Modulo 24B – Un arco in miniatura: il racconto “I palloni del signor Kurz”

 

Gli archi  "in miniatura" dei racconti

I racconti – storie da 8-12 mila parole – mal si prestano ad accogliere un arco di trasformazione: bisogna immaginare un “piccolo” difetto fatale, congruente con una premessa “non troppo difficile” da dimostrare, e rimodulare l’intero arco su una scala ridotta.
 
Ma lavorare con archi miniaturizzati conduce spesso ad alterare i principî costituitivi dell’arco stesso. Raramente si riesce ad applicare un fattore di scala allo schema di base, senza snaturarlo. Più spesso, nel passare dal romanzo (almeno 35.000 parole) al racconto (al più 12.000 parole) si finisce col privare la trasformazione del personaggio di alcuni snodi fondamentali, cosicché l’arco in miniatura risulta “appiattito”, per così dire.
 
La storia può ugualmente risultare gradevole e istruttiva – come vedremo – ma l’avvertenza rimane: scrivere racconti è pericoloso, perché la loro dimensione ridotta rischia di indirizzare non già verso semplificazioni controllate, bensì verso soluzioni semplicistiche, che tradiscono lo spirito originario dell’impostazione teorica.
 
E le soluzioni semplicistiche – se non si ha il saldo possesso di tutto lo strumentario – potrebbero toccare non solo la sceneggiatura, ma la stessa scrittura. Perché il vincolo di spazio – di parole – potrebbe essere inconsapevolmente aggirato con violazioni delle regole, ad esempio col ricorso a infodump e più in generale a periodi testuali che non corrispondono a nessuno dei cinque mattoncini narrativi, nel maldestro tentativo di far passare informazioni giudicate rilevanti ma che assorbirebbero troppo spazio se comunicate con le modalità corrette.

Te lo ripeto: scrivere racconti è pericoloso, perché rischi di disabituare il tuo cervello alla corretta progettazione e stesura di una storia.

Dopodiché fa pure come ti pare, ci mancherebbe, ma non dire di non esser stato avvertito.
 

"I palloni del signor Kurz":

perché mi piace, perché può piacere

I palloni del signor Kurz è un racconto di Michele Mari, contenuto nella raccolta Euridice aveva un cane, pubblicata da Einaudi.

Io adoro questo racconto. Non so più dire quante volte l’ho letto, e ogni volta – perdonami il cliché – mi emoziona come la prima volta, se non di più, perché a ogni nuovo giro colgo dettagli e particolari che mi erano sfuggiti nella lettura precedente.

Perché mi piace così tanto? La spiegazione più semplice è nel mio essere un lettore bollente rispetto all’argomento: io trangugio qualunque storia a tema “collezionismo”, senza badare né alla tecnica né allo stile, e perciò, per me, è naturale finire soggiogato da una narrazione come I palloni del signor Kurz.

Nessuno è mai riuscito a veicolare l’essenza del collezionismo – il movente profondo, le ragioni ultime – in modo così compatto, preciso ed emozionante: lottare contro la dispersione, sottrarre gli oggetti al fluire della vita, fermare il tempo, bloccare le situazioni e portarle fuori da ogni flusso, tra il visibile e l’invisibile.

Io sono un collezionista, e nel racconto di Mari ho trovato l’esatta e cristallina rappresentazione del mio stato d’animo, come io stesso non sarei mai riuscito a comunicare.

I palloni del signor Kurz – per me, per come son fatto io – sono risolutivi e definitivi: non ha più senso scrivere storie sul collezionismo, per spiegarne l’essenza, dopo I palloni del signor Kurz.

Questo è il mio pensiero, ma è un pensiero chiaramente “viziato” dalla mia spiccata sensibilità verso l’argomento.

Cosa ne pensano invece tutti gli altri, che collezionisti non sono e che forse vedono i collezionisti come dei mattoidi? Il racconto può piacere anche a loro? Può insegnargli qualcosa e magari spingerli a rivedere le loro opinioni sul collezionismo?

Qual è – insomma – il potenziale implicito nel racconto?
 
 
Gli allievi di un collegio maschile giocano a calcio sotto la costante minaccia del misterioso signor Kurz, che s’impossessa di tutti i palloni che finiscono accidentalmente nel suo cortile, senza restituirli. Il piacere delle partite – “l’unica cosa bella, nella triste vita del collegio” – è così avvelenato da tutte le precauzioni per evitare che il pallone venga risucchiato nel dominio oscuro di Kurz, da cui nulla è mai tornato indietro, nemmeno su sollecitazione delle istruttrici.

Questo è il setting iniziale, e possiamo già notare diverse cose interessanti.

