Modulo 23A – Tema e Premessa

 
Pronti, su, via: si parte. Anzi no: si torna indietro. Al modulo 2 per la precisone.
 
Torna al modulo 2 e rileggilo, possibilmente più volte.
 
Fatto? Sì? Sicuro?
 
Guarda che non capirai nulla di quel che segue, senza una bella ripassata al modulo 2.
 
Lo ha ripassato questo benedetto modulo 2?
 
Sì?
 
Vabbè, facciamo che ti credo.
 
Iniziamo.
 

Tema e Premessa


Estratto dalla “Lezione 23 – Le vocali non sono innocenti”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Il valore di una storia è la saggezza. Per decine di migliaia di anni le storie sono servite a trasmettere lezioni di vita da una generazione all’altra. […]. La magia di una storia è la sua capacità di connettere una mente con un’altra come nemmeno l’amore potrà mai fare”.

Will Storr traccia una linea di confine – chiara e ben marcata – tra scrittori e imbrattafogli: gli scrittori educano alla “saggezza”, impartiscono “lezioni di vita”, connettono “una mente con un’altra come nemmeno l’amore potrà mai fare”; tutto il resto è opera di esaltati, frustrati, maniaci, depressi, artistoidi, gente scappata di casa o fuggita dalle fogne.
 
Ma tu lo sapevi già, soprattutto dopo aver ripassato più volte il modulo 2: tu scrivi perché vuoi persuadere il lettore di una tesi, di un’idea, di un punto di vista, parlando al suo cuore, alle sue emozioni; la tua storia  – nel profondo, oltre le apparenze dei fatti in superficie  – è una lezione di vita, e se la vita vera, nel mondo reale, è spesso un ammasso di “cose e caso”, la vita dei personaggi, nel mondo della pagina, è giustificata tutta e solo dall’avere un senso, perché “la vita può sbagliare, l’arte no”.
 
E qui si produce la frattura fondamentale tra i due mondi: la realtà è sotto i capricci del demone del caso, la pagina è governata dal principio di necessità.
 
Il caso – nel mondo reale – a volte sonnecchia, a volte spariglia le carte, altre ancora sovverte le gerarchie, e comunque ci provoca sentimenti contrastanti.
 
Forse conosci già la storiella di quel Re che promise metà del suo regno all’indovino che gli avesse svelato il suo futuro, e quando finalmente lo trovò, e tutto gli fu noto di ciò che l’attendeva, lo richiamò a corte con la promessa di regalargli anche l’altra metà, se fosse riuscito a farglielo dimenticare.
 
Perché se da un lato l’incertezza ci inquieta, dall’altro è fondamentale per il nostro equilibrio psicofisico: gli eventi belli non avrebbero più valore – non sarebbero poi così belli – se ne fossimo informati con anni o decenni di anticipo (lungo i quali si sarà consumato tutto il piacere che vi è connesso); e un evento brutto – il sapere che si verificherà – non ci lascerebbe più respiro, monopolizzerebbe i nostri pensieri e paralizzerebbe le azioni, ci impedirebbe di goderci il presente, per quanto in là nel futuro possa esser collocato.
 
L’incertezza, il fato, la casualità, il “non sapere” e persino il “non capire” come mai certi eventi si sono verificati e altri no – alla fine della giostra – rappresentano il sale della vita, nel mondo reale.
 
Ma nel mondo della pagina le cose funzionano diversamente: le vite dei personaggi devono trasmettere messaggi precisi, che risuonino con l’animo del lettore e gli rimangano dentro, e quindi in una pagina di narrativa non c’è maggior spazio per il caso di quanto ve ne sia in una dimostrazione matematica, perché il presupposto di ogni scrittura di narrativa è proprio il possesso di una tesi da dimostrare (in senso emozionale, ma con rigore) su un certo argomento.

L’argomento sarà il tema della storia; la tesi da dimostrare (riguardo al tema) la chiameremo premessa.
 
La dichiarazione della premessa nel film Klaus, i segreti del Natale:
“Dobbiamo dimostrare che un vero atto di bontà ne ispira sempre un altro”

Il tema deve toccare una delle infinite corde dell’animo umano e può (deve) ridursi a una parola: amore, odio, rivalsa, orgoglio, vendetta, gelosia, ambizione, generosità, egoismo, volontà, ingenuità…, ma anche morte, famiglia, tempo, fedeltà, e via così.

La premessa è ciò che tu pensi sul tema e di cui vuoi persuadere il lettore. Qual è la tua posizione verso l’amore, l’odio, l’orgoglio, l’ambizione, la fedeltà e così via?

Scegli un tema, associagli una premessa e inizia a scrivere.

Facile, no?

No?!

Hai ragione: non lo è.
 

Come si costruisce la premessa?

Esergo a Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
È inutile riempirti la testa di filosofia.
 
Portiamo le cose a terra e lasciamo la parola a Lajos Egri, il “papà” del concetto di premessa.
 
 
Estratto da The Art Of Dramatic Writing, di Lajos Egri.
 
Dovresti aver notato una regolarità – una ricorrenza formale, una sistematicità espositiva – in questa carrellata di premesse proposte da Egri.

No?! Davvero non hai notato nulla? Allora abbiamo un problema: non ti stai impegnando e credi di poter imparare passivamente, soltanto leggendo quel che scrivo io, senza metterci nulla di tuo, del tuo pensiero, del tuo ragionamento, del tuo soggettivo sentire.

Fai una bella cosa: torna al modulo 2.

Fatto? Hai riletto il modulo 2? Sì? Ora la noti la ricorrenza nella formulazione delle premesse di Egri?
 
Vabbè, facciamo che ti credo.

La formulazione della premessa ricorre sistematicamente alla seguente struttura:

X causa Y oppure X conduce a Y

in cui X richiama il tema e Y ne esprime il giudizio.

Non c’è nulla di sbagliato nel dare alla premessa la struttura “X causa Y” (o “X conduce a Y”): il mondo della pagina è ricco di senso, di significati, quindi è bene che sia governato – a livello alto e generale – da un macro nesso di causa-effetto che soggiace a tutte i singoli eventi che vi si ritrovano dentro.

Formula pure la tua premessa come “X causa Y”, se lo desideri, ma fai attenzione a non cadere nella pigrizia, la causa primaria di tutti i disastri.

Primo: non confondere l’analisi con la sintesi, la fine con l’inizio. “X causa Y” è – se proprio deve esserlo – il punto di arrivo di un ragionamento caratterizzato da ampiezza di vedute e profondità di pensiero. Non puoi raccogliere quattro idee in croce, appiccicarle tra loro alla bell’e meglio, e poi uscirtene con “X causa Y” perché hai fretta di scrivere e non puoi perder tempo a ragionare su cose troppo filosofiche.

