Modulo 23C – II ATTO


Siamo al Secondo Atto, il cuore della storia, che nelle intenzioni dovrebbe assorbire il 50% dell’opera.

L’arco parla chiaro: nel Secondo Atto, se tralasciamo i due punti di confine – il risveglio e l’esperienza di morte, semplici ridenominazioni del primo e del secondo punto di svolta – c’è un solo passaggio obbligato – il midpoint – che funziona da bussola per orientare una narrazione altrimenti libera.

Era questo che volevi, no? La libertà espressiva. Bene. Il Secondo Atto deve solo attraversare il midpoint e accogliere il triplice conflitto, ma per il resto ti lascia libero.
 
Sperando che tu sappia cosa farci con tutta questa libertà.
 

Dal risveglio al midpoint

Il risveglio è la ridenominazione colorita di ciò che (nel Primo Atto) abbiamo chiamato asetticamente primo punto di svolta, con cui si vuole enfatizzare la consapevolezza del protagonista di trovarsi in una realtà diversa dallo status quo, in un “nuovo mondo”, in cui dovrà affrontare delle sfide.
 
Tutto il Secondo Atto sarà segnato da sfide – concepite secondo l’escalation del conflitto – per la difesa della posta in gioco; e i conflitti sono interessanti perché il personaggio è sprovvisto del giusto equipaggiamento mentale per affrontarli.
 
L’agire del personaggio è inficiato dal suo difetto fatale, che lui – il personaggio – non sa al momento di avere. Lui, il personaggio, si crede “perfetto”, pensa di poter rimare sé stesso – il sé stesso dello status quo – anche nel “nuovo mondo”, in accordo con un meccanismo psicologico ben illustrato da Will Storr.
 
Il cervello difende il nostro modello imperfetto del mondo trincerandosi dietro le più scaltre faziosità. Quando ci imbattiamo in un nuovo dato o in una nuova opinione, li passeremo subito al vaglio: se risultano conformi al nostro modello di realtà, risponderemo inconsciamente con un sì. In caso contrario, la nostra risposta inconscia sarà no. Tali risposte emotive precedono ogni ragionamento conscio. Ecco perché esercitano una così profonda influenza su di noi […].

Siamo così abituati a difendere in modo aggressivo i nostri modelli – è una reazione che fa talmente parte dell’essere vivi – da non renderci nemmeno conto che in realtà si tratta di una reazione anomala […].
 
Dato che la nostra allucinazione della realtà sembra evidente e inoppugnabile, la sola conclusione a cui potremo giungere è che il nostro antagonista sia un pazzo, un bugiardo o una brutta persona. E lui penserà esattamente lo stesso di noi”.
 
Saranno le esperienze negative vissute dal risveglio all’esperienza di morte a indurre il protagonista (negli archi eroici) al cambiamento, alla rimozione del difetto fatale.

Citando ancora Will Storr:
 
In una sequenza di eventi basati su causa-effetto il punto di innesco è il primo che obbligherà il protagonista a mettere in discussione le sue convinzioni più profonde. Questo evento spesso provocherà scosse telluriche che finiranno per lesionare il nucleo stesso della sua imperfetta teoria del controllo. Ecco perché lo vedremo comportarsi in modo anomalo. Lo vedremo reagire oltre misura o fare qualcos’altro che viola le nostre aspettative. È questo il segnale inconscio che ci fa capire che tra personaggio e trama è scattata la magica scintilla. La storia ha ufficialmente inizio.

Di norma, quando la sua teoria del controllo viene messa sempre più alla prova per poi rivelarsi lacunosa, il personaggio perderà il controllo degli eventi. Il dramma che ne deriva lo porrà di fronte a un bivio: sarà disposto a correggere l’errore o no? Che persona diventerà?
 
Nella prima metà del Secondo Atto (la fase ascendente dell’arco) vedremo il protagonista dare il massimo per sbrogliare le situazioni complicate in cui si troverà coinvolto, ma sarà come agitarsi nelle sabbie mobili, e l’effetto sarà esattamente l’opposto di quello voluto: se ne vorrebbe uscire, si fa di tutto per uscirne, ma ogni movimento fa solo sprofondare più giù.

Perché? Lo abbiamo già detto, ma ripetiamolo: perché l’agire del protagonista è viziato dal difetto fatale, perché la presenza del difetto fatale gli impedisce di fronteggiare correttamente le sfide a cui è chiamato.

Nella fase ascendente dell’arco, quindi, vedremo il protagonista andare incontro a una serie di “sconfitte”, e sfruttiamo ora l’occasione per verificare la tua comprensione del meccanismo dell’arco.
 

Cos’è – tecnicamente – una “sconfitta”?
 
Tutti i nostri ragionamenti sono guidati e disciplinati da parametri tecnici (empatia, difetto fatale, posta in gioco, etc.) per cui ogni affermazione deve trovare una mappatura nel nostro schema formale: “sconfitta” è una parola che acquista significato solo se ricondotta a uno o più dei nostri concetti chiave.

Cosa vuol dire “perdere”, “essere sconfitti”, nella logica dell’arco? Significa – non può significare altro – che causare eventi suscettibili di mettere in pericolo la posta in gioco: ogni volta che il personaggio “perde”, ogni volta che “viene sconfitto”, la perdita della posta in gioco diventa sempre più probabile, e “sconfitta dopo sconfitta”, se non si ravvede, la perderà davvero (come accade negli archi tragici).

Non rileva quindi ciò che accade esteriormente; conta solo che tutto ciò che accade esteriormente insidia la posta in gioco.

Quando parliamo di “sconfitte” possiamo pertanto riferirci sia a sconfitte in senso proprio, in senso stretto – al personaggio che sprofonda nella merda, che si invischia in situazioni progressivamente più problematiche, indesiderate – sia a sconfitte in senso lato, a sconfitte mascherate da vittorie, a un personaggio che esteriormente sembra trionfare sul mondo circostante, ma in realtà sta ancora sprofondando nella merda, perché le sue vittorie esterne stanno mettendo sempre più in pericolo la posta in gioco.

È sempre e solo il termometro della posta in gioco – ciò per cui il personaggio lotta – a stabilire se un evento sia una “vittoria” o una “sconfitta”: se l’evento accresce la probabilità di perdere la posta in gioco, allora quell’evento è per definizione una “sconfitta”, anche se esteriormente, secondo il sentire comune, appare come una vittoria.

Questa è esattamente la situazione in cui si trova il giovane dottore Andrew Manson, il protagonista del romanzo La cittadella.