Primo, il conflitto: “le loro non sarebbero mai state vere partite ma mostri, cimenti snervanti in cui più della battaglia fra le due squadre contava quella non detta che si giocava fra tutti loro e l’uomo crudele in agguato”. Lo spettro di Kurz aleggia su ogni partita, e se esteriormente le due squadre si contrappongo tra loro, tutti i ragazzi stanno in realtà giocando contro Kurz, entrambe hanno lo stesso obiettivo – evitare che il pallone finisca oltre il muro – contrastato dalla loro stessa esuberanza nel giocare, dalla naturale voglia dei ragazzi di lasciarsi andare.

E questo conflitto di fondo ne induce altri: “bisogna star dietro ai nuovi, quelli appena arrivati con la valigia piena di giochi, e sperare che abbiano un pallone, e se ce l’hanno convincerli a prestarcelo, fargli dei regali, e già questo basta a insospettirli, magari il pallone è nuovo e lo custodiscon gelosi, se cerchi di portarglielo via strillano e arrivano le Signorine”.

C’è un desiderio – giocare a pallone – che incontra opposizioni sistematiche a tutti i livelli – Kurz, che non restituisce i palloni; i nuovi arrivati, che diventano sospettosi; le Signorine, poco collaborative nel riavere indietro i vecchi palloni e d’ostacolo nell’acquisirne di nuovi – ma i ragazzi non arretrano ed escogitano soluzioni ingegnose (peraltro non prive di controindicazioni) pur di continuare a giocare, a divertirsi.

Tutto il racconto è immerso in un campo di conflitto, e lo rimane anche quando le scene sono ambientate in luoghi diversi dal collegio. Guarda ad esempio alla prolungata contrattazione tra il padre di Tabidini e i ragazzi col pallone, al parco: il padre lo vuole, i ragazzi non vogliono cederlo, il padre non demorde e alla fine riesce a strapparglielo, tra i mugugni dei più.

Il conflitto è l’anima di una storia: se ci sono conflitti ci sarà sempre interesse sui modi della loro risoluzione, e quindi si sarà invogliati a leggere. I palloni del signor Kurz funzionano alla grande, da questo punto di vista.

Punto numero due, l’empatia: “tu l’hai mandato di là e trepidando attendi, speculando alla muraglia: e per silente miracolo ecco quello ritorna, disegna sua parabola in cielo, ritorna, ritorna: e colmo il cuore di gratitudine tu ringrazi…”. Questa sarebbe la normalità, ma il signor Kurz non restituisce un bel nulla, e privare dei ragazzini del loro pallone vuol dire infliggere una sofferenza ingiusta a personaggi “buoni”.

Siamo spontaneamente dalla parte dei ragazzini, capiamo le loro ragioni, anche perché le loro lamentele sono sempre ben proporzionate alla situazione che vivono, non diventano mai lagne insopportabili, rimangono realistiche e giustificate. Pure, li vediamo proattivi, sia nell’ingegnarsi per evitare di perdere il pallone, sia nella temeraria spedizione del cortile di Kurz. In una parola: empatizziamo.

Il settaggio è eccellente. E poi cosa accade?

L’incidente scatenante è identificabile nell’episodio dell’ultimo pallone finito nel cortile di Kurz: in quel preciso momento si è verificato un evento destinato a cambiare la vita del protagonista – Bragonzi – anche se lui ancora non lo sa, e vive solo “il dolore speciale di non essere riuscito a toccare il pallone nemmeno una volta”.

I mesi successivi sono segnati da una tristezza pervasiva e intensa: “erano finiti dal signor Kurz almeno altri dodici palloni; poi, stanchi di tanti dolori, essi non giocarono se non con palle di stracci annodati che avevano il vantaggio di non sollevarsi da terra, mostruosi turbanti che sostenevano la finzione di sfera per non più di mezz’ora, poi incominciavano a sfarsi, grevi comete che si trascinavano dietro una coda pulverulenta di stracci”.

Si arriva così alla chiamata all’azione: basta soprusi, i palloni sono nostri, e ora ce li andremo a riprendere.

E poi? E poi niente, sul piano della pura tecnica narrativa. Bragonzi non ha nessun difetto fatale, quindi viene meno tutta la parte dell’arco che vi è connessa, e si salta a piè pari al momento di trasformazione.

Com’è possibile che un ragazzino così deciso a reimpossessarsi dei palloni, ed esso stesso ideatore della spedizione, possa tornare a mani vuote? Come può avvenire un cambiamento così repentino, in un lasso di tempo così ristretto? Cos’è accaduto di così sconvolgente da poter giustificare ciò che leggiamo?

La grande abilità di Mari è proprio nel rendere massimamente credibile un cambiamento pressoché istantaneo, fuori dallo schema dell’arco: l’esplorazione del regno di Kurz sarà pure temporalmente breve, ma è ad elevata intensità emotiva sin dai momenti iniziali e cresce esponenzialmente.