Secondo: non sei obbligato a usare la struttura “X causa Y”, per quanto invalsa, e potresti addirittura avere delle belle sorprese se riesci a farne a meno. Lo dovresti aver già notato nella carrellata di esempi di Egri, dove molte premesse prendono la forma “X causa Y”, ma non tutte; la struttura dell’ultima è diversa dalle altre, e suona ben più interessante; e ne trovi una ancora più intrigante se prosegui nella lettura del suo manuale.


Ehilà!

“Chi scava una fossa per gli altri, ci finisce lui dentro” è un messaggio che ha ben altra poesia – scatena tutto un altro mondo di suggestioni e lascia intravedere sviluppi precisi – rispetto a un generico “la cattiveria conduce alla sconfitta” (che può adattarsi a qualunque situazione).

E batte un altro passo anche rispetto a una formulazione del tipo “il male che vogliamo fare ad altri ci si rivolta contro”, sostanzialmente equivalente, ma sprovvista della concretizzazione dell’idea.

“Scavare una fossa” è un’azione precisa, che si porta dietro tutte le sue specificità: richiede tempo e fatica, ti fa sudare e sporcare, ed ecco che “il male” prende già delle connotazioni ben definite (non è qualcosa che può essere compiuto “a costo zero”, che ti lascia immune quando lo compi); e dà poi la percezione dinamica del suo operare (quando inizi a compierlo, alle prime zappate per scavare la fossa, non puoi neppure immaginare che ti si rivolterà contro, che in quella fossa ci finirai proprio tu).
 
In generale, e a parità di altre condizioni, quanto più la premessa è vivida, quanto meno si appiattisce su una struttura standard, tanto più preciso potrai essere nel declinarla nelle tue scene narrative e tanto più forte sarà la persuasione della tua storia.

D'amore

 
Vivi per te stesso e vivrai invano. 
Vivi per gli altri e ritornerai a vivere.
Perché quando tu inizi a vivere per gli altri,
gli altri iniziano a vivere per te.
 
Voglio parlare dell’amore, del sentimento d’amore.

TEMA: Amore.

Bene. Cosa penso io dell’amore? Qual è la mia percezione dell’amore, di cui voglio convincere anche gli altri?

Serve anzitutto una scelta di campo. L’amore è una cosa “buona” o “cattiva”? Sono dell’idea che l’amore sia tutto nella vita, che una vita senza amore non abbia significato e quasi non meriti di essere vissuta, o ritengo che l’amore sia fondamentalmente solo un’illusione, per quanto persistente, e che a inseguire le illusioni si arrivi dritti al disastro?

La prima: l’amore è una cosa bella, che dà significato e pienezza alla vita.

Questa è la mia visione dell’amore. Non è una verità assoluta, indiscussa e indiscutibile. Al contrario. È soltanto la mia opinione, tutta da dimostrare, e la mia storia avrà proprio questo obiettivo: dimostrare il valore dell’amore.

Va bene, d’accordo. Ma cosa devo dimostrare, esattamente? Qual è la mia premessa? Come la formulo?
 
Come spesso accade, l’inizio impone di… fare un passo indietro. Voglio parlare dell’amore e dimostrare una mia tesi sull’amore, ma… io so di cosa sto parlando? So che cos’è l’amore? Ho un’idea abbastanza precisa su cosa vuol dire “amare”?

Così  – a pelle, a intuito – mi viene da dire che “amare” significa avere a cuore qualcuno, preoccuparsi per lui, sostenerlo nella buona e nella cattiva sorte, in senso sia materiale che spirituale; significa anche estendere questo stato d’animo a tutta la sua persona, nella sua interezza, inclusiva quindi dei difetti; e può voler dire essere disposti a rinunciare a qualcosa per sé stessi – anche a molto, se necessario – in nome del bene e della felicità dell’altro.

Suona tutto molto ragionevole, suppongo, e probabilmente in tanti si rivedranno in questo abbozzo, lo intenderanno come un buon punto di partenza, sicuramente da rifinire, ma ben centrato.

Già. E mi spieghi allora il motivo per cui tutte le persone che la pensano così si ritrovano invariabilmente a vivere situazioni sentimentali complicate, travagliate, sofferte, a saltare da un amore all’altro, alla ricerca di quello “vero”, che non trovano mai? E non mi riferisco solo ai rapporti sentimentali tra un “lui” e una “lei” (o tra le infinite varianti, oggi di moda) ma – aggiustando quel poco che c’è da aggiustare – anche ai rapporti tra genitori e figli, spesso segnati da incomprensioni, diffidenze, sopportazioni, silenzi, screzi, non appena i “cuccioli” smettono di essere “cuccioli” e acquistano un minimo di autonomia e consapevolezza. E – sistemando quel che c’è da sistemare – si possono tirare in ballo anche ai rapporti di amicizia, che raramente durano davvero tutta la vita.

Questo “amore”, se lo si analizza da vicino e lo si conduce alle sue conseguenze osservabili, non sembra poi un sentimento così solido e duraturo su cui poter fare affidamento. Al contrario: si ha la sensazione – a indagarlo a fondo – che sia continuamente sotto attacco e possa crollare da un momento all’altro, che possa addirittura svanire anche quando non manifestamente minacciato, solo per l’inesorabile trascorrere del tempo, che tutto modifica.

E non è forse questa la caratteristica di tutte le illusioni? Dare la sensazione di esserci, per scoprire – prima o poi – che in realtà non c’era nulla. E allora risaliamo sulla giostra di una nuova illusione, per fare ancora un giro e un altro ancora, per poi scendere e risalire ancora, e ancora e ancora, sino alla fine dei giorni. I nostri “amori” – di qualunque tipo siano – assomigliano a delle variopinte bolle di sapone: belle, leggiadre, affascinanti… e destinate a dissolversi, per quanto possano durare.

Ma non era questa la mia scelta di campo! Io volevo dimostrare esattamente il contrario! Com’è possibile che – ragionando sull’amore – mi sono ritrovato schierato con la squadra avversaria, a indossare la maglia del nemico?

Calma. Ragioniamo. Mi deve essere sfuggito qualcosa. Ci deve essere un baco nella mia linea di pensiero, se volevo dire “bianco” e invece – parola dopo parola – mi sono ritrovato a perorare la causa del “nero”.

Dov’è l’errore, il punto scappato? Cos’è che fa saltare tutto? Ragiona, ragiona, ragiona…

Ma sì, certo! È stato il pronome io, di cui è implicitamente impregnata l’intera argomentazione, ad averla sabotata.

Io posso pure essere stato animato dalle migliori intenzioni possibili, e quelle intenzioni, io, posso pure averle attuate al meglio; ma il problema è che in ogni cosa bella che ho pensato, detto e fatto, sono sempre rimasto io.

