MODULO 4 – “Scrivi solo di ciò che conosci”


Riepiloghiamo.

Noi leggiamo narrativa per vivere la vita di un altro – di un soldato, di una teenager, di un medico, di una principessa, di un folletto, di una strega, … – e quindi, simmetricamente, scriviamo per dar modo a qualcun altro di vivere la vita del nostro personaggio.

Riflettiamo, però. Svegliarsi la mattina, farsi una doccia, consumare la colazione, andare al lavoro, tornare a casa, lavarsi, cenare, andare a dormire, per poi ricominciare il giorno dopo e quello dopo ancora, sino alla pensione, è sicuramente anch’essa una esperienza di vita.

Ma sono queste le esperienze di cui andiamo in cerca, quando leggiamo? Ovviamente no. Noi vogliamo leggere di esperienze emozionanti, coinvolgenti, ad alto impatto emotivo. E non solo. Noi vogliamo che quell’emozione ci sia da insegnamento, che ci lasci un messaggio, che ci persuada di un punto di vista.

L’arte ha per scopo l’utile, per mezzo l’interessante e per oggetto il vero”. La posizione filosofica di Manzoni – se qualificata e attualizzata – fa da crocevia tra il modulo 2 (sulla persuasione) e il modulo 3 (sul vivere un’altra vita).

L’arte (della narrativa) ha per scopo l’utile: non parliamo ovviamente di un utile materiale, di un tornaconto personale, di un beneficio immediato e tangibile; pensiamo piuttosto a un arricchimento interiore, a un’espansione della personalità, a una maggiore profondità di pensiero, che siano appunto utili a sviluppare la nostra consapevolezza sulle cose del mondo.

L’arte (della narrativa) ha per mezzo l’interessante: noi vogliamo leggere storie interessanti, un interesse suscitato dagli eventi che colpiscono la vita di un personaggio, che devono perciò essere emozionanti, risuonare con noi, perché solo così saremo incentivati a proseguire nella lettura, a rimanere dentro il mondo della pagina.

L’arte (della narrativa) ha per oggetto il vero: non stiamo tirando in ballo – ovviamente – verità assolute, verità rivelate, indiscusse e indiscutibili, ma guardiamo a un caleidoscopio di verità soggettive, parziali e contingenti, a punti di vista che lo scrittore giudica validi e veritieri, e di cui vuol convincere il lettore con la sua storia.

Questo vuol dire scrivere buona narrativa: persuadere il lettore di una nostra verità, facendogli vivere la vita emozionante del nostro personaggio, come se fosse la sua vita, per tutto il tempo di lettura.

In una narrativa ben fatta sono sempre presenti entrambi gli elementi: l’emozione e il messaggio dentro l’emozione.

Nella sua “Lezione 25 – Il dolore passa, la vanità è eterna”, Giuseppe Pontiggia esibisce un passo di David Copperfield, di Dickens, in cui un bambino – a seguito delle attenzioni ricevute dai compagni di classe – ha una reazione inattesa che sovrascrive il dolore per la morte del papà.

Bisogna che questa reazione sia significativa” – commenta Pontiggia – “che abbia cioè ricchezza di implicazioni, che ci illumini non solo sul personaggio, ma su noi stessi. Se Dickens si fosse limitato a dire che il bambino mostrava computazione in classe avrebbe detto una banalità che non interessava a nessuno. Dickens scopre invece una verità significativa, cioè una verità psicologica ricca di interesse per il lettore, perché lo illumina sulla labilità del dolore e sulla eternità della vanità”.

Osserva, però: “il dolore passa, la vanità è eterna” non è una verità incontrovertibile.
 
Possiamo ribaltarla, dire “la vanità passa, il dolore è eterno”, e avere ancora abbondanza di argomenti ed esempi per sostenere la nuova tesi. Non è in fondo la posizione di Qoelet, nell’Antico Testamento?

Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?

Ho voluto fare un’esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita.

Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti.

Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita.

Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme.

Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini.

Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza.

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d
’ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche.

Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole
”.

Tutto l’agire umano è fatto di vanità, e la vanità è fatta tutta e solo di cose passeggere, illusorie. Sono piuttosto i nostri sentimenti più profondi a determinare chi siamo, a renderci quel che effettivamente siamo a ogni momento, a indirizzare il nostro cammino in questo mondo e in quello che verrà.

E Branduardi avrebbe poi arrangiato l’idea in musica e parole, per offrirne una versione popolare: ♫ lodate il Signore con umiltà, a lui date tutto l’amore e nulla più vi mancherà… vivete con gioia e semplicità, state buoni se potete… tutto il resto è vanità!  
 
Se ora guardi allo specchio il tuo volto sereno,
non immagini quel che un giorno sarà della tua vanità

E allora qual è la verità? “Il dolore passa, la vanità è eterna” o il suo contrario “la vanità passa, il dolore è eterno”?
 
La verità è quella che tu, scrittore, vuoi che sia. Di cosa vuoi persuadere il tuo lettore? Di un dolore transitorio e di una vanità permanente, o del suo inverso? Decidi. E poi congegna una storia che sostenga la tesi.
 
La tua storia potrà parlare di un bambino che vede scemare il dolore davanti all’avanzare della vanità, e muovendo da qui portare la vanità al centro del discorso, come motore di ogni azione umana, per quanto fatua e transitoria. Oppure la tua storia potrà parlare di un bambino momentaneamente consolato dalla vanità suscitata dalle attenzioni dei compagni, ma irrimediabilmente segnato da un dolore che lo accompagnerà per sempre e ne condizionerà drammaticamente i suoi rapporti con gli altri.
 