Il suo processo di cambiamento ha esteriormente tutte le apparenze di una vittoria scintillante: è diventato ricco; è stimato e riverito, oggetto di attenzioni continue sia dentro che fuori l’ambiente medico; è nel giro di “quelli che contano”, invidiato da tutti.

Quasi tutti. Sua moglie Cristina si sta progressivamente allontanando da lui: ogni vittoria che Andrew consegue nel mondo esterno corrisponde a una regressione dei rapporti con la moglie, a una posta in gioco sempre più traballante.

Perché Cristina – lo vedremo – ha un ruolo centrale nel tecnicismo della sceneggiatura.
 
La relazione sentimentale tra Andrew e Cristina non è la solita sotto-trama romantica inserita “a forza bruta” dentro ogni opera – anche quando inutile, insensata, o addirittura controproducente – solo perché il pubblico se l’aspetta e allora dobbiamo dargliela. Il personaggio di Cristina ha un significo tecnico preciso, nella logica della sceneggiatura. Cristina è la personificazione della parte migliore di Andrew – Cronin è chiarissimo nel comunicarlo, già dalle prime righe – rappresenta quella parte di Andrew che non deve cambiare, che deve essere preservata all’interno del suo processo di trasformazione: perdere l’amore di Cristina significa perdere la posta in gioco, veder svanire la parte migliore di sé, e a che serve conquistare il mondo, se poi smarrisci te stesso?
 
Cronin è straordinario nel mostrare – passo dopo passo – gli innumerevoli miraggi da cui Andrew si lascia distrarre, per poi distillare il senso di un cambiamento totalmente sbagliato (nonostante le apparenze) in un dialogo memorabile con Cristina.
 
 
“Quando non avevamo denaro, eravamo felicissimi e non ne parlavamo mai; ora che lo abbiamo, non parliamo d’altro” è la sintesi del dramma esistenziale di molte delle persone cosiddette “di successo”.

Il difetto fatale di Andrew – a riassumerlo in una parola – è l’ingenuità.

Noi empatizziamo all’istante con Andrew – il processo di costruzione dell’empatia è perfetto, come vedremo nell’analisi del romanzo – ma capiamo con altrettanta rapidità che Andrew è pure “vittima del proprio zelo”, del “suo cocciuto individualismo”, per usare le parole testuali di Cronin: è rinchiuso nei suoi principî morali, nel suo sistema di valori nobili, nelle sue idee pure, che – appunto – finiscono con l’isolarlo dal mondo circostante, governato da ben altri principî, valori e idee.

Andrew deve smetterla di essere ingenuo, ma le esperienze che vive lo portano a fraintendere il senso del cambiamento a cui è chiamato.

Quando Gesù dice “io vi mando come pecore tra i lupi, siate candidi come colombe e astuti come serpenti” sta lavorando di fino sull’animo degli apostoli. Non sta dicendo loro di trasformarsi anch’essi in lupi, e meglio ancora in leoni o tigri, così da risolvere ogni problema esteriore. L’invito è anzitutto alla presa d’atto della situazione fattuale (voi siete pecore in mezzo ai lupi) e poi a un modello di comportamento che preservi tutto quel che c’è di buono in loro (siate candidi come colombe) nella consapevolezza di trovarsi circondati da cattivi (siate astuti come serpenti).

Allo stesso modo – e mai immagine fu più appropriata – Andrew dovrà svolgere un lavoro chirurgico su sé stesso, sulla sua visione del mondo. Se il problema (il difetto fatale) è nell’essere un delfino circondato da squali, la soluzione non può essere nel trasformarsi in uno squalo (e magari in uno squalo bianco, tra i più temibili) così da risolvere apparentemente ogni problema. Il delfino deve rimanere delfino (quel c’è di buono va preservato) ma deve imparare come difendersi, da delfino, in un mare popolato da squali di varie taglie e pericolosità.

I’m material girl in a material world cantava Madonna, poi scimmiottata da non ricordo più chi in I’m Barbie girl in a Barbie world. Ma questa soluzione è cortisonica: elimina gli effetti immediati, non le cause profonde.
 
Se tutto il mondo è una merda, la soluzione non può essere “diventare i più merdosi di un mondo di merda”, perché vorrebbe dire propagandare per “soluzione” qualcosa che – secondo la tesi sostenuta da Cronin – non fa altro che aggravare il problema.
 

Sei libero di “far fallire” il tuo protagonista nel modo classico, ortodosso, facendogli vivere sconfitte che appaiono come tali, oppure in modo più eclettico, facendogli sperimentare delle sconfitte che hanno tutte le apparenze delle vittorie, ma il punto fondamentale – per lo sviluppo della fase ascendente dell’arco – è che tutto ciò che accade deve sempre mettere a repentaglio la posta in gioco e lo deve fare a causa del difetto fatale del protagonista.

Il tuo protagonista sta “perdendo” – in senso tecnico – non già perché è sfortunato, perché il mondo è cattivo, o per chissà quale altra imperscrutabile ragione: il tuo protagonista sta “perdendo” perché ha un difetto fatale, sta cioè perdendo a causa di una visione errata del “nuovo mondo” – che lo induce a comportamenti “perdenti”, suscettibili di pregiudicare la difesa della posta in gioco –  ma che è in suo potere rimuovere.
 


Questo è il motivo per cui ho insistito tanto sulla costruzione del difetto fatale, la ragione per cui ti ho diffidato dal sintetizzarlo direttamente in una parola (“egoismo”, “ingenuità”, “arroganza”, etc.) senza averlo prima esplorato a fondo. Perché nella fase ascendente dell’arco – detto in soldoni – dovrai scrivere scene in cui sia chiaramente visibile il difetto fatale del protagonista, mostrarne un buon numero di sfumature, non solo per assicurare una varietà di situazioni che tenga vivo l’interesse del lettore, ma anche per una precisa ragione tecnica che vedrai al midpoint.

Quindi, se non sei in grado di immaginare all’istante almeno una decina di situazioni concrete, pratiche, reali – recitabili su un palco – in cui il difetto fatale dia chiari segni di sé, allora non potrai mai scrivere la prima metà del Secondo Atto, e a cascata neanche la seconda metà, e men che meno il Terzo Atto.

Fine dei giochi, se non conosci a fondo il difetto fatale del tuo protagonista.

 
Nella fase ascendente dell’arco il tuo protagonista deve “fallire” ripetutamente a causa del suo difetto fatale, ma è fondamentale che da ogni fallimento impari qualcosa, in modo esplicito (percepito dal lettore attraverso le battute di dialogo, i pensieri, le azioni) oppure implicito (come sensazione di fondo che aleggia sulla storia).

