verità, ognuno la chiami come desidera, ma è questa che nessuno può insegnare.
 
  
 
quel che può essere insegnato, mi disse il primo autore citato in precedenza, è “racchiudibile in cinque e-mail”, anche se il percorso di apprendimento è generalmente molto più lungo e accidentato
 
E lo confermo: un corso di scrittura, volendo, si può racchiudere in cinque mail, e si tratterebbe di cinque mail che non richiederebbero neppure di scorrere la pagina, perché il loro contenuti sarebbero interamente visibili nella schermata standard. 
 
Però attenzione a non cadere in un’inversione metodologica. 
 
Sì, dopo aver studiato decine di libri, seguito svariati corsi, e fatta parecchia pratica, si può arrivare a riassumere la propria conoscenza in non più di cinque brevi mail, ripetendo con lo scrittore austriaco Ferdinand Kürnberger – citato da Wittgenstein in esergo alla prefazione del suo Tractatus logico-philosophicus – “… e tutto ciò che si sa, che non si sia solo udito ruggire e rombare, può essere detto in tre parole”.

Dubito, però, che queste “tre parole” – o cinque mail che dir si voglia – possano essere didatticamente valide ed efficaci, per la semplice ragione che l’allievo non ancora realizzato quel duro apprendistato necessario a condensare il proprio sapere in “tre parole”.

Tre parole o cinque mail sono sufficienti a chi già sa (♫ vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già ♬ canta Guccini), e in un certo senso possono essere un test di comprensione (se, su richiesta, non lo sai dire in tre parole o in cinque mail, allora vuol dire che non l’hai capito).

Ma se bisogna insegnare a chi non sa – e per di più senza potersi appoggiare al suo background culturale, ma dovendolo in gran parte demolire – allora, sì, serve un intero corso, un intero blog, con spiegazioni anche lunghe e dettagliate, divagazioni sul tema, rimandi e agganci, esempi e controesempi, etc. etc. etc.

 
 
“Non siamo ancora arrivati alla sceneggiatura, ma onestamente parlando, nemmeno una conoscenza approfondita delle tecniche di sceneggiatura farà di uno scrittore un Autore di un’Opera”.

Stralcio questo passaggio per anticipare un concetto che si troverà meglio argomentato nel modulo di sceneggiatura, ma che vale – e in un certo senso a più forte ragione – anche per la scrittura.

La cassetta degli attrezzi dello scrittore – come si capirà a conclusione del modulo 15 – è davvero scarna. La scrittura, per così dire, è un’arte povera; le regole sono poche e semplici, e chiunque può impararle in breve tempo; altro, poi, è metterle in pratica.

Guardiamo agli scacchi, se il paragone può aiutare. Quanto tempo ci vuole a imparare le regole? Dieci minuti? Cinque? Due? Fatto. Ma poi “giocare a scacchi” è tutta un’altra storia…

La scansione logica potrebbe essere la seguente:
  • devi conoscere in profondità ciò di cui vuoi scrivere (modulo 4);
  • devi toglierti la testa l’idea sabotatrice che scrivere sia trascrivere (un’esperienza, una convinzione, un fatto) per entrare nella logica che scrivere è creare, inventare, scoprire le cose sulla pagina, grazie alla parola scritta;
  • devi rinunciare alla tua libera espressione, per capire che la comunicazione efficace segue degli schemi, che non stanno lì a mortificare la tua creatività, ma a valorizzarla (come ho sentito dire una volta, se le regole ti sembrano le sbarre di una prigione, è perché le stai guardando storte: in realtà sono i pioli di una scala).
 

 
Non si può chiudere l’appendice al modulo, senza aver dato almeno uno sguardo alla produzione artistica del maestro di scrittura secondo cui “la scrittura non si insegna”, ti pare?
 

 
Uhm… interessante… ma dov’è che l’ho già sentita questa storia?

Ah, sì! È il film A lupo a lupo, di Carlo Verdone.
 
 
 
Okay, d’accordo, non drammatizziamo, ché in fondo “si è sempre il plagiario di qualcuno”.

Lo diceva Byron, e non possiamo che prenderne atto: di originale in senso proprio può esservi solo la riconfigurazione di un insieme di elementi di per sé ben noti, ma nessun singolo elemento può essere di per sé originale (nel senso di “mai visto prima”).

Okay, d’accordo, andiamo oltre: apriamo pure l’anteprima disponibile gratuitamente su internet, e vediamo un po’ cosa troviamo.
 

Ah, però! Il romanzo si apre con un bel riferimento extra-testuale (messo di traverso, sic!) finalizzato a chiarirci la genealogia dei personaggi.
 
In fondo pure Umberto Eco piazza una bella mappa del monastero nel suo Il nome della rosa, quindi perché mai non posso fare anch’io qualcosa di simile?
 
Già, perché?
 
Beh, forse non puoi farlo perché tu – caro Santoni – non sei Eco, nel caso non te ne fossi accorto; e quando non si è Eco, ma solo un Santoni qualunque, e si sceglie comunque di ricorrere a riferimenti extra-testuali così pacchiani, il messaggio che passa è tutt’altro che tranquillizzante.
 
Okay, d’accordo, facciamo finta di niente e andiamo avanti.

 
O. Mio. Dio. 
 
Non ce la posso fare – proprio no – a commentare questo testo. Lascio a te l’incombenza, come sin troppo facile esercizio.
 
Mi limito semplicemente a richiamare le indicazioni sull’importanza della pulizia grafica.
 
Non sei Saramago, ma un Santoni qualunque, che con Saramago ha in comune soltanto le prime due lettere del cognome.
 
Non sei Saramago, non hai mai vinto nessun Premio Nobel per la Letteratura, quindi fai il cazzo di favore di racchiudere le battute di dialogo tra virgolette, come fanno tutti coloro che non sono Saramago e non hanno vinto nessun Premio Nobel.
 
E, per l’amor del cielo, vai a capo, dai aria alla pagina, evita i muri di testo!
 
Hai proprio ragione, caro Santoni: la scrittura non si insegna, perché il migliore insegnamento rimane l’esempio, e cosa mai può trasmettere un esempio come questo, se non l’indicazione a non fare nulla che vi si trova mostrato?

Spero che ora ti sia chiaro – caro lettore del blog – quale sia il vero obiettivo di stupidaggini del tipo “la scrittura non si insegna” e altri simili. Le si propagandano non già per offrire a te, studente, una ricca varietà di tecniche e possibilità stilistiche, bensì per praticare a sé stessi, insegnanti, sconti sempre più forti sul rigore imposto dalla buona scrittura moderna: imbarbariscono te, studente, per poter scrivere come pare a loro, insegnanti.
 

 
 
Di Santoni ne sbucano fuori a ogni angolo della rete.
 


 
E questa assurdità – per colmo d’impostura – vorrebbe rifarsi alla memoria di Giuseppe Pontiggia.


Ma il Signor Crotoneo – che usa il vezzeggiativo “Peppo”, per lasciar intendere un intima e confidenziale relazione con Pontiggia – ha mai letto le indicazioni dell’uomo a cui dedica il suo Manuale per principianti?
 
Magari le avrà pure lette, sì, ma con tutta evidena o non le ha capite oppure le ha capite al rovescio.

Estratto dalla “Lezione 7 – Ovidio e la scuola delle Muse”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Cosa si potrà mai trovare dentro il “Manuale” di questo Cotroneo, se già l’inizio è in cortocircuito rispetto a ciò che diceva “Peppo” Pontiggia, a cui lo ha dedicato? Passaggi come questo, ad esempio.


Ho volutamente troncato la citazione, vuoi perché non ha senso proseguire, vuoi per il sopraggiungere della nausea.

Ma come gli è venuto in testa, al Signor Crotoneo, di scrivere un Manuale di scrittura?


Ah, ecco. Il Signor Crotoneo vende corsi di scrittura, e col suo Manuale offre un assaggio gratuito delle sue conoscenze e competenze – com’è prassi – per attrarre clienti.
 
E chi saranno i clienti di Crotoneo? Gli stessi di Santoni, ovvio: quel vasto pubblico che s’illude di poter far a meno delle regole e – mirabile a dirsi – è disposto a pagare svariate centinaia di euro (se non di più) per sentirsi dire che, sì, in scrittura non ci sono regole (a differenza di tutti gli altri campi artistici).
 
Contro tutti i Santoni e i Crotoneo in circolazione – e troppi altri ce ne sarebbero da aggiungere – serve ribadire il ruolo centrale delle regole nel processo di scrittura cosiddetta “creativa”, il loro essere non già un prontuario di bello scrivere, ma la codificazione di pochi e semplici principî, che definiscono la teoria narrativa.

Lo lascio spiegare a Marco Carrara, il celebre Duca di Baionette, perché non saprei dirlo meglio.





Questa è la scrittura moderna, l’abito mentale da avere oggi per scrivere bene, per produrre la buona narrativa di oggi e del futuro.
 
 
 
Nei vari sotto-moduli si comincerà a intravedere una cosa che sarà via via più chiara andando avanti – sino a diventare manifesta nella parte di sceneggiatura – ma che se vogliamo è stata presente sin dai moduli iniziali.

Scrivere NON È scrivere.

Quando facevo palestra sul serio, il personal trainer mi ripeteva che, fatto 100 il risultato, 50 era da attribuire all’alimentazione, 30 al riposo e 20 all’allenamento.

L’allenamento in sé, il puro allenamento, era la cosa che contava meno di tutte, e si può dire che servisse solo a chiudere il cerchio.

Lo stesso vale con la scrittura: l’atto materiale di scrivere – piazzarsi davanti alla tastiera del pc, a schiacciare tasti – pesa al più il 20%, ed è ciò che in gergo si chiama “la sessione di scrittura”, che è una cosa diversa dalla “fase di scrittura”, a cui spetta l’80% dell’attività.

Questa distinzione – tra “fase di scrittura” e “sessione di scrittura” – sarà chiarita a conclusione del modulo 22, ma già ora ha il suo valore segnaletico: se non hai la sensazione forte che ci sia stato “qualcosa prima” dell’atto dello scrivere, se non avverti che questo “qualcosa” ti ha assorbito la maggior parte del tempo, allora, mi spiace, ma sei come uno che va in palestra, e magari carica pure “a bestia”, ma poi mangia da McDonald’s, si riempie di birra e fa ogni notte le tre, perché è bello così…
 
 
 

La stilistica è una disciplina fondamentale. Per tutti, ma in modo particolare per gli studenti di una lingua straniera: giocare con le parole, descrivere un profumo o raccontare un quadro (difendere una tesi assurda o scrivere una lettera formale) è importante; non solo per migliorare la grammatica e la sintassi (ed evitare errori come ‘vedo Marco correndo’ o ‘la casa è a pochi metri lontana’), non solo per arricchire il proprio vocabolario, ma anche per vedersi rispecchiati in uno stile, per vedersi diventare (nell’altra lingua) ciò che si è (nella lingua madre).
 
Di solito, quando si scrive, si presta più attenzione al contenuto che allo stile: ma non si dà peso netto senza tara
”.

Questo stralcio viene dalla Premessa del manuale Lezioni di stilistica per stranieri, di Giulia Tellini.
 
Chiunque abbia mai studiato con metodo una lingua straniera, con l’obiettivo generale di conoscere il mondo e farsi conoscere dal mondo attraverso – e grazie a – quella lingua (e solo come obiettivi specifici, eventualmente, quelli di superare un esame di lingua, o un colloquio in lingua per ottenere un posto di lavoro, o godere di un’opera nella precisa forma in cui è venuta alla luce) si è prima o dopo ritrovato con pensieri di questo tipo: “ormai conosco la grammatica, capisco gli altri e mi faccio capire, eppure non sembro io quando parlo e sento che non colgo appieno alcuni aspetti delle narrazioni che mi vengono fatte dalle persone intorno a me”.
 
Anche se il percorso di studio è auto-didattico, con un po’ di ragionamento e di buon senso, è possibile individuare il nodo (o i nodi) in cui la comunicazione nella nuova lingua sembra appiattirsi e rimanere superficiale: nel mio caso personale, io mi accorsi che non sapevo cogliere – e riprodurre – cose come il sarcasmo, se non condendo la narrazione con gestualità che mi facevano sentire svilita nei miei sforzi, che rappresentavano prima ancora della mia inflessione o del mio accento la mia identità “altra” (quella Italiana) che finiva per distaccarmi dai riceventi anziché avvicinarmi a loro.

Faccio l’esempio dello studio di una lingua straniera perché in questo blog si cerca di recuperare un’idea di scrittura che non somiglia per nulla a quella che possediamo alla fine del nostro percorso di apprendimento della letto-scrittura. Qui si porta avanti un’idea di scrittura verso la quale vanno mantenuti umiltà e rigore per non scambiare lucciole e lanterne.

Quindi, radere la tabula e calarsi nei panni nuovi (ancorché stretti) di uno studente che ha da apprendere una nuova lingua non per esprimersi correttamente e stop (tecnica, grammatica), ma per esprimere correttamente sé stesso (stile, voce) io lo trovo oltremodo coerente e utile. Va da sé che nessun insegnante di lingua italiana per stranieri dirà mai ad uno studente afghano che può dimenticarsi della “grammatica”, così come qui si sottolinea che non è possibile “liberarsi della tecnica” , per acquisire un “proprio stile”.

Credo che i manuali di stilistica italiana per stranieri siano dei prontuari utilissimi per uno scrittore di lingua italiana che si rivolge ad un pubblico italiano. Forse risulta contro intuitivo, ma basta sfogliarne uno per rendersene conto: lascio il link a quello da cui ho stralciato il passo, solo per coerenza interna del mio commento, non perché sia “superiore” o “inferiore” ad altri.
 
   

Il parallelo con l’apprendimento di una lingua straniera è sottile e crea un suggestivo gioco di specchi.

Muovo da una osservazione che può sembrare sorprendente, ma in realtà è banale: il linguaggio NON serve a comunicare.
 
Per comunicare non serve un apparato espressivo così esteso, ricco e articolato come il linguaggio.

Un gatto comunica tutto quel che deve comunicare con la posizione della coda, le fusa, i miagolii e i soffi; un neonato – il più delle volte – comunica tutto quel che deve comunicare con pianti e sorrisi.

Posso esibire un’esperienza diretta, indelebile.

Durante il servizio civile, in un istituto per disabili, mi fu affidata la sorveglianza estiva “a vista” di Ernesto, un ragazzo down e autistico. Il suo vocabolario contava cinque parole: “dignone” (contrazione di “Don Orione”, un centro in cui aveva trascorso l’infanzia, dove si era trovato molto bene, e che rappresentava quindi la massima espressione di gioia); poi c’erano le parole “si”, “bene”, “cacca”, “patate”; e infine la misteriosa e temibile “bigatta” (usata per esprimere un forte dissenso).

Le discussioni erano di questo tenore.

“Ernesto, tutto a posto?”
 
“Si.” (oppure “Sì, bene.”, o ancora “Sì, bene, cacca.”, in un crescendo di soddisfazione).

Oppure:

“Dai Ernesto, esci fuori dall’acqua: dobbiamo andare via.”

“Bigatta, eh!”

Può sembrare una provocazione – d’accordo: lo è, ma meno di quanto sembri – ma fatico a rintracciare discussioni altrettanto dense di significati, con i cosiddetti “normali”, come quelle avute con Ernesto in quella estate del 1999.
 
Il problema del linguaggio non è “farsi capire” (io capivo tutto di ciò che diceva Ernesto) ma “sentirsi sé stessi” quando ci si esprime, proprio come avviene in scrittura; e in entrambi i casi bisogna recuperare (o meglio: conquistare) modalità espressive che non assomigliano affatto a quelle che “naturalmente” possediamo (la lingua madre, nel caso del linguaggio; l’insegnamento scolastico nel caso della scrittura).

D’altra parte, a un livello terra-terra, basta leggere un articolo in inglese scritto da un inglese e un articolo in inglese scritto da un italiano: il primo è scritto realmente in inglese, il secondo è scritto in quella lingua che con un collega abbiamo ribattezzato “engletano” (parole inglesi, montate sulle strutture italiane).

Ma gli switch di paradigmi – si sa – non sono mai spontanei e richiedono un gran lavoro su sé stessi.
 
 
 
Sarebbe il caso che qualcuno più competente di me provasse a mettere a sistema le nuove conoscenze che abbiamo con l’obiettivo di rendere la “musica in narrativa”.
 
D’altronde, tutti i grandi si sono cimentati in questa sfida, è necessario continuare a provare. Musica e narrativa sono, fra le arti, quelle invisibili: non esiste immagine, né in musica né in narrativa. Credo che questo sia uno dei motivi per cui è così stimolante per musicisti e scrittori sedersi allo stesso tavolo per ragionare insieme.
 
Ma forse alla lettrice del blog sfugge che siamo usciti dal 1800, perché ha ragionato (musicalmente parlando) come se non fossimo mai entrati nel 1900. Qualcuno dovrebbe informarla che siamo usciti anche da quello, il secolo, sicché sarebbe forse utile recuperare il coraggio necessario a dire che sfruttare l’analisi armonica e il sistema tonale, nell’anno domini 2023, significa non tenere conto della crisi del sistema tonale stesso che ha interessato la musica da metà 800 in poi. E che ancora la interessa pesantemente. La lettrice del blog non deve essere molto aggiornata, o non ha saputo attualizzare la sua proposta, che risulta sfasata rispetto ai tempi che viviamo e al tipo di aderenza alla contemporaneità che guida il tipo di scrittura proposta in questo blog. 

Preoccuparsi di come rendere la rappresentazione musicale in narrativa è come domandarsi come usare il Pascal, oggi, come linguaggio di programmazione: una domanda obsoleta.
 
Invece che sfatare miti e superstizioni sulle emozioni in musica, si potrebbe partire dalle parole di Serge Cottet (che non è un musicista, ma uno psicoanalista).
 
In musica, l’affrancamento dalla rappresentazione, già sottolineato da Schopenhauer, l’allontana sempre di più dai modelli discorsivi e narrativi. La musica non è descrittiva e non rappresenta nessun oggetto.
 