Questo manuale sarà per te una bussola su come scrivere, ma solo tu puoi sapere cosa scrivere, decidere quale tesi sostenere con la tua scrittura, e devi essere realmente convinto di ciò che scrivi, di ciò che sostieni, perché non puoi persuadere gli altri di qualcosa a cui tu per primo non credi o a cui credi solo debolmente.

Scegli pure la tua verità – “il dolore passa, la vanità è eterna” o “la vanità passa, il dolore è eterno” – senza remore, senza paure. Scrivi di ciò di cui sei profondamente convinto, senza il desiderio di assecondare le opinioni prevalenti, senza il timore, ma neppure il gusto, di andare controcorrente.
 
Scrivi pure liberamente di ciò in cui credi, ma non scrivere mai quel che già tutti sanno e che non richiede alcuna arte persuasiva: non scrivere mai – banalmente – di un bambino triste perché gli è morto il papà.
 
 
Ilenia Zodiaco demolisce It ends with us, di Colleen Hoover.
Dal minuto 1.08 al minuto 1.26:
“Nelle recensioni positive si sottolineava il fatto che ha una morale molto forte, 
che ha un messaggio importante.
E il messaggio importante sarebbe che ‘non si devono picchiare le donne’.
Cazzo! Cioè, posso dire ‘cazzo’?
Sapevo che lo standard fosse basso, ma non mi aspettavo sinceramente così basso”. 

Abbandoniamo per un attimo la scrittura e spostiamoci al cinema, che in fondo ha lo stesso obiettivo della scrittura – convincere emozionando, attraverso l’esperienza di vita di un altro – anche se la scrittura riesce a centrarlo infinitamente meglio, quando realizzata a regola d’arte (come vedremo nel modulo 18A).

Spostiamoci al cinema, e prendiamo due film che probabilmente tutti hanno visto e di cui sicuramente hanno almeno sentito parlare: Apollo 13 e L’attimo fuggente.

Apollo 13 è la trasposizione cinematografica di un evento reale: il celeberrimo “Houston, we have a problem”, pronunciato da chi si trovava nello spazio, dentro un’astronave danneggiata, col rischio reale di non tornare più sulla Terra.

Noi, da spettatori, sospendiamo l’incredulità, o meglio, dimentichiamo di sapere che alla fine i nostri astronauti torneranno a casa sani e salvi, e viviamo l’esperienza drammatica insieme a loro, insieme agli astronauti: trovarsi nello spazio, senza sapere se si farà ritorno sulla Terra, è oggettivamente molto emozionante.

Ma poi, alla fine della storia, cosa ci lascia questa emozione? Cosa abbiamo imparato? In che modo, in che senso, ora ne sappiamo più di prima? Ora sappiamo – come fu detto allora, nel commentare l’evento reale – che i programmi di allunaggio statunitensi possono affrontare con successo anche situazioni imprevedibili. Buono a sapersi, per i prossimi astronauti che partiranno. Ma a noi che ci frega?

Possiamo pure esserci emozionati all’inverosimile durante la visione del film, magari perché apparteneva al nostro genere preferito, ma alla fine, quando si riaccendono le luci in sala, e si deve uscire dal cinema, la sensazione non è così diversa dall’esser scesi da una spettacolare attrazione di Euro Disney: qualcosa che c’ha emozionato nel durante, ma che una volta terminata è andata a scemare, sino a sparire.

L’attimo fuggente batte un altro passo. Metti da parte i tuoi gusti. Magari sei appassionato del genere Apollo 13 e detesti le storie tipo L’attimo fuggente, ma qui non si parla dei tuoi gusti, qui i tuoi gusti sono irrilevanti. Qui rileva solo la struttura dell’opera.

Anche L’attimo fuggente ci fa vivere un’emozione – come Apollo 13, anche se diversa da Apollo 13 – ma, a differenza di Apollo 13, quell’emozione ci consegna un messaggio che, se recepito, ci accompagnerà per il resto della vita. È un messaggio articolato, ricco di sfumature, più complesso di quel che può sembrare a prima vista, ma a ridurlo alla sua dimensione basilare – per renderlo immediato – ci dice quanta forza sia necessaria per mostrarsi agli altri per quel che si è, per manifestare all’esterno quel che si prova dentro, e quanto sia complicato trovare, non tanto la propria strada, ma la forza di percorrerla sino in fondo, quanto alto possa rivelarsi il prezzo da pagare per dire “capitano, mio capitano!”.

Porto alla tua attenzione un tecnicismo di sceneggiatura, visto che ne abbiamo l’occasione.

Uno spettatore disattento può cadere nell’equivoco di vedere nel professor Keating il protagonista nel film: la sua presenza è centrale per lo sviluppo della storia, al punto da poter credere che il film ci parli di lui, del professor Keating e della sua vicenda. Ma il protagonista di una storia – tecnicamente parlando – è sempre e solo il personaggio che va incontro a un cambiamento – totale, parziale o mancato – a seguito degli eventi che lo colpiscono. I protagonisti del film sono quindi i suoi studenti, perché sono loro, gli studenti, a essere spinti dagli eventi esterni della storia verso la possibilità di una trasformazione interna.
 
L’attimo fuggente ha in primo piano la storia di Neil Perry, il ragazzo che alla fine morirà suicida, e dunque incapace di portare a compimento il suo percorso di affermazione di sé.

