Modulo 7A – L'ultimo caffè (rewriting)

L’ULTIMO CAFFÈ

Lui non c’era più, ma non potevo fingere che mi importasse. O che la colpa non fosse mia. Amavo Andrea, ma dopo cinque anni non era successo quello che mi sarei aspettata. Non voleva neanche parlare di convivenza, di figli, del nostro futuro… e avevo capito di volere di più. Durante la settimana lo vedevo un paio di sere e riuscivo a rubargli qualche pranzo. Il weekend da lui, o da me, o con gli amici o una qualsiasi delle cose che facevamo insieme. Non erano più abbastanza stimolanti, o abbastanza da farmi restare. Avevo provato a farlo nel modo giusto, aprendogli il mio cuore e parlandogli con sincerità, dicendogli che la nostra vita di coppia era piatta, che mi ero arresa e che forse era giusto così… ma i buoni propositi, tali sono rimasti. Chiara sapeva che ero infelice, così aveva pensato ad una serata tra ragazze, che avevo accolto con piacere. Qualsiasi cosa purché interrompesse la monotonia. Il mio desiderio si era esaudito: un cocktail di troppo, un barista di troppo, un letto di troppo…

Andrea l’aveva scoperto e nonostante la furiosa litigata, le urla e i pianti, stavo bene. Non era andata come l’avevo immaginata, ma era andata. Sospirai e sbirciai fuori dalla finestra, ma lui non c’era. Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto Andrea. Aveva dei vestiti nel mio appartamento, ed ora che la rottura era ufficiale li rivoleva. Non mi interessava, non l’avrei giudicato. Volevo solo lasciarmi tutto alle spalle. Quando il campanello suonò, sentii un piccolo sbalzo al cuore. Avevamo condiviso cinque anni della nostra vita, ci eravamo conosciuti quando eravamo troppo giovani…

Aprii la porta. Lui era lì e notai subito che era carino, più del solito. Non lo vedevo da un pò. Si era fatto crescere la barba e tagliato i capelli. Le pesanti occhiaie sotto gli occhi scuri e freddi, quasi gli donavano. Mi ripresi e sorrisi in imbarazzo “Entra.” Non ricambiò il sorriso, ma entrò. La tensione era palpabile. “Le tue cose sono lì, mi sono permessa di impacchettarle… e… si.” Sospirò, si passò la mano sulla barba e poi mi incollò con lo sguardo. “Vorrei un caffè.” Mi stupii di quel tono di voce profondo e di quella richiesta, ma annuii e andai in cucina. Stavo per pulire la caffettiera, quando sentii la sua voce al mio orecchio “Ultima volta Eli.”

Mi spaventai, perché non avevo sentito che mi aveva seguita. Non mi voltai, non me lo permise. Mi prese per i fianchi e cominciò a baciarmi sul collo. Quella sensazione mi era estranea, non ero abituata alla sua barba. La sorpresa, lo spavento, la situazione… il cuore mi sfiorò la gola. Anche lui mi prese la gola con una mano, l’altra era ancora sui miei fianchi. Dai fianchi si fece strada fino al seno, che pizzicò molto forte, tanto che mi lasciai sfuggire un urlo. Sentii che sorrideva dal tremolio della barba.

“Si?” Scossi la testa “Ni-niente.” Si staccò dal collo e con movimenti sicuri mi sbottonò i pantaloni, sentivo il suo respiro caldo sui capelli, sapevo che mi stava guardando. Perché il cuore batteva così forte? L’avevamo fatto tante volte. Certo, non con tanto trasporto. Non con quell'emozione. Andrea non era mai stato selvaggio. Mi abbassò le mutandine con urgenza, non c’era traccia dei suoi soliti modi gentili. Sentii che si sfilò la cintura e sapevo cosa stava per succedere, ma questa consapevolezza non mi preparò al colpo spietato che arrivò, inesorabile. Gemetti un po' troppo forte, forse per la sorpresa, un po' per il dolore. Iniziò lentamente, prendendomi le mani con le sue. Mi alzò le braccia e me le fece appoggiare sulla cappa. Non vedevo nulla, chiusi gli occhi e ansimai come non avevamo mai fatto, godendo come mai avevo goduto. Dopo poco cambiò il ritmo, più forte, più veloce, finché “Andre… più… piano…” Non lo vidi, ma dal tono di voce capii che stava sorridendo appena. “Ammetti che hai fatto la puttana. Se lo ammetti, non ti faccio più male.” Andrea era sempre stato educato e premuroso. A volte, anche troppo. Mi offesi per le sue parole e nonostante il dolore decisi che dovevo resistere, inebriata dal piacere, mi sembrava importante. Lui andò sempre più forte, sempre più rude, mi bruciava, non ce la facevo più. Urlai. Lui, ansimando un po’ “Ammettilo… ed è… finita.” Gli occhi mi si riempirono di lacrime, il ventre stava per esplodere e quindi, urlando e sussurrando “Va bene. Sono una puttana. Per-perdonami…” Così com’era iniziata, si tolse di scatto ed io ero più confusa che mai. Non avevamo finito, stavo godendo così tanto, cosa stava succedendo? Mi girai e lo guardai, il suo sguardo impassibile e il sorriso indifferente che mi rivolse fecero così male che dimenticai il dolore fisico. Si rivestì, mi guardò e “Ci vediamo Eli.” Andò a prendere le sue cose, io ero ancora immobile. Sentii la porta che sbatteva e fu questo particolare a riportarmi alla realtà. Lui non c’era più, e non potevo fingere che non mi importasse.
 