La rivoluzione del XX secolo, che comincia con Webern, è quella dell’affrancamento dall’armonia e dalla tonalità. La faglia così aperta, sino al serialismo integrale che include ritmo e suono, ha disorientato un pubblico alla ricerca di senso e di stati d’animo.
 
I musicisti della seconda generazione – quella degli anni ’20 – sono stati nutriti dalla dodecafonia. La maggior parte si è affrancata da questa tutela, spesso assimilata a una gogna, a una dittatura. Lo stesso Boulez, con Le marteau sans maitre, ne ha mostrato i limiti.
 
I più recalcitranti hanno allora ristabilito la tonalità e dei ritmi semplici, il che, negli Stati Uniti, ha prodotto la musica minimalista e ripetitiva, per la tranquillità e il comfort ritrovati da un pubblico che la musica moderna non aveva mai toccato.
 
A questa tendenza regressiva si sono opposti dei musicisti la cui creazione non rinnega l’eredità di Schönberg e che hanno assorbito musiche esotiche, in particolare asiatiche, nere, come pure il jazz. Un melting pot che trionferà negli anni ’70 come una forma di globalizzazione e in un labirinto di tendenze estetiche”.
 
C’è molto da studiare, e ci sono posizioni da prendere, e solo seguentemente ci si può porre il problema del “come”.
 
 

A un livello ben più modesto, io non posso che replicare con le parole di Branduardi… nella speranza che ognuno le canticchi da sé…

Si può fare, si può fare… si può prendere o lasciare… puoi correre, volare, puoi cantare, puoi gridare…

Si può fare, si può fare… puoi volere, puoi lottare, fermarti e rinunciare…

Si può fare, si può fare… puoi ridere, sognare, puoi cadere, puoi sbagliare e poi ricominciare…

Si può fare, si può fare… puoi distruggere, incendiare e ancora riprovare!

 
 
 
Un chiarimento sui cosiddetti “flussi di coscienza”, visto che il discorso sui verbi di pensiero ne dà occasione.

Che cos’è una storia? Lo vedremo nel modulo 23, ma intanto possiamo dire che una storia – sul piano formale – è una sequenza di n scene.

E che cos’è una scena? Lo vedremo nel modulo 22, ma intanto possiamo dire che una scena è una sequenza narrativa basata sul conflitto.

E che cos’è il conflitto? Lo vedremo sempre nel modulo 22, ma intanto possiamo dire che siamo in conflitto tutte le volte che, di fronte a un ostacolo, di qualunque tipo sia, non ci fermiamo e lottiamo per superarlo.

A questo punto non resta che fare 1+1+1.

In che modo un “flusso di coscienza” concorre al conflitto, quindi alla scena, e in definitiva alla storia? Se il tuo personaggio è così tranquillo e rilassato, da poter vagabondare senza meta tra i suoi stessi pensieri, mi dici quale conflitto starebbe mai vivendo, quindi in quale scena può mai trovarsi?

Non solo. La narrativa è guidata dalle azioni del personaggio, che vengono poi “colorate” (qualificate) dai suoi pensieri. Ritorna al modulo 13: al lettore tiepido non frega nulla delle tue considerazioni d’avanguardia sulla comunità LGBT; il lettore tiepido vuole sapere cosa farai in pratica – come reagirai – quando tuo figlio ti dirà che è gay e vuole invitare il suo compagno alla festa di Natale dove sarà presente tutto il parentado.

Spero sia definitivamente chiaro il motivo per cui un “flusso di coscienza” non è narrativa, quale che sia il suo contenuto.
 
 
 
Faccio una domanda, che deriva dalla mia ignoranza, e per farla devo inanellare alcuni dei punti fermi che hai tracciato fino a qui, e questa premessa non è irrilevante per la domanda stessa.

Dici che leggiamo una storia per diventare il personaggio, per vivere la sua vita. Dici che non dobbiamo trafugare elementi che non hanno “diritto di cittadinanza” nella pagina, dici che l’unica prospettiva che abbiamo per simulare adeguatamente la storia è quella del 
personaggio “Punto di Vista. Dici che a guidare la storia sono le azioni, che non interessa nulla a nessuno quali sono le “idee” del personaggio e che al lettore (tiepido) interessa invece vedere in posa le idee attraverso le azioni. Ho letto (non ricordo il modulo, né se questa affermazione fosse in un commento) che “noi [scrittori] non vogliamo che il nostro personaggio resti solo troppo a lungo”, onde evitare che dal suo isolamento possano scaturire situazioni prive o povere di azioni, desumo.
 
E io capisco, o meglio, accetto tutti questi guard-rail, ne prendo per buone le intenzioni “segnaletiche”.
 
Tuttavia non riesco a collegare con coerenza alcune considerazioni.
 
Se sono veri i punti fermi precedenti, allora dovremmo sforzarci di nobilitare il flusso di coscienza (a discapito di un monologo interiore, rispetto al quale capisco anche a intuito l’indole “trafugatoria”, e non ci vuole da essere un genio, basta collocare il monologo interiore nella storia prima che nella letteratura e ci si può già fare un’idea di massima) dicendo che è questa la forma che ha la realtà nella mente delle persone, e quindi dei personaggi, e quindi anche del personaggio “Punto di Vista.
 
Mi immaginavo che avrei trovato, sul flusso di coscienza, considerazioni severe circa il suo abuso (quelle che mi aspetto sulle figure retoriche) e qualche spunto circa la sua potenza intrinseca, proprio a giustificare accortezza, parsimonia, cura nella progettazione. Mi aspettavo il discorso che fai a corollario, legato al conflitto – non poteva essere altrimenti –, mi aspettavo qualche spunto su come sviluppare il conflitto attraverso (anche) questo strumento. Magari come renderlo “elegante”, per usare un termine ricorrente. Invece no.

Per quel che vale il mio parere (ossia zero) credo che depennare il flusso di coscienza come risultato di un “vagabondaggio fra pensieri” sterile nell’economia della storia sia ingiusto e un po’ dogmatico come approccio. Credo invece che abbia un potenziale stratosferico, credo che autori visionari del (recente) passato avessero colto questo potenziale, rielaborandolo come potevano in considerazione dei tempi che hanno vissuto. Che mi fa un po’ ridere dirlo, dato che non so scrivere, eppure dire che l’approccio è perfettibile non implica che l’opera che ha adottato tale approccio lo sia.
 
Non credo che Mentre Morivo di Faulkner sia migliorabile (!) eppure penso che non esista uno strumento più adatto del flusso di coscienza per condensare in pratica alcune delle riflessioni che io (io soltanto) ho portato avanti nel blog dall’inizio: la lanterna sempre accesa a guidare la scrittura è quella che illumina i processi cerebrali, non è che possiamo “negarli” nascondendoci dietro a un dito (il flusso di coscienza è un vagabondare senza meta fra i pensieri = il flusso non contribuisce alla storia) e/o in modo così tranchant (non c’è conflitto nel flusso di coscienza = il flusso di coscienza non ha diritto di cittadinanza nella storia).
 
Nel primo modulo “utile” di questo blog tu hai giustamente accennato ad una pars destruens.
 
In effetti sei in ottima compagnia: in una mia recente lettura di un testo divulgativo di Rovelli, il fisico mi ricordava che anche il Dialogo di Galileo è per una buonissima parte uno “smontaggio” pezzo per pezzo del sistema tolemaico-aristotelico, e la parte in cui viene introdotto quello copernicano è residuale in termini di spazio occupato nel libro.

Possiamo riparlarne con più calma del flusso di coscienza o è una delle cose che vanno accettate senza rimostranze per entrare nel regno dei cieli? 😊
 
 
 
Sicuramente possiamo parlarne con più calma, anche perché qui dogmi non ce ne sono.

E iniziamo – prima di tutto e io per primo – a bonificare il linguaggio.

Smettiamola di parlare di “flussi di coscienza” (stream of consciousness, per chi vuol darsi un tono), “monologo interiore” o “fraseggio individuale”, o altre espressioni simili, che finiscono col conferirgli un’enfasi fuori luogo e – cosa peggiore – possono indurre a credere che a nomi diversi corrispondano concetti diversi.

Tutte queste denominazioni collassano qui in un tecnicismo preciso, asciutto, asettico: il mattoncino [P]. Di questo parliamo, del mattoncino [P].

Non vi è dubbio che il mattoncino [P], nel mondo reale, è fondamentale.

Tu dici che “non esiste uno strumento più adatto del flusso di coscienza per condensare in pratica alcune delle riflessioni che io (io soltanto) ho portato avanti nel blog dall’inizio”, e io ti rispondo che “non esiste uno strumento più adatto del flusso di coscienza per progettare e scrivere i post del blog a cui tu dai un contributo così decisivo da meritare lo status di coautrice”.

Il mattoncino [P] è cruciale, nel mondo reale, perché è il modo con cui noi mettiamo ordine in noi stessi, con cui diamo un senso e razionalizziamo il nostro vissuto, con cui impariamo dalle nostre esperienze, e quindi riusciamo poi a comunicarle e condividerle con altri, e su questa condivisione avviare riflessioni ulteriori.

E chi lo nega? Ma noi non siamo nel mondo reale. Noi siamo nel mondo della pagina; e ci siamo con obiettivi molto precisi (presentati nella loro generalità nei moduli 2 e 3, e che discussi in modo analitico nel modulo 23).

E quindi dobbiamo chiederci quali siano il ruolo e lo scopo del mattoncino [P] all’interno del mondo della pagina.
 
Registriamo anzitutto un fatto ovvio. Devo trovarmi in una situazione di relativa tranquillità, nel mondo reale, se voglio “pensare” nel senso nobile del termine (di riflettere a modo). Quindi, se ci trasferiamo nel mondo della pagina, e vogliamo cementare mattoncini [P] uno sopra all’altro – se vogliamo creare una sequenza [P]-[P]-[P]-…-[P] – dobbiamo mettere il nostro personaggio in una situazione di tranquillità.

Ma la “tranquillità” è la negazione della narrativa, che si basa sulla “tensione”, o per dirlo bene, sul “conflitto”.

E il conflitto – modulo 22 – presuppone l’opposizione, l’ostacolo, il vincolo. Le azioni (mattoncino [A]) sono soggette a ostacoli; le percezioni sensoriali (mattoncino [PS]) possono essere soggette a ostacoli. Ma i pensieri (il mattoncino [P])? Cosa mi impedisce di pensare? Nulla. I pensieri si potrebbero dilatare all’infinito, senza mai incontrare un fosso da superare o uno steccato da saltare.

Il mattoncino [P], nel mondo della pagina, non esprime quella lunga attività di riflessione ex-post tipica del mondo reale. Il mattoncino [P], nel mondo della pagina – che è un mondo, come quello reale, fatto di istanti “qui e ora” – esprime la rielaborazione immediata, e sottolineo immediata, che il personaggio realizza a seguito di ciò che l’ambiente gli rimanda. Proprio come avviene nel mondo reale: un tizio mi pesta un piede sull’autobus, non chiede scusa, e magari mi manda pure a fanculo. E io penso: “che maleducato”. Stop. Fine del pensiero. Poi tornerò a percepire la gente dell’autobus intorno a me, e magari mi sposterò in un posto più tranquillo, per evitare che altri mi pestino anche loro i piedi.

E poi c’è un discorso al tempo stesso più sottile e più pratico, che è esattamente quello contenuto nel modulo 13, ma che forse vale la pena riprendere.
 
I pensieri sono teoria, le azioni sono pratica.

Cosa ti impressiona di più? La teoria o la pratica? Quel che le persone dicono o quel che fanno?

Dico di amare la mia compagna più d’ogni altra cosa al mondo. Poi, però, corro dietro a ogni perizoma che intravedo. E però, te ne prego, ora siediti e mettiti comoda, che con un interrotto interminabile “flusso di coscienza” ti porterò nel mio mondo interiore, dove non solo ogni tradimento è legittimo, ma mi fa addrittura tornare dalla mia compagna ogni volta più innamorato.

Sinceramente: quanta voglia avresti di starmi a sentire?
 
Non c’è potenza di argomentazione teorica (di flusso di pensieri) che potrà mai convincerti che i miei tradimenti sono compatibili con il mio amore, e che anzi lo accrescono (a meno che anche tu non ragioni già così, ma allora non serve mettere in moto il processo persuasivo proprio della narrativa).

Se ho una speranza di persuaderti che, sì, vado con tutte, ma poi amo davvero solo la mia compagna, questa speranza passa dalla creazione di una narrazione trainata dalle mie azioni e colorata con i miei pensieri: la sola che può dischiuderti un mondo altrimenti inaccessibile, se provi ad attaccarlo solo con un flusso di riflessioni, non importa quanto raffinate.
 
 
 
Va bene, ti seguo: chiamiamolo genericamente [P] dalla fine di questo capoverso. 
 
Nelle mie intenzioni c’era solo la volontà di segnare un confine netto fra lo “spiegone” travestito da pensiero (il “monologo interiore”) e il modo in cui il pensiero è presente prima, dopo, durante e nonostante il personaggio; suo malgrado mi verrebbe da dire (quello che ho in mente quando dico “flusso di coscienza”).
 
Se l'abbiamo fatto a nostra immagine e somiglianza, il personaggio, il suo cervello non farà eccezione e si comporterà a immagine e somiglianza. Posso depennare con leggerezza lo “spiegone”, in qualsiasi modo travestito, quindi anche da pensiero. Diversamente, l'idea che esista un cervello del personaggio che "pensa" prima di lui, e che questo dato di fatto possa condurre (al-)la narrazione, la trovo rilevante.

Dici ad un certo punto che nulla ci impedisce di pensare, hai ragione e ci va messo il carico: niente ci salva dal pensiero. Dici poi che il pensiero in sé non porta conflitto, parli di un pensiero “nobilitato”, ecco, qui pensavo avresti scritto “elegante”.
 
Su questo punto vorrei sottoporti un esempio, nella speranza che serva a circoscrivere l’aspetto che mi interessa in questa sede.
 
Mettiamo la mia protagonista che guida la sua macchina, va verso casa – un tragitto più che noto – è sola, ascolta musica e pensa. Ed è talmente avviluppata nei suoi pensieri che laddove il suo cervello credeva di “vedere” l'ultimo rettilineo esiste invece un filare di cipressi, e la protagonista ne prende uno in pieno.

Io non so nulla di sceneggiatura, ma mi viene da dire che c’è conflitto in questa scena (la protagonista vuole andare a casa mentre finisce con lo schiantarsi addosso ad un albero) dove le uniche azioni compiute, però, sono quelle meccaniche della guida. Cosa ha innescato il conflitto? I pensieri, per la verità. Questa è una scena dove il cervello della protagonista si sente “al sicuro” (lei è nella propria auto, compie una serie di azioni meccaniche) abbassa la soglia di guardia e i suoi pensieri la conducono a prendere un cipresso in fronte.

Questa scena (banale, perdonami) è coerente col mio approccio, che come sai ha (vorrebbe avere) ancoraggi precisi nella scienza. Ho preso una situazione diversa (solitudine + musica + azioni abitudinarie) per parlare del valore del pensiero nel nostro discorso. Tuttavia, succede lo stesso quando apri il frigorifero e… “che stavo cercando? Perché ho aperto il frigo?”: stavi facendo qualcosa, magari stavi pensando al post che devi pubblicare la mattina dopo, però avevi anche sete, sei andato al frigorifero, ha aperto l’anta e “qualcosa” ha interrotto il tuo automatismo. A quel punto è sopraggiunta la tua coscienza che ha formulato a sé stessa la domanda “che cosa stavo facendo?”. A interrompere l’automatismo (come ad impedire alla mia protagonista di vedere il solito incrocio sulla solita strada) sono stati dei pensieri.

Se siamo moderatamente d'accordo su questo tipo di valore, potenzialità e modalità di “nobilitare” [P] nella pagina, indipendentemente dalla nomenclatura, io mi posso dire soddisfatta.
 
 
 
Anticipo una cosa, con linguaggio un po’ brutale, che si troverà espressa meglio nel modulo 23B: tu non vuoi protagonisti “coglionazzi”.

“Coglionazzi” ce ne possono pure stare in una storia, ma non il protagonista, non il personaggio “Punto di Vista”, non lui, proprio no.

Non vogliamo svampite alla guida, signorine “chi sono, dove sono?” che si avviluppano nei loro pensieri cullate dalla musica di sottofondo, e vanno a sbattere contro un albero. Perché io, lettore, vedo questa cosa, e penso che, sì, sei proprio una coglionazza, e te lo sei meritata di andare a sbattere contro il cipresso, e speriamo anzi che ti ci seppelliscano sotto, a eterno memento della tua coglionaggine. E poi, tra me e me, mi compiaccio di non essere te, svampita alla guida. Con tanti cari saluti al processo di immedesimazione.

Il primo requisito dell’empatia – anzi, un prerequisito, a esprimersi con rigore – è la “competenza”. Me lo ha chiesto più d’uno, e quindi mi sono deciso a inserire tra i moduli di “analisi della sceneggiatura” anche il romanzo La cittadella di Cronin. L’autore costruisce la “competenza” del personaggio (il dottore Andrew Manson) con grande raffinatezza, in modo chirurgico, è proprio il caso di dire. Lo vedremo.

Quel che voglio leggere – inventando su due piedi, quindi soluzione piuttosto cliché – è di una ragazza che esce prima dal lavoro – e che per uscire prima ha sgobbato come una matta sin dalla prima mattinata, perché ci teneva a finire le sue cose e non voleva sovraccaricare le colleghe (vogliamo personaggi competenti, non “coglionazzi”!) – esce prima dal lavoro, dicevo, per compare un regalo per il suo fidanzato per festeggiare il loro primo anno insieme (che tenera!); magari passa davanti alla vetrina di un negozio di intimo e ha un pensiero malizioso: “questo completino piacerebbe molto al mio Fabio” (che cucciola!); entra, lo compra e lo indossa lì stesso, con l’idea di fare uno spogliarello per il suo Fabio (meravigliosa: vorrei proprio entrare nella pagina!); e quando arriva a casa lo trova a letto con un’altra (’sto stronzo; ci stai insieme da neanche un anno e già la tradisci, per di più nel giorno dell’anniversario, che forse ti eri pure scordato: stronzo!); esce, si mette in macchina, mette la musica per non pensare, ma i pensieri arrivano comunque a frotte, e sono pensieri che la fanno soffrire (povera, tenerissima cucciola!), la musica si mischia ai pensieri e la stordisce, passa al semaforo col giallo (col giallo, cazzo, col giallo, non col rosso: non vogliamo “coglionazzi”!) e… boom, incidente e gamba rotta (oh, no… piccola mia, tesoro, cucciola, angelo mio… ma non temere, non temere, dai, in fondo poteva andare peggio, la gamba guarirà e troverai un ragazzo che ti merita davvero, che merita il tuo regalo, il tuo spogliarello, e il tuo completino intimo… e io sarò lì a gioire con te, quando questo succederà).