Ma L’attimo fuggente è anche la storia di Todd Anderson, il più timido di tutti: all’inizio non vuol aggregarsi alla Setta dei Poeti Estinti, è terrorizzato dall’idea di recitare una sua poesia davanti alla classe, e viene infine costretto dai genitori a firmare la petizione contro il professor Keating; ma parallelamente è impegnato in un cambiamento graduale, sottotraccia – si aggrega alla Setta, performa alla grande con la sua poesia dopo un piccolo tentennamento – che culminerà con la chiamata della classe alla rivolta, salendo sul banco con l’invocazione “capitano, mio capitano”.

E L’attimo fuggente ci parla pure di Charlie Dalton, che nel giornale della scuola chiede di estendere alle ragazze la possibilità di frequentare l’Accademia Welton, e si becca senza fiatare una severa punizione corporale; che si disegna un fulmine sul petto e si ribattezza Nuwanda; e infine si rifiuta di firmare la petizione contro il professor Keating  –  “ti ripeto, Neil, che mi chiamo Nuwanda”, lo ricordate, sì?  – andando incontro all’espulsione (quindi alla rinuncia delle opportunità offerte da una scuola così prestigiosa).

E, ancora, L’attimo fuggente è la storia di Knox Overstreet, che si innamora di una ragazza già fidanzata, ma trova ugualmente la forza di farsi avanti, di sopportare tutto ciò che c’è da sopportare, dalla paura all’imbarazzo, pur di conquistarla.

E poi, sì, L’attimo fuggente è anche la storia di Richard Cameron, che quando le cose girano male trova più facile, sicuro e conveniente abbandonare tutto e tutti, confessare ogni cosa al preside e salvarsi le chiappe.

Anche se ciascuno dei ragazzi ha una risposta differente al conflitto, la loro sfida interna è la stessa: è sempre lo stesso tema che ritorna, a vari livelli, con varie sfumature, con esiti differenziati.
 
Il protagonista del film è – astrattamente – un ragazzo che deve prima di tutto capire sé stesso, e poi trovare la forza di affermarsi per quel che è; e questo protagonista ideale prende corpo – a livello funzionale – in n coprotagonisti, i singoli ragazzi, ognuno con la sua storia col suo esito specifico, ma tutte accomunate dallo stesso tema, dalla contrapposizione tra la sicurezza del conformismo e l’eccitazione della chiamata all’individualità, che trasforma il “cogliere l’attimo” da un’enunciazione filosofica a una linea d’azione unificatrice delle singole vicende.

Ci sarebbe poi da discutere della figura del professor Keating, che non è quel personaggio “buono e positivo” che appare a un’interpretazione superficiale – un mentore in grado di far compiere ai ragazzi il salto verso l’età adulta – ma a un’analisi più attenta si rivela un “falso alleato”, per precise ragioni sociologiche, a cui accenneremo nel modulo 18A e su cui torneremo nel modulo 18B.
 
Qui però è altro ciò che va enfatizzato, e precisamente il delicato rapporto tra la realtà del mondo reale e l’arte del mondo della pagina, tra la verità della storia e la verosimiglianza della narrativa.

Prendiamo come controesempio il film L’uomo che vide l’infinito, la vera storia del matematico indiano Srinivasa Ramanujan. “Storia vera” assume qui un significato totalizzante, perché la realtà della vita di Ramanujan oltrepassa qualunque immaginazione, parliamo di una di quelle vite che ti fa ripetere, con l’Amleto di Shakespeare, “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”.

Imparò la matematica da autodidatta, senza nessuna formazione sistematica, e all’età di 11 anni discorreva alla pari con gli equivalenti dei nostri studenti universitari. Tirava fuori teoremi incredibili uno dietro l’altro, e quando gli si chiedeva la dimostrazione faceva spallucce. Il teorema, diceva, lo aveva letto sulla lingua della dea Namagiri, che la notte gli era apparsa in sogno. E quel teorema, poi, a distanza di decenni, si dimostrava vero.
 
La stupefacente espressione dell'inverso di pi-greco,
riportata senza dimostrazione in un articolo di Ramanujan del 1914,
e dimostrata vera dai fratelli John e Peter Borwein nel 1987.

Il matematico inglese Hardy  – un’autorità di inizio Novecento – intuì di trovarsi di fronte a un genio, quando ricevette una sua lettera che qualsiasi altro professore avrebbe giudicato delirante. Lo invitò Londra, ma la madre di Ramanujan si oppose al trasferimento. Ci pensò ancora una volta la dea Namagiri a sistemare le cose: apparve in sogno alla madre e le ordinò di lasciare andare il figlio.

La vita di Ramanujan, a Londra, fu parecchio complicata: non c’era nulla che combaciasse col suo stile di vita, era tutto diverso, dalle cose più banali sino alle più importanti. Si ammalò e fu ricoverato. E quando Hardy lo andò a trovare in ospedale si verificò un evento che lascia stupefatti.
 
Dalla prefazione di Charles P. Snow a Apologia di un matematico, di Godfrey Harold Hardy.
 
Il fascino del film L’uomo che vide l’infinito è tutto e solo nell’essere una storia vera. Se qualcuno l’avesse partorita dalla sua fantasia, se gli episodi di cui ti ho dato un campionario non fossero tutti reali, ma semplicemente inventati, il film sarebbe stato di una banalità imbarazzante, espressione di una creatività povera, ingenua, debole. Pensa all’episodio del taxi. Quale fascino potrebbe mai avere, se non fosse un fatto reale, ma costruito bell’apposta? Al dio creatore – scrittore o sceneggiatore – serviva che il taxi fosse il numero 1729, e ha fatto sì che fosse proprio il 1729. Bah! 
 