Dove c’è io non può esserci amore, non importa quante cose buone e giuste questo io possa fare.

Oh, ti prego, non dirmi nulla: so già tutto.

Hai rispettato tua moglie, sempre, non l’ha mai tradita e te ne sei sempre preso cura, amorevolmente; lo stesso atteggiamento lo hai avuto verso i tuoi genitori, di cui ti sei preoccupato ogni giorno, fino all’ultimo dei loro giorni, sinceramente. E i figli? Quanti sacrifici per loro, senza mai un fiato! E tutto questo amore non è mica rimasto confinato nella cerchia delle persone care. Beneficenza e volontariato sono state le parole d’ordine della tua vita, da sussurrare s’intende, da attuare con discrezione, perché il rumore non fa bene e il bene non fa rumore. E poi hai sempre avuto un carattere mite, pacifico, accondiscendente, tollerante.

Hai speso una vita intera a fare cose buone per tutti. Chi lo nega? Ma in tutto ciò che hai fatto di buono – ed è stato tanto – non hai mai amato davvero, non c’è mai stato amore, perché non sei mai riuscito ad annullarti per qualcun altro, a sparire in nome di qualcun altro.

Perché amare significa questo e null’altro che questo: sparire, annullarsi in nome di ciò che si ama, perdersi in chi si ama, perché soltanto allora l’amore sarà proiettato in quella dimensione di eternità, di infinito, da cui nulla lo potrà mai far regredire.

E invece sopravvive sempre un io, in tutto ciò che si fa nella vita: a volte ci si aspetta di essere ricompensati, anche solo in senso lato (“speriamo che i miei figli non mi deludano, dopo tutti i sacrifici che io ho fatto per loro”); altre volte si avverte l’obbligo morale di corrispondere a un’aspettativa altrui (“che figlio sarei mai stato, io, se non mi fossi preso cura dei miei genitori?”) e altre ancora si ha la sensazione di fare del bene (“io guadagno così tanto che è doveroso dare un decimo in beneficenza”). Io è sempre lì: io mi sto prendendo cura della mia famiglia, io faccio beneficenza, io faccio volontariato… io, io, io. Si declina sempre tutto in prima persona singolare: io.
 
Tu non hai mai rinominato le cose, in funzione dell’amore: non hai mai sentito che il mare esiste solo perché ci si tuffano coloro che ami, e che sparisce all’istante non appena le persone che ami smettono di bagnarcisi.
  
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
Amare significa questo, e nient’altro che questo: annullare sé stessi per perdersi negli altri, e, perdendosi negli altri, riscoprirsi non più Sole ma stella, un buco nero che accoglie la parte migliore di sé. 
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
Chiunque abbia sperimentato questa sensazione di smarrimento – beneficiandone da altri o donandola ad altri – ne ha ricavato un’impressione così forte e pervasiva, da produrre uno sconquasso emotivo che non ha termine finché non ci si arrende allamore, disarmati e senza condizioni.

Chi è stato amato – chi ha visto un altro annullarsi per lui – raramente ne ha avuto consapevolezza, mentre ciò accadeva. Lo ha realizzato dopo, quando quella persona che lo ha amato non era più con lui. Allora, e solo allora, ha realizzato quale miracolo si era prodotto nella sua vita. E in un senso fisico – materiale, concreto – ha sentito che quella persona è rimasta con lui, che continua a vivere in lui, in ogni suo gesto, dai più piccoli ai più grandiosi: in ogni cosa che faccio ci sei tu, e ci sarai sempre tu, perché tu hai rinunciato a te stesso, per perderti in me.
 
E tutte quelle volte – poche, e comunque mai quante dovrebbero essere – in cui ci è persi in qualcun altro, in quei momenti in cui io è scomparso – momenti rari e brevi, prima di tornare alla cosiddetta “normalità” – la sensazione di sollievo, di leggerezza, di gioia, di pace è stata così totalizzante da volerla ricercala di continuo, se la prepotenza di quel fottutissimo io non fosse lì a richiamarci a sé, istante per istante.

Già il semplice dire di “amare anche i difetti” – di esprimersi così, con la parola “difetti” – è rivelatore della fallacia dell’intera visione: quando ami, quando ti perdi nell’altro, quando ti smarrisci in lui, non vedi più difetti, ma solo pregi, perché i difetti sono difetti per te, che li vedi da fuori, dalla prospettiva di io, e non certo per la persona che li possiede, che li percepisce semplicemente come un lato della propria personalità.

Io sono forse immune da difetti? No, ovviamente. Eppure la vita mi ha portato a contatto con persone che non avrebbero cambiato nulla di me, che mi volevano così com’ero, persino quando io stesso capivo di essere insopportabilmente difettoso in tutto. Ma non per loro, che non vedevano difetti, che non hanno mai visto difetti, ma solo pregi, ovunque, sempre e comunque.

La verità – triste, dolorosa – è che io non so amare, non riesco a perdermi negli altri con quello stesso senso di abbandono totale con cui altri si sono persi a me; io continuo a dire di amare tutto di una persona, anche i suoi difetti, quando invece dovrei vedervi solo pregi, ovunque, come altri li vedevano in me.  

E perché io invece non ci riesco? Perché non vedo anch’io pregi ovunque, non dico in tutti, ma anche solo a in quelle due o tre persone che dico di amare, ma che con tutta evidenza non amo affatto? Perché non ci riesco? Perché?

Io non so amare – questa è la triste, dolorosa verità – però so cos’è l’amore, ho capito cosa vuol dire amare. E che vi sia in me uno scarto tra teoria e pratica è un’aggravante, perché chi ha capito, e non fa niente, non ha capito niente.

Io non so amare, nel mondo reale. Questa è la verità. Però ne so abbastanza sull’amore da poterne scrivere, e posso allora creare un mondo della pagina che parli dell’amore, e chissà se, scrivendone nella pagina, riesca poi a trovare la forza di trasferire la mia comprensione da un livello teorico a un pratico, nel mondo reale. Perché “scrivere è un modo, a volte straordinariamente intenso, di vivere” – ci ricorda Pontiggia – “e vivere può essere anche un modo, indiretto e preparatorio, allo scrivere”.
 

Qual è in definitiva la mia premessa sul tema “amore”?

Potrebbe essere ad esempio “l’amore conduce ad annullare sé stessi”.

Sostanzialmente corretto, ma suona male. La parola “annullarsi” ha un sapore sgradevole, trasmette una sensazione di pena, di dolore, e invece l’amore è gioia, felicità. Quindi?

Cos’è che voglio dimostrare, esattamente? Qual è la miglior formulazione possibile della mia premessa?

TEMA: Amore.

PREMESSA: L’amore conduce alla liberazione da sé stessi.