Il protagonista – per dirlo in cinque parole – deve imparare dai suoi errori. Nessun insegnamento, singolarmente, sarà sufficiente a condurlo alla “vittoria” nella sfida successiva, ma ogni insegnamento lo renderà un po’ più forte, maggiormente consapevole della situazione. Qualcosa deve smuoversi nel personaggio, a seguito degli eventi che lo colpiscono, e può essere – ti ripeto – sia un sommovimento esteriore (che il lettore vede sulla pagina) sia un lavorio sotterraneo (simile all’azione di un fiume carsico) ma qualcosa deve succedere all’interiorità del personaggio: gli eventi della fase ascendente non possono passare invano, le “sconfitte” esteriori devono avere conseguenze interiori.

La risposta emotiva del personaggio a ciò che gli accade è una richiesta naturale: persino il più stupido degli animali domestici impara a tenersi lontano da una stufa, quando ci si è scottato; persino i sassi si scalfiscono, se li scagli per terra con la forza sufficiente. E il tuo protagonista non è né un animale stupido né un sasso; il tuo protagonista è competente e proattivo, il tuo protagonista impara dai suoi errori – ed è rimessa alla tua libertà artistica la scelta degli errori, se sconfitte in senso proprio o vittore di Pirro, così come il modo con cui impara, se consapevole o inconscio – sino ad arrivare al midpoint.
  

Il midpoint

Il midpoint è il momento (la scena o la sequenza di scene) in cui si verifica l’inversione di valori: è il momento in cui il protagonista si chiede come sia potuto arrivare sino a questo punto; al midpoint il protagonista realizza che in lui c’è qualcosa di sbagliato, che tutto ciò che gli è accaduto esteriormente non è altro che la manifestazione di ciò che non funziona dentro di lui; la traiettoria dell’arco che va dalla chiamata all’azione al midpoint è anche detta fase di esaurimento, per sottolineare il progressivo deteriorarsi del precedente schema di sopravvivenza del protagonista, che culmina nella consapevolezza di dover cambiare qualcosa nel suo sistema di valori, nella sua visione del mondo, e di conseguenza nei suoi atteggiamenti.  

Questa consapevolezza – in effetti – può sorgere oppure no, nel senso che la potenzialità implicita negli eventi del midpoint può produrre, ma anche no, l’inversione di valori desiderata Il midpoint, in questo senso, imprime una direzione all’arco: eroico se l’inversione si realizza, tragico se non avviene. Si dice – con uno slogan – che devi guardare il midpoint, se vuoi capire il tono della storia.

Non vi sono però obblighi: l’inversione di valori può avvenire (imprinting eroico) e tuttavia avere un esito tragico al momento dell’esperienza di morte; così come l’inversione può non esserci (imprinting tragico) e tuttavia realizzarsi all’esperienza di morte (da cui l’esito eroico). Ma ciò che avviene al midpoint dà sicuramente un’indicazione forte sulla piega che sta prendendo la vicenda, e il mio suggerimento è di mantenere coerenza tra ciò che avviene al midpoint e ciò che avviene all’esperienza di morte, quanto meno all’inizio dei tuoi tentativi di progettazione.

Poniamoci – per opportunità didattica – all’interno di un arco eroico classico, quindi con un midpoint in cui si realizza l’inversione di valori, un midpoint in cui il personaggio prende consapevolezza del suo difetto fatale.

Non è una consapevolezza teorica o astratta, non è un dire genericamente “sì, è vero, ho un difetto, ma d’altronde chi non ne ha?”; è una presa d’atto con risvolti materiali, concreti, che induce a dire “da questo momento devo comportarmi diversamente”, e a dare un seguito pratico a questa dichiarazione di intenti.

L’inversione di valori al midpoint deve rispettare due requisiti:

credibilità

parzialità


 

Il cambio di paradigma mentale, e quindi di azione, deve suonare credibile, ragionevole, verosimile: può essere l’ultimo miglio di un percorso che abbiamo visto chiaramente, passo dopo passo, lungo la fase ascendente dell’arco; oppure può essere un traguardo tagliato in modo apparentemente improvviso, ma di cui in realtà si sono covati tutti i presupposti durante la fase ascendente dell’arco.

Quale che sia il modo con cui è avvenuta l’inversione di valori, per qualunque via ci si è arrivati, deve comunque potersi giustificare in base a ciò che è accaduto nella fase ascendente dell’arco.
 
Tu non vuoi folgorazioni sulla via di Damasco, a là San Paolo; l’inversione di valori assomiglierà piuttosto alle conversioni di Sant’Agostino e San Francesco, un evento che – quando si manifesta – trasmetterà una sensazione di forte di sensatezza.

Per darti un esempio della logica sottostante midpoint – senza nessun aggancio al punto in cui la scena si trova collocata nell’opera originaria – pensa al personaggio di Jean Valjean, nell’opera I miserabili, di Hugo.

Abbiamo un personaggio moralmente giusto sottoposto a una sofferenza ingiusta (ha rubato un tozzo di pane per sfamare la sorella, ed è stato condannato a cinque anni di lavori forzati, diventati poi quattordici per i suoi tentativi di fuga, peraltro più che legittimi); viene scarcerato a seguito di un’amnistia, ma la sua età e il suo vissuto non sembrano dargli scampo; la vita pare averlo condannato a essere un ladro, un malfattore, un poco di buono.

Trova ospitalità a casa del vescovo, e notte tempo gli ruba le posate d’argento; viene però catturato dai gendarmi e ricondotto dal vescovo, per avere conferma del furto; e invece il vescovo lo difende, afferma che le posate sono un suo regalo, e gli fa anzi notare di aver “dimenticato” i candelabri (gli unici oggetti di valore rimasti in casa); Jean Valjean viene così rilasciato, vaga in uno stato confusionale per ciò che ha vissuto (un gesto di bontà, dopo anni di maltrattamenti, dentro e fuori dal bagno penale); incontra un ragazzino e il suo animo ha un rigurgito di cattiveria, prevale l’istinto predatorio, il “vecchio Jean Valjean” viene fuori e lo deruba di una moneta (senza immaginare quali conseguenze catastrofiche avrà questo suo gesto); ma quando va mettere la moneta dentro la sacca, e vede i due candelabri d’argento, ecco che avviene l’inversione di valori.

È come se il personaggio dicesse a sé stesso: “Ma che razza di uomo sono? Ho ricevuto in dono chili d’argento, e sto ancora qui a rubacchiare le monetine; ho tutto e però gratto ancora le briciole”; e scatta il cambiamento.