E invece è tutto vero, ed è solo il fatto che sia tutto vero, e non vi sia nulla di inventato, a rendere interessante il film.
 
Ma ora riflettiamo: se l’interesse è tutto e solo nell’essere una storia vera, dove mai sarebbe il genio creativo dell’autore? Certo, un film – a differenza di un libro – può affermarsi per una molteplicità di ragioni: l’interpretazione di un personaggio da parte di uno specifico attore, la scenografia o gli effetti speciali, o anche solo la colonna sonora e le musiche (chi non ricorda i motivetti di Frozen? Anzi, a dirla tutta, Frozen ce lo ricordiamo solo per le sue canzoncine). Ma in un libro – ci torneremo nel modulo 6 – non c’è nulla di tutto questo. In un libro ci sono solo parole su una pagina, che mostrano la nostra storia come può mostrarla una sequenza di segni grafici. In un libro non c’è altro: la storia e la scrittura con cui prende vita monopolizzano tutto.
 
Nella musica, come altrove, è molto facile sgamare gli impostori,
rilevare i loro deficit artistici, che sono sempre deficit di esecuzione della prestazione tecnica.
Ma nella musica, come altrove, si può sempre sviare l’attenzione dall’esecuzione della prestazione
alla più generale performance complessiva.
E così un cantante può trovar modo di far parlare di sé non per come canta,
ma per il siparietto che ha inscenato durante l’esibizione.
In scrittura funziona esattamente al contrario.
Può non essere così facile denunciare gli impostori,
ma una volta che l’impostore è stato scoperto, allora non ha più nessun luogo in cui nascondersi,
nient’altro su cui dirottare l’attenzione del pubblico, per non fargli accorgere delle sue mancanze.
 
Trascrivere la storia di Ramanujan darebbe sicuramente luogo alla biografia di un personaggio straordinario, ma cosa c’entra questo con la narrativa? E, allo stesso modo, L’uomo che vide l’infinito c’entra poco con la filmografia. Assomiglia piuttosto a un gran bel documentario, così particolare e ben fatto che lo si segue non solo con interesse ma anche con gran trasporto emotivo, come se fosse un film, anche se alla fine rimane un documentario, come in fondo lo è Apollo 13, e come lo sono tutti i film che traggono la loro forza dalla pura realtà degli eventi reali.
 
Ma se della storia non rimane più nulla, una volta che la si è privata della sua radice reale, allora quella storia non funziona – non potrà mai funzionare – sul piano artistico.
 
Ti porto un quarto e ultimo esempio, che dovrebbe chiarire definitivamente il punto e chiudere il cerchio: A civil action, un film basato su un fatto realmente accaduto e descritto in un libro di Jonathan Harr.
 
Lo analizzeremo in dettaglio a tempo debito, perché rappresenta un esempio magistrale di come sceneggiare a regola d’arte. Qui può bastare un accenno: il film prende spunto da un caso reale, ma non si limita riproporlo tale e quale; l’avvocato Jan Schlichtmann e la sua vicenda sono abilmente trasformati in un personaggio e in una storia a tutti gli effetti – nel senso tecnico dei termini “personaggio” e “storia” – di eccezionale valore artistico; nulla cambierebbe, in definitiva, se la storia fosse totalmente inventata; la realtà ha qui dato lo spunto, ma poi quello spunto è stato modellato, forgiato e rifinito per tirarne fuori una storia che sta in piedi da sé, indipendentemente dal motivo che ne ha offerto occasione. 
 
Quel che va capito è che non c’è merito artistico a riproporre – su una pellicola o su una pagina – la realtà così com’è, magari giustificando scelte tecnicamente deboli o addirittura sbagliate – difetti di costruzione, sproporzioni o ridondanze nei personaggi, squilibri nella gerarchia degli eventi – con quel che Pontiggia chiamava il pregiudizio realistico, l’ostinazione a riportare le cose esattamente come sono andate in un malinteso senso di aderenza dell’arte alla realtà.
 

Estratto dalla
“Lezione 10 – Realismo senza pregiudizio” di Giuseppe Pontiggia.
 
Scrivere (narrativa) non è mai trascrivere.
 
Trascrivere aiuta a pensare, a far chiarezza, ma non serve a scrivere bene, per quanto appropriate e raffinate siano le parole scelte, perché nel trascrivere mancano del tutto il desiderio di sorprese e l’attesa di novità.
 
Scrivere (narrativa) è principalmente inventare, nel senso etimologico del termine, invenire, trovare attraverso le parole, scoprire sulla pagina ciò che non si conosceva, grazie all’intermediazione del linguaggio scritto.
 
 
Noi leggiamo narrativa per ricevere un messaggio dentro il contenitore di un’emozione vissuta da un personaggio diverso da noi.

Noi, quindi, scriviamo narrativa per riempire di messaggi le emozioni vissute dal nostro personaggio, nella nostra storia, affinché arrivino a chi ci legge.

L’emozione deve contenere un messaggio, e quell’emozione – col suo messaggio – è veicolata attraverso la vita del personaggio.

E ora ragioniamo. Come puoi far vivere ai tuoi lettori la vita del tuo personaggio, se tu, scrittore, quella vita non la conosci?

