Modulo 24A – Lo straordinario arco eroico di Mariangela

“Non siamo eroi, ma compiamo azioni eroiche.
Non siamo fuori dall’incendio di un grattacielo,
giù dalla nave che affonda, riemersi dalle macerie di un terremoto.
No.
Siamo nel grattacielo, sulla nave e sotto le macerie,
ma abbiamo imparato a prepararci il caffè tra le fiamme e a ridere mentre scavano per salvarci.
Quello che per tutti è solo sfiga, che per noi è solo sfiga, diventa tutto ciò che resta.
L’attimo diventa tutto”
(Mariangela Tarì)
 
 
 

 

Istruzioni per l'uso

Devi aver letto il libro e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
 
Non puoi pensare di capire le mie spiegazioni, se non ti sei già impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando ora.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver già letto e analizzato il libro, altrimenti perdi solo tempo.
 

Partiamo da un fatto dirimente: Il precipizio dell’amore non è un romanzo, non è narrativa. Le pagine del libro sono “solo appunti di una madre”, come recita il sottotitolo. E non è modestia. È la verità. Il libro è scritto nella forma di diario, e per di più è un diario che beneficia della retrospettiva, in Prima al Passato e con diversi andirivieni nel tempo, tutte scelte suicide sul piano stilistico. Siamo distanti dagli standard di scrittura del blog.

Ma significherebbe non aver capito nulla della filosofia e della pratica promosse dal blog, se si approcciasse alla lettura del libro di Mariangela col piglio di chi ne volesse rilevare gli scarti rispetto agli standard.

Perché se Mariangela ci dice che i suoi sono “solo appunti di madre” – se questo era ciò che voleva fare, appuntare le sue emozioni sulla pagina e nient’altro – allora si dimostra la stupidità di un koala nel volerne dare un giudizio che oltrepassi le intenzioni dichiarate: roba che i fermacarte – a confronto – sono degli astrofisici.

Va notato, piuttosto, che rispetto alla modestia dell’obiettivo – “solo appunti di una madre” – quel che ne è venuto fuori è un testo notevole a livello sia di scrittura che di sceneggiatura, 

A livello di scrittura va apprezzato uno stile pulito, vivido, concreto, basato su dettagli ben scelti. Mariangela – ahi lei – sa bene di cosa sta parlando, ha un intero deposito di dettagli a cui attingere, e ha saputo selezionarli e disporli sulla pagina con una cura e una precisione da vera artista della scrittura: qualunque episodio si scelga, si potrà sempre dire “io c’ero, io ero lì”. 

A livello di sceneggiatura – che è ciò che qui rileva – la forma del diario e gli sbalzi temporali hanno oscurato l’arco, come fossero nuvole davanti al Sole. Ma l’arco c’è e la sua luce filtra. Bisogna semplicemente “spostare le nuvole”, recuperare la struttura dell’arco arrangiando i pezzi del diario, disponendoli nel “giusto ordine” (che peraltro non coincide sempre con l’ordine cronologico). 

Questo arco di trasformazione è “speciale”, e perciò l’ho scelto per aprire il modulo di analisi delle storie: Il precipizio dell’amore è la migliore manifestazione possibile della natura reale dell’arco; il libro dimostra che l’arco narrativo è la versione elegante della vita, che si può vivere la vita vera, nel mondo reale, con tutta l’eleganza prevista dall’arco; il libro chiarisce – come meglio non si potrebbe – che vivere in accordo con l’arco è l’unico modo di vivere alla grande, qualunque cosa accada.

“La mia vita è un romanzo” è la stupidata ripetuta pedissequamente da tutti gli artistodi. Non capiscono – questi fenomeni – che non importa quanto un’esperienza di vita vissuta ti possa aver segnato nel mondo reale. Conta solo in che misura riesci a renderla nel mondo della pagina, che è un luogo artificiale, da costruire da zero, in accordo con una serie di tecnicismi ideati proprio per far sì che nel travaso – dalla realtà alla pagina – non si smarrisca l’essenza di ciò che si vuol comunicare.

Mariangela ha centrato l’obiettivo: non solo la sua vita è un romanzo, ma quel romanzo è riuscita poi a scriverlo davvero, anche se per lei erano “solo appunti di una madre”; perché sapeva di cosa stava scrivendo, perché aveva qualcosa di bello da raccontare e – last but not least – perché ha avuto il supporto di una editor “che si sente responsabile di una persona mentre si incammina in un progetto di scrittura, perché ne intravede le potenzialità di bene, di cambiamento, di conflitto che ne verranno fuori”.
 
Ricorrerò sistematicamente a citazioni testuali, che saranno riportate con il font Didact Gothic, in blu; l’indicazione dei numeri di pagina si riferisce alla versione e-pub, dove due pagine consecutive sono accomunate da un unico numero; quindi, ad esempio, “pagina 13” – che indicherò con la notazione (p. 13) – si riferisce alla coppia di pagine 13-14, e la frase citata può trovarsi nell’una o nell’altra pagina.
  

Tema e premessa: il dolore è come l'amore

Quale parola sceglieresti per descrivere lo stato d’animo di una mamma con una figlia con la sindrome di Rett (1 caso ogni 10.000 nascite) e un figlio con un tumore al cervello?

Qual è la parola adatta per una situazione che – per dirlo con l’ammirevole auto-ironia Mariangela – è “come vincere un superenalotto al contrario”?

Io non avrei dubbi: dolore.

Questa è la parola-chiave del libro – dolore – tant’è che ricorre 61 volte, praticamente 1 pagina ogni 2. Questo libro ci parla del dolore, il tema della storia è il dolore.
 
Non provo disperazione, ma ho un dolore costante in ogni angolo di cuore, fegato, polmoni, occhi, cervello (p. 69).
 
Il dolore è tra i temi più complessi da affrontare, supera persino la morte.
 
Perché la morte – per quanto la si possa ignorare – alla fine arriva per tutti e non si può far altro che accettarla. Ma con il dolore è diverso. Metabolizziamo la morte delle persone care, e ci rassegnano all’idea di dover morire noi stessi, ma ancora speriamo, ci illudiamo, che questa vita – pur destinata a finire – possa essere sottratta al tocco del dolore. Sappiamo di non poter sfuggire alla morte, ma ci consola l’idea che forse sia possibile tenersi lontani dal dolore, finché si vive. E tutta la vita trascorre così: a chiamare a sé gli oggetti, le persone e le situazioni che procurano felicità, e a tenere lontano tutto ciò che provoca dolore. Questo possiamo farlo, o almeno crediamo di poterlo fare.
 
E a poco vale l’ammonimento delle filosofie orientali – la sofferenza permea il Saṃsāra, nessun reame dell’esistenza mortale ne è immune – perché noi continuiamo a credere che, sì, un giorno moriremo, ma per tutta la vita che ci è concessa, per tutto il tempo in cui siamo qui, c’è ancora la possibilità di non conoscere il dolore.

Mariangela affronta dunque un tema da cui tutti rifuggiamo, di cui nessuno vuol sentir parlare, e la scelta la pone già su tutt’altro livello rispetto al 99% dei sedicenti, auto-proclamati, scrittori. Parlare di qualcosa che il nostro animo avversa e tiene lontano è una sfida d’autore. E decisiva – per vincere la sfida – è la premessa costruita sul tema.
 
Voglio dirmi che ce la farò. Voglio tranquillizzarmi, prendermi per mano, accarezzarmi la fronte e sussurrarmi che quel dolore che nei prossimi anni mi strapperà la pelle di dosso non durerà per sempre. Anzi voglio gridarmelo: ce la farai, Mariangela. Non morirai di dolore (p. 13).
 
Il dolore è diventato un vulcano attivo che ci ha portato oltre noi stessi, oltre lo stesso dolore alla ricerca di una normalità. Essere normali in un mondo in cui sei alieno non può che essere una scelta. […]. La felicità è sempre una scelta che fai, un patto con te stessa e con il tuo compagno di viaggio (p. 59).
  
Quanto più il dolore ti schiaccia tanto più la reazione della vita è forte. Come se il male premesse su una molla e ne saltasse fuori il bene. […]. Quell’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile (p. 60).

[…] il dolore è il fuoco che mi spinge a combattere.  (p. 62).
 
La fede è così, posso essere una folle che pensa di avere una missione o posso davvero averne una. La fede è credere che quella voce che ti ripete sempre di andare avanti, di farti forza, di usare il dolore, non sia tua ma arrivi da un frammento di universo che hai dentro […]. Io credo che Dio non possa farci niente con le malattie, e che invece possa farci qualcosa con me, con gli uomini (p. 71).
 
Sono una donna sfortunata. Non esiste dolore più grande di vedere i propri figli soffrire. Ci sono giorni in cui m’immagino con Sofia e Bruno sani e sento il peso di questa sfortuna. Ma le cose accadono. E la sfortuna può avere diverse forme […]. Sono una sfigata che ha il cattivo vizio di non rinunciare. Sono una sfigata che può ancora riconoscere di essere più fortunata di altre mamme, che i figli li hanno persi troppo presto. […]. A volte qualcuno mi chiede se tornando indietro e sapendo delle loro sofferenze li rimetterei al mondo. Se nel 2010 fosse venuto un essere dal futuro a raccontarmi la malattia e il dolore credo che avrei risposto di no a questa vita. Ma oggi, dopo averli conosciuti, abbracciati, amati, non potrei mai rinunciare a loro, mai. […]. Il dolore è come l’amore, ha una potenza creatrice. Quando si ama tanto, si crea. L’amore incontenibile sfocia in una famiglia, in un figlio, in un dipinto, in nuove parole inventate, in un letto che sa di sudore. Il dolore fa lo stesso. Quando è troppo forte il dolore deve diventare qualcos’altro. L’ho visto accadere (p. 116).