Ora sì che ci siamo! È esattamente questo che voglio dimostrare: voglio (di)mostrarvi, attraverso la mia storia, la liberazione – parola ricca di suggestioni positive – dai propri egoismi, dalle fissazioni, dalle paure, dai fuochi fatui, dalle Fate Morgane, da tutto ciò che zavorra l’esistenza e impedisce di viverla nell’unico modo con cui merita di essere spesa.
 
Ora ci siamo, ora sì che posso iniziare a scrivere.

di morte

Solo chi sottrae il suo cuore alla ferocia dell’ego 
e innalza templi all’eterno
sa che la morte non muore né mai nascerà. 

Voglio parlare di un argomento tabù, di cui nessuno parla, di cui nessuno vuol sentir parlare, se non quando ne è costretto, quando è l’argomento che viene a bussare alla sua porta e lo obbliga allora ad affrontarlo.

Voglio parlare della morte.

TEMA: Morte.

Si parte sempre dalla solita scelta di campo. Cos’è la morte? Una cosa “buona” o “cattiva”? È un evento tremendo e doloroso, da cui distogliere i pensieri finché si può, oppure…

Oppure: la mia visione della morte è oppure.

Cosa farei se fossi uno studente universitario e sapessi di dover sostenere un esame tra un paio di mesi? Studierei, ovvio. Per affrontarlo preparato e superarlo al meglio, almeno con 27, direi.

Cosa farei se a inizio primavera, guardandomi allo specchio, vedessi qualche chilo di troppo, e desiderassi essere in forma per l’estate? Mi metterei a dieta e farei attività fisica, per farmi trovare pronto alla prova-costume.

Devo continuare? Non credo.
 
Tutti noi – io, tu, tutti – ci prepariamo, quando sappiamo di andare incontro a una sfida, per essere pronti quando arriverà. Ci comportiamo così di continuo, di fronte a tutto, e a volte è sufficiente la sola eventualità di una sfida ad avviare la nostra preparazione per affrontarla al meglio. Ragioniamo e agiamo così su tutto, tranne sull’unico evento che sicuramente dovremo fronteggiare, anche se non sappiamo quando, ma che proprio per ciò dovrebbe trovarci pronti in qualunque momento si verificasse. Ci comportiamo così su tutto, tranne che sulla morte.

È pazzesco: noi viviamo da immortali all’interno della nostra mortalità!

Un giorno morirò, ovvio, ma né oggidomani, ci mancherebbe: ho un pozzo di cose da fare tra oggi e domani, e mica posso morire, ti pare?
 
E siccome tutta la vita non è altro che un susseguirsi di oggi e domani, e oggi e domani io non posso proprio morire – ci mancherebbe altro, con tutto quel che ho da fare – io non morirò mai, anche se so che un giorno – non so quale, ma di sicuro né oggidomani – dovrò morire.

Finché qualcosa o qualcuno non arriva a ricordarmi che quel giorno può essere anche oggi.
 
 Anche tu, come questo mio caro amico,
hai bisogno di veder morire “all’improvviso” qualcun altro,
per ricordarti che non sei immortale, che non puoi rimandare per sempre?

Bella forza che non penso alla morte – mi dirai – perché se lo facessi non vivrei più: il solo pensiero mi paralizzerebbe, toglierebbe valore a ogni cosa.

Sei sicuro? Per quanto il punto di vista possa suonare ragionevole, per quanto si accordi con l’intuizione, sei proprio sicuro che sia così? E che non sia invece vero esattamente il contrario?

Qual è la prima, immediata e più visibile conseguenza del vivere da immortali? Che si sprecano giorni su giorni, che i giorni vengono allegramente buttati a pacchi nel cesso. Perché se un giorno morirò, ma non sarà né oggidomani, cosa vuoi che sia se oggi e domani li butto nel cesso?

E quando parlo di giorni buttati nel cesso non mi riferisco a giorni noiosi, incolore, anonimi. Mi riferisco a tutti quei giorni trascorsi col broncio, per un motivo stupido, insignificante. Mi riferisco ai giorni di silenzio e indifferenza verso una persona che si ama, per un litigio idiota. Mi riferiscono a tutti i giorni trascorsi a combattere sul lavoro per un bonus o una promozione (che, anche quando raggiunti, non spostano nulla nella vita di ogni giorno). Mi riferisco a tutti quei giorni monopolizzati da pensieri turbolenti su cose che mai accadranno. Mi riferisco a tutti quei giorni passati a rincorrere le ombre di fantasmi.
 
Oh, se solo avessi avuto la morte davanti ogni giorno della mia vita! Se solo avessi capito che il mio tempo era limitato, finito, che poteva finire da un momento all’altro, forse anche domani, forse anche oggi. Se solo avessi realizzato questa ovvietà, tutto sarebbe stato diverso, tutto.

Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
Quando pensi alla morte ogni giorno, quando “ricordati che devi morire” non ti fa più replicare “sì, sì, mo’ me lo segno” (che è divertente se lo dice Troisi, ma diventa ridicolo se lo ripeti tu), quando metti la morte al centro della vita, ecco che la vita acquista improvvisamente  un significato incommensurabile con qualsiasi altro sistema di valori. Perché a quel punto accadono due cose.

La prima: realizzi, nel profondo, che la vita ha una fine, un termine, che un giorno morirai, sì, ma quel giorno – guarda un po’ – potrebbe essere oggi, sì, proprio oggi, neanche domani o dopodomani, ma oggi, adesso, tra un’ora, anzi no, tra cinque minuti, anzi no, tra un minuto. Quindi non c’è tempo da perdere, perché ogni secondo è prezioso di quel minuto che è rimasto, e non cambia nulla se non è solo un minuto ad essermi rimasto, perché i secondi sono preziosi a prescindere, quale che sia il tempo residuo (che, sì, potrebbe essere anche solo un minuto).

Quando metti la morte al centro della vita ecco che riesci a goderti a pieno ogni attimo di vita, e per godersi ogni attimo di vita non c’è altro modo che aver messo il pensiero della morte al centro della propria vita.
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
La seconda cosa che succede, quando metti la morte al centro della vita, è non avere più paura della morte.

Non la temi più, al livello più semplice, perché pensandoci ogni giorno – ricordando ogni giorno che un giorno morirai, e quel giorno potrebbe essere oggi – non solo vivrai l’oggi in tutta la sua pienezza, ma giorno dopo giorno ti abituerai all’idea, ci familiarizzerai e non ti farà più paura, come avviene per tutte le cose con cui entri in confidenza: morire sarà semplicemente dire “vedi questa strada dritta su cui stai camminando? Bene: arrivato a quell’angolo, gira”. E girerai con la stessa serenità con cui lo faresti se avessi chiesto a un passante un’indicazione su come raggiungere il tuo luogo di destinazione.