Questo voglio leggere, per quanto possa essere cliché. Perché questo ha senso. Non voglio leggere di personaggi che aprono il frigo e… “perché ho aperto il frigo?”, solo perché nel mondo reale può succedere di aprire il frigo e scordarsene il motivo.
 
 
 
Una precisazione, collegandomi all’intervento in cui si richiama la mia indicazione – nel modulo 10 – di non isolare il personaggio, di non lasciarlo solo.

L’indicazione – di base – è giustificata: se isoli il personaggio, se lo lasci da solo, perdi numerose opportunità di conflitto, e il conflitto è l’anima di ogni scena (modulo 22).

Ma un personaggio isolato, lasciato solo, non è detto che non possa essere in conflitto. Anzi, a dirla tutta, un personaggio isolato dovrà a quel punto essere necessariamente in conflitto con almeno uno dei due ostacoli più interessanti che vi possono essere in una storia.

La nostra ragazza è in macchina, per andare a sostenere l’ultimo colloquio di una selezione professionale durissima; erano partiti in 7.000, sono arrivati in 7; e ora, di quei 7, ne devono scegliere 5; e lei, in graduatoria, è la seconda; è fatta, praticamente; e non è un lavoro come un altro; questo è il lavoro che ha sempre sognato, ed è il lavoro che le cambierebbe la vita, da tutti i punti di vista, sia economico che sociale.

Già. Ma bisogna fisicamente arrivarci sul posto, a sostenere l’ultimo colloquio; e, accidenti, c’è un traffico mostruoso; l’incessante e intensa pioggia di questa notte ha creato parecchi danni nella zona periferica in cui abita lei; strade impraticabili, problemi alle fognature, addirittura alcuni alberi caduti; un casino, insomma; e non sembra esserci modo di uscirne, perché le strade secondarie sono già state prese d’assalto di prima mattina.

E la nostra ragazza non può telefonare, e dire di essere in ritardo, perché non è così che funziona: alle 10.00 si chiama l’appello, chi c’è, c’è, e chi non c’è verrà depennato; perché è così che funziona, perché queste sono le regole.

La nostra ragazza è sola, in macchina, ma sta lottando contro i due nemici più “bastardi”: l’ambiente circostante (il traffico che la ostacola nell’arrivare sul posto) e il tempo (che passa inesorabile, minuto dopo minuto, e si avvicina a quelle “ore 10.00” che nella percezione psicologica della ragazza si sono trasfigurate in una ghigliottina).

Ecco, se isoli il personaggio, assicurati che stia lottando contro l’ambiente o contro il tempo (o contro entrambi).

Ma non mettere mai il tuo personaggio – e lo dico per esperienza personale – disteso sul letto, a fissare il soffitto nella solitudine di una bella e silenziosa camera di albergo, in una tranquillità che – citando Bambola di Pezza – non potrà salvarlo dai suoi stessi pensieri.
 
Una precisazione sulla precisazione, che in realtà sono certo di aver già discusso – forse anche più volte – ma non con la sistematicità necessaria (e che a ogni modo diventerà il centro del modulo 23 dedicato alla sceneggiatura).

Il caso, l’alea, il destino, la fatalità sono tutte cose che dominano il mondo reale, ma nel mondo della pagina hanno al più un ruolo ancillare (quando non sono del tutto assenti).

Non è quindi che la sera prima ha piovuto… così, perché a un certo punto piove, e – cazzo che sfiga! – doveva piovere proprio stanotte, quando domani la ragazza aveva il colloquio. No. Piove perché è inverno, e per di più un inverno rigido, con un brutto tempo persistente, che l’autore avrà avuto cura di mostrare prima del giorno del colloquio; e magari questo inverno così rigido avrà pure suscitato qualche commento da parte della ragazza (le discussioni sul tempo, in fondo, sono sempre un grande classico).

E non è che la strada si è allagata, le fognature si sono rotte, e un albero è caduto, perché… perché sì, perché se non succedeva allora la tipa arrivava in orario, e l’autore non aveva più nulla da raccontare.

La strada si è allagata perché la ragazza vive in una periferia trascurata, e l’autore avrà avuto la cura di mostrare questa periferia e i suoi problemi (banalmente, che ne so, facendo prendere delle “buche” alla ragazza quando e in macchina, e così dandole modo di commentare – senza però lagnarsi – il degrado della zona in cui vive).

Ora, e solo ora, siamo autorizzati a far intervenire “il caso”: in un inverno dove piove parecchio, e in una zona dimenticata da Dio, succede che una certa notte piove di brutto; e quella pioggia, di per sé violenta, insiste su ciò che avevano già causato le piogge precedenti, e così la mattina dopo è un gran casino; e, guarda un po’, la mattina dopo è proprio la mattina del colloquio.

Il caso non può mai essere eliminato del tutto – e per molti versi è bene che non sia completamente azzerato – ma il caso deve sempre agire all’interno di un meccanismo di cause e di effetti ben riconoscibile. Perché solo così la scena ha senso. 



Il sotto-modulo sulle figure retoriche mi ha sorpresa.
 
Un po’ ingenuamente, mi aspettavo un discorso circa la genesi orale delle figure retoriche e, di conseguenza, la necessità di rendere “elegante” la narrazione epurandola dalle versioni più inflazionate delle figure retoriche, così come da quelle decontestualizzate e slegate dalla psicologia dei personaggi e/o dalla storia. Sei arrivato a queste conclusioni attraverso un’operazione di scrematura e sottrazione – per restringere il campo, e restare nel perimetro tracciato dal modulo – e te ne rendo merito un istante prima di mettermi a disfare le tue fatiche col mio modo di fare confusione.
 
Prendiamo la metafora, per renderci conto della portata di questa operazione di scrematura e sottrazione che hai fatto: solo nel ventennio fra gli anni Settanta e gli anni Novanta dello scorso secolo sono stati prodotti oltre diecimila contributi (pubblicazioni dal valore scientifico) dedicati alla regina delle figure retoriche. Queste, come giustamente accenni, sono argomento che non solo si presta, ma forse esemplifica l’essenza stessa della natura interdisciplinare.
 
La tua definizione di uso “ortodosso” ed “eterodosso” delle figure retoriche mi ha ricordato alcuni passaggi preliminari del testo Metafore e vita quotidiana. Il tuo uso ortodosso delle figure retoriche in narrativa (“servono a comunicare l’interiorità del personaggio, in relazione alla storia che sta vivendo”) viene declinato dagli autori – che trattano la sola metafora – in questo modo: “una metafora può essere il solo modo per mettere in rilievo e organizzare coerentemente alcuni aspetti della nostra esperienza”, e la parola chiave, qui, è “coerentemente”, che metto in parallelo alla psicologia del personaggio e alla storia. Il tuo uso eterodosso (“la figura retorica come mezzo per comunicare un’informazione altrimenti non esprimibile”) è espresso in modo piuttosto simile dagli autori: “le metafore hanno implicazioni attraverso le quali mettono in luce e rendono coerenti certi aspetti della nostra esperienza [altrimenti inesprimibili, aggiungo]”.
 
Lakoff (che è un linguista) e Johnson (un filosofo) arrivano a concludere che è il linguaggio figurato a fondare quello letterale, rompendo con la tradizione generativo-trasformazionale della linguistica fondata da Chomsky.

Oltre a dire che una figura retorica può essere impiegata “solo” nel mattoncino [PP], sarebbe possibile dire che una figura retorica è essa stessa espressione di una percezione psicologica (del personaggio, non dello scrittore), e come tale può trovarsi in altri mattoncini (ancorché da valutare caso per caso), mentre non ha mai diritto di cittadinanza quando è una soggettivazione attribuibile esclusivamente (o principalmente) allo scrittore?
 
Provo a fare un esempio sul mattoncino [D]: è un errore un dialogo di questo genere (che calca sulla metafora per esemplificare il concetto) fra due colleghi che hanno appena chiuso un contratto dopo mesi di trattative?
 
Alberto: “Li abbiamo stesi, Ugo! Perché quella faccia?”
 
Ugo: “Scusa, non sono in vena di festeggiare. L’assegno di mantenimento per quella chiattona della mia ex moglie mi ha messo spalle al muro…”
 
Alberto: “Facciamoci un bicchiere, dai

Vorrei anche dire, perché può essere utile ad altri, che “Spremo l’interno delle guance, sanno di frutta matura, appiattisco la lingua a drenare una stilla di sputo che brucia come wasabi quando la ingoio” nasce dalla necessità di migliorare una stesura precedente ove la frase era scritta così: “Spremo le guance dall’interno, sanno di frutta matura, appiattisco la lingua a drenare una stilla di sputo che mi costa fatica deglutire”.
 
 
 
“Ortodosso” ed “eterodosso” sono due etichette che mi sono inventato per mettere sotto due cappelli diversi una serie di elementi sparpagliati, che avevo accumulato nel tempo e sentivo l’esigenza di razionalizzare.

È sempre confortante quando la rielaborazione personale di singoli elementi reperiti su molteplici fonti – la loro riconfigurazione in concetti che li sintetizzino – si scopre allineata con interpretazioni fornite da altri autori, in altri contesti. Perché si rafforza una sensazione di sensatezza generale, che rassicura sulla efficacia della comunicazione.

Il mattoncino [PP] – a essere precisi – è sempre un mattoncino “parassita”, che ha bisogno di appoggiarsi agli altri mattoncini per essere visibile: noi vediamo sempre le percezioni psicologiche del personaggio attraverso ciò che pensa (mattoncino [P]) che dice (mattoncino [D]) o che percepisce attraverso i sensi (mattoncino [PS]), per poi filtrare in base alla sua psicologia.

Quindi, sì, l’ipotetico dialogo tra Ugo e Alberto – e precisamente la battuta di Ugo, che qualifica “chiattona” l’ex moglie – è assolutamente legittimo.

Ovviamente, al solito, quel “chiattona” non ci dice nulla dell’ex moglie di Ugo, ma ci dice (può dirci) molto di Ugo (se opportunamente contestualizzata).

Sicuramente capiamo che i due non si sono lasciati bene, perché “chiattona” ha una evidente connotazione dispregiativa; ma forse, chissà, in un passato più o meno remoto, Ugo era un’amante delle donne in carne, abbondanti (in fondo se l’è sposata, no?); e magari – in un passato più o meno remoto – l’accarezzava tutto felice dicendole cose del tipo “come sei ‘morbidosa’, amore mio”. Chissà quali eventi lo hanno portano a non percepire più una “morbidosa” ma una “chiattona”… O forse, chissà, quando l’ha sposata era una “silhouette”, e poi… vai a sapere…

In ogni caso, sì, la figura retorica “non ha mai diritto di cittadinanza quando è una soggettivazione attribuibile esclusivamente (o principalmente) allo scrittore”.

Se io, autore, sono un amante delle donne giunoniche e tutte le altre mi sembrano dei “manici di scopa”, non sono in alcun modo legittimato a usare questa immagina del “manico di scopa” nella pagina, a meno che non sia coerente con la psicologia e le preferenze del personaggio.

Alla difficoltà di costruire personaggi diversi da sé stessi è dedicato il modulo 18A, che di fatto è uno stress-test: è stato concepito per fare piazza pulita, per far capire che la scrittura (e per molti versi persino la lettura) è una cosa per pochi.
 
 
 
Allineamenti di questo tipo, oltre che rassicurare sulla propria efficacia comunicativa, potrebbero essere letti anche in un modo più profondo, specialmente se si giocano durante un corso di scrittura che si propone come un metodo.
 
La chiave è questa: tu dici che il mattoncino [PP] è un mattoncino “parassita”, che ha bisogno di appoggiarsi agli altri mattoncini per essere visibile.
 
E quando, di grazia, una persona pensa, parla o percepisce “senza” filtro psicologico? Mai. Al netto di patologie o condizioni invalidanti di vario genere, al netto quindi di situazioni eccezionali, che esulano dal tipo di generalizzazioni che ci possono tornare utili.
 
 È a questo punto che le idee dei due autori che ho riportato (una mia lettura, non la lettura migliore) ci offrono uno spunto, solo uno spunto per muovere un passo avanti. Gli autori sostengono che gli esseri umani parlano sempre metaforicamente, perché la gran parte dei nostri concetti (del nostro sistema concettuale) sono organizzati in modo metaforico. Il piccolo dialogo, a farci caso, è tutto una figura retorica: “li abbiamo stesi”, “non sono in vena”, “l’assegno mi ha messo spalle al muro”, “farsi un bicchiere” e poi certamente quella più visibile, “quella chiattona della mia ex moglie”.
 
Prendiamone solo una: “l’assegno mi ha messo spalle al muro”. Questa è una metafora ontologica, un modo per considerare un evento, o un’emozione, come un’entità o una sostanza: una volta che abbiamo identificato le nostre esperienze come entità, o come sostanze, possiamo categorizzarle, raggrupparle, quantificarle e (sottolineano i due autori che ho citato) possiamo riflettere su esse. Nel mio esempio, il versare dei soldi alla ex moglie è visto da Ugo come un’entità, mediante il termine “assegno”, e da qui “l’assegno mi ha messo spalle al muro”.
 
Per gli autori, esistono metafore ontologiche (come quella di cui sopra), metafore strutturali (quando un concetto è strutturato nei termini un un altro concetto, ad esempio “li abbiamo stesi”: la trattativa – concetto 1 – è per Alberto un match sportivo  concetto 2) e metafore di orientamento (quando non un concetto, ma un intero sistema di concetti è strutturato nei termini di un altro, es. “ho il morale a terra”: in questa metafora, si fornisce al concetto 1 – “non essere in vena”, ossia “non essere ben disposto a” – un orientamento spaziale – “a terra”, ossia in basso, concetto 2 – che il concetto 1 non ha, che non gli è proprio.
 
  

Sì, sul piano formale hai ragione: non c’è una sola situazione di vita dove non sia attivo un filtro psicologico. Fuor di metafora – è proprio il caso di dire – lasciamo stare l’immagine del “parassita”, e riconosciamo che,  sì, il mattoncino [PP] è sempre presente – paradossalmente anche quando assente – perché nulla può apparire sulla pagina senza la mediazione della psicologia del personaggio (per cui, anche quando il personaggio ha una semplice percezione fisica, ciò vuol dire che la sua psicologia non entra in azione in quel frangente, in quella specifica situazione, il che è comunque un elemento caratterizzante).

Tutto, però, sta nel vedere quanto le maglie del filtro siano strette. Nel modulo 9 (dedicato alla presentazione dei mattoncini narrativi) proponevo questo semplice esempio.

“Marco mi viene incontro sorridendo” vs “Il ciccione mi viene incontro con sorriso da ebete”.

La prima frase esprime una percezione sensoriale massimamente oggettiva (Marco è “Marco” per tutti coloro che ne conoscono il nome; il sorriso è un “sorriso” per chiunque lo vede); le maglie del filtro psicologico sono massimamente larghe, e la realtà oggettiva passa così com’è.
 
La seconda – per contro – è carica di filtro psicologico; le maglie sono strette, la soggettivazione è molto profonda.

Tra questi due estremi c’è un mondo, e in quel mondo serve sapersi collocare, per scrivere bene, con giudizio.

Le maglie del filtro vanno allargate o ristrette (si filtra di meno o di più) in funzione dei due soliti parametri: la psicologia del personaggio e la situazione in cui si trova.
 
Per estremizzare – l’esempio è squisitamente didattico e non va sovrappesato – un poeta avrà la tendenza a filtrare in modo più intenso e frequente di quanto possa filtrare – che so – un colletto grigio di un qualche Ministero.

Però occorre intelligenza e senso della misura, perché il lettore non è stupido: se il personaggio filtra pesantemente, sempre e comunque, anche quando non ne ha motivo, o solo per motivi futili, il lettore avvertirà – anche solo inconsciamente – qualcosa di irreale, di artificioso, di straniante.

Colgo l’occasione per ribadire un punto che non sarà mai ricordato a sufficienza: una storia è guidata dalle azioni del personaggio – il mattoncino [A] – perché nulla ci impressiona e rimane impresso come vedere le cose put in place.

Tutti gli altri mattoncini – a voler far passare il concetto con un’estremizzazione – servono a “colorare” le azioni, a qualificarle, hanno cioè una natura ancillare.
 
 
 
A mio avviso, questa necessità di categorizzare (che può senz’altro essere letta come pedanteria) non è utile di per sé per imparare a scrivere bene, ma l’assunto di base che personalmente condivido, ci serve invece a porci domande utili nel nostro caso specifico: dato che nella vita reale tutto è una [PP] e dato che la stragrande maggioranza delle [PP] è concettualizzata dal pensiero umano attraverso le forme della retorica, la mia domanda (profonda) sul dialogo era: va bene così anche in scrittura?
 
Mi dici che il dialogo è legittimo, eppure a me (che sono quella che l’ha abbozzato) sembra una conversazione che non è stata per nulla “levigata come fa l’orefice”. È una conversazione, a mio gusto, che riporta senza alcun “trattamento di eleganza” uno schema di pensiero tipico del mondo reale dritto-dritto nel mondo della pagina.
 