Tutti noi fuggiamo dal dolore, istintivamente. E Mariangela lo sa, ne è consapevole: “a una persona baciata dalla normalità, senza che nemmeno si renda conto del gran culo che ha avuto, una volta che arrivano dieci, cento, mille foto di bambini disabili viene l’angoscia, un senso di nausea misto a paura. Un moto involontario del dito su CANCELLA e poi un ritornello ‘salva coscienza’ che dice: Oh mamma mia non ce la faccio, mi intristisco troppo… clic… cancella… avanti… clic… condivido, senza nemmeno leggere”. Siamo fatti così e sembra non ci si possa far niente.
 
E invece Mariangela non ci sta: “in questa storia devono entrarci tutti”, e per portarci dentro questa storia, per condurci ad abbracciare il dolore, a smarrirci nel suo dolore, ce ne mostra un risvolto inatteso, dalle potenzialità devastanti: il dolore è un vulcano, è una molla su cui preme il male per far saltare fuori il bene, è un frammento di universo che ti porti dentro. Sino al colpo di fioretto finale, sino a dire che il dolore, quando è troppo grande, si trasforma per sua natura in qualcos’altro, con la stessa inevitabilità con cui l’acqua in una pentola si trasforma in vapore se messa sul fuoco, ma con la differenza che qui la trasformazione sorprende, spiazza, lascia meravigliati: il dolore diventa amore, fino a confondersi con l’amore, sino a coincidere con l’amore.

È una tesi unpedantic e unconventional, che mette fuori gioco l’intuizione.

Perché il dolore, nel sentire comune, guasta o rovina l’amore – come sporca ogni altra situazione di felicità – o al più lo sfida, ne rappresenta un severo banco di prova, ma nessuno – a intuito, a buon senso – arriva a identificarlo nell’amore stesso, perché dall’uno fuggiamo, mentre dall’altro siamo attratti.
 
Fuggire dal dolore è il primo istinto di tutti noi, nel mondo reale, nella vita vera.
Ma gli istinti di base, le prime idee che vengono in testa, le intuizioni ingenue
non funzionano mai bene, non son mai valide, nel mondo della pagina.
 
Sei un illuso, se pensi di poter fuggire dal dolore, non meno che se sperassi nell’invenzione di una cura contro la morte prima che arrivi il tuo giorno: non puoi sfuggire al dolore, come non puoi sfuggire alla morte, perché il dolore permea tutte le esistenze mortali.

Non puoi sfuggire al dolore, ma puoi ancora affrontarlo e vincerlo, e – vincendolo – scoprirne significati sorprendenti. 
 
Se guardiamo i fatti sotto i nostri occhi, allora dovremo ammettere non c’è differenza tra ciò che si costruisce sulla scia dell’amore e ciò che si può costruire sulla scia del dolore, se solo si trova la forza di oltrepassarlo. Le potenzialità sono le stesse e bisogna imparare a sfruttarle. Mariangela, la sua storia, ti dice come fare, come lei ha imparato a fare, a conclusione di uno spettacolare arco eroico.
 
L’ho visto accadere”, e come l’ha visto lei, può vederlo chiunque, perché nessuno è immune dal dolore, tutti dobbiamo affrontarlo, e il modo con cui lo affrontiamo dipende da noi, soltanto da noi, e da questa nostra scelta dipenderà la possibilità di scoprirne la sua reale natura, perfettamente sovrapponibile all’amore.
 
TEMA: Dolore

PREMESSA: Il dolore è come l’amore: conduce a creazioni straordinarie
 
Questa accoppiata inusuale è una forza attrattiva irresistibile verso la storia di Mariangela: il lettore non fa alcuno sforzo per entrare in empatia con la sua sofferenza, non teme mai di essere trasportato verso situazioni stravaganti e inappropriate; piuttosto si compiace della sensibilità del proprio animo e l’asseconda con auto-approvazione; e arriva a desiderare di essere come lei, come Mariangela, la trasforma in un riferimento costante per la propria condotta.
 

Un incipit da manuale

Sono una mamma e una maestra di scuola primaria. Anni fa sono stata nominata insegnante di sostegno di Laura, una bambina grave, gravissima e bellissima.

Appena arrivo in classe la maestra prevalente mi accoglie sbrigativa coi suoi jeans blu e una camicia verde smeraldo: «Stai attenta alla madre, si chiama Clara, cercherà in tutti i modi di tirarti dentro alla sua sofferenza e poi è un po’ fissata con il fatto che la figlia può far tutto, capisce tutto, ed è presente» mi avverte. Io resto zitta. Continuo ad ascoltarla mentre mi dice che in mattinata è prevista un’uscita, una visita, non capisco se sia un museo o qualcos’altro, e che la madre di Laura si è “fissata” che debba andarci anche lei, con tutta la classe. Resto zitta, ancora, e intanto incrocio gli occhi della bimba e dentro di me le parlo e le sussurro: «Stai tranquilla, ti ci porto io».

Laura sorride, è radiosa, però nessuno, tantomeno la maestra che la conosce da ormai tre anni, sa dirmi quali siano le sue competenze, e la diagnosi funzionale è troppo generica.

Usciamo, destinazione museo MArTA di Taranto. Laura con la sedia a rotelle cerca di spingersi avanti per guardare i quadri, le ceramiche e gli ori dell’antica Grecia ma la maestra di classe mi dice di tirarla indietro perché leva il posto e la visuale a chi “capisce”.

Resisto e faccio come se non avessi sentito, la porto ovunque e le parlo e le spiego, la maestra mi guarda di sbieco.

Torniamo in classe e mentre tutti i ragazzi sono impegnati a descrivere la mattinata al museo, Laura non ha un compito, né un libro, non ha niente da fare, è lì sulla sedia. Sono al mio primo giorno di scuola, poco male, mi organizzo, la coinvolgo e chiedo alla sua compagna di banco di farci sbirciare sul quaderno. Lei di slancio ci prova, gentile, ma poi dice che non ha tempo, deve studiare con gli altri compagni.

Merenda: Laura è da sola e gli altri in gruppo. Cambio pannolino da panico: i bidelli fanno a gara per non venire. Mi arrangio da me. «Ti cambio io, amore, è un’ora che sei con la cacca.»

Parlo con la maestra di sostegno dell’anno precedente che mi scarica addosso una serie di cattiverie sulla madre, sulla famiglia e sul fatto che non si può lavorare con un handicap così grave. Le chiedo se ha mai usato la CAA (comunicazione aumentativa alternativa che si avvale di una serie di simboli) o la tecnologia. Lei ribatte che ha una laurea in Scienze della Formazione, quindi ha già studiato tanto e non può sapere tutto. Resto ancora zitta.

Intanto sono completamente innamorata della mia bimba. Le risposte le ho da lei. Uno scricciolo accartocciato su se stesso che indica in modo corretto tutti i colori, le forme, le lettere, i numeri, risponde esattamente a tutte le mie domande con gridolini che capisco e interpreto come lei vorrebbe.

Le ho dato mille baci e lei mi ha fatto mille carezze. Alla fine della giornata, la maestra di classe mi dice: «Sei molto portata, ne avevamo bisogno!».

Mi giro e sulla porta riesco a dire d’un fiato: «Corro. A casa c’è mia figlia completamente disabile che mi aspetta».

Un gelo improvviso cala sul volto della maestra, è così pietrificata che è diventata una statua di ghiaccio. Il giorno dopo arrivo con il mio iPad e con l’aria di quella incavolata. Loro, le maestre, cercano di chiedermi scusa, ma subito replico: «Sentite, io non sono la maestra di questa bambina, io sono una maestra di classe, a supporto della classe, la bambina è di tutti, quindi o si programma insieme o sono cavoli amari. Se vedeste quello che vedo io in lei, se vedeste dentro questo corpo che non risponde una ragazzina come le altre desiderosa di scoprire, di sapere, di giocare, di interagire, allora tutta la classe sarebbe migliore, voi sareste delle persone migliori e il mondo sarebbe una favola»
(p 11-12).


Questa è la scena iniziale, che esaurisce anche il primo capitolo: ed è perfetta.

Lo è sicuramente sul piano della sceneggiatura, ma anche la scrittura è buona, sistemabile senza troppa fatica (e potrebbe essere un ottimo esercizio mettere mano al testo con l’idea di allinearlo agli standard del blog).

Cosa avevamo detto a proposito dell’incipit? Che doveva catapultare all’istante dentro la storia, creando empatia verso il personaggio. E cosa avevamo detto a proposito dell’empatia? Che volevamo personaggi competenti, proattivi e sottoposti a sofferenza ingiusta.

Qui abbiamo tutto.

Ci viene subito presentato un contesto coerente con l’intera narrazione: un’insegnate di sostegno al suo primo giorno di lavoro nella nuova scuola. Siamo chiaramente alla presenza di un personaggio “buono”, che per di più si prende in carico la sofferenza ingiusta di un altro personaggio (Laura, la ragazzina disabile) e subisce un clima di conflittualità latente (con la maestra principale che la mette in guardia contro le “assurde” pretese della madre di Laura).

Vediamo poi un personaggio proattivo, impegnato a far vivere a Laura una bella esperienza al museo, quando la maestra avrebbe voluto lasciarla a scuola (e poi si lagna perché con la carrozzina toglie spazio ai “normali”). La vediamo cambiare un pannolino – senza fiatare, con gioia – quando il compito spetterebbe ai bidelli (che però sono spariti). Tornati in classe la ritroviamo alle prese con la compagna di banco di Laura, a cui chiede la gentilezza di renderle partecipe delle sue considerazioni sulla visita al museo. L’adesione tiepida della ragazzina – che alla fine vuol esser lasciata in pace – accentua la sofferenza ingiusta.