Come puoi scrivere in modo credibile di un chirurgo, se tutto quel che sai di medici e ospedali l’hai appreso da qualche serie televisiva? Come puoi scrivere di un prete, se non vai a messa dai tempi della prima comunione? Come puoi parlare di soldati, se rimani distratto persino quando il telegiornale passa i servizi sulla guerra in Ucraina?

Magari tu vorresti scrivere di un chirurgo, di un prete o di un soldato perché pensi che le loro vite siano ricche di emozioni e significati, oppure perché un certo argomento è salito alla ribalta mediatica – la pandemia, gli scandali nella Chiesa, la guerra – e astrattamente sembra garantire una buona base di pubblico, di lettori; ma se fino a quel momento tu quell’argomento lo ignoravi, se non ne sapevi nulla, e ora ne vuoi scrivere solo per “cavalcare l’onda”, cosa ti illudi di poter produrre?

 
Estratto dalla “Lezione 29 – Aggettivi legati alla moda” di Giuseppe Pontiggia.

Non importa quanto approfondita sia la tua conoscenza tecnica della scrittura, se hai la presunzione di scrivere di cose che non conosci: perché, inevitabilmente, quelle conoscenze teoriche ti sarà impossibile applicarle.
 
La qualità della scrittura non potrà mai superare il livello di conoscenza dell’argomento di cui vuoi scrivere: se tutto quel che hai a disposizione è un sacco di juta, poco importa che tu sia un sarto affermato o un apprendista alle prime armi, perché quel che ne verrà fuori, qualunque cosa sia, sarà comunque fatto di juta.

 

I MAESTRI MUTI

Infine era arrivato in cima al monte. Per otto anni aveva osservato il maestro muto dalla finestra della sua cella. Era così maestoso da fare apparire i reticoli e le mura spinate come grottesche trappole umane. Lontano dai latrati dei secondini e dalle imprecazioni dei carcerati, quel gigante appariva immutabile ed eterno eppure era diverso ad ogni ora del giorno. All’alba era nero e imponente, con il levarsi della luce s’infiammava di rossi, nelle giornate assolate si vestiva di verde, in quelle cupe s'ammantava di pervinca, al tramonto era blu.

Di notte, quando i detenuti dormivano e la ronda ritmava il passaggio tedioso delle ore, gli sussurrava che presto si sarebbero incontrati e avrebbero atteso insieme un nuovo giorno.

Non avrebbe potuto fare un altro passo senza crollare al suolo. La fatica era una carovana di formiche che gli attraversava vene e arterie, e tormentava i muscoli con miriadi di punture. Le mani appoggiate sui ginocchi e il cuore che tamburava tra le costole. Avrebbe voluto raddrizzarsi, ma era troppo stanco per ordinare al suo corpo di obbedire. Osservava le stille di sudore che dal mento tremolante gocciavano sulla pietra ed esplodevano in minuscoli schizzi.

Gli unici suoni che avvertiva erano il sibilo dell’aria che spalancava i polmoni e lo sbuffo liberatorio che ne seguiva. Aspettava che il corpo smettesse di distrarlo per alzare lo sguardo.

Quanta fatica per giungere lì, con il terrore di precipitare a gravare i passi, e il timore di svegliarsi e di scoprire che era stato l’ennesimo sogno consumato in una cella. Ma ora non valeva pensare né ricordare.

Uno scatto di reni, le gambe leggermente divaricate e le braccia stese con i palmi delle mani rivolte all’esterno.

La Conca d’Oro si stendeva come un’amante sazia, cinta dalla corona di monti e avvolta nella brezza marina. Non c’erano ostacoli a fermare lo sguardo, a mortificare lo stupore, a dissolvere il piacere di sentirsi parte di qualcosa, figlio di qualcuno.

Erano trascorsi otto anni dalla farsa processuale che aveva mandato in galera un innocente, eppure lui continuava a farsi coraggio e a ripetere che “La verità viene sempre a galla”.

Non si fidava più degli esseri umani e delle loro leggi. Sua moglie aveva deciso di non seguirlo “nella cattiva sorte” e l’avvocato si era recato in visita in carcere solo una volta, per comunicargli che avrebbe presentato il ricorso se lui fosse stato in grado di fornirgli i mezzi necessari per avviare nuove indagini, acquisire prove, cercare altri testimoni. Gli amici a cui aveva chiesto aiuto si negavano al telefono o rifiutavano le sue chiamate al centralino.

Era solo, tra guardie e carcerati che si contendevano lo stesso spazio e la stessa pena. Una solitudine tra miriadi di solitudini da cui si allontanava per trovare la forza di resistere.

La scarcerazione era arrivata improvvisa, annunciata dal clangore della chiave e dalla porta della cella spalancata in un’ora insolita.

Il direttore del carcere lo aveva convocato nel suo ufficio. Un coro di fischi e insulti lo aveva accompagnato lungo il corridoio e giù per le scale che conducevano al piano terra. La guardia camminava in fretta per schivare la gragnola di oggetti ed escrementi con cui i detenuti colpivano chiunque fosse convocato in direzione.

Non ricordava quasi nulla di ciò che il direttore gli aveva detto. Era rimasto in piedi, con lo sguardo fisso alla scrivania. Sapeva che in molti erano stati puniti o mandati in isolamento per aver fatto commenti sull’ustione che l’uomo aveva sul viso e il collo. I detenuti si divertivano a inventare storie, dicevano che era stata la madre a “cucinare il porco” per il pranzo di natale e che gli avanzi erano finiti a dirigere il penitenziario, che era il “marchio del diavolo”, il tentativo della moglie di disfarsi del marito.