L’esempio – come detto – va decontestualizzato; non si trova a metà della narrazione, quindi non è un midpoint in senso formale (col 50% della storia già alle spalle) ma rimane eccellente per capire cosa sia l’inversione di valori e come la si possa realizzare credibilmente, anche quando sulla pagina – fino a quel momento – non vi è stato nulla di esplicito che la potesse suggerire: è il tono generale della vicenda a indicare che il protagonista rimane pur sempre un “portatore sano di bontà”, che tutto quel che chiede è solo un’occasione di riscatto, finalmente concessa dal vescovo e sostanzialmente messa a frutto, seppur con lo scivolone del furto della moneta (un episodio di per sé di grande eleganza, perché da un lato dà realismo alla vicenda e dall’altro è funzionale al seguito della storia).

Chiaro cosa vuol dire che l’inversione di valori deve essere credibile? Sì, chiaro.

 
Il cambiamento deve essere credibile, ma anche parziale, imperfetto, limitato, sia per motivi di realismo che per esigenze narrative (che in fondo sono due facce della stessa medaglia).

Cambiamento parziale significa che il difetto fatale non viene completamente rimosso.

Il difetto fatale – ricordalo sempre, non dimenticarlo mai – non un monolite, un blocco granitico e inscindibile. Il difetto fatale non è un tratto caratteriale che “c’è” o “non c’è”. Il difetto fatale ha le sue sfumature, i suoi strati, come le foglie di un carciofo; e lo si rimuove strato dopo strato, foglia dopo foglia, non può sparire all’improvviso (in accordo col fatto che non vogliamo folgorazioni sulla via di Damasco).

Quel che accade al midpoint, quando si verifica l’inversione di valori, è una rimozione consistente del difetto fatale – numerosi strati saltano via, parecchie foglie vengono tolte – ma qualcosa rimane, deve rimanere, e non solo per esigenze narrative, ma per motivi di realismo.
 
Noi ora lo chiamiamo difetto fatale, ma nello status quo forse rappresentava un eccellente sistema di sopravvivenza, e magari, risalendo ancora più indietro – anche se non lo vediamo sulla pagina – è un profilo caratteriale che il personaggio si porta dietro da sempre, un tratto distintivo della sua personalità, di cui non si può disfare come fosse un sassolino nella scarpa (per poi rallegrarsi di aver capito cos’è che gli impediva di godersi la passeggiata per il mondo).

La rimozione del difetto fatale deve essere dolorosa. Togliere strati di difetto fatale – in linea di principio – è come togliere strati di pelle: lo si fa perché bisogna farlo, ma rimane un sacrificio (che si accetta in nome dell’acquisita consapevolezza di un cambiamento necessario per migliorarsi e proseguire più forti lungo il cammino).
 
C’è però un limite agli strati di pelle che possono saltare in un colpo solo. A un certo punto serve fermarsi, non foss’altro per far rifiatare il personaggio, per dargli modo di riprendersi. Un po’ come quando si è sulla sedia del dentista, sotto i suoi ferri, e si alza la mano per chiedere una pausa ristoratrice.
 
Il momento determinante di uno dei coprotagonisti (Todd Anderson)
nel film L’attimo fuggente.
 
Nella logica di “far rifiatare il personaggio”, dopo la rimozione di una parte del difetto fatale, si può inserire il cosiddetto momento di grazia in un intorno del midpoint. Non è obbligatorio, ma è utile per dare respiro sia al protagonista che ai lettori che vi si sono immedesimanti. La regola è la stessa che vale per tutti i passaggi facoltativi: è bello metterlo, e dà un tocco di eleganza, a condizione che si inserisca in modo naturale, fisiologico; altrimenti, se bisogna forzarlo, è meglio lasciar perdere.

Il momento di grazia è una fase (una scena, anche breve) in cui il personaggio gioisce per il cambiamento che si è prodotto in lui; avverte un senso di pace per esser riuscito a “fare la muta”; vive un momento di serenità, di grazia appunto.
 
Valgono – neanche a dirlo – le regole sulla comunicazione degli stati d’animo: non si veicolano mai al lettore attraverso dichiarazioni esplicite (“… e il personaggio provò allora un senso di pace assoluta”) ma facendo vivere al personaggio delle situazioni concrete, reali, recitabili su un palco, che trasmettano un senso di sollievo, di genuino e benefico compiacimento per ciò che si è riusciti a fare.
 
Anche perché – da lì a poco – arriverà la discesa agli inferi.
 

Dal midpoint verso l'esperienza di morte

Chiarisco un punto banale, ma solo perché io per primo – all’inizio – l’ho equivocato, e ho faticato quindi a capire la seconda metà del Secondo Atto, la fase di discesa.

L’equivoco può sorgere proprio a causa di questa parola: discesa.

Discesa, di primo acchito, suggerisce l’idea di qualcosa di più semplice di una salita, se non addirittura di un momento di ristoro dopo la fatica. Ti basta però aver fatto trekking a livello amatoriale, per sapere che non è così. Personalmente, se devo dirla tutta, fatico di più a percorrere una discesa ripida (a dover contrastare la velocità naturale a cui andrebbero le gambe, se le lasciassi libere, per non ruzzolare) che non a battere la stessa strada in salita (dove in fondo devo solo mettere tutta la forza che posseggo).

Scendere non è meno faticoso di salire. Può esserlo di più e spesso lo è effettivamente. A volte, per enfatizzare questa difficoltà, si parla di caduta anziché di discesa, perché la caduta la colleghiamo a qualcosa di doloroso. Anche la parola caduta, però, non mi fa impazzire; rischia di falsare il senso di ciò che avviene nella seconda metà del Secondo Atto (perché, tecnicamente parlando, in un arco eroico non avviene nessuna caduta).

Continuerò quindi a dire discesa; ma con la precisazione fornita a conclusione della sezione precedente: la devi pensare come una discesa agli inferi, un tragitto tormentato da un esercito di demoni, dalle paure più profonde.


Nella seconda metà del Secondo Atto (il tratto discendente dell’arco) troviamo una situazione qualitativamente diversa da quella vissuta nella prima metà, in fase ascendente.

Il tuo personaggio è cambiato, non del tutto, ma in maniera comunque importante, e sicuramente sufficiente a fargli affrontare le nuove sfide con nuove frecce al suo arco.

Quali sono i problemi? Due, fondamentalmente.

Nessuno è così ricco da potersi comprare il proprio passato”, ci ricorda Oscar Wilde.

Sarebbe meraviglioso se, una volta realizzato il perché e il per come dei nostri errori, quegli errori si smaterializzassero all’istante insieme al nostro “vecchio io” che li ha causati. Purtroppo non è così.