Ma non temerai più la morte anche per una ragione più sottile: perché non ne avrai più motivo, perché avendo vissuto con pienezza ogni istante di vita non ci sarà nulla che ti verrà a tormentare al momento della morte.
 
Il timore della morte non sta nel “non sapere cosa ci sia dopo” (e di poter perciò andare incontro a qualcosa di brutto) o magari nel credere che “dopo non c’è nulla” (e quindi nel raffigurarsi il proprio annientamento). Il pensiero più angoscioso, quello che mette in subbuglio l’animo e non gli concede pace, è l’idea di andarsene lasciando dei conti ancora aperti: le incomprensioni sorte con i propri genitori, e specularmente i litigi con i propri figli, le scorrettezze sul lavoro, e poi i tradimenti, le viltà, gli abbandoni, l’aver preso – al bivio – la strada in discesa quando la salita ti reclamava con forza. Andarsene via senza aver sistemato tutto quel che c’era da sistemare: ecco cos’è che terrorizza davvero.


In punto di morte, arriverà la tua coscienza, che hai sempre avuto con te, in vita, e che hai sempre avuto la possibilità di migliorare, di rendere candida: ti sarebbe bastato mettere la morte al centro dei tuoi pensieri, anziché illuderti di tenerla lontana per sempre.
 
 È normale sperare di avere vicino le persone care per quanto più tempo possibile,
così come è normale soffrire per la loro scomparsa da questo mondo.
Ma è stupido credere che si possa fuggire in eterno dalla morte,
che siccome “è un leone” allora “ce la farà anche stavolta”,
che la via della “resurrezione è imboccata” (sic!).
Invece di scappare dall’inevitabile, anziché dire “anche stavolta ce la farò”,
non sarebbe meglio prepararsi all’idea, alla sfida, avendo avuto la possibilità di farlo?
Tutte le religioni, tutte le filosofie – orientali e occidentali – sono concordanti:
“a subitanea morte, libera nos, Domine”,
liberaci, o Signore, da una morte improvvisa, per dirlo al modo dei cristiani.
Realizzare che quel momento sta arrivando è la più grande fortuna della vita,
perché – appunto – ci si può preparare ad affrontarlo;
e non ha importanza se di tempo ne è rimasto poco,
perché mai, come ora, il tempo è relativo,
e una manciata di giorni possono già essere sovrabbondanti rispetto allo scopo
(al ladrone sulla croce, in fondo, bastarono pochi minuti per realizzare una conversione sincera,
e quel ladrone è l’unico a trovarsi sicuramente nel Regno dei Cieli:
“in verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”, Luca 23, 42-43).
Meglio ancora, poi, se la fortuna di potersi preparare alla morte non piove dal cielo,
ma ce la costruiamo noi ogni giorno, pensando ogni giorno a “quel giorno e quell’ora”,
anche quando non ve ne sono avvisaglie, e anzi soprattutto quando sembrano lontani,
così da potervi meditare con la necessaria serenità.
 
La morte me la raffiguro così: un secchiello pieno d’acqua di mare che viene condotto davanti al mare. 
 
Il parallelismo è sin troppo imboccato – il secchiello è il corpo; l’anima è l’acqua di mare che contiene; il mare è Dio – ma poi non avviene nulla di ciò che comunemente si immagina.

Il mare (Dio) non è lì per giudicare. Anzi, a dirla tutta, se ne frega sovranamente di ciò che il secchiello ha compiuto in vita (anche perché questo mare – questo Dio – sarebbe ben poca cosa se a offenderlo o compiacerlo bastassero le avventure di un misero secchiello).

Quel che il mare chiede a tutti i secchielli, indipendentemente da ciò che hanno fatto in vita, è sempre la stessa cosa: riversati in me, torna da dove sei venuto, e da cui hai scelto un giorno di separarti.

E il secchiello, lì per lì, sente un’irresistibile attrazione verso il mare, intuisce che quell’immensa distesa azzurra è sempre stata dentro di lui, che lui è quella distesa azzurra, che quella distesa azzurra è la sua unica, vera identità.

Questa fase dovrebbe corrisponde a quella sensazione di pace assoluta, di fronte a una luce abbagliante, di cui riferiscono numerose esperienze di pre-morte.

Il secchiello sta per lanciarsi in mare, ma si blocca.

“Tu vuoi che io mi riversi in te? Ma se accetto… chi potrà più riconoscermi? Cosa ne sarà di me, una volta che mi sarò mischiato con te? Dove sarò io, dopo essermi tuffato?”

La domanda sembra sensata: se lancio in mare l’acqua contenuta in un secchiello, e poi mi chiedo dove sia quell’acqua – proprio quell’acqua che prima stava nel secchiello, solo ed esclusivamente quell’acqua, da tenere ben distinta e separata da tutta l’altra acqua – non saprei davvero che dire. Sarà un po’ qui e un po’ lì, un po’ in superficie e un po’ nelle profondità, un po’ a destra e un po’ a sinistra, proprio non lo so: potrebbe essere ovunque.

“Proprio così!” Le onde del mare si infrangono sugli scogli, lo sciabordio cresce di intensità. “Sarai ovunque, ti diffonderai dappertutto, ti dilaterai all’infinito: sarai diventato tu stesso… il mare! Non ci sarà nulla di te che non si sia completamente diffuso in me, non una sola goccia di me che non conterrà anche te. Perché tu sei acqua di mare, che al mare deve tornare e col mare deve confondersi, per diventare tutto il mare”

Il secchiello è perplesso: il mare è infinito, io invece sono limitato, circoscritto; deve esserci un inganno.

Il mare lavora di stretta logica. “Quanti numeri ci sono tra 0 e 1? Infiniti, giusto? E allora vedi come un intervallo finito, limitato, circoscritto, può tranquillamente avere in sé l’infinito? Qualunque matematico te lo confermerà”.

Il secchiello indietreggia, il mare lo chiama a sé. “Tu sei semplicemente un infinito che ha scelto di rinchiudersi in un secchiello, di confinarsi nell’intervallo [0, 1]. Ma tu non sei un secchiello, non sei l’intervallo. Sei l’infinito, come me, anzi tu sei me, non c’è differenza tra me e te, e non già perché siamo uguali, ma perché siamo la stessa cosa, lo stesso infinito: perché tra 0 e 1 ci sono tanti numeri quanti ce ne sono tra 0 e 100, tra 0 e 1000, tra 0 e infinito. Qualunque matematico te lo confermerà”.
 
Borges aveva ragione nel dire che l’infinito è un concetto che confonde e corrompe tutti gli altri.