È netto il contrasto tra la protagonista e le colleghe: Mariangela sembra capire alla perfezione gli stati d’animo di Laura, pur conoscendola solo da un giorno, e sicuramente li coglie infinitamente meglio di tutte le altre maestre (il cui unico pensiero è tenere a bada le pretese smodate della madre). La vediamo incalzare la precedente insegnante di sostegno con domande precise sulle tecniche di comunicazione con i disabili, e ci viene così confermato quel che aleggiava sin dal principio: la nostra protagonista è competente, altroché se è competente.

Le colleghe sono sinceramente meravigliate dalle abilità della protagonista, la cui stoccata finale – sulla provenienza di quelle abilità – ha l’eleganza di un colpo di fioretto.
 
Ma il giorno dopo la vediamo impugnare il machete: perché, sì, la nostra protagonista è buona, competente, proattiva, non si lagna di fronte a sofferenze ingiuste, ma non è una minchiona, proprio no, e perciò vedete di darvi tutta una regolata, altrimenti “sono cavoli amari”.

In 664 parole c’è tutto e solo quel che ci deve essere: perfetto.
 

Lo status quo

Lo status quo della nostra protagonista, di Mariangela, non è semplicemente il già splendido periodo dell’attesa di un figlio e dei momenti immediatamente successivi; l’evento gioioso si colloca nella migliore delle ambientazioni possibili; tutto risplende di luce propria, il presente come il futuro, e il futuro più del presente.
 
[…] nove mesi precedenti, le mani sul pancione, i nomi da trovare, i libri letti sul perfetto genitore (p. 14).
 
Ho letto almeno dieci libri durante la gravidanza. Convinta di poter forgiare le chiavi della FAMIGLIA PERFETTA (p. 15).

Il mio ricordo della nascita di Sofia […] mio padre che mi porta i fiori e mi chiama “bambina mia” e Mario che per la prima volta prende Sofia in braccio (p. 54).
 
[…] ci siamo io e Mario che usciamo dall’ospedale e portiamo a casa la nostra neonata. La carrozzina scelta con cura, il parasole per proteggere la pelle bianca della bimba, la coperta di lana ricamata a mano da mia madre, il cappellino rosa sistematole con delicatezza da nonna Ida, il carillon con le farfalle che girano su occhi curiosi. La musica di Beethoven che accompagna le farfalle fa assomigliare tutto a un fotogramma perfetto.
 
[…] una sera sul balcone della mia casa di Taranto, a un anno esatto dalla nascita di Sofia, mentre stendevo le sue tutine agganciandole a mollette colorate, mi ero fermata a ringraziare il cielo per la bellezza che mi stava accadendo.
 
Ero una mamma che sentiva di essere fortunata ad avere un batuffolo in una culla tutta pizzi e un marito a cui mancavamo tantissimo, lì a Bruxelles, dove era andato per lavoro. Mi raccontava di quella città e di tutto ciò che avremmo fatto noi tre insieme e continuava ad acquistare tutine con scritte in francese e strani pupazzi di pezza chiamati Dudù che io non avevo mai visto. Parlava di possibilità, di scuole bilingue, di parchi molto grandi e di una vita a tre che sapeva di avventura. Non vedevo l’ora di cominciare mi sarei trasferita in Belgio! La carriera di mio marito andava bene e mi sentivo pronta. Da maestra avrei guadagnato il triplo e Sofia avrebbe avuto mille possibilità in più. Quella era stata proprio una meravigliosa giornata fatta di importanti decisioni (p. 23).
 
Questo è lo status quo della nostra protagonista: un mondo incredibilmente perfetto.
 

L'incidente scatenante

Ritroviamo la nostra protagonista in Belgio, con gli occhi “succubi di svariati sogni”.

Il marito l’ha iscritta a un corso di francese, e poi c’è  da cercare anche un nuovi gruppo teatrale, perché Mariangela non vuol certo lasciar andare le sue passioni.
 
Chiude gli occhi e sorride, Mariangela: si immagina nella più classica delle situazioni di vita familiare: la giornata che inizia con un bacio del marito e finisce in pigiama a cucinare non-sa-bene-cosa, e alla fine non-importa-cosa, perché tutto ciò che conta è sistemarsi sul divano a guardare la tv, per trascinarsi infine nel letto con Sofia, tenendosi stretti: “una vita bohémienne in una casa con arredamento Ikea”.

La realtà di ogni giorno, però, è un filo diversa: il francese si rivela una lingua più complicata del previsto, difficile da padroneggiare; le conversazioni di Mariangela procedono per lo più con sorrisi e gestualità; e poi c’è una malinconia progressivamente più intensa, giorno dopo giorno; è rimasto poco – quasi nulla – dell’eccitazione della partenza da Taranto; e il timore latente dal principio – che la lontananza dalla terra d’origine sarebbe stata alla lunga insopportabile – diventa ogni giorno un po’ più reale.

Anche perché la piccola Sofia non ne vuol sapere di incrociare le aspettative della madre.
 
Sofia piangeva spesso, era sveglia di notte e non ne voleva sapere di comportarsi come era scritto nei miei libri. Qualcosa non andava, cominciai ad avvertire un disagio. Stare con Sofia mi provocava uno strano senso di paura che si insinuava piano piano in me (p. 24).

Questa vita a Bruxelles non ha nulla della favola che Mariangela aveva immaginato. Si alternano “giorni sì” a “giorni no”, giornate in cui si convince che tutto andrà bene e altre dove prevale lo scoramento, attimi di apparente normalità seguiti da momenti segnati da sensi di colpa sempre più grandi.
 
Nei giorni no, che diventavano sempre di più, Sofia mi invadeva con le sue stranezze. Aveva tredici mesi. Qualcosa non andava per niente (p. 24).
 
Ormai non facevo altro che piangere e continuare a cercare qualcosa senza trovarla. Vedevo su di me un’accusa continua. Ero io la causa di quei ritardi? (p. 26).
 

Un giorno che spezza il destino: la chiamata all'azione

Sofia non è come le altre bambine, questo è chiaro. “C’est elle” – “È lei” – aveva sentenziato il pediatra belga, per intimare Mariangela a smetterla di paragonare Sofia agli altri bambini, a non pretendere troppo da sua figlia, a mettere da parte ansia ed egoismo.

Pare facile, pare.

Osservavo. In qualsiasi luogo osservavo i bambini degli altri e sentivo di volere risposte, sentivo la paura ormai troppo grande. Ero in una casa dentro una foresta oscura dove gli infissi cominciano a scricchiolare mentre si sentono gli ululati notturni che avanzano (p. 28).
 
Si torna a a Taranto, per le vacanze di Pasqua. Rimanere un po’ a casa non sarà risolutivo, ma forse aiuterà a risolvere. E così  – alla fine delle festività  – la famiglia si separa: Mariangela e Sofia restano in Italia, Mario torna in Belgio e fa la spola ogni fine settimana.
 
Niente da fare, le cose non migliorano. Anzi, peggiorano. E di molto.

Sofia aveva cominciato a non dormire più. Non dormiva mai, se ne stava a sfarfallare e a muovere il busto anche una giornata intera. All’improvviso cominciò a graffiarsi il viso fino a farlo sanguinare. […]. Poi una sera, mentre mangiucchiava il suo prosciutto con le manine, Sofia si fermò con lo sguardo nel vuoto. Un cortocircuito. Il giorno dopo non riusciva a tenere un biscotto in mano. Lo stringeva così forte da frantumarlo senza che arrivasse mai alla bocca, e piangeva senza lacrime in un ghigno che assomigliava a un sorriso (p. 28).
 
Altro che “c’est ell”, altro che bimba viziata e mamma ansiogena, altro che depressione post-parto e mancanza del marito, come Mariangela si era sentita dire più volte. Diventa ora ovvio – sotto gli occhi di tutti – che qualcosa non va. Già, ma cosa? Non si sa. Bisogna eseguire test genetici e specifici esami medici, se si vuol dare un nome al mostro. Autismo? Ritardo psicomotorio? O che altro?

Un universo di malattie sconosciute si spalanca davanti agli occhi di Mariangela, nella settimana trascorsa nell’ospedale romano per sottoporre Sofia a tutte le visite del caso.

Sono sicura di aver cominciato quel giorno a cambiare (p. 31).

I primi esiti sono confortanti: nessuna malattia metabolica, nessun danno da parto. Un sollievo, in apparenza. Ma solo in apparenza.

Adesso so che quelle diagnosi sarebbero state un male minore. Tante volte io e mio marito ci siamo detti ridendo, con il sarcasmo che la strada tortuosa ci ha permesso di sviluppare, che la sindrome di Down sarebbe stata una passeggiata (p. 31). 


Mariangela è stravolta, smunta, trasandata. La madre le ordina di “andare a farsi i capelli”, espressione tipica del sud Italia per segnalare l’impellente necessità di darsi una sistemata generale. E Mariangela dal parrucchiere ci va davvero.

Tra spazzole, phon e forbici, nei pensieri di Mariangela si insinua uno spettro: la sindrome di Rett.

Ma no! È impossibile che Sofia abbia la Rett! Mariangela ha fatto le sue ricerche: le bambine con la Rett non parlano, e Sofia parla; le bambine con la Rett non usano le mani e non hanno mimica facciale, e Sofia invece ride e piange, qualche volta addirittura canta. Non può essere la Rett: è impossibile.

È l’11 luglio 2011, Mariangela è sulla poltrona dal parrucchiere e le squilla il telefono.