Anche se non ce ne accorgiamo (e non ce ne accorgiamo a causa degli assunti che hanno ben organizzato Lakoff e Johnson, ossia che le figure retoriche sono il modo in cui il cervello umano preferisce comprendere, organizzare, categorizzare i concetti) il nostro pensiero è infarcito di figure retoriche, e così il nostro linguaggio nella vita reale. E nella pagina?
 
È facile sostenere (come ho sostenuto) che figure come, ad esempio, le metatassi sono espressione univoca dello scrittore e non del personaggio (in prosa per l’amor del cielo, mi riferisco esclusivamente alla prosa) e che quindi vanno bannate il 99,9% delle volte.
 
Una volta hai scritto che [D] nella pagina è “la forma che avrebbero i dialoghi nel mondo reale se le persone pensassero prima di parlare”, o qualcosa di molto simile. Se intendo quel “pensare prima di parlare” come la levigatura dell’orefice, il mio dialogo fa schifo.
 
Quindi, dopo il tuo commento, ho provato a togliere tutte le figure retoriche dal dialogo e, senza che lo riporto, la sensazione nel leggerlo è stata di totale straniamento, peggio della prima versione, una cosa che dire irreale è dire poco.
 
Il punto di equilibrio – mi viene da pensare – è una “questione di stile” per come l’abbiamo definito al modulo 15.
 
 
 
Non saprei dire in altre discipline, ma in scrittura c’è un’oggettiva difficoltà (impossibilità?) a condurre esercizi “in vitro”.

A un musicista – ne accennavo proprio nel modulo 0 – gli si può forse chiedere di ripetere uno stesso accordo sino allo sfinimento, sino a fargli sanguinare le dita, ha cioè senso – se ben intendo – un micro-esercizio localizzato.

In scrittura, un esercizio simile sarebbe inutile. La domanda “secondo te va bene questo dialogo?”, a meno di dialoghi costruiti con eccezionale incompetenza, avrà sempre una risposta affermativa.

Certo che il tuo dialogo tra Ugo e Alberto va bene, perché – anche solo all’ingrosso – sta facendo tutto quel che un buon dialogo deve fare: sta passando informazioni rilevanti al lettore (la trattativa è stata conclusa con successo, Ugo è divorziato e la “chiattona” gli ha però strappato un assegno di quelli pesanti) nel modo in cui lo deve fare, cioè dal di dentro della scena, senza infodump, e rispettando i requisiti di obliquità (abbastanza evidente) e conflittualità (appena accennata).

Avercene di dialoghi così!

Poi, ovvio, se vogliamo metterci a limare le battute con la precisione di un’orefice, facciamolo pure. Ma allora ci serve prima un contesto: ci serve il profilo psicologico dei personaggi e ci serve capire esattamente la situazione in cui si trovano. E allora, e solo allora, si può lavorare di fino.

Colgo l’occasione per mettere in guardia contro tutti i “fenomeni là fuori”: se qualcuno vuole vendervi un “corso su come scrivere i dialoghi”, sappiate che tutto quel che si può insegnare lo avete già nel modulo 12, e che tutto ciò che non sta nel modulo 12 non si può insegnare per la semplice ragione che non ha un carattere di sistematicità, ma dipende in maniera cruciale dal TUO personaggio e dalla TUA storia, è cioè specifico della TUA creazione, che si presume tu conosca molto bene, e quindi sai benissimo come mettere a punto e rifinire.

Quindi, per essere chiari, se qualcuno vi vuole vendere un “corso sulla scrittura dei dialoghi”, sappiate che i casi sono due: è un incompetente o è un imbroglione (e forse tutte e due le cose assieme).
 
Precisiamo ancora una cosa, vista la piega presa dalla discussione.

Ogni arte ha il suo “primo passo”.

A scacchi – almeno finché me ne sono interessato – si seguiva uno schema fisso: si disponevano pochi, pochissimi pezzi sulla scacchiera, e poi si diceva all’allievo di ipotizzare che la dinamica del gioco avesse condotto alla configurazione ora sotto i suoi occhi, e di dare scacco matto; e l’allievo dava scacco matto; dopodiché il maestro ridisponeva quei pochi, pochissimi pezzi nella stessa posizione della prima volta, e gli diceva che in realtà servivano  meno mosse, per arrivare allo scacco matto; e si ricominciava; e via così – “again, again, again!”, come nel film Miracle – finché finalmente non si dava scacco col minimo numero di mosse.

Per imparare a giocare a scacchi si partiva dalla fine.

In scrittura – al contrario – si parte dall’inizio, dall’incipit: il primo esercizio di scrittura sensato è l’incipit (e l’incipit non puoi scriverlo senza i moduli 22 e 23B).

Non scrivere nulla che non sia un incipit, se devi ancora imparare o stai imparando, se sei nel mezzo dell’apprendimento. Perché, più che inutile, è dannoso.

Chi ti dice di esercitati a scrivere dialoghi, fare flashback, descrivere i paesaggi, etc. etc. etc. ti sta facendo del male, magari inconsapevolmente, senza volerlo, ma ti sta comunque facendo del male.

Te lo ripeto: il primo esercizio di scrittura è l’incipit, e l’incipit non potrai mai scriverlo bene, se prima non studi i moduli 22 e 23B.


 
Approfitto di questo modulo per una (apparente) divagazione.

A cosa serve conoscere il teorema di Schwarz sull’invarianza dell’ordine di derivazione delle funzioni reali di variabili reali? Cosa ci faccio, in pratica, col teorema di Fubini sull’inversione dell’ordine di integrazione? Più in generale: perché devo studiare matematica? E – più in generale ancora – perché devo studiare tout-court? Cosa ci guadagno? A che serve?


 
Non si può capire a cosa serve studiare, se prima non si chiarisce il significato generale dell’espressione servire a. Cosa vuol dire – esattamente – che una determinata azione serve a qualcosa?

Se domandandoci a cosa serve, noi intendiamo chiedere quale sia l’utilità pratica immediata della nostra azione, quale beneficio materiale istantaneo scaturisca da ciò che stiamo facendo, insomma quale bruto tornaconto se ne può trarre adesso, allora, sì, studiare non serve a nulla.

Dopodiché, però, se davvero vogliamo dare un significato così limitativo all'espressione servire a, se accettiamo sul serio questa versione mortificante del “qui e ora”, allora dobbiamo onestamente riconoscere che gran parte di ciò che facciamo nella vita non serve a nulla. D’accordo, ci sono cose che di per sé, realmente, non servono proprio a nulla – e più che inutili le definirei stupide – ma anche al netto di questa frazione di cose effettivamente sterili – si spera non troppo ampia – tutto ciò che rimane sono anch’esse cose che non servono a nulla.

Tutte le nostre azioni si inquadrano sempre in un progetto, e ogni progetto si realizza necessariamente passo dopo passo. Il singolo passo non ha altro scopo – non serve a nient’altro – che a metterci in condizione di compiere il passo successivo, e il passo successivo serve solo a compiere il passo ancora dopo. E si procede così, attraverso una sequenza di passi, ognuno funzionale ad avanzare nel cammino, ma tutti privi di una loro utilità intrinseca. Fin quando non si compie l’ultimo passo, il passo n, con cui si taglia il traguardo e si mettono all’incasso i tanto agognati benefici materiali (oppure si segna un intertempo, giacché ogni progetto si compone di regola di più sotto-progetti).

Ma cosa ha reso possibile l’ultimo passo, il passo n? Ovvio: il passo precedente, n-1. E il passo n-1 da dove viene? Dal passo n-2, e così a ritroso, sino a risalire al primo passo, il passo iniziale, il passo 1. I progetti si realizzano così – un passo alla volta, un passo dopo l’altro, senza soluzione di continuità – e quindi non ha senso, è proprio un no-sense, domandarsi a cosa serve il singolo passo, perché equivarrebbe a valutare con una logica locale ciò che può essere apprezzato solo con una visione globale.

Bisogna piuttosto interrogarsi sullo scopo del progetto che richiede quei passi, perché sono i passi a concretizzare il progetto e a ricevere dal progetto il loro significato.
 
Ora, in generale, si può pensare che lo scopo di un progetto debba essere chiaro, preciso e ben definito in tutti i suoi dettagli: insomma, bisogna sapere perfettamente che cosa si sta facendo e perché lo si sta facendo, altrimenti si finirà con lo sperperare tempo ed energie.

Sì, è vero, ci sono tutta una serie di progetti che devono essere precisati e dettagliati in ogni loro aspetto, se si vuole che siano utili. Ma ce ne sono anche altri in cui l’obiettivo finale deve rimanere sfumato, dove tanto più l’obiettivo rimane indefinito a priori, quanto più grandi potranno essere i benefici materiali ottenibili a posteriori.

Suona paradossale, sì, ma il paradosso è solo un ribaltamento delle convinzioni comuni, che permette di vedere le cose da un’angolazione diversa, da cui spesso si rivelano nuovi e inattesi significati.

Siamo tutti afflitti – e non da oggi – da un malinteso senso pragmatico. Vorremmo che ogni nostra azione avesse un'utilità sua propria, indipendente dal contesto, dalla situazione presente e dalle prospettive future, e se proprio non può averla, almeno pretendiamo che il progetto in cui si colloca abbia un obiettivo concreto, definito con estrema precisione, che ci dica con esattezza cosa ne verrà di materialmente vantaggioso dal nostro agire.

Questa ossessione – ché di un’ossessione si tratta – ha finito per toccare persino quegli ambienti dove per tradizione si ragionava con paradigmi opposti.
 

“Per molto tempo a scuola ci andavano in pochi, e andava bene così
perché guarda caso, quando a scuola ci andavano in pochi
– penso al settecento, all’ottocento, e ancora all’inizio del novecento –
si dava però per scontato che andare a scuola, andare al liceo, intendo dire fare le superiori,
era indispensabile per avere poi un ruolo dirigenziale nella vita.
L’esercito italiano, durante la prima guerra mondiale, ha un disperato bisogno di ufficiali,
tanto che alla fine manda a comandare i plotoni e le compagnie dei diciannovenni,
ma su una cosa non transige: devono aver finito le scuole superiori.
Perché sapere il latino serve per fare l’ufficiale in trincea? Sì, evidentemente!
Questa era la loro risposta.
Così come in Inghilterra, se uno voleva fare il pastore anglicano,
la via normale era: intanto ti iscrivi a Oxford o a Cambridge,
e quando ti sei laureato potrai fare il pastore anglicano.
Poi lo sappiamo tutti cosa è successo.
È successo che si è detto:
‘In un grande movimento democratico tutti devono avere accesso a questo
 tutti devono avere tanti anni durante i quali studiano e s’impadroniscono della cultura comune.
Non si deve più avere un mondo in cui solo l'élite – quelli che comandano –
possiedono la cultura: tutti devono averla,
tutti i ragazzi devono avere anni e anni durante i quali studiano e imparano
anziché dover lavorare come è sempre successo ai loro padri e ai loro nonni’.
Ma mentre prima, finché a scuola ci andavano i figli dei padroni,
tutti sapevano che andare a scuola era importantissimo
per fare di te una persona più forte e con più possibilità,
quando hanno cominciato ad andarci anche i figli degli operai si è cominciato a dire:
‘Ma in fondo in fondo siamo sicuri che poi tutto questo serve?’
E adesso siamo arrivati al punto che questa grande conquista per cui si era detto:
‘Tutti devono avere davanti molti anni durante i quali studiano
senza chiedersi a cosa mi servirà questo specificamente’
non va più bene; si è cominciato a dire e a pensare che per mandare la gente a scuola
la cosa poi deve essere spendibile sul mercato del lavoro,
e si è arrivati adesso all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi, come ai loro nonni analfabeti:
‘Anche se avete soltanto sedici, diciassette o diciotto anni, però un po’ di lavoro lo dovete fare.
Che è questo lusso di passare quegli anni solo a studiare a scuola?’”

Guardiamo all’università italiana, ripetutamente accusata di essere “troppo teorica”, “troppo accademica” (sic!). A cosa serve laurearsi con 110 e lode in economia, se poi, a conclusione del percorso di studi, non si è nemmeno capaci di leggere un estratto conto bancario o di compilare il 730 per la dichiarazione dei redditi?

Chi si pone questa domanda, o domande simili, è qualcuno che chiaramente non ha mai studiato un solo giorno in vita sua. Potrà pure aver conseguito dei titoli – lauree, dottorati, master – ma il punto rimane: non ha mai studiato un solo giorno in vita sua (perché aver letto uno o più libri, averne ripetuto il contenuto a un professore, aver strappato un voto eccellente, e aver proseguito così fino alla laurea e oltre, non implica automaticamente l’aver studiato).

Perché lo studio – intendo lo studio autentico, genuino – non ha nessun obiettivo pratico immediatamente individuabile.

Lo studio serve a spalancare tutte le porte del cervello, così da potergli far entrare di tutto, da tutte le parti, in qualunque momento; lo studio serve a concimare il cervello, a renderlo un terreno massimamente fertile, di modo che gli si possa piantare di tutto, confidenti che tutto germoglierà; lo studio serve a tenere il cervello costantemente vigile, pronto a rispondere a ogni eventualità, a ogni sollecitazione; lo studio serve a ingrandire le dimensioni stesse del cervello, se mai fosse possibile.

Un’università sviata da necessità troppo pratiche – come avvenuto con la cosiddetta “riforma 3+2” – disattende il suo mandato, tradisce la sua stessa natura. È solo lo studio alto e generale – della storia economica e degli economisti, delle teorie economiche e dei modelli econometrici, e prima ancora di tutta la matematica, la statistica e la probabilità che vi stanno dietro – a poter formare la figura professionale dell’economista, che all’occorrenza, se necessario, imparerà all'istante anche a leggere un estratto conto o a compilare un 730. Ma se l’insegnamento universitario viene mortificato da esigenze pratiche immediate, se tutto si risolve nell’insegnare direttamente a leggere estratti conto e a compilare 730, i corsi di laurea sforneranno insuperabili lettori di estratti conto, eccellenti compilatori di 730… e nient’altro.

Nel mio corso di laurea c’era una materia dal nome agghiacciante: algebra. E se questo nome non fosse stato già abbastanza terrificante, vi avevano aggiunto una qualifica ancor più sinistra: astratta.

Algebra astratta: roba da brividi, per chi è assillato dal bisogno di sapere a cosa servono esattamente le cose.

Già: a cosa serve l’algebra astratta?

Facciamola vergognosamente semplice: l’algebra astratta studia insiemi di oggetti, per l’appunto “astratti”, nel senso che astrae dalla natura specifica degli oggetti – che possono esseri numeri, figure geometriche, ma anche, francobolli, monete, orologi, scarpe, … – e si preoccupa solo di analizzare le relazioni tra gli oggetti.

Immaginiamo – giusto per rendere l’algebra astratta un filo meno astratta – che il nostro insieme di partenza sia l’insieme N dei numeri naturali, i numeri usati dai bambini per contare: 1, 2, 3, 4, … e via così.

Definiamo – sull’insieme N – l’operazione di somma, che indichiamo col segno “+"”. Si può dimostrare – e il risultato è intuitivo – che scelti ad arbitrio due numeri naturali, x e y, la loro somma s=x+y è sempre un numero naturale: si dice allora che l'insieme N è chiuso rispetto all’operazione di addizione.

La proprietà di chiusura ha grande rilevanza – ci sono molti vantaggi nell’operare liberamente sugli elementi di un insieme, sapendo di rimanere sempre al suo interno – anche perché non è affatto scontata. Già con l’operazione di sottrazione, indicata col segno “-”, non è più rispettata. Se scegliamo arbitrariamente due numeri naturali, x e y, non siamo più sicuri che la loro differenza d=x-y sia ancora un numero naturale. Se x=3 e y=5, ecco che d=-2, e il numero -2 non è un elemento di N: l’operazione di sottrazione – in questo caso – ci ha portato fuori dall’insieme di partenza.

Questo è l’esempio più semplice; volendo se ne possono dare di più complessi, anche coinvolgendo l’infinito, ma qui non vogliamo mica tenere un corso di algebra astratta; e poi, se non sei già scappato venti righe fa, all’inizio di tutto il discorso, se sei ancora qui a leggere, allora sicuramente ti starai ponendo la solita domanda: ma a che serve?

Ebbene, l’algebra astratta ha un’infinità di applicazioni; e non parlo di applicazioni esplicite e dirette, quelle in cui si è consapevoli di mettere all’opera uno schema teorico in una situazione pratica, per formalizzarla, comprenderla e governarla; da questo punto di vista, anzi, l’algebra astratta non ha forse nessuna applicazione (e se le ha, io non le conosco); io mi riferisco alle applicazioni implicite e indirette, quelle in cui inconsapevolmente, senza volerlo, ci si lascia guidare dai formalismi dell’algebra astratta, che diventano un paio di occhiali attraverso cui guardare il mondo.

Di esempi ne potrei esibire a volontà, e anche di notevole e obiettiva rilevanza, ma preferisco restare aderente al tema e al contesto, quindi parliamo semplicemente… dei blog.

Cos'è un blog, sul piano formale? È un insieme di post disposti in sequenza temporale (e già compare il concetto di insieme).
 
Qui, in questo blog – Gli artigiani della scrittura – la sequenza temporale risproduce il più fedelmente possibile una sequenza logica, perché questo blog vuol essere un manuale (pur col solito caveat: l’apprendimento è un processo circolare, non lineare) e quindi l’ordine di pubblicazione recepisce la scansione concettuale dei vari argomenti, e non servono ulteriori accorgimenti.

Ma di regola, in qualsiasi alto blog – ad esempio i miei Tesori di Carta – è prassi taggare i post, attribuirgli una o più etichette. E cosa vuol dire – formalmente – taggare (etichettare) i post? Vuol dire creare dei sottoinsiemi omogenei rispetto alle etichette attribuite, vuol dire isolare (chiudere in un recinto) tutti i post attinenti a un certo argomento, vuol dire – in definitiva – offrire dei percorsi di lettura ai frequentatori del blog, con la certezza che tutto ciò che tocca quell’argomento si trova nell’itinerario. E quando un blog, dopo anni, accoglie centinaia di post, ecco che avere dei percorsi di lettura costruiti sui tag – passare cioè da una semplice esposizione cronologica a una schematizzazione logica – è fondamentale per rendere piacevole l’esperienza dei frequentatori (e se si vuole è necessario allo stesso blogger, per tenere sotto controllo l’evoluzione della sua creatura).