La torcia di Bragonzi illumina una serra di palloni: ogni pallone è custodito in un vaso, ogni vaso riporta un’etichetta con l’indicazione del giorno darrivo del pallone nel giardino, dal 1933 sino all’anno corrente, il 1965. E tutto cambia all’istante, nella percezione del ragazzino.
 
Il signor Kurz non è più “un enorme ragno nero [] rapidissimo a gettarsi sui palloni che come grassi insetti cadevano nella sua rete”, e che “afferratili con le sue immonde zampe, li succhiava orribilmente fino a lasciarne floscia la spoglia”, come lo immaginava all’inizio.

Al contrario, il Signor Kurz “aveva disposto ogni pallone nel vaso in modo da porne in vista la parte migliore, quella meno ammaccata o meno scucita, o quella con le facce e o le firme, come se a quei palloni volesse bene”. Il Signor Kurz, nel sequestrare i palloni, li portava in salvo, evitava che fossero “lacerati dai denti dei cani o bolliti dal sole o ciulati nel parco”.
 
Il Signor Kurz ama i suoi palloni, li ordina, li custodisce e li protegge, cosicché i palloni rubati sopravvivono ai legittimi proprietari e diventano la memoria storica delle partite giocate: “le discese di Serceni, il caracollar di Saniosi, i fallaci di Piva, le teghe di Fognin”, e poi “le facce sudate, le nubecole di terra, le crosta sui ginocchi” e ancora “le discussioni sui fuorigioco e i pari e dispari per fare le squadre” e infine “l’ira e la gioia”, tutto questo fluire viene cristallizzato nel pallone, tratto amorevolmente in salvo dall’inesorabile trascorrere del tempo.

Brangonzi attraversa quel museo, quella collezione, in un crescendo di emozioni, sino al punto che gli procura “un brivido su tutto il corpo”: i vasi ancora vuoti destinati ad accogliere i palloni del futuro, i vasi portatori della memoria delle partite che verranno, delle partite ancora da giocare. Dove sono quei palloni, i palloni del futuro, in quel preciso momento? Quanto tempo servirà per vederli arrivare “come frutti maturi dal muro”? Nessuno può dirlo né pronosticarlo. Si può solo attendere, fiduciosi nel loro arrivo, perché la fede nella riuscita è uno dei sentimenti primordiali del collezionista.
 
Arrivati qui – sebbene per una via eterodossa – si è legittimati a costruire un finale che è perfettamente coerente con lo sviluppo della vicenda e del tutto inatteso rispetto allo status quo: l’ossessione dell’adulto si trasferisce al ragazzino, e Bragonzi lancerà volutamente oltre il muro di cinta il pallone appena ricevuto in regalo – un “sontuoso Derby Star Deliciae Platearum” che “chissà suo padre quanto aveva dovuto girare per averlo, e quanto l’aveva pagato” – per intrappolare per sempre la sua infanzia nella collezione di Kurz.
 
 
Riepiloghiamo.

Perché I palloni del signor Kurz possono piacere a chiunque?

Fondamentalmente perché vi ritroviamo gli ingredienti di base di una buona storia: l’empatia, il conflittoil cambiamento.

Altro, poi, è vedere come sono combinati tra loro, e in particolare come si produce il cambiamento del personaggio, che rimane lo snodo fondamentale per veicolare il proprio messaggio, per dimostrare la propria tesi.

In generale l’arco costruisce il cambiamento attraverso la rimozione del difetto fatale, ma qui non abbiamo nessun difetto fatale, quindi scompaiono i pezzi finali del Primo Atto, l’intero Secondo Atto e la parte iniziale del Terzo Atto: un’ecatombe.

Il cambiamento di Bragonzi è tutto e solo in uno shock istantaneo, realizzato alla perfezione,  e possiamo pure provare – volendo – a scovare gli elementi costitutivi della magia, che da un lato rendono avvincente la narrazione, e dall’altro ne giustificano l’esito. Io ne ho identificati tre.
  • L’ambientazione notturna. Il buio, l’oscurità, la penombra sono fattori che di regola accrescono il pathos, a parità di altre condizioni; una scena che si svolge sotto la luna emoziona tendenzialmente di più della stessa scena sotto il sole; la mezzanotte ha un fascino che si dissolve alla chiara luce del mezzogiorno.
  • L’intruso. L’emozione del lettore-spettatore aumenta quando sa che il personaggio si trova in un posto dove non dovrebbe essere: pensa a Tom Cruise in Eyes Wide Shut, o al poliziotto in Squid Game. Qui, poi, la figura dell’intruso è particolare: Bragonzi è solo un ragazzino, e sa bene di non avere scampo, semmai venisse scoperto (a differenza di un’adulto – come Tom Cruise o il poliziotto – che può ancora pensare di cavarsela); e, come lo sa lui, lo capisce anche il lettore.
  • La meraviglia di un personaggio suggestionabile. Bragonzi è un ragazzino, e – come tutti i ragazzini – è facilmente suggestionabile, sicuramente molto di più di una persona adulta. E cosa accade a questo personaggio altamente suggestionabile? Viene messo di fronte a un evento imprevedibile, fuori dal campo dell’immaginazione: tutto poteva aspettarsi, il nostro Bragonzi, meno che trovare ciò che poi ha effettivamente trovato. Volendolo mettere in formule si potrebbe dire “suggestionabilità + meraviglia = cambiamento”.
La situazione narrativa è di per sé eccellente, e quindi può affascinare qualunque lettore tiepido; ma rimane difficilmente replicabile in altri contesti e non offre un caso di studio interessate per chi voglia impratichirsi di modelli, canoni e ritmi narrativi.