Bastò la voce del dottore che pronunciava le prime due parole. «Purtroppo, signora», e persi le forze. Le altre persone mi guardavano, non so cosa vedessero. Disperazione, credo. […]. Poi cominciai a camminare senza senso all’interno del salone stringendo il telefono. Piangevo e parlavo da sola (p. 31).

Il risveglio

Il risveglio è il momento immediatamente successivo al primo punto di svolta, la fase in cui il protagonista realizza di trovarsi in nuovo mondo, che gli è sconosciuto, ma in cui deve comunque agire.

E Mariangela realizza ciò che l’attende, o meglio, che ciò che da dava per scontato non l’avrà mai: non ci saranno le chiacchiere con gli altri genitori, fuori dalla scuola o davanti a un caffè; niente pomeriggi a casa delle amichette per una merendina, né feste di compleanno con i fiori stampati in rilievo sui biglietti d’invito; nessun batticuore e nessuna lacrima, per il primo fidanzatino; niente piscina, danza o teatro, e nessuna chitarra; non ci sarà mai una crisi adolescenziale, e nessuna litigata per il rientro a casa entro mezzanotte.
 
Non ci sarà mai nulla di tutto questo.
 
Io e Sofia non rientriamo in nessuna categoria madre-figlia. […]. Non chiacchieravo con altre mamme e bambine di maestre e compiti. Non fantasticavo sul prossimo viaggio in Inghilterra o di quello che avrebbe fatto mia figlia da grande. Sofia non diventerà grande e io non sarò mai la mamma di una bambina di nove anni che ripete tabelline, di dieci che fa danza, di quindici che ha il primo fidanzato, di venti che studia all’estero. Semplicemente le tappe che contraddistinguono l’essere umano e che rendono le mamme un branco di donne con leggi comuni non mi appartengono. Io ne sono tagliata fuori (p. 22).
 
Nel nuovo mondo c’è solo una mamma con accanto un papà, entrambi scaraventati in una realtà sconosciuta, ma consapevoli di dovere elaborare un lutto quanto più rapidamente possibile, perché ci sono montagne da smuovere e si è già accumulato parecchio ritardo.
 
Il primo giorno di scuola, un lutto. Non assomiglia in nulla alle parole stampate sul tuo diario di normalità. Eravamo lì, presenti, con altri bambini e altri genitori, ma era come se non ci fossimo. Il primo giorno di scuola tua figlia non ha la maestra. Il secondo nemmeno. Il terzo sì, ma la maestra non conosce la malattia e bisogna passare un’intera giornata a spiegargliela. Il quarto giorno la maestra cambia. Questo è stato solo l’inizio della giungla in cui siamo piombati (p. 54). 
 

L'antagonista: la strega Rett

Cosa contro sta combattendo Mariangela, materialmente? Chi è il nemico che ha davanti agli occhi e che chiunque può vedere?
 
È – con le sue parole – “una strega malvagia” che si è impossessata di sua figlia Sofia. È la sindrome di Rett, una malattia che in media coglie una bambina su diecimila: “lei era quella bambina”.
 
C’era Sofia, ancora. La cosa bizzarra che accade quando si ammala un bambino è che tutti si ammalano tranne il bambino. Lui non sa di essere malato. E questo rende la tragedia una farsa perché quando si ammala un bambino e quel bambino è tuo figlio tu non hai il diritto di svenire, dormire per giorni, piangere e smettere di vivere (p. 31).
 
Mariangela è chiamata a combattere contro la strega Rett, e non già perché non si possa defilare, ma perché per come è fatta, data la sua personalità, il suo carattere, il suo vissuto, sente di non aver diritto di chiamarsi fuori. Le sembrerebbe assurdo svenire, piangere e smettere di vivere, per quanto tremendo sia ciò che sta fronteggiando.
 
Ci bastarono le parole dell’assistente sociale belga per decidere di tornare in Italia. In Belgio, ci disse, non esiste l’integrazione dei bambini con disabilità. Ci sono gli istituti. Sofia non sarebbe finita in un istituto, mai (p. 54).
 
Non riuscivo a entrare nella stanza di Sofia, così quando Mario venne fuori gli dissi d’un fiato: «È finito tutto».

E Mario rispose: «Non è finito niente».

Mi prese la mano e rimanemmo in silenzio sotto le stelle
(p. 33).

Sofia grida, si graffia il viso e digrigna i denti, con frequenza sempre più alta e a intensità crescente; crisi epilettiche e notti insonni diventano la nuova normalità; la bimba sembra dissolversi davanti a genitori impotenti.

Sofia e la sua voce sono andati via un po’ per volta. Poi sono andate via le sue mani. Poi le sue gambe. Poi sono comparsi i segni dell’incantesimo malvagio, le crisi epilettiche, le stereotipie, l’insonnia, la rabbia, i tremori (p. 60).
 
Eccola qui la strega Rett, con tutta la sua malvagità, a chiedere di pagar pegno.

Vincere su sé stessi: il difetto fatale

Il difetto fatale è ciò che rende interessante qualsiasi narrazione.

Se il protagonista fosse già perfettamente attrezzato per affrontare le sfide nel nuovo mondo, se avesse già al suo arco tutte le frecce necessarie per trafiggere l’antagonista, e avesse piena consapevolezza del suo armamentario, il messaggio restituito dalla storia si appiattirebbe sulla più imbarazzante delle banalità: se possiedi già tutte le forze per vincere, e sai bene di possederle, se ne hai piena consapevolezza, allora – lo avresti mai detto? – tu vincerai.

La tensione drammaturgica proviene tutta e solo dallo iato – dalla frattura, dal vuoto, dallo scarto – tra ciò che il protagonista è chiamato a fare e ciò che a ogni momento è effettivamente capace di fare, e alle necessità di un cambiamento per sanare la frattura, chiudere il vuoto, eliminare lo scarto.
 
Il protagonista ha tutte le potenzialità per farcela, ma parliamo appunto di potenzialità, di qualità astratte che potranno concretizzarsi a condizione che il protagonista trovi dentro di sé la volontà e la forza di farle venir fuori. E il suo difetto fatale è il demone interiore che lo confonde, lo annebbia, lo depotenzia, che ostacola la sua presa di consapevolezza.

Esteriormente il protagonista lotta contro l’antagonista, ma interiormente, e in parallelo, sta lottando contro sé stesso, contro il suo difetto fatale; ed è una lotta cruciale, dagli esiti dirimenti, perché fintantoché il difetto fatale non sarà smantellato, fin quando il conflitto interno non sarà risolto, il protagonista non potrà prevalere sull’antagonista, anche perché  sarà pure compromesso il contributo degli alleati: è – in sintesi – il triplice conflitto.
 
Qual è il difetto fatale di Mariangela? È lei stessa a dircelo.
 
Ho creduto che il mio ego e la mia personalità avrebbero sicuramente generato bambini straordinari: i migliori. […]. Pretendevo che il mondo ruotasse attorno a me, che le persone facessero quello che volevo, rispondessero ai miei gesti e ai miei pensieri nel modo che io avevo tracciato per loro (p. 15).
 
Non ci sono dubbi: Mariangela parla del  “mio ego”, e il suo difetto fatale viene allora da sé.
 

Ma il difetto fatale non basta enunciarlo, bisogna esplorarlo, e pure a fondo. Anzi, a rigore, il processo è inverso: primo lo si esplora (lo si analizza in ogni sfumatura) e solo dopo lo si enuncia (lo si sintetizza in una parola).
 
E come si concilia – se si concilia – la dichiarazione di egoismo di Mariangela con un altro lato del suo carattere di cui ancora una volta lei stessa ci porta a conoscenza?

Credo di essere nata con un animo senza corazza. Come se qualcuno si fosse dimenticato di mettermi una coperta. Sento i brividi anche se sotto la neve non ci sono io. Per questo peso sempre le mie parole, anche quando credo di aver ragione, per non ferire e a mia volta sentirmi ferita da quello che non sono riuscita a trattenere. Non è ipocrisia, non è buonismo, è l’opposto di quella cattiveria, travestita da sincerità, che qualcuno a volte ti sputa contro. È sentire la vita degli altri e cercare di capire cosa porti gli esseri umani a fare quello che fanno, anche nel male. È gioire in modo spudorato anche per la felicità non tua (p. 21).
 
Si rimane spiazzati, sulle prime. Questa confessione a cuore aperto – in particolare il finale, il saper “gioire in modo spudorato anche per una felicità non tua” – non sembra granché conforme a un carattere egoista. Quindi?
 
Bisogna riavvolgere il nastro, e sforzarsi di capire, nella misura in cui è lecito e possibile (perché può ben accadere, quando si scrive sull’onda dell’emotività, di cadere in una delle tante contraddizioni del proprio animo, e allora non c’è nulla da capire, ma bisogna solo far notare il cortocircuito tra affermazioni incompatibili).

Mariangela afferma di “essere nata con un animo senza corazza”. Ma non sarà che trovarsi sprovvisti di una corazza è proprio una delle tante esternalità negative dell’egoismo, di chi si erige a unità di misura del mondo, di chi apprezza le cose sempre e solo in multipli e sottomultipli di sé stesso? Cosa succede quando le tacche di un metro così rigido si rivelano scalibrate rispetto alla realtà della vita? Cosa accade quando le persone e le situazioni sfuggono a un’unità di misura preassegnata e immodificabile? Ce lo dice la stessa Mariangela.

Sofia […] non ne voleva sapere di comportarsi come era scritto nei miei libri. Qualcosa non andava, cominciai ad avvertire un disagio. Stare con Sofia mi provocava uno strano senso di paura che si insinuava piano piano in me (p. 25).