Tutti i casini combinati nella fase ascendente, a causa del proprio difetto fatale, sono ancora lì, non se ne sono andati, non possono essersene andati, perché tutte le cose della vita hanno una dinamica inerziale.

Tutti i casini della prima metà del Secondo Atto sono ancora lì e – indovina un po’ – manifesteranno le loro conseguenze più nefaste proprio adesso, nella fase di discesa.
 
Tutti gli errori commessi dal personaggio nella fase ascendente, ora, nella fase discendente, vengono messi all’incasso, con interessi usurari.

D’accordo, il personaggio è cambiato, è oggettivamente meglio equipaggiato rispetto al momento del risveglio, di ingresso nel Secondo Atto, ma in termini relativi persiste ancora una sproporzione tra l’entità delle sfide che deve affrontare e le sue capacità di affrontarle; ed è proprio il permanere di questa sproporzione relativa ad assicurare la tensione drammatica.

Questo è il problema di base: ci sono nuove e più gravose sfide da affrontare, e nel personaggio sopravvivono ancora delle sfumature del difetto fatale, che lo rendono ancora imperfetto e gli impediscono di vincere come dovrebbe.

C’è poi un problema più sottile, che non sempre si riesce a rendere nelle storie, ma se e quando ce la si fa, allora fa compire un balzo sul piano artistico.

È un aspetto legato a doppio filo al difetto fatale e a ciò che questo difetto rappresenta per il personaggio.

Il difetto fatale – forse – aveva nel “vecchio mondo” (nello status quo) una funzione molto più estesa e pervasiva di ciò che poteva sembrare a prima vista. Non era solo un collaudato sistema di sopravvivenza; era pure – a un livello più profondo – una via escogitata dal cervello per tenere lontane paure e incertezze paralizzanti. 

Eliminare parte del difetto fatale (togliere strati di pelle morta) significa comunque aver tolto uno scudo. Lo strato di pelle (anche se morta) era comunque una protezione, che ora è venuta meno e non è stata ancora rimpiazzato da altro. Oltre a tutti i casini esteriori, il personaggio dovrà pure affrontare un esercito di demoni interiori che il difetto fatale teneva a bada e che ora tornano a galla.

Non sempre si riuscirà a integrare una componente così profonda nelle vicende esteriori in cui il personaggio è impegnato: bisogna conoscerlo bene, a fondo, in generale e in relazione al suo difetto fatale.

 “Finora ce la siamo cavata benissimo senza cervello.
Ai cavernicoli non serve un cervello. Le idee sono per i deboli”.
Le parole di papà Croods restituiscono il tipico atteggiamento di ogni protagonista, 
una volta entrato in contatto con la realtà del “nuovo mondo”: 
continuare a credere che il proprio sistema di sopravvivenza rimanga valido,
anche se la situazione è oggettivamente diversa.
E non c’è da biasimarlo.
Se finora il protagonista se l’è sempre cavata alla grande in un dato modo
– se fino a quel momento il cervello non è mai servito, perché è sempre bastata la forza bruta –
per quale ragione, ora, non dovrebbe essere più così?
Saranno gli eventi drammatici del “nuovo mondo”
a obbligarlo a una profonda revisione della propria visione,
a indurlo a un cambiamento coerente con la nuova situazione di fatto.

Per il resto, al netto di questo rilevante cambio di scenario, le cose vanno esteriormente in modo simile a quanto visto nella fase ascendente, con l’accortezza di variare gli esiti delle situazioni conflittuali per sfruttare appieno i maggiori gradi di libertà concessi dal cambiamento avvenuto al midpoint.

Nella prima parte del Secondo Atto (fase ascendente dell’arco) il personaggio non ha grandi possibilità, a causa della presenza integrale del difetto fatale: inanella sconfitte oppure colleziona false vittorie, con la conseguenza – in entrambi i casi – di pregiudicare la difesa della posta in gioco.

Nella seconda parte (fase discendente) una quota consistente del difetto fatale non c’è più (è stata rimossa al midpoint) perciò le possibilità aumentano: i pericoli sono oggettivamente più grandi, ma ora il protagonista è anche meglio equipaggiato, pur rimanendo una sproporzione tra l’entità delle sfide e la capacità di fronteggiarle (che sei libero di modulare come meglio credi); potrebbe perciò conseguire qualche piccola vittoria – o anche grande, a seconda delle situazioni – e parliamo chiaramente di vittore autentiche, genuine, a difesa della posta in gioco; può chiudere alcune situazioni in pareggio; e può conoscere ancora delle sconfitte, che però, al di là della loro dimensione esteriore (grandi o piccole, decidi tu) saprà comunque ammortizzare perché maggiormente consapevole della situazione.

Fino ad arrivare all’esperienza di morte.

Esperienza di morte

L’esperienza di morte – semmai il nome non fosse abbastanza enfatico – è spesso definita come l’evento peggiore che può accadere al protagonista.

Dovresti capire da solo –  arrivato a questo punto – l’assurdità di una simile definizione.

Tutto ciò che diciamo con linguaggio ordinario deve poi trovare una mappatura nei concetti tecnici dell’arco, altrimenti sono solo chiacchiere.

Ragioniamo: qual è l’evento peggiore che può accadere al personaggio?
 
C’era un assistente universitario, nella mia facoltà, che si divertiva a imbarazzare gli studenti con domande del tipo: “qual è l’integrale della derivata di elefante?”. E il malcapitato lo fissava in silenzio, col cervello in cortocircuito perché non capiva cosa c’entrasse un elefante con un esame di matematica. Eppure la domanda era lecita, e se vogliamo anche sottile, per verificare se si erano capiti i concetti di “derivata” e “integrale”. Perché le operazioni di integrazione e derivazione sono l’una l’inversa dell’altra (come possono esserlo addizione e sottrazione) e quindi se le esegui in sequenza su una stessa entità di partenza – che può essere una funzione matematica, ma anche, provocatoriamente, un elefante – otterrai esattamente l’entità di partenza, che al primo giro (integrale) si è trasformata in “qualcosa” (e non importa cosa) e al secondo giro (derivata) è tornata sé stessa (qualunque cosa fosse, una funzione matematica o un elefante).

Ti ho raccontato questa storiella per concederti tempo e farti ragionare, per darti modo di rispondere da solo alla domanda – qual è l’evento peggiore che può accadere al personaggio? – prima che tu legga la mia risposta e possa cadere nell’auto-mortificazione (“accidenti, è vero! Come ho fatto a non capirlo?”).

La peggior cosa che possa accadere al protagonista è… perdere la posta in gioco.

Ovvio, no?