Michele Mari ha prodotto il colpo di classe, ma chi provasse a imitarlo probabilmente combinerebbe solo disastri.

Commenti

  1. Il racconto mi piace perché sono un lettore caldo di storie di ragazzi che disubbidiscono ad autorità scolastiche; mi rivedo come uno di loro, il tonfo del pallone che colpisce il muro mi fa sorridere. Sono tornato a questo post perché curioso di rileggere indicazioni precise su cosa rendesse un racconto di successo. L'idea della trasformazione "improvvisa" funziona.

    Il vantaggio del racconto è molto semplice secondo me: è più breve di un romanzo. Immagino questo dia l'impressione che ci voglia meno tempo, o che sia più facile. Quello penso sia una cazzata. L'ho imparato a furia di battere le dita sulla tastiera del pc. Quello, invece, che mi eccita della brevità – che mi stimola al punto da scriverne qui – è la facilità di condivisione; perché è più facile mandare un messaggio ad un'amica su messenger e dirle "ti dedico questo racconto" che aspettare di pubblicare il romanzo.

    Ritorno alla trasformazione "improvvisa": il racconto è la presentazione "improvvisa" "breve" di un'idea di cui ci si sforza di convincere un'altra persona. Il che va ben oltre cercare di far colpo sulla ragazza bionda. Mi viene in mente uno che vuole convincere lo zio di venire al funerale della madre anche se il genitore e il fratello non si sono mai riconciliati. La brevità è comoda in questo senso.

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    1. La brevità esercita la sua attrazione su entrambi i lati, dell’autore e del lettore: sembra togliere ansia all’autore, perché 8-10 mila parole appaiono più abbordabili rispetto alle 40-45 mila di un romanzo, e senza ansia si procede più spediti; e poi invoglia il lettore, perché il semplice fatto di sapere di chiudere il tutto al più in una quindicina di minuti lo predispone meglio di per sé.

      Qual è il punto scivoloso? Quello già segnalato nel post.

      Una storia – a prescindere dal numero di parole – si basa su tre ingredienti: empatia, conflitto, cambiamento.

      Ora, l’empatia e il conflitto si possono sempre inserire senza troppa difficoltà, una volta che ci si è impadroniti dei rispettivi meccanismi.

      Che dire, invece, del cambiamento? La parola “cambiamento” ha – in generale – un significato tecnico preciso: vuol dire “rimozione del difetto fatale”, il personaggio cambia – in senso tecnico – se e solo se rimuove completamente il suo difetto fatale.
      Ma un difetto fatale – a meno che non sia “molto piccolo” – non lo rimuovi in 8-10-12 mila parole.

      E quindi? Quindi, spesso, il cambiamento viene indotto da altri fattori. E qual è il problema di un cambiamento sganciato da (la rimozione di) un difetto fatale? Che – ammesso che qualcuno ci sia riuscito – non è detto che tu riesca a replicarlo, manca cioè lo schema, il calco da utilizzare.

      Prendiamo il racconto di Mari. Come si crea il cambiamento? Io ho individuato tre fattori: ambientazione, intruso, protagonista altamente suggestionabile. D’accordo. Qui, in questo specifico caso, nel racconto “I palloni del signor Kurz” di Mari, questa triade ha funzionato alla grande.

      Ma cosa garantisce che possa funzionare anche in un racconto – per dire – di fantascienza militare? Nulla, ovviamente, e anzi il più delle volte (tutte?) non funzionerà.

      Al contrario, quando conferisci un difetto fatale al tuo protagonista, e disegni poi un percorso di cambiamento (vedi il modulo 23C sul Secondo Atto) stai lavorando con uno schema generale che – se implementato a dovere – ti garantisce il risultato.

      Quindi, per chiudere: tutto ciò che emoziona una larga fetta di lettori ha valore artistico, sicuramente; ma solo ciò possiede una struttura replicabile ha valore tecnico; e il valore tecnico è spesso condizione necessaria (ancorché non sufficiente) per avere un valore emozionale.

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