In realtà, il direttore non aveva conosciuto la madre e non si era mai sposato. Da anni viveva nel penitenziario e dormiva sul divano del suo ufficio. Fuori dal carcere era un uomo ignorato, in carcere nessuno avrebbe osato ignorarlo.

Il colloquio era finito e le uniche parole che aveva capito erano: “Sei un uomo libero”.

Gli avevano restituito i vestiti, le scarpe, l’orologio, le chiavi di casa e dell’auto, il cellulare e il portafogli con i documenti. Nessuno gli aveva stretto la mano e nessuno lo aspettava nello spiazzale antistante l’istituto penitenziario.

Fuori faceva caldo e la luce era insopportabile, ma lui aveva fretta di andare. Non aveva tempo né voglia di pensare. Non ora. Si era fermato davanti a un cassonetto, aveva gettato il cellulare, le chiavi e l’orologio. Era ancora una solitudine tra miriadi di solitudini. Ma ora aveva uno scopo e una meta da raggiungere.
 

 

 
Il racconto I maestri muti ci parla di un uomo ingiustamente condannato, e poi liberato, che decide di arrampicarsi su quel monte che scorgeva dalla finestrella della sua prigione.

Soprassediamo sullo stile di scrittura, e soprassediamo pure sul messaggio che la storia vorrebbe veicolare (però, se vuoi, analizzane da solo le debolezze, alle luce di ciò che abbiamo detto sinora, e magari ritorna qui dopo aver studiato i moduli più tecnici, per capire tutto ciò che non va sul piano strutturale e stilistico).
 
Soprassediamo su tutto, e poniamoci una domanda elementare, anzi la più elementare delle domande: ma l’autore cosa ne sa di carceri e di carcerati?

C’è da pensare che – per fortuna sua – non ne sappia assolutamente nulla. E sapete da cosa lo si capisce? Dai dettagli che ha scelto, dalle scene che ha immaginato.
 
Un coro di fischi e insulti lo aveva accompagnato lungo il corridoio e giù per le scale che conducevano al piano terra. La guardia camminava in fretta per schivare la gragnola di oggetti ed escrementi con cui i detenuti colpivano chiunque fosse convocato in direzione.
 
Fermati un attimo a riflettere: dov’è che l’hai già vista questa scena? Pensaci.
 
Ma sì, certo, è la classica, brutta scena di tutti i film americani di second’ordine in cui vi sia un personaggio rinchiuso in carcere. Ecco qual è la conoscenza usata per progettare questo passaggio narrativo: una brutta scena da film medio.

Come qui, d’altra parte.
 
Gli avevano restituito i vestiti, le scarpe, l’orologio, le chiavi di casa e dell’auto, il cellulare e il portafoglio con i documenti. Nessuno gli aveva stretto la mano e nessuno lo aspettava nello spiazzale antistante l’istituto penitenziario.
 
Già visto decine, se non centinaia di volte, sempre lì, nelle brutte scene dei film americani (poi scopiazzate dai film italiani e infine riversate nel mondo della pagina dagli scrittori improvvisati).
 
Che l’autore non sappia di cosa stia parlando lo si capisce anche da passaggi come questi.
 
La Conca d’Oro si stendeva come un’amante sazia, cinta dalla corona di monti e avvolta nella brezza marina.
 
La fatica era una carovana di formiche che gli attraversava vene e arterie, e tormentava i muscoli con miriadi di punture. 
 
Le modalità d’uso delle figure retoriche in narrativa saranno discusse nel modulo 15E. Qui mi limito a un’osservazione generale: lo scrittore – il vero scrittore, intendo, chi scrive sapendo ciò di cui sta scrivendo – dispone di tonnellate di dettagli, e il suo problema è selezionare i migliori e presentarli nel giusto ordine; quando invece si ha la pretesa di scrivere di cose che non si conoscono, ecco che i dettagli scompaiono, e tocca surrogarli – a esempio – con le figure retoriche e la pseudo-poesia, che in definitiva servono solo a celare l’ignoranza sull’argomento, sotto una parvenza di arte che di artistico non ha proprio nulla.
  
Che poi, di là di tutto, come è possibile che di punto in bianco, dal nulla, senza che nella storia vi sia il pur minimo preavviso, il personaggio venga scarcerato, quando ormai il mondo intero si era dimenticato di lui?
 
La scarcerazione era arrivata improvvisa, annunciata dal clangore della chiave e dalla porta della cella spalancata in un’ora insolita.
 
Il colloquio era finito e le uniche parole che aveva capito erano: “Sei un uomo libero”.
 
Qui la sospensione dell’incredulità viene meno, l’illusione narrativa scompare. L’autore ha dissipato il credito concesso dal lettore. Semplicemente aveva bisogno di far uscire il personaggio dal carcere e… l’ha fatto uscire! Ha utilizzato nel peggiore dei modi l’onnipotenza del dio creatore, rendendo possibile nella pagina un evento che lascia il lettore sconsolato.

Più in generale – ne parleremo nel modulo 16 e vedremo un’applicazione nel modulo 24L – in una buona sceneggiatura non esistono “eventi improvvisi”: se il demone del caso sovraintende il mondo reale, il principio di necessità governa il mondo della pagina; ogni scena scritta per il mondo della pagina è conseguenza delle scene precedenti o presupposto per scene successive; tutto è connesso, intrecciato, consequenziale, in una narrativa fatta a regola d’arte; la (s)fortuna può pure esserci, sì, ma non è mai la (s)fortuna a determinare l’andamento della storia, altrimenti la storia non avrebbe senso, nessun significato da restituire al lettore.
 