Tutta l’abilità sta nel definire tag pertinenti, da affibbiare ai post con la massima precisione; e allora si vede – eccome se si vede! – se uno ha studiato o no algebra astratta.

Chi ha studiato algebra astratta sa bene quanto sia delicata l’operazione di etichettatura; sa quante accortezze occorrono per soddisfare la proprietà di chiusura, per avere dentro un insieme tutto e solo ciò che deve effettivamente stare in quell’insieme (in modo che, combinando liberamente i singoli elementi, si abbia un risultato che appartiene ancora all’insieme).

Chi non ha mai studiato algebra astratta – perché tanto l’algebra astratta non serve a niente – finirà con l’auto-sabotarsi; affibbierà una marea di tag ai post iniziali, in preda a un mal controllato entusiasmo (ignaro che quante più etichette si mettono tanto peggio la singola etichetta assolve la sua funzione caratterizzante); poi ne metterà meno e sempre meno, e nei post successivi i tag andranno a scemare; finché il capriccio dei tag non gli passerà del tutto e allora non ne metterà più, con l’effetto di trasformare il blog in una selva oscura (per il lettori) o in un’idra a nove teste (per lui stesso).
 
Ma chi se lo sarebbe mai immaginato, quando si faticava su “gruppi”, “anelli”, “campi” e altre strutture algebriche, che tutto questo lavorio sarebbe tornato utile – se non fonamentale – per gestire al meglio un blog? 

Perché – vedi – un progetto definito a priori in tutti i suoi dettagli, ben caratterizzato in ogni sua minuzia, potrà forse vantare il pregio della chiarezza, ma di sicuro si preclude le infinite possibilità a disposizione di quei progetti che restano invece flessibili, aperti all'imprevedibile. Perché – a voler portare il discorso alle sue conseguenze ultime – solo un obiettivo inutile, purché ben scelto, può soddisfare in automatico un'infinità di bisogni pratici e utili.

Il matematico David Hilbert sosteneva che la più grande impresa tecnologica del ventesimo secolo sarebbe stata la cattura di una mosca sulla luna: perché – diceva – la quantità di problemi ancillari che si sarebbero dovuti risolvere per venire a capo di un obiettivo di per sé inutile (la cattura della mosca sulla luna) avrebbe implicato la soluzione di gran parte dei problemi del mondo (“di quasi tutte le difficoltà materiali del genere umano”, per citarlo alla lettera).

Gli artistoidi – leggi pure “scappati di casa” e “fuggiti dalle fogne” – amano contrapporre la cultura umanistica alla cultura matematica, e arrivano persino a vederle tra loro in conflitto, senza capire che “cultura” è un sostantivo che non tollera aggettivi, che una persona di cultura possiede – o quanto meno ricerca attivamente – un’apertura mentale che può provenire solo da una ben governata molteplicità di interessi e curiosità, da amalgamare tra loro.

Questo modulo è una prova delle interrelazioni tra discipline (apparentemente) lontane.

Scrivere – saper scrivere narrativa con efficacia – è un’arte che si coltiva al meglio con una mente e una predisposizione matematica: c’è un obiettivo finale (persuadere il lettore, emozionandolo) e ci sono obiettivi intermedi (trasmettergli le migliori informazioni su luoghi e personaggi), da realizzare sotto un vincolo di spazio (la pagina).

Ma cos’è poi che ci dà la sensazione di eleganza in una soluzione, in una dimostrazione matematica?” – è l’accattivante domanda di Henri Poincaré, a cui lui stesso dà la risposta più precisa – “È l’armonia delle diverse parti, la loro simmetria, il loro felice equilibrio: in una parola, è tutto quello che introduce un ordine, quello che dà unità, che ci permette di vedere chiaramente e comprendere in un sol colpo l’insieme e i dettagli”.

Che è esattamente ciò che ci si attende da uno scrittore, ma che solo la matematica può insegnargli a fare nel modo più preciso e raffinato.


 
 

È impossibile commentare organicamente il post sul  “Punto di Vista”.
 
Crisi vuol dire mutazione repentina. Siamo noi che gli assegniamo un significato negativo, perché abituati a collegarla al passaggio da una situazione favorevole a una sfavorevole (crisi economica, crisi sociale, rapporto sentimentale in crisi, …) ma il termine in sé non preclude un senso di marcia opposto, da una situazione sfavorevole a una favorevole”.
 
Non è questa la definizione di “crisi” che assocerei a quella del narratore (in ogni sua declinazione) nella forma romanzo, non ci vedo proprio niente di repentino se ne parliamo da duecento anni ormai.
 
Questa mi piace di più: “situazione di malessere o di disagio, determinata, sul piano individuale, da un profondo dissidio o squilibrio interiore, oppure, sul piano sociale, dalla mancata corrispondenza tra valori e modi di vita, per lo più sintomo o conseguenza di profondi mutamenti organici e strutturali.” 
 
Per la mia sensibilità, si tratta di una crisi che afferisce all’impossibilità di comunicare l’esperienza. E non si tratta di una generica decadenza, o di qualcosa che d’improvviso squarcia il velo, lasciandoci senza una stella polare per orientarci, no.
 
Sono appunto duecento anni che si prepara questa dissoluzione del narratore, la contemporaneità l’ha portata a compimento con l’azzeramento della dimensione spazio-temporale, e forse (forse) a livello tecnologico siamo già andati oltre, forse quella “nuova bellezza” che sarebbe scaturita dalla fine del narratore, quella di cui parlava Benjamin già negli anni sessanta del Novecento, è oggi palpabile negli esperimenti di XR e VR.
 
 
 
Sono appunto duecento anni che si prepara questa dissoluzione del narratore.

Sì, probabilmente è così.

A un livello di argomentazione molto elementare, l’analfabetismo era la normalità, duecento anni fa; già il saper leggere era una gran cosa; figurarsi arrivare a scrivere dei romanzi.

Vi era dunque una marcata soggezione psicologica verso gli scrittori, perché “aver scritto un romanzo” era uno status sociale; e questa sudditanza – in una certa misura – ha continuato a dare segni di sé ancora fino a vent’anni fa.

Ma nel 2024 nessuno si impressiona nel venire a sapere che il collega d’ufficio ha scritto un romanzo. Perché tutti scrivono romanzi, e quasi tutti riescono a pubblicarli, senza bisogno di rivolgersi ad editori a pagamento. “Scrivere”  – intendo dire l’atto in sé della scrittura – non è più quell’attività nobile ed elitaria dell’800 (meno male, per certi versi, mi viene da aggiungere) e per di più, nel tempo, sono germogliate numerose alternative alla lettura, tutte oggettivamente ben fatte (diciamo pure molto meglio ben fatte rispetto ai libri di narrativa).

È tutto un mondo – quello della scrittura e della lettura – che ha perso smalto e attrattiva, e la sola via per risollevarlo è il recupero del suo unico, autentico elemento di forza: il personaggio “Punto di Vista”.

 
 
E chi è invece quella donna che il nome di una donna, le tette di una donna, i capelli di una donna, la gonna, i tacchi, gli orecchini e il mascara di una donna, ma non è una donna?
 
È Jessica Rabbit che confessa a Valiant Lei non ha idea di quanto sia difficile essere una donna con l’aspetto che ho. Io non sono cattiva, è che mi disegnano così .
 
 
 
Tu stai leggendo per diventare qualcun altro, non per giudicare i personaggi con i tuoi schemi prefabbricati. […] Riesci per un istante – giusto il tempo del racconto – a rinunciare a te stessa, nel nome del personaggio?
 
Ci provo, però intendiamoci: o è colpa dello scrittore, o è colpa del lettore, tertium non datur. Personalmente questa “chiarezza” nella versione originale del racconto L’ultimo caffè non l’ho per niente sentita.
 
Incipit: Lui non c’era più, ma non potevo fingere che mi importasse ; a seguire Andrea l’aveva scoperto e nonostante la furiosa litigata, le urla e i pianti, stavo bene; volevo solo lasciarmi tutto alle spalle.
 
Da qui in poi, nella versione originale, lui le mette le mani addosso, sicché il tempo per il settaggio direi che è finito qui per il lettore. O no?
 
Tu scrivi nel post: “[lei] si sente in colpa per averlo tradito, perché le indecisioni di lui sul loro futuro – ora – non le sembrano poter giustificare la follia di una notte”.
 
Io non evinco questo nella lettura della versione originale.
 
Ad ogni modo la domanda resta: se nelle altre occasioni e negli altri moduli si sostiene che è “colpa dello scrittore” se il lettore “non ha capito”, ora non è che possiamo dire al lettore che “non ha capito perché non ha letto col giusto spirito, non ha letto con la giusta predisposizione, quella di mettersi nei panni di un altro”.
 
 
 
[…] non è che possiamo dire al lettore che non ha capito perché non ha letto col giusto spirito, non ha letto con la giusta predisposizione, quella di mettersi nei panni di un altro.

Colgo il punto, e lo sfrutto per dargli precisione.

Sì, l’atteggiamento di base porta ad attribuire la colpa sempre allo scrittore, nel senso che lo scrittore ha sempre ben chiari nella sua testa i personaggi e i loro stati d’animo – “l’emozione della scena” – ma può dimenticarsi – e qui sta la colpa – che il lettore conosce solo ciò che è scritto sulla pagina (testo) e ciò che viene generato in base a ciò che è scritto (sotto-testo).

Poi, però, dobbiamo pure riconoscere che la più parte di noi non è mai stata “educata a leggere”, e questa è in effetti la motivazione principale del blog: “educare a leggere”, più che a scrivere, perché alla fine uno potrà anche non scrivere mai (per mille motivi) ma sempre leggerà qualcosa, e allora è bene che sappia come si deve leggere un testo di narrativa, per goderlo appieno. Saper leggere – per mutuare il titolo di un libro di Prezzolini – potrebbe essere lo slogan del blog.

Ora – e ritroveremo il punto sotto forma di comandamento, quando parleremo dell’arco – il “saper leggere” presuppone l’accettazione di ciò che sta scritto esplicitamente sulla pagina, anche se contrasta con le nostre idee, con la nostra visione del mondo. Non possiamo fingere che certe cose non siano scritte, così come, in senso inverso, non possiamo forzare nella pagina cose che non vi sono scritte. Se vi sembra banale, sappiate che siete sulla via del disastro.

Per quel che ne posso sapere io – ma vi prego correggetemi, ché non si finisce mai di imparare – l’orgasmo femminile non ha la meccanicità di quello maschile. “Strofina abbastanza” un uomo, e stai sicura che gode, in qualunque situazione possibile o immaginabile. Ma per una donna – correggetemi – la cosa è diversa: puoi “sbatterla” come e quanto vuoi, ma se non si è “lasciata andare”, se non è “emotivamente coinvolta” – non per forza innamorata, solo coinvolta – difficilmente proverà piacere.

Quindi, se raggiunge un orgasmo vuol dire – senza possibilità di smentita – che era “emotivamente coinvolta”.

Cos’è che ha infastidito nel racconto L’ultimo caffè? Che questa emozione sia stata suscitata da un approccio violento? È questo che ha disturbato?

Ma io, scrittore, cosa ci posso fare se tu “non sai leggere”?

Che colpa ne ho – qual è il mio limite – se tu non capisci la differenza tra essere presa da uno sconosciuto, portata in un vicolo buio e violentata, e una situazione come quella descritta nel racconto?

Cosa ci posso fare se per te entrambe le situazioni collassano semplicemente nell’essere stata “violata”, perché non possiedi la finezza per discriminarle?
 
Come posso difendermi davanti al fatto che ti rifiuti di credere che la ragazza abbia avuto un orgasmo, quando in entrambe le versioni questo orgasmo è chiarissimo?

Perciò, sì, è sempre colpa dello scrittore. Fino a un certo punto. E precisamente fino al punto in cui il lettore palesa in modo evidente la sua incapacità a “saper leggere”.
 

 
Una chiosa al commento, per recuperare – e vedere all’opera – i contenuti del modulo 16.

Perché a un certo punto, nella versione riscritta del racconto L’ultimo caffè, si sentono le voci di una famigliola provenire dal pianerottolo? Perché mi andava di metterle e allora le ho messe? No, ovviamente. Le ho messe perché assolvevano a ben tre funzioni, nella logica ottimizzante della “pistola di Cechov”.

Primo: le voci dei ragazzini fanno “rinsavire” il protagonista, perché gli rievocano i discorsi della ragazza sull’avere una famiglia, che gli erano già venuti in testa quando si trovava da solo nella camera da letto

Secondo: offrono la possibilità alla ragazza di chiedere aiuto, semmai volesse farlo; possibile che sia così sconvolta e paralizzata dallo shock, da non riuscire a urlare per salvarsi? Dai, su, è il suo fidanzato storico, non uno sconosciuto, e sta a casa sua; davvero non riesce neppure a chiamare aiuto? Forse, chissà, è perché quell’aiuto non lo vuole.

Terzo: Niente forse. Non lo vuole proprio. Tant’è che chiede al ragazzo di continuare (cosa che non sarebbe stata possibile se il ragazzo non si fosse mai fermato). E una donna che ti dice “continua, non ti fermare!” (a parte che è la cosa più bella che un uomo può sentirsi dire) mi sembra fin troppo ovvio che è consenziente (e comunque, a prova di scemo, la battuta finale smazza via ogni dubbio, semmai ne residuassero davvero).

Nella versione originaria sicuramente non c’era tutta questa ricchezza informativa, e ce la si cavava con un’espediente grossolano – la ragazza che raccontava di non aver “mai goduto così tanto” – che però, per quanto approssimativo e dozzinale, alla fine comunicava comunque lo stato d’animo. 
 

 
Tu scrivi: Perché tutti loro – e tanti altri – forse non avrebbero mai iniziato la carriera da calciatore, se avessero minimamente immaginato quanto sarebbe stato doloroso smettere”.
 
E questo è Agassi, nella sua biografia.
 
Per me Wimbledon è diventato un luogo sacro.
 
È lì che ha brillato mia moglie. È lì che ho sospettato per la prima volta di poter vincere ed è lì che l’ho dimostrato a me stesso e al mondo. Wimbledon è dove ho imparato a cedere, a piegare il ginocchio, a fare qualcosa che non volevo fare, a indossare cose che non volevo indossare, e sopravvivere. E poi, quali che siano i miei sentimenti nei confronti del tennis, il gioco è la mia casa. 
 
Odiavo casa mia da bambino, poi me ne sono andato e ho iniziato subito ad averne nostalgia. Nelle ultime ore della mia carriera quel ricordo torna sempre a rimproverarmi. Dico a Darren che questo sarà il mio ultimo Wimbledon e i successivi US Open saranno il mio ultimo torneo in assoluto. L’annunciano subito prima dell’inizio di Wimbledon. Immediatamente dopo, sono stupefatto dal diverso comportamento dei miei colleghi. Non mi trattano più come un rivale, una minaccia. Mi sono ritirato. Sono irrilevante. È caduto un muro. […].
 
Vado a Washington e gioco con un italiano che viene dalle qualificazioni, di nome Andrea Stoppini. Mi batte come se a venire dalle qualificazioni fossi io, e provo vergogna. Dico ai giornalisti che sto lottando con la fine più di quanto pensassi. Gli dico che il modo migliore in cui riesco a spiegarlo è questo: molti di voi, ne sono sicuro, non amano il loro lavoro. ma immaginate che qualcuno vi dica di punto in bianco che il vostro pezzo su di me sarà l’ultimo.
 
Dopo di questo, non potrete più scrivere un’altra parola in vita vostra. Come vi sentireste?”.

 
 
“[…] gioco con un italiano che viene dalle qualificazioni, di nome Andrea Stoppini. Mi batte come se a venire dalle qualificazioni fossi io, e provo vergogna”.

Questa frase di Agassi mi ha fatto tornare alle mente un famoso calcio di rigore: “Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un goal a Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà”.
 

 
Il processo che ha condotto dall’ameba all’uomo è apparso ai filosofi come segno di un evidente progresso. Non si conosce al riguardo l’opinione dell’ameba”.

Vent’anni prima di pubblicare L’origine delle specie, libro che per quanto mi riguarda dovrebbe sostituire la nascita di Gesù come spartiacque (se abbiamo bisogno di definire un “prima” e un “dopo” nella storia dell’essere umano, la cresta da attraversare per posizionarsi di qua o di là deve riguardare la storia dell’essere umano stesso, piuttosto che un’arbitraria datazione della nascita di un rappresentante di specie a caso, ti pare?) Darwin disegnò sul suo taccuino l’immagine di un albero e ci scrisse accanto I Think .
 
Basta questo a sconfessare l’accoppiata evoluzione-progresso, che a ben guardare non è altro che “un pregiudizio socio-culturale, non una conclusione della biologia. […] la fonte primaria di questo pregiudizio [va ricercata] nel nostro umano desiderio di vedere noi stessi come l’apice della storia della vita, i dominatori della terra per diritto e per necessità biologica”, come ha scritto con chiarezza esemplare Stephen Jay Gould.
 
Si può discutere o non discutere su quanto Gloud abbia rimodellato il concetto biologico di “adattamento”, ma questa è un’altra parte della storia. Non tutti i filosofi e gli scienziati si sono svenduti a questa idea "sapienscentrica" di progresso insito nella selezione naturale, di adattamento come forma di sopravvivenza del “migliore”. Per fortuna.
 

 
Tenete bene a mente queste osservazioni su Darwin e dintorni. Torneranno utili nel modulo 23 (sulla progettazione delle storie).

Il Terzo Comandamento recita: “non giudicare l’arco, l’arco è darwiniano”.
 
 
  
Su Fabrizio de André.
 