Il mare tira in ballo la religione occidentale. “È scritto nei Vangeli che chi vuol salvare la sua vita la perderà, chi accetterà di perderla la troverà. Non puoi salvare il secchiello che ti contiene, perché il secchiello è destinato a morire, anzi è già morto, anche se non te ne sei ancora reso conto, tanto forte è l’immedesimazione che hai col tuo corpo. Se vuoi salvare la vita del secchiello, sei destinato a perderla; ma se accetti di perdere il secchiello, e ti lancerai in mare, diventerai tu stesso il mare e vivrai in eterno. Vuoi preservare la tua identità, il tuo io, il tuo essere un secchiello, ma ti ha mai punto il dubbio di essere aggrappato a delle illusioni? Tutto il mondo è svanito, con la tua morte. Quel mondo che ti sembrava così reale, ora non c’è più. Lo hai sempre saputo che sarebbe svanito, e ti sei ostinato a crederlo reale, forse continui a crederlo reale ancora ora che non c’è più. La tua identità, il tuo io, la natura di secchiello, sono solo illusioni, destinate a svanire come tutte le illusioni”.
 
Il secchiello non si persuade, quella domanda proprio lo assilla: dove sarò io, dopo essermi tuffato in mare?

Il mare vira sulla filosofia orientale, sul Risveglio di Karma Nur May. “Diventa morte e potrai raggiungere la tua parte immortale”.

Le parole del mare battono a vuoto. La domanda ogni volta ritorna: dove sarò, io, una volta lanciato in mare?

La distesa azzurra si ritrae, come se il mare si stesse prosciugando e la spiaggia si stesse allargando. Il secchiello avverte un senso di vuoto, di abbandono.

“Perché stai andando via? Non te ne andare, non te ne andare!”

Lo sciabordio delle onde si attenua. “Sono sempre qui. Sei tu che ti stai allontanando da me, sei tu – il tuo io – che ti sta portando via, ma prima che tu scompaia del tutto – perché sei tu che ti stai allontanando, e non da me, ma da te stesso – devi capire il motivo per cui incontri tanta difficoltà a tuffarti nel mare, a ricongiungerti con te stesso. Ora che sei morto non riesci a tuffarti in mare perché in vita non hai mai amato”.

Il secchiello è furibondo. Cosa vuol dire quell’accusa di non aver mai amato davvero? Non è vero!
 
E così sciorina tutto ciò che di buono ha fatto in vita: ha amato e rispettato la moglie, se ne è sempre preso cura; e lo stesso ha fatto con i suoi genitori, di cui si è preoccupato ogni giorno, fino all’ultimo dei loro giorni; e quanti sacrifici per i figli, quanta fatica, senza mai un fiato. E neanche a dire che tutto questo amore sia stato confinato nella cerchia delle persone care (“se amate solo chi vi ama, che merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani?”). Beneficenza e volontariato – ricorda il secchiello – sono state le parole d’ordine di una vita, il tutto fatto in silenzio, con discrezione – come si conviene – perché il rumore non fa bene e il bene non fa rumore.

Il mare lo interrompe. “Non ho detto che tu non sia buono o non abbia fatto cose buone. So che ne hai fatte tante, che hai speso una vita intera a fare cose buone per tutti, perché sei buono dentro, ma…”

“Cosa?”. Il secchiello è indispettito.

“Ma in tutto ciò che hai fatto di buono – ed è stato davvero tanto – non hai mai amato davvero, ed è per questo che ora hai paura di perderti nel mare”.

Il secchiello proprio non capisce, e il mare deve spiegare.

“Tu non hai mai amato, hai fatto del bene, sì, ma senza amore, perché non sei mai riuscito ad annullarti per qualcun altro, a sparire in nome di qualcun altro.

Perché amare significa questo e null’altro che questo: sparire, annullarsi, in nome di ciò che si ama, perdersi in chi si ama, come l’acqua di un secchiello si perde nel mare; ‘nel mite bagliore di un raggio di sole, avrò smarrito per sempre la via del ritorno’, recita il Risveglio di Karma Nur May, come l’acqua marina che torna al mare e smarrisce per sempre la via del ritorno nel secchiello.

In tutte le cose buone che hai fatto – e sono state tante – sopravviveva sempre io: a volte ti aspettavi di essere ricompensato, anche solo in senso lato (“dopo tutti i sacrifici che io ho fatto per voi, figli miei, spero proprio che non mi deluderete”), altre volte sentivi di essere tu a dover corrispondere a una aspettativa altrui (“che figlio sarei mai stato, io, se non mi fossi preso cura dei miei genitori?”) e altre volte ancora avevi la sensazione di fare del bene (“io guadagno così tanto che è giusto aiutare gli altri con della beneficienza”).

Io era sempre lì: io mi sto prendendo cura della mia famiglia, io faccio beneficenza… io, io, io… hai sempre declinato tutto in prima persona singolare.

E cosa vuoi che accada quando hai trascorso un’intera vita a dire io, fosse pure per fare cose buone? Che continuerai a dire io anche da morto, anche se io, da morto, non ha più senso.

Dove sarò io, dopo essermi tuffato in mare? – hai continuato a chiederti. Sarai esattamente dove saresti stato se, in vita, avessi trovato anche solo una volta il coraggio di amare, di smarrirti totalmente in qualcun altro, sino a diventare l’altro, come ora ti si chiedeva di smarrirti nel mare, per diventare tu stesso il mare. Tutto sarebbe donato a chi rinunciasse a sé stesso assolutamente, anche per un solo istante.
 
E bastava un istante, un solo istante di amore in vita, un istante senza pensare, ragionare, e filosofeggiare, senza desideri né obblighi né aspettative, un istante di totale abbandono di sé stessi, un solo istante e ora non avresti così tanta paura di perderti nel mare.

Ma se in vita non sei riuscito a farlo nemmeno per un solo istante, non c’è da sorprendersi se non ci riesci ora, che c’è in gioco l’eternità”.
 

Il mare è diventato una sottile linea blu, non se ne sente più né l’odore né il rumore, c’è sabbia ovunque.

Il secchiello è terrorizzato: e ora ce ne sarà di me?

“Non hai voluto la vita eterna, tornerai alla vita mortale”.

Tornare alla vita mortale? Cosa vuol dire? Dove mi manderai?
 
“Proprio non capisci. Io non mando nessuno da nessuna parte, perché io non esiste. Sei tu che andrai dove vorrai: dov’è il tuo cuore, là sarai tu”.

 
TEMA: Morte.

PREMESSA: Ciò che è importante in vita è tutto e solo ciò che è importante davanti alla morte.
  
Ora si può iniziare a scrivere.
 

e di altre sciocchezze


Ti è chiaro come si arriva a formulare una premessa? Quanta logica, esperienza, riflessione ed emozione siano necessarie per fissare una buona premessa?