Cos’è che il protagonista sta facendo, dal momento della chiamata all’azione in poi? Sta difendendo la posta in gioco. Di cosa ci parla la storia? Della difesa della posta in gioco. Cos’è la posta in gioco? Il motivo per cui hai scritto la storia, il sostrato filosofico della premessa della storia. Tutto ruota intorno alla posta in gioco, semmai non te ne fossi ancora accorto (in questo caso, la procedura è la solita: torna al modulo 0 e ricomincia daccapo).

Ma allora è un’assurdità dire che l’esperienza di morte è l’evento peggiore che può accadere al protagonista: perché l’esperienza di morte farebbe allora perdere la posta in gioco, e se la posta in gioco è persa allora la storia è finita (e l’arco è sicuramente tragico).

Questa formulazione – l’esperienza di morte è l’evento peggiore che può accadere al protagonista – è rivelatore di una mancata comprensione della logica dell’arco.

La si può accettare – al più – come espressione breve e grossolana per un concetto più fine ed elaborato (che richiederebbe molte più parole, se lo si volesse comunicare con precisione).

Un po’ come dire che 1/∞=0: questa notazione – presa alla lettera – è priva di significato, perché ∞ non è un numero, quindi non si può legare ad altri numeri attraverso le operazioni aritmetiche caratteristiche dei numeri.

Qual è la versione corretta? Cosa si vuol dire, realmente, con la scrittura 1/∞=0?
 
Si vuole dire che il rapporto 1/n – dove n è numero scelto a piacere  – può essere reso arbitrariamente piccolo, che lo si può cioè portare vicino a 0 quanto si desidera, pur di scegliere n sufficientemente grande.
 
Non serve essere il principe dei matematici per capirlo: 1/10=0,1; 1/100=0,01; 1/1000=0,001; …; 1/1.000.000=0,000001; e così via.

Quanto più n è grande, tanto più 1/n si avvicina a 0, e anche se non potrà mai diventare esattamente 0 – perché sempre, prima o poi, apparirà un cifra diversa da 0 dopo la virgola – lo si può comunque approssimare a 0 con tutta la precisione desiderata, semplicemente aumentando n.

Se poi questo discorso appare lungo e noioso, e lo si vuole semplificare dicendo che 1/∞=0, lo si semplifichi pure, e si dica pure che 1/∞=0, purché non si dimentichi il vero significato che sta dietro a una notazione di per sé priva di senso.

E questa micro-lezione di matematica infinitesimale ci torna utile per capire cosa sia realmente l’esperienza di morte.

L’esperienza di morte è un evento che porta il protagonista “a un passo così” dalla perdita della posta in gioco.

Cosa vuol dire “a un passo così”? Questo lo stabilisci tu, in funzione di quanto vuoi far soffrire il personaggio, proprio come sei tu a decidere quanto il rapporto 1/n deve trovarsi vicino a 0: aumenta n, e 1/n si avvicinerà sempre di più a 0; allo stesso modo, fai accadere un evento che conduca il personaggio “vicino quanto vuoi tu” alla perdita della posta in gioco; ma così come 1/n non potrà mai diventare esattamente 0, per quanto grande tu voglia scegliere n, allo stesso modo l’esperienza di morte non potrà mai portare alla perdita della posta in gioco.

Ti è chiaro cos’è l’esperienza di morte? È un evento che sconvolge il protagonista, che gli fa credere che tutti i suoi sforzi siano stati inutili, che tutto ciò che ha fatto di buono sino a quel momento (e dopo il midpoint sicuramente avrà fatto qualcosa di buono) non sia servito a nulla. Dopo l’esperienza di morte il protagonista rischia seriamente di regredire al vecchio sistema di valori, perché se ciò che ha fatto non ha funzionato, allora tanto vale ritornare a quel che si era prima della chiamata all’azione, e quindi “vaffanculo antagonista, prenditi pure la mia posta in gioco, e chiudiamola qui”.

E ora fermiamoci a ragionare. Perché l’esperienza di morte induce uno scoramento così intenso e pervasivo? Com’è possibile che il protagonista sia “a un passo così” (decidi tu quanto, modulando n) dal ritirarsi dalla storia, dopo aver affrontato praticamente tutto l’arco? Magari gli avrai inflitto una sofferenza enorme, o lo avrai mandato incontro ad un autentico tracollo (avrai scelto un n elevato) ma perché mollare proprio alla fine?

Ricorda che il mondo della pagina è la versione elegante del mondo reale. Nella realtà potrà pure accadere che a causa di particolari si mandano per aria sogni e grandi amori – come canticchiava Povia – ma qui siamo nel mondo della pagina, in una realtà regolata da nessi di causa-effetto, in cui c’è sempre una ragione precisa, ben riconoscibile, con cui spiegare quel che accade.

Tu, autore, puoi pure aver traumatizzato il tuo personaggio – una scelta peraltro che in pochi hanno il coraggio di compiere – e così gli hai gettato addosso un evento oggettivamente tremendo. Ma perché lui, il tuo personaggio, ne è uscito effettivamente traumatizzato? Perché l’evento che gli hai scaraventato addosso ha sortito esattamente gli effetti che ti aspettavi?
 
Hai tutti gli elementi per rispondere, e ti suggerisco di mettere in pausa la lettura, per riflettere e dare la risposta, prima di leggere la mia. Se la risposta non la trovi, la procedura la conosci: modulo 0 e si ricomincia.
 
 
Ma è ovvio, no?

L’esperienza di morte è un’esperienza di morte (la cosa peggiore che può accadere al protagonista, in senso lato) non tanto o non solo perché ha in sé degli oggettivi ed elevati elementi di drammaticità, ma soprattutto – fatto cruciale, determinante – perché quegli elementi vanno a colpire le sfumature residue del difetto fatale, in modo diretto e indiretto.

Le colpiscono in modo diretto quando causano la sconfitta del protagonista negli eventi dell’esperienza di morte; le colpiscono in modo indiretto quando inficiano la rielaborazione psicologica che il personaggio compie dell’esperienza di morte, dopo esserne uscito sconfitto.

Spetta a te, autore, dio creatore, modulare gli eventi e tararli sulla tua specifica storia, ma il punto generale è sempre lo stesso: il protagonista vuole mollare tutto perché l’esperienza di morte insiste su quella parte della sua visione del mondo, del suo carattere, che è ancora sbagliata, che risente ancora dei residui del difetto fatale.

È ciò che è rimasto del difetto fatale a impedirgli di vincere nell’esperienza di morte (influenza diretta) oppure è ciò che è rimasto del difetto fatale a impedirgli di comprendere il significato di ciò che è accaduto nell’esperienza di morte (influenza indiretta) oppure entrambe le cose (influenza sia diretta che indiretta) ma in ogni caso il colpevole è sempre lo stesso: il difetto fatale, o meglio, le sue sfumature che ancora sopravvivono nell’animo del protagonista.
 