Al posto di Reverberi, che aveva collaborato a tutti i dischi di De André fino al 1970, l’album Non al denaro, non all’amore né al cielo è musicato e poi arrangiato dal giovane (e futuro Oscar) Nicola Piovani, che racconta in seguito: “Il lavoro era facile, con un poeta che aveva il senso musicale della parola: i suoi versi e la sua voce erano lì pronti a diventare musica: e poi lui aveva l’arte di ricomporre i versi in ragione della metrica musicale. Un incanto e una soddisfazione insieme. […]. L’unico impegno che ci davamo e che seguivamo era quello di lavorare con convinzione, raccontare quella storia con parole e musiche che ci convincessero un impegno di lealtà stilistica. […]. Una lezione di coerenza e di rigore, il rigore di chi non si metteva al servizio delle leggi di mercato”.
 
Quasi tutti gli altri musicisti coinvolti erano nel gruppo di Ennio Morricone, il che si sente pesantemente, prendi ad esempio i vocalizzi di “Un malato di cuore”, che sono una falsariga di quelli di C’era una volta il West, del ‘68.
 
Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) ti restituisce allegria e spensieratezza perché è sviluppato su una tonalità maggiore, e le modulazioni presenti nel brano portano la musica su altre tonalità sempre maggiori, spesso più alte, confermando una cinetica distesa. 

Sui testi, oltre che alla consulenza della Pivano, Faber ha collaborato con Bentivoglio che è coautore. “Grazie musica” sì, certo, “grazie a tutti”, direi 😊.
 

 
Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) ti restituisce allegria e spensieratezza perché è sviluppato su una tonalità maggiore, e le modulazioni presenti nel brano portano la musica su altre tonalità sempre maggiori, spesso più alte, confermando una cinetica distesa.

E siccome io credo che nulla in un’opera venga lasciato al caso, soprattutto se parliamo di artisti di un certo calibro, perché proprio per Un matto si è scelto di sviluppare il brano “su una tonalità maggiore” e di portare la musica “su altre tonalità sempre maggiori, spesso più alte, confermando una cinetica distesa”?

Perché nei matti – non tutti, intendiamoci, ma in più di quanti si creda – c’è una spensieratezza che forse noi normali non avremo mai, come se Madre Natura avesse in qualche modo operato una sorta di compensazione.

E De André evidentemente lo sapeva. Perché a lui – da vero artista – parlava solo di cose che conosceva.
 

 
Lo stesso De André te lo conferma, attraverso l’intervista rilasciata a Rossana nel 1967 dove spiega la genesi delle sue canzoni: “leggendo una novella, un libro o semplicemente un giornale, mi viene improvvisamente l’idea per un testo. Allora, per ricordarla, faccio una stesura in prosa. Poi, in base a questo schema, che può essere allegro, drammatico o ironico , secondo l’impulso che l’ha ispirato, invento la musica alla chitarra; quindi leggendo la prosa scritta prima, faccio i versi in rima”. 
 

 
Immagina di essere un uomo a cui piacciono le donne formose, anche cicciottelle o abbondanti, belle piene ovunque. E ora immagina che il protagonista del film abbia invece un debole per le donne magrissime: devono essere dei ‘manici di scopa’, altrimenti non gli trasmettono nulla. La scena sullo schermo ti mostra il protagonista in un pub con gli amici, quando entra una ragazza “manico di scopa” che lo lascia imbambolato, suscitando l’ilarità della compagnia. Benissimo, ma tu spettatore cosa vedi? Vedi una ragazza magra come un manico di scopa, e, accidenti, proprio non capisci come il personaggio possa trovarla attraente, visto che a te una donna non dice nulla se non ti fa ombra quando ti si piazza davanti. Il personaggio è il personaggio, e tu sei rimasto tu: non c’è modo di capire, anche solo alla lontana, come possa eccitarlo un manico di scopa, quando per te non può essere vero amore sotto un certo tot di chili”.

Questo esempio, mi vien da dire, funziona a tuo favore solo se la scena che ci mostra il protagonista al pub con gli amici è la prima scena. In quel caso sì: digiuno di ogni informazione riguardo i gusti del protagonista in fatto di donne, io spettatore – se sono amante di curvy, chubby o BBW – sicuramente resterò spiazzato, di primo acchito, nel constatare che il protagonista del film che sto vedendo ha gusti diversi dai miei in fatto di fisicità femminile. Certamente, potrebbe essere più periglioso il percorso di immedesimazione.
 
E quindi? Quando guardo un film, così come quando leggo un libro, io sospendo l’incredulità, e sono disposto a silenziare i miei gusti personali in favore di quelli del protagonista che sto seguendo.
 
Viene da sé che dopo questa prima scena in cui da spettatore apprendo – forse in modo non elegantissimo – quali sono i miei gusti “in veste personaggio”, li darò per assodati, proseguendo oltre, e aspettandomi di venir sedotto dalla scheletrica della situazione: non è vero ma è verosimile, ed è simulabile senza sforzo che ad alcuni piacciano le magre e ad altri no.
 
Con una scena non si può tirare ulteriori giudizi: starà poi al seguito del film qualificare i gusti del personaggio ulteriormente, spiegarli in parte, se è utile alla sua psicologia; oppure semplicemente capitalizzarci sopra e andare oltre, se non sono così importanti.
 
 
 
La sospensione dell’incredulità – in generale – è un’apertura di credito che viene concessa dallo spettatore all’opera (e quindi al suo autore): so che non è vero, ma fingo che lo sia, mi predispongo per accettare la verità di ciò che vedrò o leggerò, qualunque cosa sia.

In quest’ordine di idee, accettare un uomo a cui piacciono le donne magrissime, quando invece a me piace il genere BBW e dintorni, è qualcosa che non intacca minimamente la mia sospensione dell’incredulità: a me piacciono le BBW e a lui i grissini, e so che a tanti altri piacciono i grissini, ma non a me; fa niente e andiamo avanti.

Quindi attenzione quando si dice che sto silenziando “i miei gusti personali in favore di quelli del protagonista che sto seguendo”. Non è esattamente così. Io sto sì silenziando i miei gusti, e sto sì accettando che il protagonista abbia gusti diversi dai miei, ma continuo a non capirli, e tuttavia lo accetto perché so che esiste una varietà di preferenze, e quindi la sospensione dell’incredulità non è intaccata.

Però qui non si parla semplicemente di riconoscere che, sì, esistono uomini a cui piacciono le donne “manico di scopa”, e io lo accetto per non guastarmi la visione del film. Qui si tratta di arrivare a dire “ora capisco anch’io, fanatico delle BBW, come sia possibile essere attratti da un manico di scopa”.

Questo switch mentale è tutt’altro che scontato, e difficilmente lo si può ottenere al cinema, dove interviene solo il senso della vista; serve un’attività di partecipazione cerebrale all’opera, che non dico possa realizzarsi solo con la scrittura, ma che la scrittura (se ben fatta) realizza con un’intensità virtualmente impossibile da ritrovare altrove.
 
 
 
Tutto molto bello e poetico, ma il ‘Punto di Vista’ dov’è? È ovvio che non c’è, perché un “Punto di Vista” non potrebbe mai vedere la realtà rappresentata in queste righe, che sono manifestamente figlie di un maldestro tentativo di replicare ciò che si vedrebbe sul grande schermo”.
 
Lo stralcio che hai riportato non è certamente in linea con la tecnica di scrittura dei moduli precedenti, direi anzi che è agli antipodi. Ma se nell’esempio precedente (quello dell’astronave fra Giove e Saturno, per intenderci) hai colto nel segno, qui non riscontro questa discrepanza incolmabile.
 
Ripeto, è uno stralcio che non si allinea alle regole di “bruta scrittura” che hai declinato, ma non fatico a immaginare un personaggio in piedi sul cortile, che ha assistito al tramonto del sole oltre il muro di cinta suddetto (guardando per aria), che riporta l’immagine dell’ombra del palazzo sul cortile (guardando per terra) e ci racconta una scenetta legata al cortile medesimo (i papà che insegnano ai figli a tenere l’equilibrio in bicicletta). Dei tanti problemi che puoi attribuire a queste righe, quello del “Punto di Vista” troppo cinematografico non mi pare il più urgente.
 
 
 
Sì, hai ragione: con un po’ di fatica si potrebbe pure immaginare una qualche macro-compatibilità del “Punto di Vista” con il movimento di camera implicito nella descrizione. Quindi, sì, a una prima lettura può pure sembrare che la descrizione regga. Ma se ci mettiamo a vivisezionarla “frase per frase”, “parola per parola”, ci accorgiamo che più di qualcosa stride o stona.

Comunque, sì, hai ragione: non è gravissimo, o comunque lo è meno di altre cose decisamente più pacchiane.

Diciamo che serviva per dare un esempio un po’ meno banale (e, come nota a margine, io ho la certezza che l’autore del brano non aveva in testa un “Punto di Vista”, ma un’inquadratura cinematografica; che poi, per avventura, questa sua inquadratura cinematografica abbia rivelato una possibile compatibilità con un “Punto di Vista”, nulla toglie all’errore di impostazione).
 
 
 
I flashback e i flashforward […] rimangono soluzioni di origine cinematografica, che – di nuovo – vengono importate in scrittura per un malinteso senso di imitazione, e a volte solo per assecondare il proprio fetish verso forme narrative esotiche”.
 
No, qui dissento.
 
L’analessi e la prolessi sono state assorbite dal cinema, dai videogiochi e dalle serie TV, ma nascono sulla pagina – come tutto ciò che si trova nella pagina nasce, a ben vedere, dall’oralità – per assimilazione o negazione.
 
Nell’Odissea, nell’Iliade e nell’Eneide ci sono le analessi, e tanto basta.
 
Poi possiamo concordare sul fatto che questi procedimenti narrativi non vadano impiegati perché non sono più attuali (o talmente abusati da essere stati svuotati) o – per venirti più dietro possibile – perché interrompono il flusso narrativo e denunciano la presenza di un montaggio cronologico attribuibile primariamente a quel narratore che tentiamo di smantellare, ma non sono soluzioni di origine cinematografica.
 
 
 
Sì, diciamo che nascono sulla pagina perché (quasi) tutto nasce sulla pagina, nel senso che la pagina scritta viene prima del cinema – decisamente molto prima – e quindi ha finito per accogliere un po’ tutto.

Quindi la versione corretta sarebbe: “flashback e flashforward sono soluzioni ottime per il cinema” oppure “che danno il meglio di sé al cinema”, e – lasciami aggiungere – “che in scrittura rivelano spesso una certa pigrizia da parte dell’autore” (della serie: “non so come passare certe informazioni al lettore, allora gli piazzo un bel flashback e tanti saluti”).
 
 
 
Giusto un umile appunto sul brigante Crocco, per coerenza interna (almeno al modulo): se gli passiamo certi svarioni perché teniamo a mente che si tratta di “un brigante imprigionato che scriveva le sue memorie” sul finire del 1800 e non certo di Stephen King, allora mi pare poi esagerato dire che “la saggia rinuncia a dire tutto” nelle sue memorie è dovuta alla “consapevolezza che è impossibile farlo”.
 
Stesso dicasi per la sensorialità della scrittura: è un dato di fatto che le persone poco o per nulla alfabetizzate ragionano, e quindi si esprimono, e quindi (se vogliono e possono) scrivono – o dettano – con un linguaggio pratico e sensoriale, con un vocabolario ridotto, non certo per scelta stilistica, ma per ignoranza.
 
La similitudine è, di nuovo, un modo peculiare di esprimersi delle persone poco o per nulla alfabetizzate, perché le figure retoriche (tutte) nascono nell’oralità per esprimere qualcosa che non si sa esprimere altrimenti, come nel tuo esempio passato sul verso di un ipotetico liocorno di Saturno.
 
E sono sempre questi i motivi di base per i quali le figure retoriche partorite da questo tipo di scrittori risultano meno artificiose di quelle uscite dalla penna dei cosiddetti letterati o intellettuali, perché (spengo l’interruttore del politically correct) un fornaio con la quinta elementare che resta imbambolato davanti ad una nevicata penserà inevitabilmente alla farina, non certo alla danza di “stanche ballerine”. 
 
Allo stesso modo Carmine Crocco paragona i bimbi in fasce che dormono appiccicati l’un l’altro a degli stoccafissi e non alle pale di un polittico del 1400.
 
Non c’è merito nell’essere poco o per nulla alfabetizzati, e di conseguenza esprimersi in funzione dei propri limiti e nell’alveo del proprio vocabolario.
 
C’è merito, per come la vedo io, nell’essere magari finemente acculturati, poliglotti e globetrotter e fare un atto di umiltà letteraria che può leggersi come un atto di amore per la scrittura e per i propri lettori: costruire un personaggio semplice (riaccendo l’interruttore), che non si esprime correttamente nemmeno nella sua lingua madre e che oltre i confini della sua città natia non è mai stato; farlo quindi parlare, esprimersi e percepire il mondo in funzione di quel che ne sa lui, col vocabolario di cui dispone lui, in barba a quello dell’autore finemente letterato.
 
 
 
Una considerazione su Massimiliano Parente e L’inumano, che sono entusiasta di trovare citato.
 
Forse farà un salto sul blog e ci dirà da sé che cosa ne pensa di tutto questo ma, nel frattempo, cerco di qualificare la sua "S" maiuscola e che cosa sia per Massimiliano “l’attacco finale alla storia” con un altro paio di citazioni da un romanzo precedente, Mamma: romanzo d’amore (Castelvecchi, 2000):  
 
Incontrandomi, domandano cosa scrivo. Non che gliene importi qualcosa, li capisco, non si sa mai cosa chiedere a chi non fa niente, a parte protrarre l’alibi dello studio, se non appunto cosa scrive. Rispondo: un romanzo. Me ne domandano la trama, è la seconda domanda di rito. Mi scappa sempre: un romanzo su mia madre. Poi mi correggo. Un romanzo sulla madre. No. Dico allora un romanzo erotico. Comunque nessuna trama. Se il romanzo ha un senso, la trama non ne ha più alcuno, la scrittura inghiotte ogni connessione, la scrittura cancella la narrazione. E il genere? Pornografico. Ecco. Ma insomma, cosa c’entra tua madre?
 
Non vi è successione tra gli eventi, nessuna narrazione, nessuna accettabile. Nessuna geografia dell’anima. Solo ipotesi precise. Immagini. La sua immagine. Le sue parole. Nel non detto si apre lo spazio biografico dell’impossibile, ripetuto all’infinito e spacciato per letteratura in ogni dettaglio, apocrifo o no, e invisibile perché troppo evidente”.
 
 
 
Se il romanzo ha un senso, la trama non ne ha più alcuno”.
 
Non so dire se l’accostamento sia pertinente, ma una delle lezioni di Pontiggia si intitolava proprio “La trama non è niente, il linguaggio è tutto”, e si riportava la risposta abrasiva di un autore a cui era stato chiesto di riassumere in suo romanzo: “se lo si potesse riassumere in poche parole, non valeva la pena usarne 90.000 per scriverlo”.

    

 
 
 
Non serve a nulla imparare la tecnica, se poi non cambi mentalità, se non formatti il cervello in profondità e lo riprogrammi da cima a fondo, per sviluppare con la scrittura quel “rapporto impiegatizio” di cui parlava Camilleri, per enfatizzare l’importanza della routine, degli automatismi, delle azioni meccaniche e inconsce.

Il blog, più che una vera e propria introduzione all’argomento, ti ha fornito un semplice assaggio; e in quest’appendice, di conseguenza, non si può che continuare a sbocconcellare; mi limiterò quindi a riproporre le considerazioni di altri formatori, quando le riterrò appropriate, per farti sentire più d’una voce sul tema, lasciandoti il compito di trarre le conseguenze.

Inizio con un video di Luca Nesler, un formatore che mi piace particolarmente sia per i contenuti che per la forma con cu li propone. Altri ne seguiranno, o forse no. Vedremo.
 


MODULI 22-23-24

Cosa si può insegnare (e imparare) e cosa no

Nella vita possono avvenire le cose più strane, ad esempio che qualcuno – per reale interesse, semplice curiosità, o per altri motivi che è meglio non indagare – arrivi a leggere questo blog sino all’appendice sui moduli di sceneggiatura.

Se davvero sei arrivato sin qui – sottointeso: seguendo il percorso corretto, la lettura e rilettura di tutti i moduli – allora dovresti saper rispondere alla domanda che fa da titolo al paragrafo: cos’è che questo blog ti ha insegnato (e che sperabilmente hai imparato) e cosa invece – né questo blog né altri – potrà mai insegnarti e dovrai imparare da solo?

Riepiloghiamo.

L’obiettivo ultimo di ogni narrativa – come chiarito sin dal modulo 2 – è persuadere il lettore di una tesi, parlando alle sue emozioni. Abbiamo qualificato l’argomentazione nel modulo 23A, con i concetti di “tema” e “premessa”, e nei moduli successivi (23B, 23C, 23D) abbiamo conferito precisione tecnica alle modalità attuative.

La realizzazione di un’opera – quindi – si regge sul presupposto che l’autore abbia una tesi da dimostrare, e qui, sì, non c’è nulla che si possa insegnare dall’esterno.

Né io né altri potremo mai spiegarti quale opinione avere tu sulla vita e la morte, sull’amore e sul sesso, sull’invidia e la gelosia, sul tempo e sul denaro, e su tutta l’infinità di “temi” potenzialmente affrontabili con una storia.

Nessuno può trasmetterti dall’esterno i contenuti specifici della tua storia, della tua scrittura, perché si presume che tu li abbia già acquisiti – direttamente o indirettamente, attraverso esperienze vissute sulla tua pelle o per osmosi con altri che le hanno vissute, con la lettura di buona narrativa o con tanto studio, o vedi tu in che altro modo – e quel che si può insegnare, nel presupposto che la materia prima ci sia, è dargli una forma e una scansione che ne massimizzi l’impatto emotivo sul lettore.

Può sembrare un’ovvietà, sino a rasentare il banale, ma l’arsenale della tecnica di scrittura e sceneggiatura non ti servirà a nulla, se non possiedi già – per tua cultura ed esperienza, per interessi e vissuto – una storia interessante da raccontare. Ex nihilo nihil fit, dicevano i latini – nulla viene dal nulla – e il seme d’innesco devi metterlo tu, perché solo tu puoi metterlo, e nessuno può sostituirsi a te in questo ruolo generativo.