Paura, dunque. Com’è inevitabile che accada a ogni persona ego-riferita: o ti conformi al mio canone, alla mia metrica, al mio sistema valoriale – che potrai soddisfare in tutto o in parte, ma a cui comunque sarai commensurabile – oppure io non ti conosco, non ti capisco, e sono impaurita nel rapportarmi a te, perché mi mancano quei punti di riferimento che per me sono tutto e che non voglio mettere in discussione. Improvvisamente mi ritrovo senza corazza.

Siamo abituati a pensare agli egoisti come a persone aggressive, che s’impongo con la forza quando il loro ego è sotto attacco, probabilmente perché le nostre personali statistiche convalidano il binomio “egoista-aggressivo”.

Ma quando sei sotto attacco non devi necessariamente contrattaccare. Puoi anche battere in ritirata, chiamarti fuori. Perché sai di non avere la forza, perché sei consapevole di trovarti senza corazza.

Si può essere egoisti – piazzare sé stessi al centro di ogni cosa – e al tempo stesso pesare ogni parola, per non ferire e non sentirsi a propria volta feriti, consapevoli di trovarsi in deficit rispetto a una metrica incommensurabile alla propria.

Se l’egoismo – vocabolario Treccani alla mano – è “l’atteggiamento di chi si preoccupa unicamente di sé stesso, del proprio benessere e della propria utilità”, allora, a rigore di definizione, questo atteggiamento include anche il battere in ritirata, quando si percepisce un pericolo per il proprio benessere e la propria utilità.

Era un egoismo sui generis quello di Mariangela, che da un lato la portava a fantasticare di bambini perfetti, e dall’altro la lasciava senza difese davanti a creature “aliene”, perché fondamentalmente il suo egoismo non si accompagnava alla prepotenza.

C’è ancora punto che voglio evidenziare, collegato alle conseguenze del difetto fatale.
 
Gli accadimenti della mia vita sembrano studiati da un sadico che ha desiderato togliermi tutto quello che mi dava sicurezza. Alcune volte mi sono sentita un topolino osservato in laboratorio mentre al di fuori della teca tutti si domandano quando impazzirà (p. 41).
 
Mariangela ha l’inalienabile diritto a parlare a così, a dare questa rappresentazione della propria vita; tutti avremmo la stessa sensazione, al posto suo.

Ma il punto è che spesso l’abbiamo anche senza essere lei, senza che ci cada addosso una così lunga sfilza di “neri alla roulette” da mettere a dura prova il senso della realtà.

In proporzione – fosse pure in scala 1:1.000.000.000 – tutti abbiamo avuto almeno una volta la sensazione di essere messi alla prova ben oltre i nostri limiti, come se là fuori ci fosse davvero un genietto maligno meravigliato della nostra resistenza, pronto a caricarci ancora, ancora e ancora, solo per il capriccio di scoprire fino a che punto avremmo retto, prima di crollare.

Questa è esattamente la manifestazione più violenta del difetto fatale, anzi, a dirlo bene, è ciò che consegna al difetto la sua caratteristica di fatalità: sarà questa visione difettosa della vita – il sentirsi come topi in un laboratorio governato da sadici – a condurre fatalmente alla perdita della posta in gioco, a disegnare un arco tragico.

Non importa quanto male stiano andando le cose – e Mariangela è lì a testimoniarlo – perché tu hai sempre la possibilità di cambiare te stesso, di frantumare il tuo difetto fatale, di riscoprirti perfetto rispetto a qualunque configurazione di eventi.

Altro che topolino in gabbia!
 

Sulle montagne russe del Secondo Atto

Il Secondo Atto è il pentolone dove si mescolano tutti i possibili conflitti tra gli attori in gioco: c’è il conflitto esterno, tra protagonista e antagonista; c’è il conflitto interno, tra il protagonista  e il suo difetto fatale; e c’è il conflitto di relazione, tra il protagonista e i suoi alleati.

È il difetto fatale a dare unitarietà alla varietà dei conflitti, a garantire la coerenza degli intrecci della narrazione: il difetto fatale ostacola il protagonista nelle azioni dirette contro l’antagonista, ma gli impedisce anche di beneficiare del contributo degli alleati; le ripetute sconfitte nel conflitto esterno fiaccano la capacità di tenuta del protagonista e retroagiscono nei rapporti con gli alleati rendendoli sempre più problematici; bisognerà arrivare al midpoint per vedere – se la vedremo – una prima inversione di valori, che segnerà un cambio di passo, pur non ancora decisivo.

Quel che osserviamo – a livello esterno – sono due squadre che si fronteggiano: il protagonista e i suoi alleati contro l’antagonista e i suoi complici.

Nella narrazione della storia di Mariangela si dà grande enfasi al ruolo degli alleati nell’assalto alla strega Rett, e la lettura porta con sé la sensazione che gli alleati sbuchino fuori dappertutto, di continuo, a ogni angolo.

In ascensore però c’era Anna, la nuova vicina di pianerottolo. Per cinque piani in salita non disse niente, con lo sguardo rivolto a terra mi sentiva singhiozzare. Quando si aprirono le porte mi chiese di entrare da lei, per un caffè. Non volevo farmi vedere in viso da Bruno e Sofia, così accettai. Quel giorno lo annovero tra i migliori segni che mi siano stati mandati. Anna aveva notato la carrozzina di Sofia sul pianerottolo. Mi disse tutto d’un fiato che aveva avuto una figlia con una malattia genetica rarissima e che era morta da due anni, a Natale (p. 75).

È naturale – in questa storia – concedere largo spazio agli alleati per testimoniare l’infinita gratitudine nei loro riguardi e dare risalto al loro piccolo miracolo (neanche poi così piccolo) e a tutto ciò che hanno reso reale, concreto, quando all’inizio sembrava impossibile. Mariangela non c’è l’avrebbe mai fatta – e non potrebbe farcela ora – senza quella rete di protezione che spontaneamente gli si è costruita intorno. Nessuno può vincere contro la strega Rett, se rimane isolato.

Trasportati dall’emozione di una lettura che documenta successi insperati, se non impossibili, si rischia di non cogliere appieno i drammi vissuti per raggiungerli, il senso di angoscia nel ritrovarsi nel “nuovo mondo”, nei reami ignoti e terribili della strega Rett, che pure di quando in quando sono richiamati.
 
Chi mi guarda adesso vede una donna forte. Peccato non possa vedere il cammino che ho fatto sui carboni ardenti. L’accettazione della malattia va di pari passo con l’armatura che mi sono costruita per combatterla (p. 37).
 
Io e Mario abbiamo vissuto le nostre più grandi crisi quando ci siamo resi conto che la nostra fatica poteva contare zero, che non ce l’avremmo fatta mai a superare la burocrazia cieca o la cecità delle persone. Ho inondato il mio viso di lacrime ogni volta che Sofia ha cambiato ciclo di scuola (p. 62). 
 
Un giorno, mentre ero in un negozio con Sofia, ho guardato una bambina della sua stessa età scegliere vestiti assieme alla mamma. Sono tornata a casa intristita. A volte, quello che mi è negato può prendere il sopravvento. Ho attraversato lunghi periodi di risentimento, di protesta contro i bambini che incontravo, che mi saltavano intorno, verso alunni che non studiavano o che si lamentavano, mentre a casa avevo Sofia o Bruno fermi nella loro malattia. Ho provato gelosia vedendo quello che non avevo. Soprattutto quello che non potevano essere i miei figli. Anche i pensieri divengono folli e sale dallo stomaco quella domanda che ti fa sentire viscida ma che non puoi fermare: perché lui sì e Sofia no? Perché? (p. 64).

Io per adesso ho sposato la lotta alla fatica. Ma il corpo scricchiola, e le punte di gesso cominciano a far male, a una certa età (p. 116).
 
La fatica, però, chiede sempre il conto e di solito lo chiede a persone che sorreggono pesi infiniti. Occuparsi di due bambini con diverse disabilità mi ha piegato le ginocchia e ancora mi mette al tappeto. Nonostante siano tutta la mia vita, io a volte vorrei che solo per un istante, un momento e basta, loro scomparissero. Non loro esattamente, ma le loro malattie (p. 116).

Scriverlo, e anche solo pensarlo, è disumano. Eppure è questo che accade a chi dedica tutto sé stesso a chi ama. Desiderare di essere da sola, che scompaia anche Mario, non avere dolore ai piedi o alle braccia, potermi sedere alle poste o dal medico senza sentire l’ansia del rientro. Certi giorni non vorrei tornare a casa, vorrei prendere un treno e viaggiare per ore da sola, in compagnia di me stessa soltanto. Vorrei gridare a Sofia di finirla di digrignare i denti, ché non ne posso più, e a Bruno, al mio tenero Bruno, vorrei dire in alcuni pomeriggi interminabili che, nonostante il suo tumore, io in quel momento non riesco a soddisfare le sue richieste, anzi, le detesto le sue continue richieste. Vorrei avere il diritto di litigare con i miei figli, di toccare me stessa e sentire che sono ancora viva, che ci sono ancora tutta, persona intera
(p. 119).


Tutto per noi è lotta. Niente ci viene regalato (p. 122).

Il Secondo Atto è tutto un conflitto, una lotta, e nelle lotte ci si si ferisce, si sanguina, si registrano perdite, anche gravi, che non si dimenticano solo perché alla fine si vince.
 

Il midpoint: l'inversione dei valori

Il midpoint è il momento in cui si imprime una direzione alla storia e si intuisce se l’arco sarà eroico o tragico. Sarà poi l’esperienza di morte a convalidare o smentire l’indicazione fornita dal midpoint, e a determinare l’esito della storia, ma di regola si tende a mantenere concordi gli eventi del midpoint e dell’esperienza di morte (non fosse altro perché così ci si semplifica la vita).
 