Puoi anche usare la formuletta “X conduce a Y”, se la trovi consona. Ma “X conduce a Y” è il punto di arrivo, non di partenza. Per arrivare a dire sinteticamente, in tre parole, “X conduce a Y” devi chiamare a raccolta tutto ciò che sai, per via diretta, indiretta, o teorica, rielaborarlo, connetterlo, armonizzarlo, testarlo… e poi ricominciare.

E solo dopo n iterazioni di questo complesso processo di analisi, solo allora potrai dire “X conduce a Y”, perché solo allora riuscirai a tenere memoria della ricchezza delle considerazioni che stanno dietro a quel “X conduce a Y” che le riassume.

E se poi, per avventura, riesci a evitare la formula “X causa Y”, ancora meglio. Formulazioni libere, sartoriali, non preconfezionate, sono tendenzialmente più potenti ed evocative, ma richiedono – per contrappasso – ragionamenti ancor più profondi, sottili e raffinati.
 
Il precetto generale rimane comunque lo stesso, qualunque strada tu voglia battere: non banalizzare la premessa, perché banalizzare la premessa significa banalizzare la storia, e nessuno ha voglia di leggere storie banali.
 
Estratto da The Art Of Dramatic Writing, di Lajos Egri.
 
Non fare lo stupido!

Il fatto che la premessa si possa ridurre a una formuletta, non significa che la premessa sia una formuletta; l’errore non sta nel semplificare le cose, sino a trasformarle in una formuletta; l’errore sta nell’illudersi che, una volta semplificate a livello di formuletta, le cose siano magicamente diventate semplici.

Mantieni viva la percezione della complessità della tua premessa, comunque tu l’abbia formulata, e sforzati di formularla in un modo che la renda la migliore “porta di accesso” al mondo della tua storia.
 
Non essere pigro, non fare lo stupido, non trasformare la premessa in una sciocchezza.
 
Estratto da The Art Of Dramatic Writing, di Lajos Egri.
 
La premessa non è una cosa buttata lì, giusto per avere un riferimento per la tua scrittura, come gli antichi marinai avevano le stelle in cielo per orientarsi.

La premessa è lo strumentario del ponte di comando di una nave: ti localizza e ti indirizza, ti dice dove sei, dove devi arrivare e attraverso quale tragitto, segnalandoti istante per istante la tua posizione, lo stato in cui ti trovi, i rischi da monitorare, le accortezze da avere e le opportunità da sfruttare nel corso della navigazione.

La premessa è la forza trainante della storia e la storia viaggia a rimorchio della premessa; una storia è solida quanto lo è la sua premessa e la premessa è lo strumento per testare la solidità della storia.

Se a livello macroscopico, di premessa, la tua storia sostiene la tesi “X conduce a Y”, allora la stessa tesi la dovremo ritrovare a tutti i livelli, in ognuno dei tre atti della storia, in ogni scena inclusa in un atto, in ogni plot dentro una scena. Lo stesso motivo di fondo, la stessa ricorrenza, la stessa argomentazione deve essere presente ovunque, in proporzione, a prescindere dal grado di risoluzione con cui si osserva la storia. Come avverrebbe con un oggetto frattale.
   
I frattali: li abbiamo già incontrati nel modulo 22 e ora ritornano.
Puoi avere la visione di assieme dell’intera storia,
oppure concentrarti su una sequenza di capitoli, o anche su un capitolo solo,
e magari scendere al livello di una singola scena o ancora più in basso,
per prestare attenzione a una specifica azione, percezione o battuta di dialogo,
ma qualunque sia la scala di osservazione che hai scelto,
devi sempre ritrovare lo stesso motivo di fondo.

Verifica sempre – a ogni livello: di atto, di capitolo, di scena, di plot, e sin anche di singola frase – se ciò che hai scritto concorre a sostenere la premessa, a svilupparla, a consolidarla.

Puoi sostenere la premessa sia “in positivo” (mostrando le cose belle che accadono, quando la si rispetta) che “in negativo” (mostrando le cose brutte che accadono, quando la si nega) ma devi sostenerla sempre, incessantemente.

Se ti accorgi che un segmento della storia – non importa quanto breve – non sostiene la premessa o addirittura la nega, allora taglialo senza scrupoli, non importa quanto ti possa sembrare bello o quanto ti ci eri affezionato. Non lo avresti neppure dovuto scrivere, a rigore.
 
E quando un autore ti consegna fiero il suo libro, e con malcelato orgoglio e falsa modestia ti fa capire che è un piccolo capolavoro, tu chiedigli a bruciapelo quale sia la sua premessa. E quando vedrai la sua faccia trasformarsi in un punto interrogativo, quando ti chiederà “cosa intendi per premessa?”, avrai la conferma di trovarti davanti all’ennesimo artistoide uscito da una fogna.

Come si dimostra la premessa?

Elisha Scott Loomis ha censito 371 differenti dimostrazioni del teorema di Pitagora, pubblicate nel 1927 nel libro The Pythagorean Proposition.

Sarebbe interessante studiarle tutte, ma questo non è un blog di matematica.

Qui parliamo di progettazione della storie e il modulo è centrato sulla premessa. E la premessa – a differenza del teorema di Pitagora –  si dimostra in un solo modo, sempre lo stesso: mostrando gli effetti del (mancato) cambiamento del protagonista.

Cambiamento è la parola chiave della linea dimostrativa di qualunque premessa: il personaggio deve cambiare, o almeno provare a cambiare con tutte le sue forze, e il cambiamento può essere totale, parziale o mancato, ma il tentativo di cambiamento deve esserci sempre, essere doloroso, complicato e travagliato, e comunque lasciare strascichi (e sarà proprio la quantità e la tipologia delle perdite subite durante il cambiamento a dare il tono della storia, se eroica o tragica, con le infinite sfumature tra i due casi estremi).

Capirai il senso e il ruolo del cambiamento – nel dimostrare la premessa – studiando l’arco e le sue applicazioni.

Qui può bastare una notazione generale.
 
Hai riletto il modulo 2, come ti avevo detto? Corri subito a farlo! Perché so che non lo hai fatto, anche se ho voluto credere il contrario. Torna al modulo 2, adesso, subito, all’istante.

Così ti ricorderai che non siamo a qui a filosofeggiare, a fare i poser. Siamo qui per persuadere il lettore (spettatore) di una tesi, di un’idea, di un punto di vista, parlando al suo cuore, alle sue emozioni. E nulla ha mai persuaso di più del vedere un personaggio cambiare effettivamente, in concreto, allineando pensieri, parole e azioni nella direzione di una nuova tesi, quando prima ne sposava un’altra.
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.  
 