 
 

L 'ultimo caffè


Suono al citofono della troia, lascio il dito piantato sul pulsante.
 
Il portoncino fa uno scatto, si apre. Lo spingo e percorro il vialetto alberato a passi veloci. Forza, chiudiamo questa storia del cazzo una volta per tutte.

La signora Luisa arranca verso di me, ricurva, appoggiata a un bastone e col barboncino al guinzaglio.

«Buon pomeriggio, Valerio! Stai andando da Laura, sì?»

Abbozzo un sorriso e me la lascio alle spalle. Sì, vado dalla troia.

Il portone della palazzina è aperto: entro, l’ascensore è occupato. Fanculo. Non ho voglia di aspettare. Salgo i gradini delle scale a due a due, sino al quinto piano. La troia è sull’uscio ad aspettarmi.

«Ciao…» Sorride, le fossette le scavano le guance. «Pensavo di vederti apparire dall’ascensore.»

Salgo gli ultimi gradini. «E invece ho preso le scale.»

Mi blocco, ansimo, il cuore pulsa forte.

La zoccola mi allunga una mano sul viso, con le unghie gratta il mento. «Ti sei fatto crescere il pizzetto: stai bene!» Si sposta dall’uscio, abbassa lo sguardo e mi fa segno di entrare. «Mi sono permessa di lavare e stirare le tue cose: le trovi impacchettate in camera da letto.»

«Grazie.»

Un bustone giallo occupa il cuscino: dentro ci sono le mie camice, i maglioni, i jeans e la tuta. Mi siedo sul bordo del letto, chiudo gli occhi. Accarezzo il piumone e mi mordo un labbro, deglutisco: e forse se l’è scopato proprio qui, su questo letto, sul nostro letto… la troia che è...

Gli occhi mi si gonfiano, li stropiccio per far abortire le lacrime. Il soffio di un respiro me li fa aprire di scatto.

Laura è appoggiata allo stipite della porta, con le braccia incrociate dietro la schiena. «Tutto a posto?»

Annuisco e mi impongo di sorridere. «Sì, tutto a posto.»

«Posso… fare qualcosa?»

Sospiro, il cuore non ne vuol sapere di calmarsi. «Un caffè…» Allargo il sorriso e batto due colpi sul bustone giallo. «Vorrei un caffè.»
 
Laura si acciglia, manco le avessi chiesto quante volte se lo è scopato.
 
Incasso la testa tra le spalle e allargo appena la braccia, per scusarmi. «Se è un problema, lascia stare: non a niente.»
 
«Assolutamente, assolutamente,» scampanella svolazzando con le mani.
«Vado subito a preparartelo.» 
 
Mi lascio cadere sul letto, con le braccia spalancate, stile Gesù Cristo crocifisso: sul soffitto ci sono le scalfitture dei miei colpi di scopa, per far capire al coglione di sopra che doveva abbassare la musica. Chissà se poi l’avrà capito, o se continua a martellare con quella insopportabile tecno…

La saliva in bocca fa un grumo, scende in gola come un macigno.

Chiudo gli occhi, sospiro: voglio solo credere che non se lo sia scopato proprio qui, sul nostro letto… non qui, ti prego, dopo cinque anni insieme, cinque anni, cazzo…

Le tempie pulsano. Sono stanca della tua indecisione, Valerio: voglio un futuro, una famiglia, dei bambini… e tu non vuoi neppure convivere; vieni qui nei week-end, quando ti va… ci sei e non ci sei… ma io voglio certezze, Valerio, voglio una famiglia, voglio serietà…

Sì, certo, serietà, come no: e poi ti fai sbattere dal primo scemo che ti fa un complimento…

Il gorgoglio della caffettiera mi fa sbarrare gli occhi. Sbuffo e mi alzo in piedi. Basta! È andata così… basta! Prendiamoci ’sto caffè e finiamola qui.
 
Laura ha la caffettiera in una mano e il bicchierino di vetro con la scritta “Keep calm and have a coffee” nell’altra. Versa il caffè, appoggia il bicchierino sul ripiano tra i fornelli e il frigo e lo allunga verso di me, con lo sguardo basso.

Keep calma
and have a coffee… keep calma, certo… keep calma un cazzo!