Il midpoint di un arco eroico è spesso caratterizzato da un’inversione di valori: non si tratta semplicemente di “cambiare idea” all’interno di un sistema valoriale immutato, ma di “entrare in un nuovo ordine di idee”, di invertire il senso di marcia. È la presa d’atto dell’impossibilità di ripristinare il vecchio mondo, congiunta all’accettazione della nuova realtà, da vivere con una mentalità anch’essa rinnovata, sebbene ancora imperfetta.

[…] il mio dito compose il numero di Lucia Dovigo Dell’Oro, presidente dell’Airett e mamma di una ragazza con sindrome di Rett, che io e mio marito da soli, senza nessun aiuto, avevamo trovato. Una telefonata in cui compresi che sarebbe stata dura, ma sarebbe stata vita […]. Al telefono con Lucia non avevo fiato. Fu lei che cominciò ad accompagnarmi in un altro luogo, quello delle possibilità. Queste bambine capiscono tutto, mi disse, e noi per loro possiamo fare tanto. Possono avere una vita felice, se lo vogliamo. E io lo volevo. Volevo che morisse la Rett non la mia bimba occhi del cielo (pp. 35-37).
 
C’è un punto spesso sottovalutato, nella realizzazione tecnica del midpoint: non si coglie – e quindi non si riesce a comunicare – lo stravolgimento emotivo provocato dall’inversione di valori.

Personalmente suggerisco sempre di pensare al midpoint in termini di sacrifici, perché invertire il proprio sistema valoriale ha un prezzo: devi lasciare qualcosa sul piatto, e non qualcosa di generico o accessorio, ma qualcosa che sino a quel momento era il perno della tua vita.
 
Non basta dire – come giustamente dice Mariangela – che “la diagnosi non deve essere un destino già scritto”, che le bambine prigioniere della strega Rett “hanno diritto alla loro vita” e “devono smuovere le coscienze di tutti”. Questo è ovvio. Chi potrebbe negarlo?

Ma le dichiarazioni di intenti devono poi tradursi in azioni sul campo, e queste azioni mostrano spesso i segni esteriori del sacrificio. In effetti lo sono, però vanno capiti a fondo, e precisamente riguardati nella prospettiva dei sacrifici tipicamente associati ai riti iniziatici: al dolore del sacrificio, della rinuncia, fa da controcanto la consapevolezza di aver offerto un dono al nuovo sistema valoriale, affinché ci potesse accogliere.
 
Per curare Sofia ho dovuto lasciare tutto e trasferirmi (p. 41).
 
Eravamo due privilegiati, con una casa pagata dall’azienda, un’auto, un ottimo stipendio, ma rinunciammo a tutto sognando una integrazione e un mondo possibilmente somigliante a quello di un bimbo normale (p. 54).

Non si passa per il midpoint senza pagare pegno, in termini materiali, concreti. Si potrà pure oscillare istericamente tra sensazioni contrastanti – vivere la tristezza della rinuncia e d’improvviso sentirla come la gioia della liberazione da un peso – ma il solo fatto di avvertire entrambe gli stati d’animo, di aver aperto la mente a un’interpretazione più ampia del concetto di “sacrificio”, segnala di per sé la rinascita.

Perché – ricordiamolo – per Mariangela c’era sempre la possibilità di tirarsi fuori, di non rispondere alla chiamata, di lasciare Sofia in un istituto per disabili, come scelgono di fare molti genitori, che peraltro non vanno assolutamente stigmatizzati, perché noi siamo qui per capire, non per giudicare.

C’era la possibilità di affidare Sofia alle cure di un istituto specializzato, magari il migliore su piazza, e andarla a trovare spesso, tutte le volte che fosse stato possibile, e ogni volta riempirla di regali, e poi – ovviamente – portarla a casa nei periodi di festa. Sarebbe stata una scelta possibile, e anche legittima, socialmente accettabile – nessuno stava abbandonando nessuno, semplicemente si metteva una bambina disabile nelle mani di chi poteva occuparsene al meglio – che avrebbe consentito di preservare una vita cosiddetta “normale”, fatta di “una casa pagata dall’azienda, un’auto, un ottimo stipendio”, e non sarebbe stato difficile convincersi che in fondo sarebbe stata la scelta migliore anche per Sofia.
 
Mariangela ha compiuto una scelta diversa, ha scelto di rispondere alla chiamata.
 
Sofia non sarebbe finita in un istituto, mai (p. 54).
 
E poi, coerentemente, si è fatta carico di tutte le conseguenze.

l’aver rinunciato a un istituto ci ha investiti di un lavoro e di una fatica indicibili (p. 54).
 
Non ho mai visto un midpoint così straordinario, nel mondo reale come in quello della pagina: rinunciare a tutto il benessere materiale per abbracciare una fatica sovraumana.

Il sacrificio perfetto, il midpoint perfetto, che direziona la storia verso il più spettacolare degli archi eroici.

Lungo la discesa, con Bruno accanto

Scavallato il midpoint, a inversione di valori avvenuta, le cose cambiano pur rimanendo problematiche. Sicuramente si è in condizione di sfruttare meglio il contribuito degli alleati, perché la rimozione del difetto fatale, ancorché incompleta, attenua i conflitti di relazione, e rimodula l’intera struttura degli scontri.

Il 30 gennaio 2012 il ginecologo tira fuori dalla pancia di Mariangela “un Calimero con i capelli nerissimi e gli occhi nocciola”: è Bruno, il fratellino di Sofia.

Nessuno aveva pensato davvero a lui, finché non era arrivato, nemmeno Mariangela che lo portava in grembo. “Avevo una pancia enorme eppure nessuno si ricorda di me incinta di Bruno. Nemmeno io. Ho fatto cose con quella pancia che non mi ero nemmeno sognata di approcciare incinta di Sofia”.

Erano tutti troppo impegnati con Sofia, Mariangela in primis, per pensare a Bruno; ma quando Bruno arriva, ecco che Mariangela scopre di avere un alleato tanto piccolo quanto cazzuto.

Bruno è stato il nostro vero psicologo, lui è la vita che ti cammina per casa. Passati i mesi da neonato ha cominciato a regalarci quello di cui avevamo bisogno, la bellezza della normalità. Lui ha aiutato tutti e tre, me, Mario e Sofia. Vederlo crescere ci sembrava così bello che continuavamo a dirci increduli: come è possibile che sia così semplice. La sindrome di Rett che ci aveva tolto un pezzo di Sofia aveva spalancato così tanto i nostri occhi che tutto di Bruno ci sembrava un dono (p. 73).
 
Bruno sta accelerando la trasformazione di Mariangela, mostrandole giorno dopo giorno la straordinarietà della normalità: tutto quel accade sembra un dono, quando viene filtrato attraverso Bruno, e anche una semplice festicciola di compleanno risuona nell’animo come il più maestoso degli eventi.

Ma Bruno sta anche assolvendo un compito grandioso in proprio, ben oltre le apparenze.

Cosa avevamo detto a proposito dei conflitti del Secondo Atto? Che anche quando risolti a proprio favore, anche quando segnati dal successo, lasciano comunque ferite e provocano perdite, che non spariscono solo perché l’esito è stato favorevole.
 
Sì, la Rett non ci aveva rubato la voglia di vivere ma aveva lasciato comunque buchi neri che mio figlio era venuto a dipingere di giallo (p. 75).

Mariangela e i suoi alleati stanno trionfando sulla strega Rett, ma la lotta ha pure lasciato lividi, cicatrici e scottature, che ovviamente non scompaiono, ma che ora hanno trovato il loro balsamo: Bruno.
 
E – a chiudere il cerchio – Bruno passa da alleato, “che sta divorando la Rett della sorella”, ad “allenatore di vita”, la personificazione della parte migliore di Mariangela.

Vedere i miei figli uno di fronte all’altro alla ricerca di una possibile difficile comunicazione è stato come una sberla in pieno viso. Un bambino così piccolo che ha la capacità di stare fermo dinanzi alla diversità, cercando di capire come poter usare quello che ha visto fare mille volte alla sua mamma e al suo papà, ti insegna una cosa fondamentale: non bisogna avere paura. […]. Allora è questo il segreto, saper star fermi di fronte a qualcosa che non ti assomiglia (p. 75).

Saper restare fermi di fronte a qualcosa che non ti assomiglia”: non avrei saputo trovare parole migliori – ne ricordo di averne lette di altrettanto valide nei manuali di sceneggiatura – per riassumere l’avvio della trasformazione del protagonista in un arco eroico.

L'esperienza di morte

Tutto procede per il meglio, lungo la discesa. Suona beffardo, ma è proprio così, esattamente così, una volta contestualizzati gli eventi.

Nel nuovo mondo, nel mondo in cui si è scelto di vivere rispondendo alla chiamata all’azione, le cose non potrebbero andare meglio di come stanno andando.

La strega Rett è sempre lì, ovvio, perché mica può andar via. Ma la nostra protagonista – Mariangela – è nel mezzo di uno straordinario e meraviglioso processo di trasformazione: in un contesto esteriore che rimane oggettivamente problematico, e non potrebbe essere altrimenti, lei sente di aver messo al riparo la sua posta in gioco – l’amore per Sofia, il senso di famiglia – dagli assalti dell’antagonista.

Di solito vince la Rett, ma quando vinco io è diverso, vince Sofia, vincono l’amore, la forza, l’impegno, lo studio e l’amicizia. Il mio punto vale cento (p. 38).

Bruno – il fratellino di Sofia, il figlio sano di Mariangela – è ciò che tiene in equilibrio tutto: se le cose stanno andando alla grande, se la posta in gioco è ogni giorno un po’ più al sicuro, è perché c’è Bruno a far sì che tutto si incastri con naturalezza.