Le grandi storie – le storie che ci rimangono nel cuore e ci segnano nel profondo – sono grandi non già perché vere, nel senso di realmente accadute, ma perché mostrano un personaggio che ripartorisce sé stesso, che rinasce a nuova vita, che cambia.
 
Il lettore-spettatore vuol vedere i personaggi ripartorire sé stessi, e a quel punto non ha più importanza che le loro storie siano vere o inventate.

Che la storia sia realmente accaduta può stimolarci una riflessione aggiuntiva – e spesso è una cosa bella, che colora la lettura – ma il discrimine non è nell’essere vera o inventata, in tutto o in parte: il discrimine è nel cambiamento.

Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.

Noi vogliamo vedere un personaggio fatto a pezzi dagli eventi che lo colpiscono; e poi vogliamo vederlo risorgere a nuova vita, dalle sue macerie; più forte, più consapevole, più giusto; in una parola, migliore.

Nulla ci persuade quanto questo sofferto processo di cambiamento.

Nulla.

Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
Il lettore vuol vedere un personaggio cambiare la propria visione del mondo, abbandonare modi di pensiero e schemi d’azione divenuti perdenti nella nuova situazione in cui si trova, per quanto quei modi e quegli schemi abbiano funzionato bene in passato, per quanto il personaggio poteva esservi legato.
 
Il lettore vuole assistere a una vera e propria inversione di valori, non più il Sole che gira intorno a una Terra ferma, ma la Terra che gira intorno al Sole e su sé stessa.

Il lettore vuol vedere cambiare i paradigmi di riferimento del personaggio, le sue stesse concezioni di vittoria e di sconfitta.
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.
 
Questo – e solo questo – fa sì che un testo come quello di Mariangela Tarì, sommessamente presentato come “solo appunti di una madre”, scritto nella forma di diario (tecnicamente l’anti-narrativa) e ideato senza pretese (probabilmente come mera valvola di sfogo) si sia poi rivelato un’opera straordinaria, di eccezionale intensità emotiva, capace di surclassare – sul piano artistico – il 99% di ciò che si trova sugli scaffali delle librerie.

Questo, solo questo, e null’altro. Non il fatto di essersi trovata a “vincere un superenalotto al contrario”, come dice l’autrice con meravigliosa auto-ironia, ma l’aver trasformato la tragedia del mondo reale in un vero romanzo nel mondo della pagina, e di riflesso, infilandosi “un pugnale nella pancia”, di aver capito che quel che stava vivendo non era una tragedia, ma uno splendido arco eroico a cui la vita la stava chiamando.

 
Padre: “Non puoi cambiare la natura”
Rémy: “Cambiare fa parte della natura,
ed è la parte della natura che possiamo influenzare,
e comincia quando lo decidiamo noi”
Padre: “Dove vai?”
Rémy: “Con un po’ di fortuna, avanti”
 
 
 
Neil Perry: Vieni alla riunione?
Todd Anderson: Non lo so. Forse
Neil Perry: Non te ne frega niente di quello che dice Keating, vero?
Todd Anderson: In che senso?
Neil Perry: Tu sei dei nostri! II sangue dovrebbe ribollirti, tu invece non ne hai affatto.
Todd Anderson: Vuoi che esca dalla setta?
Neil Perry: No, non lo voglio! Ma devi passare all’azione, non puoi starci solo a parole
Todd Anderson: Senti, apprezzo i tuoi consigli, ma io non sono come te
Quando parli tu, gli altri ascoltano. Per me è diverso
Neil Perry: Non potresti cambiare?
Todd Anderson: No! Non lo so. Il punto è un altro.
Tu non ci puoi fare niente, quindi lasciami in pace. So badare a me stesso, va bene?
Neil Perry: No

 
 
Maestra Alva: “Ehi! Che vi siete messi in testa?
Siamo a Smeerensburg, la cittadina più infelice:
e non la cambierete voi due”
 
 
 
“Adattarsi o morire”
 
Vogliamo vedere i personaggi cambiare, perché il cambiamento fa parte della vita, e in una vita reale sotto i capricci del demone del caso, il cambiamento è l’unica cosa effettivamente sotto il nostro pieno controllo, che possiamo decidere noi quando far iniziare: il cambiamento è l’unica cosa che può farci andare avanti, ci ricorda Rémy, in Ratatouille.

Ma ovviamente cambiare non sarà facile, anzi si rivelerà maledettamente complicato: ci saranno sempre resistenze interne, collegate alla personalità, al tipo di educazione, all’idea che sinora ce la si è sempre cavata alla grande e quindi non c’è motivo di fare diversamente (come Tom Anderson ripete più a sé stesso che non a Neil Perry, nel film L’attimo fuggente); e spesso ci saranno anche resistenze esterne, indotte dall’ambiente in cui si vive, dal contesto, dalla cultura prevalente, che frustano ogni tentativo di trasformazione (com’è evidente dalla perentoria affermazioni di Alva, sulla atavica contrapposizione tra le famiglie degli Ellingboe e dei Krum, nel film Klaus).

E proprio per ciò, esattamente in ragione delle opposizioni a cui andrà incontro, il cambiamento – il sapersi adattare, l’abbandono di una visione del mondo divenuta fallimentare, in nome di nuovo sistema di valori – rimarrà il tratto distintivo delle più memorabili vittorie conseguite nella vita, non fosse altro perché non c’è alternativa (come ricorda l’allenatore di baseball Billy Beane, interpretato da Bred Pitt, nel film L’arte di vincere).
  



 

Scoprire chi siamo, e chi dovremo diventare, significa accettare la sfida che quella storia ci pone davanti” – scrive Will Storr – “Saremo abbastanza coraggiosi per cambiare? È questa la domanda che una trama, e una vita, pone a ognuno di noi”.

Guardare in faccia le nostre debolezze significa raccogliere il guanto della sfida, avere la forza di rimuoverle, vuol dire vincere ed essere un eroe. 
 
Osserva come nelle due premesse discusse a titolo d’esempio – sull’amore e sulla morte – sia implicito il cambiamento, l’atto eroico di cambiare.

L’amore conduce alla liberazione da sé stessi lascia intravedere un protagonista prigioniero delle sue convinzioni, dei suoi desideri, delle sue speranze e paure, dei suoi successi e fallimenti, che intraprenderà un percorso di cambiamento segnato dalla scoperta dell’amore, verso quella serenità che solo un’autentica libertà può dare.

Ciò che è importante in vita è tutto e solo ciò che è importante davanti alla morte ci mostra in controluce un protagonista abituato a dare peso e rilevanza a una pletora di cose futili, che troverà la forza di sovvertire le gerarchie, di ri-prioritizzare le cose della vita, grazie al contatto – diretto o indiretto – con la morte.
  
E ora, se sei pronto a cambiare, allaccia le cinture e tieniti forte: si sale sull’arco.
 

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