Estratto dalla “Lezione 23 – Le vocali non sono innocenti” di Giuseppe Pontiggia. 
 
Mandare avanti una storia a botte di culo e a colpi di sfiga è il segno inequivocabile della perdita del suo controllo, o più probabilmente la conferma di non averlo mai avuto, e, di là di tutto, è una scelta che procura un fastidio insopportabile  in ogni spettatore minimamente evoluto, sin dai tempi di Aristotele.

 
Ma, insomma, si può sapere perché l’autore ha voluto scrivere una storia su un argomento di cui con tutta evidenza non conosceva nulla?
 
Probabilmente perché è caduto nel tipico errore del principiante, alla lettera, senza offesa, l’errore di chi “è ancora al principio del suo percorso autoriale”: scrivere di un argomento, anche se non lo si conosce, solo perché giudicato ad alto impatto emotivo, dimenticando che l’emozione si presume presente in qualsiasi argomento di cui si decida di scrivere, e va suscitata con la buona scrittura, e non già esasperando l’argomento su cui la scrittura si appunta.
 
Dall’errore generale, di impostazione, ne sono seguiti tutti gli altri: far ricorso massiccio a cliché provenienti da sorgenti informative scadenti come i brutti i film americani, sino a farne passaggi nodali della narrazione; infarcire il testo di figure retoriche inutili e di dettagli deboli, per surrogare la mancanza di informazioni di qualità; abusare della propria onnipotenza sino a rendere possibile nel mondo della pagina, per mera necessità narrativa, eventi che lascerebbero esterrefatti se mai si verificassero nel mondo reale.
 

 

Tu non vuoi lettori come “sinapsineuronica”, proprio no, assolutamente no!
Tu non vuoi gente incapace di accorgersi che hai ripreso le tue scene dai brutti film americani
(e, prima ancora, tu non vuoi proprio infilare nel tuo testo le brutte scene di un film medio).
Tu vuoi lettori più simili a “Hollyy”, pronti a incalzarti sull’incoerenza delle tue scelte narrative.
E li vuoi più severi di “Hollyy”, perché tu non hai bisogno di sentirti dire “è scritto bene”,
come forma di scusa per una critica al testo del tutto legittima e ben centrata.

Voltiamo pagina.


FELICITÀ TANGIBILE 
 
“Togliti quegli straccetti, non vorrai farmi fare una figuraccia!”

Mi fissi dal centro della stanza. Un lampadario di vetro blu pende sopra il tuo turbante di seta. La fronte color cacao è accartocciata, ma i tuoi occhi, liberi dalla costrizione delle sopracciglia, sono colorati dal divertimento.

Come ogni napoletana di buona famiglia hai un guardaroba da migliaia di lire, ma una macchina che ne vale poche centinaia. Tagliamo la città chiuse in questa scatoletta cigolante da cui fuoriescono gorgheggi di Mina e fumo di Marlboro rosse. Ti accosti in doppia fila. Vuoi comprare due peperoni per cena. Potranno rimanere nel portabagagli. Fa un freddo anomalo per questa città: sono i primi giorni di dicembre. Sulla strada, le mani forti dei bancarellisti sparecchiano i tavolacci che hanno ospitato le statuine dei presepi. Mentre ti aspetto li guardo lavorare e scambiarsi frasi incomprensibili, con i mozziconi sempre appiccicati alle labbra. Pigio forte la borsetta tra le gambe. L’abbiamo comprata ieri all’Upim, insieme alle calze di nylon con i cuoricini. Ho paura che qualcuno di loro me la sfili, anche se so bene che smuoveresti l’intera città, per pigliare quei mascalzoncelli. Sono la figlia di tuo fratello, ma anche la bambina che avresti disegnato per te. Lo vedo da come mi osservi mentre ti aiuto a correggere i compiti dei tuoi alunni. Fai finta di non accorgerti di una “e” senza accento, o di una doppia mancante. “Uah! Brava”.

Stavolta ci fermiamo per restare qualche ora. Un parcheggio dalle manovre sicure e un velo di rossetto color ciclamino sulle labbra. Ti giri, mi dai uno schiaffetto sulla guancia e mi inciti: “Jamm!” Brilli di eccitazione. La tua mano sottile afferra con decisione la giacchetta di taffetà. Tocchi l’asfalto con le scarpette appuntite e ti lisci la gonna. Poi mi prendi per il fianco, e mentre camminiamo mi poggi l’orecchio spalla. “Cara ragazza, sai che tango in latino significa ‘io tocco’? Sei pronta a ballare?”

E ridi con le pupille, con le guance scure e avvizzite, con le labbra truccate, con il seno, quel seno impastato del male che ti dovrebbe togliere il riso ma tu ridi, ridi, ridi ancora, e tocchi me.

 
Qui siamo di fronte a un piccolo miracolo stilistico, se pensiamo che l’autore non ha nessuna conoscenza tecnica di scrittura (se l’avesse, solo per dirne una, non avrebbe mai iniziato il racconto con una battuta di dialogo, e non avrebbe mai usato il discorso indiretto). Eppure il testo è ottimo. Con numerosi e diffusi errori tecnici – alcuni banali, altri gravi – ma complessivamente rimane una stesura notevole, che può essere corretta, e alzata di livello, con uno sforzo tutto sommato ragionevole.