Ed ecco arrivare l’esperienza di morte: salta il perno a cui tutto era agganciato.

Bruno era scontroso, arrabbiato […] da una settimana lui non dormiva ed era sempre nervoso. Il nostro era un testa a testa continuo e poi non voleva mangiare nulla di quello che preparavo. Ferma in auto sotto casa chiamai Valeria. Feci una seconda e una terza telefonata ad Antonella. Volevo sapere se anche i loro bambini si attaccavano alle loro gambe al mattino implorando di non uscire di casa. Se lanciavano i biscotti giù dal tavolo. Se gridavano per ogni affermazione e se si rifiutavano di andare a scuola. Il mio Bruno faceva così da dieci giorni e io non riuscivo a gestirlo. Non ne ero abituata. Io ero abituata a Sofia e alla presenza amorevole di Bruno (p. 78).

Quell’equilibrio così pazientemente costruito, e così complesso da preservare, sembra venir meno. Il patto implicito con l’Universo era di avere Sofia con la Rett, ma Bruno sano e forte, a combattere con la protagonista. Quel patto, ora, sembra essere saltato, con tutte le tremende conseguenze del caso.

Ero di nuovo a un angolo […] non c’era più Bruno e con lui stavo scomparendo anche io (pp. 79, 81).

E se pure Bruno fosse ammalato? Se avesse anche lui dei problemi di salute? Possibile?

[…] eravamo stanchi, troppo provati dalla Rett per accettare l’idea che Bruno fosse malato […] Quando hai una figlia con una malattia rara pensi di aver già dato con il destino, con la sofferenza. Credi di aver firmato un contratto in cui ti assicuri che nulla più potrà accadere nella tua famiglia (p. 79).

L’immancabile psicologo di turno tira fuori l’ipotesi della depressione: Bruno si è ammalato perché è il fratello di una bambina malata, e la sua nausea non è altro che la manifestazione della nausea verso il contesto familiare in cui si trova a vivere suo malgrado.

Ero troppo fragile per non accettarlo. Allora, avevo sbagliato sicuramente io (p. 80).

Il rifiuto di pensare a un “male fisico” rende tutti ciechi. Fin quando Mariangela non fa la cosa più semplice di tutte.
 
La sera feci una ricerca su internet e inserii tutti i sintomi di Bruno, nausea, vomito, inappetenza, perdita di peso eccessivo, sbalzo di umore, rabbia incontrollata. Mi ricordai che mentre era ricoverato qualcuno aveva deciso di controllare il suo fondo oculare, c’era scritto qualcosa che inserii nella lista. Invio. Google mi restituì due parole: tumore cerebrale (p. 82).

Il secondo punto di svolta

Mariangela viene scaraventata all’inferno: il reparto di oncoematologia pediatrica, dove la sofferenza la tocchi, la vedi, la senti, la annusi, la assaggi, ogni maledetto giorno che Dio manda in terra, dove ogni stramaledetto giorno dura un’eternità.

Il tumore di Bruno è grande e metastatico.

Ero in piedi ma l’immagine di me vera era a terra, stesa […] Mi spiegarono che la situazione era molto grave. Sono parole che entrano ed escono senza che si comprendano appieno. Della tragedia il cervello registra confusione, come se ci fosse un rifiuto, una porta sbarrata a frasi che non vuoi fare entrare […] credo di essere diventata pazza. Desideravo svenire ma non riuscivo a perdere i sensi. Era tanto il dolore che imploravo di poter morire. Avevo i crampi allo stomaco, le gambe pulsavano. Ed ero arrabbiata, così incazzata che mi precipitai in chiesa e tirai giù il crocefisso  (pp. 85-86).
 
Il mio corpo si muoveva e si spostava senza la mia volontà. Tremava, aveva freddo, si scuoteva, si piegava. Non voglio mai più sentirmi così, con il terrore di ritrovarmi al buio. Quando portarono fuori Bruno e lo vidi intubato e piccolo in quel grande letto, il mondo scomparve. Ogni forma di amore si allontanò da me. Anche io, come lui, ero in coma e intubata (p. 90).
 
L’istante immediatamente successivo all’esperienza di morte – ciò che viene ribattezzato secondo punto di svolta, per marcare l’ingresso nel Terzo Atto – rappresenta il picco della dramma: è quella fase – tremenda – in cui il protagonista percepisce l’inutilità di tutti gli sforzi compiuti sino a quel momento – “l’impossibilità di un genitore di sollevare il proprio figlio e salvarlo dal pericolo” – e l’antagonista sfiora la posta in gioco, sembra se ne possa impossessare da un momento all’altro.

Raramente, nelle storie progettate a tavolino, si ha il coraggio marcare a fondo, con tutta la drammaticità necessaria, il tratto che va dal secondo punto di svolta al momento di risoluzione.

Serve una storia vera – qui sì – per capire quale sconvolgimento si vive nell’ultima fase della discesa.

Ancora adesso riecheggia in me quel vuoto, quel tempo immobile. Nel non-spazio continuavo a odiare tutti. Nei miei pensieri colmi di rancore c’erano anche Sofia e Mario. Lei per un silenzio a cui non potevo tornare e lui per un distacco che non capivo […]. Odiavo anche i miei amici. Loro, che potevano andare e venire da quel dolore mentre io vi ero incatenata. Mia sorella, che poteva parlare al telefono con i suoi bambini. Odiavo la mia amica Iole che continuava a ripetermi che lei comprendeva tutto. Le gridai di andare via. Odiavo chi beveva, mangiava, raccontava storie mentre mio figlio moriva. Fumavo e odiavo (p. 93).
 

Il momento di risoluzione

Il momento di risoluzione (negli archi eroici) è la fase in cui si riacquista il dominio di sé, il passaggio in cui si realizza l’assurdità di credere che tutto sia stato inutile, e che perciò la posta in gioco vada lasciata all’antagonista.

Come sia possibile raggiungere questa consapevolezza, quando fino all’istante prima si pensava di mollare tutto, dipende chiaramente dalla storia, da quanto si è stati abili nel disseminare lungo la narrazione gli elementi che rendono credibile il completamento del processo di trasformazione.

Nella storia di Mariangela, in questo splendido arco eroico, gli alleati si rivelano determinanti: “chi ti ama rimane sempre”.

Gli alleati fanno muro, producono una reazione di forza, d’amore, pari a un multiplo dell’odio che sta allontanando Mariangela dal mondo. L’immobilità della protagonista viene superata “da gruppi e turni di mamme veronesi che hanno cucinato e sostenuto la mia famiglia per mesi”, e la distanza nei rapporti col marito viene azzerata “da amici che gli hanno teso la mano, lo hanno accompagnato in altri ospedali, hanno caricato la nostra auto e organizzato il rientro di Sofia a Taranto”.
 
Mentre io sprofondavo nella mia mente, Mario aveva già messo in atto tutte le sue competenze per studiare il caso e capire cosa fare dopo. Per me non c’era un dopo. Abbiamo litigato moltissimo. Io vedevo morte e lui no, e non sopportava la mia reazione. L’ho odiato con tutte le mie forze. Lui invece mi ha salvata. Lui stava già lottando perché non morissimo tutti e quattro.
 
[…] da ogni parte di Italia si alzavano preghiere per Bruno. Decollavano aerei che portavano a noi, si costruivano croci intrecciate, si creavano gruppi WhatsApp per organizzare turni di preparazione pasti per la mia famiglia. Io non sapevo che, proprio mentre decidevo che se Bruno fosse morto sarei volata giù dal tetto, un gruppo infinito di amici era pronto a braccia spalancate a prendermi in volo. Non sapevo che, mentre cercavo di distruggere a calci e pugni la chiesa dell’ospedale chiedendo conto a Dio di tanto male, centinaia di foto di Bruno viaggiavano per il mondo tra Italia, Belgio, Francia e Canada, e che se anche Dio non fosse esistito la luce di tutta quella gente lo avrebbe creato dal nulla (p. 89).

Nessuno può più rimproverarsi nulla, perché tutti hanno fatto tutto quel che dovevano fare: il possibile lo hanno fatto subito, l’impossibile pure, i miracoli anche.

E ora non rimane che contemplare l’ignoto: Bruno, con gli occhi chiusi, in un letto d’ospedale.
 
Può morire, ma potrebbe anche vivere, e in questa partita tra la vita e la morte siamo programmati per adattarci a qualsiasi avvenimento, perciò, sì, accada pure quel che deve accadere: noi siamo pronti.

Lui spalancò i suoi enormi occhi nocciola dopo due giorni. Mi fissò e sorrise. Alzò il pollice. Un semplice gesto che mi fece scattare dalla sedia e correre fuori a gridare il suo ritorno. Mio cognato Daniele scoppiò in un pianto incontenibile e tutti lasciarono che i muscoli del corpo si rilassassero verso il basso. Non so come, ma ognuno trovò un modo di sedersi a terra e piangere (p. 92).

Saltano gli ultimi strati del difetto fatale, la trasformazione della protagonista giunge a compimento: la nostra Mariangela è diventata perfetta, rispetto alla realtà del nuovo mondo.

I figli, nel bene e nel male, tirano fuori il meglio dell’essere umano, e il meglio è la verità di sé stessi. Sofia e Bruno hanno provocato la mia evoluzione, loro con tutta la loro storia. Accettare di essersi evoluti in qualcosa di positivo a causa della malattia di un figlio provoca nausea all’inizio. […]. Ma proprio il dolore mi ha reso la più vincente tra i perdenti. La prima grande vittoria è stata riconoscermi sana, riguardarmi da una prospettiva diversa e constatare, infilandomi un pugnale nella pancia, che sono i miei bambini quelli malati, non io. Allora devo saltar giù dal letto e piantare bene i piedi per terra, perché io sono tutto quello che hanno (pp. 15-17).
 