Devi avere un’anima ricca di idee, suggestioni, stimoli, spunti, che ti provengono dalla tua vita globalmente intesa – esperienze dirette e indirette, letture molteplici e varie, spirito di osservazione, curiosità, capacità di empatizzare, … – e su cui, di conseguenza, potrai impostare la tua scrittura.

Devi avere delle conoscenze che siano da base per la tua scrittura, e che nessun corso di scrittura potrà mai darti, perché i corsi di scrittura insegnano a scrivere e sceneggiare, ma non possono spiegarti cosa siano l’amore, l’odio, l’invidia, la gelosia, la vendetta, il perdono, né possono dirti a quale mondo narrativo si debbano applicare, se familiare, lavorativo, sentimentale, scientifico, fantasy, militare, poliziesco, storico o altro. Queste cose devi conoscerle per conto tuo.

Devi conosce una situazione di vita così bene da poter prendere una posizione decisa su di essa (da formulare con una valida accoppiata “tema-premessa”) e devi poi avere almeno un campo d’interesse in cui quella situazione generale possa prendere una forma visibile e riconoscibile al senso comune (così da scrivere un fantasy, un rosa, un thriller, o vedi tu che altro).

La tua scrittura assomiglia cioè a quei curiosi ristoranti dove si trova da mangiare quel che ci si porta dietro. E quel che ti porti dietro ti offrirà pure le migliori e più precise soluzioni tecniche, che la semplice teoria può solo abbozzare.
 
 
Questa è una delle domande più ricorrenti dei principianti (nel senso letterale di “chi è ancora al principio”, senza che in ciò vi sia uno stigma, perché tutti abbiamo iniziato dal principio, in tutte le cose della vita).

Come faccio a contemperare il linguaggio specifico dei miei personaggi – ad esempio dei patrioti italiani dell’800, oppure degli astronauti, o di una équipe di medici in sala operatoria – con una prosa intellegibile a un normale lettore, che non conosce il gergo di quell’ambito?

Amico mio! Un corso di scrittura potrà al più fornirti qualche dritta generale, o abbozzare qualche tecnicismo buono per tutte le stagioni, come fatto ad esempio nel modulo 12.

Ma a questa domanda – come mantengo in equilibrio una prosa comprensibile al lettore con il gergo dei personaggi? – puoi rispondere al meglio solo e soltanto tu, sulla base della conoscenza dell’argomento di cui stai scrivendo, perché si presume che tu lo conosca abbastanza bene da capire – da solo – sin dove puoi spingerti senza perdere l’attenzione del lettore, e quali siano le situazioni narrative migliori per far passare i messaggi senza snaturare la storia.
 
Se invece pretendi che qualcuno ti riveli dall’esterno il “trucco” per contemperare le due istanze – e se magari credi che per migliorare ti serva un intero corso dedicato esclusivamente ai dialoghi – allora, inevitabilmente, inizierai col pretendere “trucchi” (o corsi dedicati) su ogni singolo aspetto della scrittura, che finirà con l’apparirti una selva di regolette sconesse tra loro, anziché un’arte governata da pochi, semplci ed essenziali principî.
 
 
Come volevasi dimostrare: a quando – dopo questo meraviglioso corso sui dialoghi – un bel corso sulle descrizioni?

Ora, a parte che già il fatto di parlare di “descrizioni” è rivelatore di una mancanta comprensione dei precetti della scrittura moderna (dove non esistono “descrizioni” in stile manzoniano, ma solo una realtà filtrata dal “Punto di Vista”), a parte questa grave sbavatura logica, dicevo, ti rendi conto dell’assurdità della domanda?

Permettimi di modificarla nella forma, senza alterarla nella sostanza, affinché l’assurdo diventi palese: dopo questo interessantissimo corso sul mattoncino [D], perché non metti in programma un altro corso sul mattoncino [PS]? Ma sì, certo! E poi terremo un corso dedicato al mattoncino [P], e poi un altro sul mattoncino [PP] e poi un altro ancora sul mattoncino [A], ogni volta proponendoli con la (ridicola) formula commerciale “valore del corso: 1097 euro, ma solo fino a domenica acquistabile a 397 euro”. Serio?
 
Riesci – ora – a vedere l’assurdo? Non imparerai a scrivere meglio inseguendo il proliferare di corsi su aspetti specifici della scritttura. Al più, così facendo, arricchirai chi te li vende. Ma tu – nella migliore delle eventualità – rimarrai piantato su tutti i tuoi dubbi, e – nella peggiore – potrebbero sorgertene di altri, senza speranza di venirne mai a capo, perché incapace di ricondurre il tutto a una struttura generale, sufficientemente flessibile da contemplare tutti i casi specifici.

Quindi, a chiudere, riconosciamo pure che, sì, in ogni scrittura c’è qualcosa che non si può insegnare, qualcosa che lo scrittore deve già avere e portare con sé, ma al tempo stesso – per carità di Dio – non dilatiamo il perimetro di ciò che dobbiamo possedere a priori  – dentro di noi, perché nessuno ce lo può fornire dall’esterno – all’intero mondo della scrittura e della sceneggiatura, soltanto perché non ci va di studiare.
 

Storie tutte uguali?

Anche a questa pseudo-critica – l’arco di trasformazione produce storie tutte uguali – dovresti essere capace di controbattere da solo.

Basterebbe, in fondo, esibire le opere analizzate nel modulo 24: ti sembrano forse tutte uguali? Suvvia!

Dire che l’arco appiattisce la narrazione è come dire che tutte le musiche finiranno con l’assomigliarsi, visto che le note sono solo 7; o che tutti romanzi saranno alla fine uno la fotocopia dell’altro, perché le parole sono tutte pescate dallo stesso vocabolario; o – per far risaltare ancora meglio l’assurdità – che tutte le costruzioni edili saranno simili, visto che tutte – per stare in piedi – devono soggiacere agli stessi principî ingegneristici.

Riesci davvero a dirlo, senza ridere?

L’arco fornisce la struttura della storia, e la struttura è quella cosa di cui – per definizione – nessuno si accorge (o, se preferisci, di cui ci si accorge solo quando traballa).

Nessun lettore o spettatore avrà mai la sensazione di leggere o vedere “una storia già sentita”, solo perché la storia segue l’arco. Saranno altri elementi, semmai, a trasmettergli l’impressione di un déjà-vu (ad esempio il fatto che stai scrivendo di cose che non conosci a sufficienza, e quindi scimmiotti le scene standard di film ordinari).

Ma l’arco può solo esserti d’aiuto, perché dopo millenni di studi sull’argomento – sì, hai letto bene: millenni di studio – si è arrivati a capire che è come se esistesse una “coscienza collettiva”, è come se il cervello umano fosse stato concepito per accogliere e interiorizzare le storie secondo uno schema preciso: lo schema dell’arco di trasformazione del personaggio.
 
C’è un solo senso in cui l’arco produce “storie tutte uguali”: nel senso che tutte le storie prodotte dall’arco vogliono “insegnare l’arte di vivere”, di trasformare la propria vita in un’opera d’arte, giacché quest’arte – di regola – non la si può apprendere dall’osservazione della vita vera, nel mondo reale, il più delle volte sterile, perché caratterizzata da insensatezza e irrazionalità (come a dire che il mondo reale è un posto “troppo brutto” per sperare di imparare qualcosa; serve un “luogo elegante” come il mondo della pagina, se si vuole progredire).
 
Non so se il parallelismo può esserti d’aiuto, ma a me torna alla memoria l’indagine del mito figurativo della marchesa di Mantova Isabella d’Este.
 
La Marchesa desiderava essere rappresentata – nei quadri – non già con un pedissequo adattamento al reale, bensì attraverso un calibrato equilibrio fra realtà, idea e grazia, che fosse evocativo delle proprie virtù morali e intellettuali – “i beni dell’anima” di cui parla il Trissino – secondo i canoni di una fisiognomica simbolica ben codificata.
 
Non era pertanto necessaria una somiglianza puntuale, e il ritratto doveva piuttosto rispondere a precise esigenze formali e culturali, adattarsi cioè a uno stereotipo, pur garantendo la riconoscibilità del personaggio.
 
L’originaria fisionomia del soggetto era di conseguenza sottoposta a procedimenti di depurazione e idealizzazione, una sorta di photo-shop ante litteram, se così vogliamo dire, finalizzata a rendere l’immagine massimamente rispondente agli ideali estetici elaborati dal dibattito teorico sulla bellezza e sul comportamento, sull’ideale di donna “bella e virtuosa”, sul un connubio fra virtus e pulchritudo.
 
Proprio come avviene con le storie generate dall’arco.
 
Quindi, di nuovo, evitiamo di cadere in banalità imbarazzanti, solo per dissimulare la nostra pigrizia nello studio.


Sceneggiare per la scrittura vs Sceneggiare per il cinema

Chiariamo un punto, se vogliamo semplice, ma spesso equivocato per un’insufficiente riflessione.

L’arco di trasformazione del personaggio è uno schema di rappresentazione di una storia – una guida pratica alla sua realizzazione – indipendente dal mezzo comunicativo con cui la storia prenderà forma (narrativa, film, serie tv, fumetto, videogioco, …).

La logica dell’arco – i suoi punti nodali, per la scansione degli eventi della storia – è sufficientemente generale da potersi applicare a qualunque media. Puoi essere – come effettivamente sei – uno scrittore, un autore di narrativa scritta, così come potresti essere – in teoria – lo sceneggiatore di un film a Hollywood, ma in entrambi i casi – e in tutti gli altri che vorrai immaginare – l’arco rimane il tuo punto di riferimento, la tua bussola, la tua stella polare, lo zenit.

Quel che cambia, da un media all’altro, sono i tecnicismi d’esecuzione (le abilità richieste per recitare una parte su un set cinematografico sono chiaramente diverse da quelle necessarie per rappresentare la stessa scena nel mondo della pagina). Pure, il media utilizzato può influenzare il tipo di scene che conviene realizzare, perché ogni media si presta naturalmente a esaltare scene di un certo tipo e a penalizzarne altre di diversa natura.

L’esempio classico – utile per chiarire il concetto nel modo più semplice – è dato dalle cosiddette “scene d’azione”. Sono tipiche dei film, al punto da aver creato un intero genere cinematografico (i film d’azione), ma in scrittura si rivelano deboli, per una precisa ragione tecnica. Le scene d’azione sono – per definizione – rapide, veloci, concitate, sono scene dove accadono molte cose in simultanea, e che dunque si possono apprezzare adeguatamente solo col supporto delle facoltà visiva e uditiva. In scrittura, per contro, le percezioni sensoriali scompaiono. In scrittura ci sono solo segni grafici (parole) sulla pagina, che il cervello deve decodificare (in immagini, suoni, odori, sensazioni, e così via) secondo una stretta sequenzialità, perché la scrittura procede per sua natura parola-per-parola. Come a dire, insomma, che il più delle volte la scrittura è troppo lenta per reggere il ritmo imposto da una scena d’azione, e quindi non è particolarmente furbo inserire troppe scene del genere nel proprio romanzo, perché fatalmente si finirà col cadere in tutti gli errori possibili (trovi qui un esempio).

Allo stesso modo – per dire – non ha granché senso provare a replicare in scrittura ciò che nel cinema sono le scene con “effetti speciali”, perché – ancora una volta e in misura maggiore – le facoltà visive e uditive sono cruciali per apprezzarle a dovere, laddove sulla pagina si sarebbe obbligati a lunghe descrizioni che, per quanto precise e ben fatte, non riusciranno mai nemmeno ad avvicinarsi a ciò che il cinema restituirebbe in pochi secondi, e finirebbero comunque con l’annoiare.
 
La forza della scrittura – e se vogliamo l’unico, autentico, punto di forza, su cui sarà sempre imbattibile – è nel “diventare il personaggio”, cioè nel restituire al lettore una visione del mondo – degli eventi, delle situazioni di vita – filtrati dalla psicologia del “Punto di Vista”. La scrittura gioca cioè molto – quasi tutto – sull’interiorità del protagonista, su come la sua interiorità gli fa vivere ciò che gli accade intorno, e non sui bruti fatti in sé. Non dimenticarlo mai.
 

Racconti o romanzi? Questo è il (falso) dilemma

Un racconto richiede 8-12 mila parole; un romanzo breve ne vuole almeno 25 mila; un romanzo standard tra le 35 e le 45 mila; un numero di parole superiore alle 50 mila qualifica le opere più ricche e articolate.

Sento talvolta dei lettori dichiarare la loro netta preferenza per i racconti; e, specularmente, sento dire ad aspiranti autori di preferire la scrittura di racconti anziché di un romanzo.

Non vi è dubbio che la brevità eserciti la sua attrazione su entrambi i lati, dell’autore e del lettore: sembra togliere ansia all’autore, perché 8-10 mila parole appaiono più abbordabili rispetto alle 40-50 mila di un romanzo, e senza ansia si procede più spediti; e invoglia il lettore, perché il semplice fatto di sapere di chiudere il tutto al più in una ventina di minuti lo predispone meglio nel rapporto con l’opera.

C’è però un punto scivoloso.

Una storia – a prescindere dal numero di parole – si basa su tre ingredienti: empatia, conflitto, cambiamento.

Ora, l’empatia e il  conflitto si possono sempre inserire senza troppa difficoltà, una volta che ci si è impadroniti dei rispettivi meccanismi.

Che dire, invece, del cambiamento? La parola “cambiamento” ha – in generale – un significato tecnico preciso: vuol dire “rimozione del difetto fatale”.
 
Ma un difetto fatale – a meno che non sia “molto piccolo” – non lo rimuovi in 8-10-12 mila parole.

E quindi? Quindi, spesso, il cambiamento viene indotto da altri fattori. E qual è il problema di un cambiamento sganciato da (la rimozione di) un difetto fatale? Che – ammesso che qualcuno ci sia riuscito – non è detto che tu riesca a replicarlo. Manca cioè lo schema, il calco da utilizzare.

Prendiamo il racconto I palloni del signor Kurz. Come si crea il cambiamento? Io ho individuato tre fattori: ambientazione, intruso, protagonista altamente suggestionabile. D’accordo. Qui, in questo specifico caso, realizzato da Michele Mari, questa triade ha funzionato alla grande.

Ma cosa garantisce che possa funzionare anche in un racconto – per dire – di fantascienza militare? Nulla, ovviamente, e anzi il più delle volte (tutte?) non funzionerà.

Al contrario, quando conferisci un difetto fatale al tuo protagonista, e disegni poi un percorso di cambiamento (modulo 23C) stai lavorando con uno schema generale che – se implementato a dovere – ti garantisce il risultato.

E voglio stressare un punto a favore di un arco ben fatto, per smazzare via un timore che serpeggia di frequente tanto nell’animo dei lettori quanto nella testa degli scrittori (in un meccanismo che talvolta diventa circolare, considerato che uno scrittore è – dovrebbe essere – anche un lettore): il timore di ritrovarsi davanti a opere inutilmente lunghe, di rapportarsi a scene meramente riempitive, il timore di leggere o scrivere cose di scarso mordente, un timore che si vorrebbe acquietare lanciandosi sui racconti, per loro natura più brevi, come se la brevità dell’opera inibisse l’eventualità di scene inutili o noiose.

Il timore è in sé giustificabile – vista la scarsa qualità di numerose opere letterarie – ma non lo sono le conseguenze che se ne vorrebbero trarre: perché a impedirti di annoiare il lettore col tuo romanzo (o di annoiarti tu stesso quando hai in mano un romanzo di altri) non sarà certo il mero formalismo del numero di parole, ma la sostanza della logica adottata nell’immaginare e realizzare le scene.

Se segui l’arco, se ti conformi alla scansione degli eventi dell’arco, se la tua storia deve necessariamente passare per i punti nodali dell’arco, allora ti sarà (quasi) impossibile anche solo immaginare scene inutili, noiose, o mal interpretabili: l’arco è un salvavita.

Immagina di trovarti all’inizio del Secondo Atto, subito dopo il primo punto di svolta. Sei libero di immaginare ciò che vuoi, ma sai che – qualunque cosa vorrai immaginare – la fase ascendente dell’arco dovrà culminare nel midpoint; e quindi, procedendo a ritroso, sarai ogni volta obbligato a chiederti se e in che misura le scene ipotizzate concorrono a realizzare un’inversione di valori nella visione del mondo del tuo protagonista; e sarà l’arco a convalidare o confutare le tue intuizioni, a mostrarti se e in che misura le scene sono congruenti tra di loro e rispetto all’obiettivo.

Ciò che un lettore vuole – prima di tutto – è sensatezza, e l’arco è lì a preservarla.

È l’arco che dà ad un insieme di conoscenze e spiegazioni la struttura terribilmente interconnessa, eppure proprio per ciò mirabilmente trasparente e sostanzialmente semplice, di teoria logicamente completa e coerente. Impiegato con spirito critico, congiuntamente alla riflessione sugli aspetti e i problemi effettivi della storia che intende inquadrare, l’arco è uno strumento costruttivo, perché – paradossalmente – indocile e distruttivo: le contraddizioni, le incongruenze, le fratture, le asimmetrie che sfuggirebbero a chi si abbandonasse all’intuizione ingenua del momento, o a un’ispirazione banale, vengono messe in evidenza nel modo più crudo a chi ha presente la struttura dell’arco: motivi di insoddisfazione spruzzano da ogni falla maldestramente rimediata con ricuciture, stiracchiature rabberciamenti, o coperta con cerotti o cortine fumogene di pseudo-giustificazioni. È per tale motivo che la visione dell’arco fa avvertire l’insorgere di ogni motivo di tensione o disagio causato da nuove situazioni o nuove conoscenze o da nuove idee, individuando i punti della struttura sottoposti per tale effetto al maggior cimento, e avviando a riflettere sulla adeguatezza dei ritocchi o sulla possibilità di adottare nuovi punti di vista per eliminare lo stato di sollecitazione e disagio.