L’avvinghio da dietro, infilo una mano sotto la maglietta e passo dentro il reggiseno: stringo una tettina e strizzo il capezzolo. Lascia partire un gridolino, ansima. Porta indietro la mano e mi accarezza la guancia, le scappa un sorrisino.

«Piano… mi fai male.»

Infilo anche l’altra mano sotto la maglietta, le stritolo le tettine e azzanno il collo.

Grida, mi toglie le mani dalle tette, si divincola e mi spinge contro il muro.

Sgrana gli occhi. «Oh, ma che ti prende? Sei impazzito?»

Le do uno schiaffo che la fa girare. La piego sul ripiano, il bicchierino si rovescia, il caffè bagna il bordo del piano cottura e cola giù sul forno.

Con una mano la tengo ferma sul ripiano, con l’altra le abbasso tuta e mutandine in un colpo solo. Mi sbottono i pantaloni e tiro fuori il cazzo già in tiro. Glielo sbatto sul culo, una, due tre volte, lo strofino in mezzo e mi diventa duro.

«Non ti muovere, capito?»

Singhiozza, frigna qualcosa di incomprensibile.

Le tolgo la mano dalla schiena, le allargo le chiappe e sputo sopra il buchetto del culo. Lo allargo più che posso con i pollici e ci appoggio la cappella. Spingo, ma non entra, scivola via. Fanculo, quanto è stretto! Avrei dovuto sfondarglielo molto prima…

Fa per sollevarsi, ma la rimetto giù. Si volta: ha gli occhi spalancati.

«No, no-non vogl—»

«Non vuoi?» Le infilo il pollice dentro il culo più in fondo che posso, lancia un grido e le tappo la bocca con una mano. «E cos’è che vuoi? Una famiglia, dei figli?» Glielo ruoto dentro, gli faccio fare su e giù. «E poi ti fai sbattere come una troia dal primo che incontri a una festa con quelle altre puttane delle tue amiche?»

Tiro fuori il pollice di scatto, i suoi denti mi si infilzano nella dita.

Le tolgo la mano dalla bocca. «Dillo, cazzo, dillo: devi dirlo!»

«Co-cosa?!»

L’afferro per i riccioli e la riporto su, le nostre guance si sfiorano. «Che sei una troia: dillo!» Le tiro i capelli verso il basso. «Forza, voglio sentirtelo dire: sono una troia

Deglutisce, ansima. «Smettila Valerio, ti supplico… basta…»

La rimetto giù, chiamo a raccolta tutta la saliva che mi è possibile e la sputo sul buchetto. Unisco i pollici e li infilo insieme per allargarlo, ulula come una cagna.

«Dillo che sei una troia, e ti lascio stare.»

«Ba-basta…» piagnucola tra i sussulti.

Fanculo, zoccola! Glielo divarico più che posso, ed entro con l’inizio della cappella. Do un colpo deciso, e il cazzo si fa strada. Lancia un altro ululato.

«Dillo che sei una troia!»

Geme, grida, ansima.

Vaffanculo! La prendo per le cosce e la infilzo. Cazzo, quanto è stretto…

Appoggia le mani sulle piastrelle, i suoi mugolii riecheggiano per la cucina. Spingo ancora.

«Dillo che—»

Dal pianerottolo arriva il chiasso dei bambini dei vicini di casa. Mi blocco di colpo. Voglio anch’io una famiglia, dei bambini… come fai a non capirlo? Un brivido mi attraversa il corpo, la pelle d
’oca mi prende dalla testa ai piedi. Dio mio, che sto facendo? Che cazzo sto facendo? Dio mio… io io non volevo…

Laura si gira, gli occhi le diventano due fessure. «Perché ti sei fermato?» Ansima, mi allunga una mano sul culo e lo spinge in avanti. «Fammi godere, dai…finiscimi… finiscimi!»

Il battito del cuore sovrasta il vociare sul pianerottolo.

Mi artiglia il culo. «Avanti, finiscimi!»

Le stringo le cosce e stantuffo come se fossi nella figa.

Laura appoggia di nuovo le mani sulle piastrelle, geme e mugola. Accelero il movimento, il cazzo mi diventa di marmo. Grida di piacere, sferro colpi sempre più potenti, ritmati, il corpo mi si irrigidisce, tremo, le do ancora un colpo e sborro dentro, il suo ululato mi fa spingere ancora a più non posso.

Lo tiro fuori, indietreggio sino ad appoggiarmi al muro. Ho il fiatone, il cuore non ne vuol sapere di placarsi.

Laura è piegata sul ripiano, tra i fornelli e il frigo, il suo fiatone è peggio del mio. Si solleva appena, distende il braccio verso di me con la mano aperta, come per accarezzarmi, senza però arrivare a farlo.

«Sono una troia…» Si lascia andare sul ripiano e sorride. «… la tua troia
 
 

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