Si può ancora ridere e sorridere, anche se le labbra sono ormai stabilmente fissate verso il basso, e con quel sorriso per molti versi innaturale, eppure incredibilmente vero, si va allo scontro finale contro l’antagonista, con la piena consapevolezza di tutta la propria forza.

Non ci sono ostacoli che possano fermarci (p. 60).

Climax

La rimozione del difetto fatale produce invariabilmente lo stesso effetto su tutti i protagonisti, in tutte le storie: non puoi configurare il mondo a tuo piacimento, ma puoi sempre riconfigurare te stesso per scoprirti perfetto nella realtà in cui ti sei ritrovato.
 
Non possiamo cambiare le nostre carte da gioco, dobbiamo usare quelle che abbiamo. Per quanto le mischiamo e le scambiamo tra di noi le carte non cambieranno la loro faccia. Le combinazioni, comunque, possono manifestare scale reali. Non esiste una cura per la sindrome di Rett. Accettare. Questo ti porta sul piano della vita possibile oltre la tragedia (p. 68).
 
La strega Rett ha rubato tutto di Sofia lasciando in giro, cinicamente, palloncini che mia figlia non può più toccare, scivoli e altalene vuote, feste e musichette di bambini che ballano e ridono senza che lei possa imitarli. Perfida, ha lasciato candeline da spegnere e desideri in crescita, inespressi dalla sua voce. Ha lasciato scuole, libri, penne, tuffi in mare, slittini innevati irraggiungibili. La strega ha serrato a doppia mandata la porta che dà sulla vita.

Ma anche lei ha fatto un errore: ha lasciato in vita me e il suo papà.
 
Forti, sorridenti, determinati, agguerriti, innamorati… quella porta la tiriamo giù a calci ogni giorno (p. 69)

E la vittoria della protagonista non riguarda solo lei, travalica il successo personale per diventare un valore condiviso, che dona un senso al mondo circostante e dal mondo circostante riceve nuova forza.

La sera in cui morì la bambina della stanza accanto Mario e io ci abbracciammo piangendo. Abbiamo visto andar via tanti bambini e ogni volta ci rimane appiccicata l’immagine di quei genitori che non ce l’hanno fatta. Nei miei occhi c’è Liliana, la mamma di Aurora, nella mia tasca il cuore fatto di plastilina che la bambina aveva preparato per Bruno, nella mia mente una domanda senza risposta, un grido di dolore, nei miei muscoli una certezza: l’essere ancora qui è una possibilità a cui aggrapparsi. Lottare in nome dei bambini che non ci sono più, un laccio che diventa lo scopo della vita di molti (p. 101).

È il miracolo di sentirsi intimamente fortunati, la piena consapevolezza di avere ancora del tempo da vivere accanto ai propri figli, l’impegno a non sprecarlo per paura di di tubicini, crisi, chemio e valori sballati. Perché sarebbe un’offesa imperdonabile a chi quel tempo non l’ha più.
 
Poi un giorno, così dal niente, mentre gli passavamo tra le dita il piccolo bruco di gomma che il suo amico Pietro gli aveva regalato, Bruno ha mosso la mano, lo ha afferrato e lo ha portato a sé ridendo. Mario mi ha guardata come se suo figlio avesse tirato il miglior calcio di punizione della storia della Juventus, ha esultato, mi ha dato il cinque e ha detto: «È fatta!».

Eravamo consapevoli che in realtà nulla era compiuto e che la disabilità enorme di Bruno arrivava più forte del tumore, ma noi eravamo pronti. Lo eravamo grazie a Sofia. Per tutti quegli anni Bruno aveva aiutato sua sorella e ora era lei a fare la sua parte, a prestargli un pezzo di se stessa. Bruno era stato il nostro psicologo e lei la nostra allenatrice alla diversità. Grazie a Sofia abbiamo affrontato il capo penzolante, le mani tremanti, le crisi di pianto, le gambe inermi. Sofia dalla Puglia ci ricordava che la disabilità non deve fare paura. Così la prima volta in cui Bruno è stato posizionato sulla sedia a rotelle tutto il mondo piangeva, tranne noi. La sedia a rotelle è solo un mezzo per volare (p. 103).
 

Epilogo: una fottuta famiglia felice

La Mariangela che ritroviamo alla fine della storia non ha nulla della persona che avevamo conosciuto all’inizio: non ci sono più corsi di francese e gruppi teatrali per lei né progetti di scuole bilingue per Sofia; non si fantastica più sulla luce dei lampioni che illumina i volti di una famiglia che torna nel suo bel palazzo in stile Art Nouveau; sono scomparse le fissazioni alimentari (“Prima il sedano, in ultimo i pomodori, probabilmente allergizzanti. Il primo cucchiaino di frutta, il primo assaggio di gelato. Non troppi fritti e poca cioccolata”) così come quel disprezzo insensato verso le altre mamme (“fanculo soprattutto se sono alcoliste, drogate, assenti, con così tanti figli sani che ti mangeresti il giornale in cui avevi letto ‘Le otto regole per avere figli sani’, perché tu eri le otto regole senza fatica, e guarda dove sei”).

Non c’è più nulla di tutto ciò.

Quello che inizialmente sentivamo come una forzatura, una condizione difficile da mantenere in un momento di dolore, ha invece insegnato ai nostri cervelli a tracciare una strada alternativa Quell’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile (p. 60)

Ora c’è la consapevolezza che la bufera ha portato in dote un dono.

Il mio dono è stato comprendere fino in fondo che la vita è qui e ora. Che potrebbe non esistere un domani (p. 112).

Non importa quanto un arco eroico sia splendente, straordinario, irripetibile. Sempre troverai degli “autistici” incapaci di comprenderlo. Sempre ci saranno – ci sono state, ci sono – persone convinte che Sofia non sia realmente viva, che si limiti a respirare, che la vera consolazione è sapere che morirà presto, liberando sé stessa e la famiglia da un fardello tanto pesante quanto inutile; e che il tumore di Bruno potrebbe tornare, più forte e aggressivo, in una parola incurabile; e che in definitiva Mariangela sia solo una donna molto sfortunata, che “se la sta raccontando” per arrabattarsi come può.
 
Questa ottusità nel leggere la storia di Mariangela non fa altro che confermare quanto sia difficile abbandonare sé stessi in nome dell’altro, del personaggio e della sua avventura. Si continua a giudicare, anziché capire, e si giudica secondo schemi fissi e immutabili, talmente rigidi e irreali che dubito potranno mai dare dei responsi favorevoli, se applicati a una vita reale (persino a quelle di chi li usa per giudicare Mariangela).
 
Ma nell’arco c’è una risposta anche per loro.

Vorrei mostrare a tutti quanta vita c’è in una famiglia come la mia. Quello che agli altri costa zero fatica a noi impegna ogni centimetro del nostro corpo, eppure rimandiamo indietro vita. Voglia di esserci (pp. 45-46).

Sì, i miei figli sono felici, e sì, i miei figli hanno attimi di sconforto e di dolore. Come tutti (pp. 112-113).
 
Ma non penso che Mariangela sia sorpresa da certe reazioni. Perché anche lei, in fondo, era così. Solo che lei è cambiata – è evoluta, si è trasformata – con l’atteggiamento tipico di un eroe. Molti altri sono invece semplicemente restati sé stessi, abbracciati al loro difetto fatale, infognati sempre più nei loro brutti archi tragici.

Sofia mi ha stracciato la maschera che solitamente si porta nel quotidiano. Mi ha scarnificato. Quello che dico e quello che faccio è scollegato da qualsiasi tornaconto. Non mi aspetto niente da nessuno, non pretendo più che la gente mi somigli o si comporti secondo i miei piani. Abbraccio senza aspettarmi di essere ricambiata e amo senza pretendere che dall’altra parte ci sia lo stesso slancio. Ho imparato a riconoscere i problemi degli altri e a rispettarli senza pensare assurdamente che i miei siano superiori. Ascolto. Cerco di circondarmi di persone che non provino un briciolo di pietà né una sensazione di inferiorità. Insomma, cerco il vero (p. 60).
  
L’essere divenuta madre di Sofia prima e di Bruno poi mi ha insegnato a scomparire e a ritrovarmi non più sole ma stella, pianeti, buchi neri. Ho imparato a stare sola e a cercare la compagnia di chi amo profondamente e veramente. Ho conquistato la spettacolare capacità di ascoltare e di mettermi nei panni degli altri. Il mio ego l’ho conservato e asservito ad azioni utili. Sono quella che ero destinata a essere (p. 15).
  
Mariangela era destinata a diventare una mamma speciale, per ricordarci che tutti possiamo esserlo, anche senza vivere la sua esperienza sulla nostra pelle.
 
Basterebbe guardare a noi genitori speciali come a genitori normali, e inglobarci. Basterebbe il coraggio di essere speciali assieme a noi (p. 62).

“Noi quattro siamo una fottuta famiglia felice…
Quando mi incontrate per strada, mentre porto Sofia a fare un giro,
non chiedete ai vostri figli di non guardarla.
Fareste un gioco sbagliato.
Se le puntano gli occhi addosso è perché vogliono sapere.
Allora non abbiate paura della disabilità, piegatevi sulle ginocchia all’altezza dei suoi occhi,
chiedete ai vostri figli di fare lo stesso, e chiedete il nome di quella persona che avete di fronte.
E mentre andate via non dimenticate che alle spalle di un bambino malato
c’è sempre una mamma che con un mestolo in una mano e un antiepilettico nell’altra
attraversa la propria vita cantando Hey Jude, con tutto il suo dolore,
sperando che smetta di piovere”

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