Quindi, in definitiva, la contrapposizione tra racconti e romanzi è un falso dilemma, perché entrambi devono obbedire alla stessa struttura – l’arco – che ne garantisce in ogni caso la tenuta; cambia – a stretto rigore – soltanto la dimensione degli oggetti in gioco, e in questo senso la brevità dei racconti potrebbe avere un minor impatto emotivo sul lettore (perché il difetto fatale – in un racconto – deve essere “piccolo” e “facilmente superabile”).

Per altro verso, se non si riesce a calibrare l’arco su una dimensione ridotta – se si alterano i suoi principî per farli stare il 8-12 mila parole – allora bisogna avere consapevolezza di trovarsi su un filo sospeso per aria senza rete di protezione sotto, di non poter trarre nessuna certezza sulla qualità della propria opera dal semplice fatto che altri sono riusciti a rimanere in equilibrio, a realizzare il colpo ad effetto.
 
Per chiudere: tutto ciò che emoziona una larga fetta di lettori ha valore artistico, sicuramente; ma solo ciò possiede una struttura replicabile ha valore tecnico; e il valore tecnico è spesso condizione necessaria (ancorché non sufficiente) per avere un valore emozionale.
 

Formulazione della premessa: archi eroici vs archi tragici

La premessa parla delle conseguenze superamento del difetto fatale (negli archi eroici) o del mancato superamento (negli archi tragici).
 
Nella formulazione della premessa di un arco eroico, quindi, noi vedremo il difetto fatale già superato, o meglio, non vedremo il difetto fatale, ma il suo opposto.
 
Specularmente, la formulazione della premessa di un arco tragico mostrerà il difetto fatale, e darà conto delle sue conseguenze.
 
È ovvio, se ci pensi: la premessa – a dispetto del nome – si colloca idealmente alla fine della storia, nel senso che restituisce la situazione in cui il personaggio si verrà a trovare a conclusione delle vicende che lo vedono coinvolto (e averla presente da subito – all’inizio della storia – assicura che ogni scena concorra a quel finale); se l’arco è eroico, allora a conclusione della storia il difetto fatale non c’è più, sostituito dal suo opposto (e quindi di regola non lo vedremo nella formulazione testuale della premessa) ; se l’arco è tragico, il difetto fatale è ancora lì (e allora la premessa ce lo comunicherà).
 
Prendiamo ad esempio la premessa del film Klaus, i segreti del Natale: “Un atto di bontà ne genera sempre un altro”.
 
Anzitutto ti invito ad osservare la complessità e la ricchezza della pur breve formulazione. La premessa di Klaus ci parla di reciprocità: ciò che fai, ti ritorna; se fai cose buone, ti tornano cose buone; e quindi – sottointeso – se fai cose cattive, ti tornano cose cattive. L’arco è eroico, e alla fine vediamo un paese riappacificato e in armonia; tutti i personaggi sono cambiati – non solo il protagonista – e la premessa fotografa l’esito del cambiamento, ci restituisce un mondo dove si fa a gara a “chi è più buono”; ciò significa – per complemento – che il difetto fatale era il contrario della “bontà d’animo”, che lascio a te definire con precisione – dopo aver visto il film – come utile esercizio.

Prendiamo, per contro, la premessa tragica del Tartufo di Moliere, nella proposta di Lajos Egri: “chi scava una fossa per gli altri, ci finisce lui dentro”. Si vede un difetto fatale – tipico di chi finisce col ritrovarsi vittima delle cattiverie che vorrebbe riservare ad altri (e trova pure da solo la parola che lo riassume) – che caratterizza l’intera vicenda e permarrà sino alla fine.

Ho volutamente fatto ricorso a due formulazioni articolate, lontano dallo standard “X causa Y” o “X conduce a Y”, per ricordarti – anche solo in via subliminale – di non essere pigro e stereotipato nella formulazione della premessa, giacché dalla premessa sgorgherà la storia, e una storia non potrà mai essre superiore alla  premessa da cui propviene. Però è chiaro che il concetto in sé – presenza indiretta del difetto fatale in una premessa eroica, presenza diretta in una premessa tragica – si vede in modo cristallino proprio con la formulazione cliché “X causa Y”.

Se la premessa eroica – a meri fini didattici – è del tipo “la generosità conduce alla felicità”, la sua formulazione ci mostra un personaggio (che alla fine diventerà) generoso (e felice) e quindi all’inizio avrà un tratto caratteriale dominante opposto alla generosità, che costituisce il suo difetto fatale, e può essere, ad esempio, “avaro”, “calcolatore”, “egoista”, “meschino” (e – mi raccomando – fai attenzione alla declinazione, all’esatta sfumatura, perché queste parole non sono tra loro equivalenti, pur essendo tutte opposte alla generosità).

Specularmente, se la premessa tragica è del tipo “l’egoismo conduce alla rovina”, la formulazione ci comunica direttamente il difetto fatale del protagonista (l’egoismo) che caratterizzerà tutto il suo agire lungo l’intera storia e lo condurrà appunto alla rovina, per l’incapacità di cambiare, o meglio, di realizzare un cambiamento sufficiente, giusto e significato.

Ti invito a osservare – per quanto ovvio – che “la generosità conduce alla felicità” e “l’egoismo conduce alla rovina” sembrano dire sostanzialmente la stessa cosa, solo in due modi diversi, ma la diversa modalità espressiva cambia tutto: in un caso abbiamo un arco eroico (il protagonista cambia e difende la posta in gioco), in un altro un arco tragico (il protagonista non cambia come dovrebbe e perde la posta in gioco).

E – visto che siamo in argomento – approfittiamone per un ulteriore approfondimento.

 
La raccomandazione costante dei formatori di scrittura è nell’evitare formulazioni della premessa vaghe, approssimative o cliché (e in questo senso la forma “X causa Y”, seppur legittima, va usata con cura, perché è alto il rischio di ridurla a uno stereotipo).

Però – nella mia opinione – bisogna far attenzione a non buttarsi troppo in avanti per il timore di cadere indietro. La premessa deve sì avere un certo grado di dettaglio, ma deve al tempo stesso mantenere una la flessibilità sufficiente per assicurare la necessaria varietà alle scene della storia. Essere troppo precisi, puntuali e analitici – come sembra suggerire Durigon – rischia di ingessare la narrazione, di impoverirla, di far battere tutte o gran parte delle scene sullo stesso tasto; il che – sicuramente – trasmetterà meglio il messaggio, ma neanche troppo alla lunga rischia di annoiare; e la noia è un veleno letale, è la prima causa di interruzione della lettura.

Così come – per riprendere i suggerimenti di Durigon – non necessario o obbligatorio far entrare nella premessa sia la posta in gioco che la falsa posta in gioco (che lui chiama rispettivamente “need” e “want”). Sì, è vero, quando c’è di mezzo una falsa posta in gioco (un “want” contrapposto a un “need”, per riprendere la nomenclatura scelta da Durigon) la storia acquista tutto un altro sapore, come abbiamo visto in Feel the Beat e A Civil Action. Ma non è obbligatorio usare la falsa posta in gioco, in fase di progettazione, soprattutto quando si è all’inizio, e la gestione di troppi concetti – alcuni anche parecchio delicati – potrebbe rivelarsi superiore alle proprie capacità.

Ecco un altro punto specifico che nessuno può insegnarti a priori – calibrare la premessa, modularla sulla giusto grado di dettaglio, renderla appropriata allo scopo, né vaga né analitica – e che solo la riflessione, l’esperienza e l’allenamento potranno aiutarti a smarcare al meglio.
 

Incidente scatenante e chiamata all'azione: è necessario separarli?

Ne ho accennato en passant nell’esercizio 5, e vale la pena riprendere il punto e dettagliarlo, perché ho notato che la domanda – è proprio necessario separare l’incidente scatenante dalla chiamata all’azione? – ricorre con notevole frequenza, e più d’un autore non sembra pienamente convinto di questa scansione logica, al punto che spesso, inconsapevolmente, finisce col far collassare i due punti in uno solo.

Tranquillo: non ti ritroverai i carabinieri sotto casa, o un funzionario di Equitalia alla porta, se l’evento che spezza lo status quo del protagonista (l’incidente scatenante) lo obbliga contestualmente a prendere l’iniziativa (chiamata all’azione), e so bene che alcuni (brutti) manuali di scrittura sono piuttosto permissivi, sino a dire che non serve tenere i due eventi separati.

Puoi fare quello che vuoi, ci mancherebbe, ma solo nel senso che qualunque sia la tua scelta – separarli o farli collassare – non ti arresteranno né ti notificheranno una cartella esattoriale.

Dopodiché, però, fatti due domande, e anche qualcuna in più. Perché lo schema teorico separa l’incidente scatenante dalla chiamata all’azione? Quali sono i vantaggi di questa separazione? Cosa si perde, se viene meno la separazione tra i due eventi? Conviene farlo?

Dare risposta a queste domande è un modo per verificare la propria comprensione della teoria, e comprendere la teoria – capire perché, senza atti di fede – è fondamentale per applicarla al meglio, con originalità e inventiva, per non cadere in soluzioni piatte o cliché, e poi magari dare la colpa all’arco per aver creato l’ennesima riproposizione di una storia già vista n-mila volte.

E allora: perché incidente scatenante e chiamata all’azione devono essere separati, nel senso che conviene separarli, se si vuole massimizzare l’impatto emotivo sul lettore e invogliarlo a proseguire nella lettura?

La prima risposta – semplice, semplice – è nelle scansioni tipiche della maggior parte delle situazioni di vita, nel mondo reale: nella nostra vita – di base, di regola – c’è sempre un tratto più o meno lungo tra l’incidente scatenante e la chiamata all’azione, e il mondo narrativo non fa altro che recepire questa regolarità statistica del mondo ordinario.

Pensa – giusto per farla semplice – agli ultimi mesi del 2019, quando iniziò a circolare la notizia di un virus che stava infestando la Cina. Tutti ce n’eravamo accorti, nel senso che tutti sentivamo il telegiornale ed eravamo al corrente di quel che accadeva dall’altra parte del mondo; ma, appunto, riguardava l’altra parte del mondo, mica noi; noi – in Italia – ci sentivamo al sicuro, tant’è che continuavamo a salutarci con strette di mano, baci e abbracci, e c’era pure chi era in vena di spiritosaggini (“oh, ragazzi, non ve lo prendete il Covid 19: il prossimo anno esce la nuova versione”); l’attrice Carol Alt, in Francia, prendeva in giro chi indossava la mascherina simulando dei colpi di tosse e la mancanza d’aria; e ancora a inizio anno, l’ipotesi di annullare alcuni eventi mondani – come la settimana della moda o la fiera del mobile – venne contrastata con lo slogan “MILANO NON SI FERMA”. Era successo qualcosa – un virus scappato da un laboratorio cinese – di cui nessuno aveva capito la portata. Era l’incidente scatenante.

C’è voluto un po’ – non troppo – a realizzare di essere entrati in un nuovo mondo: il lockdown, le restrizioni agli spostamenti, le morti, le terapie intensive stracolme, licenziamenti a pioggia, disagi psichici crescenti (soprattutto tra i più giovani), le contrapposizioni sociali (tra pro-vax e no-vax, tra chi aveva un posto fisso e chi no, etc.) e Dio solo sa che altro. La più parte di noi – a un tratto – ha realizzato che quell’evento cinese, percepito così lontano, era entrato di prepotenza in casa nostra, ci toccava da vicino, aveva alterato la nostra vita, e ci obbligava a fare qualcosa. Era la chiamata all’azione.

Questa è la fisiologia, nel mondo reale: c’è sempre un intermezzo tra il momento in cui un evento si verifica e il momento in cui quell’evento ci impone un atto volitivo per reindirizzare la nostra esistenza; e quindi, per semplice realismo, questo intermezzo va recepito nel mondo della pagina.

E sul realismo si innesta poi una considerazione di pura tecnica.

Qual è lo scopo terra-terra di un testo narrativo? Ripeto: lo scopo terra-terra, lo scopo spicciolo, lo scopo immediato e concreto. Allora, qual è questo scopo? Ma è ovvio, no? Invogliare il lettore a proseguire nella lettura!

Questo è ciò che ogni scrittore desidera: che il lettore continui a leggere, che trovi così interessante e avvincente ciò che avviene sulla pagina sotto i suoi occhi, da voler leggere la pagina successiva, e quella ancora dopo e ancora dopo.

E come si fa a ottenere l’attenzione costante del lettore, a mantenere vivo il suo desiderio di proseguire nella lettura?

Di base con il conflitto, o meglio, con la corretta gestione dell’escalation del conflitto. Ma ci sono anche altri espedienti retorici che concorrono all’obiettivo: l’ironia drammatica, ad esempio.

Senonché – lo abbiamo detto – l’ironia drammatica non è programmabile a tavolino, come lo è – come deve esserlo – il conflitto. Non dico che l’ironia drammatica deve venire da sé – perché nulla viene da sé in una storia ben fatta, e tutto è espressione di una volontà precisa – ma è necessario che la storia si sia incanalata su dinamiche specifiche – troppo specifiche per immaginarsi a priori – affinché si aprano degli spazi per l’ironia drammatica.

E ora ragiona: cos’è il tratto dell’arco che va dall’incidente scatenante alla chiamata all’azione, se non un segmento della storia intriso di ironia drammatica? E come se l’arco ti offrisse a costo zero – già compreso nella sua struttura – la possibilità di realizzare dell’ironia drammatica. E perché mai, allora, dovresti voler rinunciare a un dispositivo retorico così potente per invogliare a proseguire nella lettura, se per almeno un tratto lo puoi avere già incluso nella storia? Dove sarebbe la furbizia?

Tanto meglio incolli il lettore al Primo Atto – l’unico che puoi davvero realizzare a regola d’arte, perché massimamente guidato – quante più alte saranno le probabilità di tenerlo attaccato all’intera storia (anche se il Secondo e il Terzo Atto dovessero ogni tanto sfarfallare o avere qua e là delle sbavature).
 
Segui lo schema, rispetta le regole, non ti credere superiore a una riflessione millenaria sull’argomento: tieni separati l’incidente scatenante e la chiamata.
 

Posta in gioco: solo da difendere o anche da conquistare?

Ho battuto ripetutamente su un punto: la posta in gioco si difende, non si conquista, la posta in gioco è già in possesso del protagonista, che la vede progressivamente minacciata dall’antagonista, e finirà col perderla se non supera il suo difetto fatale.

Questa è la regola di base per la costruzione della posta in gioco, e a questa regola mi sono attenuto anche in fase di analisi (nel modulo 24).

Se però sei davvero arrivato a leggere sin qui, allora meriti una confidenza: la regola generale – la posta in gioco si difende, non si conquista – ammette  un’eccezione, si possono cioè dare casi – a cui sconsiglio caldamente di ricorrere – in cui la posta in gioco non è ancora posseduta e deve essere a tutti gli effetti conquistata.

Il punto è interessante non tanto in sé – ripeto: sconsiglio caldamente di ricorrere a uno schema dove la posta in gioco si deve conquistare – quanto per il fatto di chiarire come l’eccezione alla regola non implica il poter fare come ci pare, ma semplicemente crea una sotto-regola comunque coerente con la regola generale.

Quindi, sì, se proprio lo desideri – ma io te lo sconsiglio – puoi impostare e sviluppare la storia in modo che il protagonista debba conquistare la posta in gioco. A una condizione: che tu riesca a rendere cristallino ciò che – il più delle volte – non potrà mai esser reso tale, e cioè il fatto che l’occasione di conquista della posta in gioco è unica e irripetibile, che se il protagonista non la conquista adesso, ora, in questo preciso momento della sua vita, allora la perderà per sempre (non avrà mai più una  possibilità di recuperala in futuro più o meno prossimo o più o meno lontano).

Ora – per quel minimo che vorrai riflettere sul vincolo imposto a una posta in gioco “da conquistare” – ti renderai conto di quanto sia difficile rispettarlo.

Quando mai – nella vita vera, nel mondo reale – ci viene negata una seconda occasione? Quali sono quelle cose, o quelle situazioni di vita, che se non conquistate oggi, non si possano conquistare domani? E poi, di là di tutto, se fino a oggi avevo comunque vissuto bene la mia vita, senza possedere quella posta in gioco, cosa vuoi che sia se non riesco a conquistarla e continuo a vivere senza?

O sai dare risposte precise, chiare e inconfutabili a queste domande, oppure – di nuovo – ti sconsiglio caldamente di impostare la tua storia su una posta in gioco “da conquistare” anziché “da difendere”.
 
È solo per amor di completezza, se ti ho fornito questa possibilità; e il fatto di averla relegata non solo in appendice, ma addirittura al fondo dell’appendice stessa, dovrebbe farti riflettere su quanto sia poco furbo farvi ricorso.

 

MODULI 25-26
 
Una delle conclusioni del modulo 25 (dove ti invitavo a trovare del buono in qualunque romanzo, per quanto male possa esser scritto) potrebbe sembrare confliggere con l’intransigenza tenuta negli esercizi del modulo 26 (dove ho tratto conclusioni definitive sulla qualità dell’intera opera dalle lettura di poche righe, secondo il “modello dell’anguria”).

Le prospettive si ricompongo, se si tiene conto dell’obiettivo della lettura. Perché stai leggendo una determinata opera? Qual è lo scopo? Il puro svago? O il recupero di informazioni su un argomento, un periodo storico o un personaggio? Vuoi uno standard di riferimento per la tua scrittura? Oppure devi allenarti a fare editing sui testi di altri? O – c’è anche questo – vuoi allenarti a riproporre con la tecnica dei mattoncini ciò che originariamente è stato scritto con lo stile classico? Oppure stai leggendo un testo scritto in Prima al Presente (con la tecnica dei mattoncini) con l’idea di tradurlo in Terza al Passato, per mettere alle prova le tue abilità? O magari ti serve semplicemente una fonte d’ispirazione, oppure…

Avrai ogni volta una ragione precisa – tra le infinite possibili – per prendere in mano un romanzo, ed è fondamentale che a ogni ragione corrisponda un abito mentale sartoriale, cucito su misura sull’obiettivo, affinché lo si possa centrare.

Acquista e mantieni piena consapevolezza del perché stai leggendo, e regolati di conseguenza.

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