Il triplice conflitto

Una storia è una sequenza di scene e la scena è un’unità narrativa basata sul conflitto.

Il Secondo Atto è il regno del conflitto.

Se nel Primo Atto il conflitto aveva per lo più un ruolo strumentale alla costruzione empatia, e non poteva che tenere livelli moderati, tenuto conto di una situazione di tendenziale normalità, ora, nel Secondo Atto, il conflitto deve esplodere.
 
Scrivere una sceneggiatura significa esattamente questo: creare una sequenza di conflitti, variarli per tipologia e intensità, far rifiatare il lettore quanto basta tra un conflitto e l’altro, e poi ricominciare, sino a portarlo alla conclusione della storia.

La storia è tua, i personaggi sono i tuoi, il mondo della pagina lo hai creato tu, ma se non hai un repertorio sufficientemente ricco e variegato di conflitti, si può sapere cosa hai creato?

Nessuno – né io né altri – potrà mai insegnarti cosa scrivere, quali conflitti inserire nella tua storia e come alternali, perché quello – accidenti! – devi saperlo tu, se sei davvero uno scrittore.

Quel che si può fare – a livello didattico – è classificare i conflitti ed evidenziarne le connessioni, così da colpire l’animo del lettore nei suoi punti più sensibili.

Il conflitto narrativo è come il Dio cristiano: uno e trino, triplice, si snoda lungo tre dimensioni, che una volta raccordate si scoprono essere una dimensione sola.



I pessimi insegnanti li riconosci dall’assurda convinzione di dover infliggere ai propri studenti gli stessi traumi, le stesse sofferenze, le stesse storture che hanno subito loro, gli insegnanti, quando erano studenti.

Poche chiacchere e zero stronzate, quando parliamo di conflitto narrativo.

Abbiamo tre tipologie di conflitto – esterno, interno, di relazione – che sono manifestazioni diverse ma interrelate dell’unico conflitto da cui dipende tutta la storia.
 
Piuttosto che imbarcarsi in lunghe, noiose e incomprensibili spiegazioni teoriche, buone solo a darsi delle arie, anticipiamo il minimo indispensabile dell’analisi del film A civil action, dove il triplice conflitto è orchestrato magistralmente.

Cos’è il conflitto esterno? Semplicemente, la storia sotto i nostri occhi, lo scontro visibile tra il protagonista e l’antagonista.

Da un lato abbiamo il piccolo studio legale di John Travolta, che difende le famiglie a cui sono morti i figli, probabilmente a causa dell’inquinamento dell’acqua corrente causato dalle attività di alcune multinazionali nella zona; dall’altro ci sono i più potenti studi legali della città, capitanati da Robert Duvall, che negano ogni addebito e attribuiscono i decessi alla sfortuna (o comunque a cause che nulla hanno a che fare con le attività delle multinazionali).

Un protagonista da un lato (John Travolta), gli antagonisti dall’altro (principalmente Robert Duvall), tra loro in contrapposizione per vedersi dare ragione dal giudice: questo è il conflitto esterno, la vicenda a cui assistiamo da spettatori.

Qual è il fatto interessante? Che John Travolta prende schiaffi a due a due finché non diventano dispari, nello sviluppo di questo conflitto esterno: fa di tutto per prevalere su Robert Duvall, ma ogni sua mossa d’attacco si rivela un boomerang che gli torna dritto in faccia con la stessa violenza con cui l’ha lanciato all’avversario.

Perché accade questo? Come mai le cose vanno sempre peggio, nonostante tutto l’impegno che John Travolta sta mettendo nella causa? Ovvio: perché l’agire di John Travolta potrà pur essere animato dalle migliori intenzioni, ma è viziato dal suo difetto fatale, che gli impedisce di agire come dovrebbe, e che tuttavia lui non riesce a rimuovere, perché per gran parte della storia rimane inconsapevole di questa zavorra che si sta portando dietro.

Il difetto fatale esprime il conflitto interno al personaggio, il conflitto del personaggio con sé stesso, tra quella parte di lui che gli sussurra di cambiare (per quanto possa essere complicato) e l’altra che si ostina ad affidarsi al vecchio sistema di sopravvivenza (per quanto sia stia rivelando fallimentare). Nessuna vittoria nel conflitto esterno sarà mai possibile (contro l’antagonista Robert Duvall) fin quando John Travolta non vincerà il conflitto interno (finché non supererà il suo difetto fatale).
 
Il messaggio che l’arco fa passare nel sotto-testo è straordinario: se vuoi trionfare sugli altri, devi prima vincere su te stesso, trovare la forza di cambiare quelle cose che non vanno più bene dentro di te, fare un bagno d’umiltà e riconoscere che le sconfitte esterne sono solo colpa tua, tutte figlie della tua ostinazione a restare in conflitto con te stesso.

E non finisce qui.

La vita di un uomo è legata a tante altre vite” ricorda l’angelo a George Bailey, nel film La vita è meravigliosa, di Frank Capra, del 1946.

Nessuno di noi è solo in questo mondo, e ogni nostra azione si riverbera inevitabilmente sugli altri, su chi ci sta intorno.

Tutto ciò che John Travolta fa per trionfare su Robert Duvall (conflitto esterno) e ogni sconfitta a cui va incontro a causa di un difetto fatale irrisolto (conflitto interno) ha conseguenze via via più drammatiche nei rapporti con gli altri soci dello studio legale (conflitto di relazione).
 
Vediamo i soci di John Travolta diventare progressivamente più insofferenti, indispettiti e sfiduciati: le relazioni personali si stanno guastando, all’intero dello studio. Perché? Esteriormente perché il loro piccolo studio legale ha raggiunto livelli di indebitamento insostenibili, nel tentativo di tener testa ai più potenti avvocati avversari, e nonostante ciò sta soccombendo lo stesso. Quindi – in sostanza – i soci sono pessimisti, sentono che perderanno la causa, che usciranno sconfitti dal conflitto esterno. Ma il conflitto esterno (la causa legale) non potrà mai mettersi sui binari giusti, finché John Travolta non supererà il suo difetto fatale (finché non vincerà nel conflitto interno). E così il conflitto interno (difetto fatale) crea un conflitto relazionale (con i soci dello studio) attraverso gli esiti negativi nel conflitto esterno (contro Robert Duvall).

D’altra parte, se John Travolta rimuovesse almeno in parte il suo difetto fatale (se riuscisse a sbrogliare anche solo parzialmente il conflitto interno) non solo guadagnerebbe punti contro Robert Duvall (nel conflitto esterno) ma allenterebbe la tensione con i suoi soci (conflitto di relazione) e magari riuscirebbe pure a mettere a frutto i rapporti più distesi con i soci (recependone i suggerimenti) per dare spallate ancora più forti a Robert Duvall (e arrivare così alla vittoria nel conflitto esterno).
 
La rimozione del difetto fatale (la risoluzione del conflitto interno) ha quindi un effetto duplice: da un lato spinge direttamente alle contromosse giuste per trionfare sull’antagonista (nel conflitto esterno) e dall’altro consente di allentare le tensioni con chi sta intorno al protagonista (conflitto di relazione) e indirizzare nuove forze contro l’antagonista (per sconfiggerlo nel conflitto esterno).

Se ti gira la testa per questo continuo gioco di specchi tra conflitti interno, esterno e di relazione, sappi che è proprio questo tourbillon di emozioni, quando ben rappresentato, a far sì che una storia rimanga nel cuore.
 
È la stretta coerenza nel triplice conflitto – il fatto che tutto risponda a un preciso meccanismo di sponde e rimbalzi, la chiara sensazione di trovarsi di fronte a linee di sviluppo intrecciate ma al tempo stesso ben riconoscibili – a conferire il più elevato livello di eleganza narrativa e a suscitare le emozioni più forti.
 
Tutte le grandi storie operano “su due orizzonti distinti”, scrive lo psicologo Jerome Bruner: “uno è quello dell’azione nel mondo”, che vediamo nei termini di un conflitto esterno e di relazione, e l’altro è quello mentale, il conflitto interno, in cui “si stagliano i pensieri, i sentimenti e i segreti dei protagonisti”.
 
Nello strato superiore della trama (conflitto esterno e di relazione) sperimentiamo gli effetti del dramma vissuto nel subconscio (conflitto interno) in cui i personaggi appariranno multipli – in lotta contro versioni di sé ribelli, imprevedibili e poco collaborative – alle prese con le loro più ataviche e potenti pulsioni.
 
La storia diventa così un dialogo ininterrotto tra conscio e subconscio, in cui ogni passaggio è ora causa e ora effetto del dramma complessivo, e cause ed effetti non fanno che rimbalzare tra i due livelli, conscio e inconscio.
 
Tutto il Secondo Atto è una danza tra il dramma negli eventi in superficie e il cambiamento nel profondo dell’animo, sullo sfondo di una consapevolezza risolutrice da acquisire: la normalità non esiste di per sé, ma è solo una una personale interpretazione di ciò che comunemente si chiama “realtà”. 
 
Voler tornare alla cosiddetta “normalità” – allo status quo, al vecchio mondo, a un’immaginifica situazione piacevole e invariabile – significa voler ripristinare un passato ormai andato e irrecuperabile, negando che il futuro possa essere migliore, solo perché il presente non ci piace.

E la sfida a cui è chiamato il protagonista sta proprio nell’interrogarsi su cosa gli stia insegnando questo presente sgradito, per analizzarlo a fondo e progettare così un domani diverso, che possa essere migliore sia di oggi che di ieri.
 
“Fu allora che capii che dovevo cambiare radicalmente il mio atteggiamento verso la vita.
Per non invidiare gli altri, ma imparare a godermi ciò che mi è disponibile.
Altrimenti, puoi impazzire.
Ho capito che i comandamenti ‘non pensare male’, ‘non agire male’, ‘non invidiare’
non sono solo parole.
Che esiste una connessione diretta tra loro e come si sente una persona.
Ho iniziato a sentire queste connessioni.
E mi sono resa conto che, rispetto alla capacità di pensare,
la mancanza della capacità di muoversi è una tale sciocchezza…”
(Elena Mukhina, ginnasta sovietica rimasta paralizzata nel 1980)
 


“Ho cinquantanove anni, sono cieco.
Il tumore mi ha mangiato in parte il naso, e in parte anche il cervello.
Ma ho trovato qualcosa che mi ha spinto a proseguire,
a pensare che la vita è bella, e vale anche la pena viverla.
Fino in fondo”
(Carlo Petrini, calciatore professionista, dal 1965 al 1985)







“Il tumore è un dono”
(Nadia Toffa, “la iena”)
 
 
 
“Chi sta combattendo la sua battaglia per la vita merita rispetto.
Anche se la stessa battaglia l’avete combattuta e persa, o se l’avete vinta con altre armi,
non avete un contratto in esclusiva che indichi i punti cardinali del sopravvivere.
Tutti lì a ricordare a una giovane donna, imperdonabilmente bella, brava e famosa, che lei ha il cancro.
Tutti a ripetere, come in un film di Troisi, di ricordarsi che forse morirà.
Qualcuno spingendosi oltre e passando ad augurarle questa fine.
Perché il cancro è un dono. È un dono, avete letto. E questo vi ha fatto imbestialire.
E a dirlo, poi, una sciacquetta famosa curata sicuramente in qualche clinica privata.
Il sotto-testo non vi interessa.
La strada faticosa per arrivare a quella frase non vi interessa.
Il lavoro messo in campo dal cervello per garantirsi una sopravvivenza non vi interessa.
Siete incazzati.
Mio figlio, Bruno, sei anni, ha il cancro. Al cervello.
Era il mio unico figlio sano. Sì.
Ho una bimba più grande, Sofia, sindrome di Rett.
Un destino infame.
Ho desiderato morire. Ma ora devo vivere.
E per vivere, e per lottare, e per sperare, devo trovare il bello.
Devo dare a tutto questo un vestito che non sa di morte ma di vita.
Allora tutto il mio dolore devo, è un dovere, trasformarlo in possibilità.
Ed eccolo il dono che tanto vi ha mortificati.
Il dono non è il cancro, il dono non è una malattia propria o dei propri cari.
Il dono è cogliere in mezzo alla bufera qualcosa che gli dia un senso.
Il mio dono è stato comprendere fino in fondo che la vita è qui e ora.
Che potrebbe non esistere un domani.
Allora il profumo del sugo di mia madre o la risata di un amico
me li godo come se non ci fosse un domani. 
E il tempo. Ho tutto il tempo per i miei figli. 
Non corro. Mi soffermo sul loro odore, i capelli, la pelle, le parole. Me li vivo, oggi.
Non ho fretta la sera, potrebbe essere l’ultima, e allora leggo loro libri, canto, rido.
Ho avuto il dono di percepirmi sana. Non lo sapevo”
(Mariangela Tarì)

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