Perché l’autore, qui, sa di cosa sta parlando, o almeno dà la sensazione di saperlo. Lo si capisce ancora una volta dalla scrittura, fatta di dettagli che, per quanto possano sembrare semplici, sono concreti, vividi, caratteristici dei personaggi e della situazione in cui si trovano, e molto ben incastrati tra loro. La mancata padronanza del tecnicismo di scrittura – evidente dagli errori presenti – è stata più che compensata dal fatto di sapere ciò di cui si scriveva.
 
Voltiamo ancora una pagina.


ROMA PUZZA DI CAVOLO BOLLITO
 
La Roma pontificia puzza di grasso, broccoli e cavolo bollito, anche perché tutti cucinano all’aria aperta.
 
Città ricolma di rifiuti, attraversata da greggi e mandrie di bufali, ma solare e perfino ridente con tutti i suoi ruderi che giganteggiano fra orti e palazzi. Le strade si allagano a ogni pioggia un po’ sostenuta, e l’acqua può toccare il secondo e anche il terzo piano delle case, complice il puntuale straripamento del Tevere.
 
I piaceri leciti sono abbastanza limitati: il passeggio, le capanne a Ripetta, il bagno al fiume, i limonari nelle piazze, le sempiterne osterie con il vino gessoso dei Castelli.

 
Roma puzza di cavolo bollito non è un testo narrativo; è un collage di alcuni articoli di stampa a ridosso del 20 settembre 1870, il giorno della “breccia di Porta Pia”.
 
Non è narrativa, ma è molto meglio di tanta narrativa, e il motivo – a questo punto – dovresti averlo capito: dettagli, dettagli, dettagli, e ancora dettagli; dettagli che solo chi conosceva davvero la Roma pontificia era in grado di scrivere; la narrativa – come ogni altra forma d’arte – è fatta di dettagli, e la qualità dei dettagli, magari non risolve in automatico la qualità dell’opera, ma di sicuro aiuta a risolvere.
 
Molte persone non hanno mai letto un romanzo in vita loro, però diventano straordinariamente brillanti quando parlano di calcio, di scacchi, di piante, di monete antiche o di birra: perché parlano di qualcosa che sta loro a cuore, che conoscono a fondo, di cui posseggono i dettagli interessanti.
 
Trattieni quindi questo messaggio fondamentale: devi sapere di cosa stai scrivendo, perché la conoscenza di ciò di cui si scrive è di per sé un fattore mitigante degli errori di scrittura, e, in senso inverso, la mancata conoscenza amplificherà la naturale tendenza a commettere errori.
 
Se vuoi scrivere di un chirurgo impegnato in un intervento al cuore di un bambino, ma non sei un chirurgo, né un infermiere che assiste un chirurgo, né hai mai parlato con un chirurgo o un infermiere, se non hai la minima idea di come sia fatta una sala operatoria, e non sai distinguere i diversi tipi di bisturi, e se tutto quel che conosci di chirurgia proviene in definitiva da qualche puntata di E.R. – Medici in prima linea, cosa mai potrai scrivere? Un rimescolamento di ciò che già si trova in E.R. – Medici in prima linea”, ovvio no?

O speri di trovare il pirla che dirà oh-mio-dio-che-emozione-c’è-un-intervento-al-cuore-di-un-bambino? Magari ci saranno pure lettori così, ma tu quei lettori non li vuoi –  se ci sono, bene, ma non è a loro che stai puntando – e a ogni buon conto questo manuale – ricordiamolo – è scritto per chi ha in testa come minimo dei lettori tiepidi, gente mediamente intelligente, che non ti deve niente, non ha tempo da perdere, e può quindi abbandonare la lettura in qualsiasi momento.
 
 
Suona sgradevole, ma se il mio personaggio è una ragazzina anoressica, la situazione migliore in cui posso trovarmi è essere stata io stessa una ragazzina anoressica, aver vissuto l’esperienza sulla mia pelle. Nessuno – come chi ci è passato – può capire le ragioni profonde per cui il cibo, all’atto di accostarsi alla bocca, è come se dovesse ricevere il nullaosta del cervello, e, avendo un diniego, rimane fuori o comunque fatica a entrare (e se pure entra non è detto che ci rimanga, ché il cervello potrebbe ordinare di rispedirlo indietro: da dove è entrato, ora deve uscire). Nessuno può sapere e capire davvero cosa c’è nell’animo di chi vive l’anoressia, se non chi l’anoressia l’ha vissuta o la vive direttamente, in prima persona.

Okay, d’accordo, magari non sono mai stata malata di anoressia – viva Iddio! – però sono una dottoressa o una psicologa che da decenni si occupa di aiutare ragazze anoressiche. Io non so cosa ci sia esattamente nella testa di queste ragazze, perché possono saperlo solo loro, e ognuna di loro avrà in testa delle cose sue proprie, anche molto diverse da ciò che hanno in testa le altre. Ma io ne viste tante, a decine, a centinaia, e con ognuna di loro sono entrata in stretta confidenza. Io non so cosa voglia dire essere anoressica, ma dispongo di un campione abbastanza vasto di esperienze altrui, e quindi, seppur indirettamente, so di cosa si parla quando si parla di anoressia.

O forse la situazione è un’altra ancora. Io non sono mai stata anoressica e non ho mai conosciuto nessuna anoressica; però questo fenomeno mi ha sempre incuriosito, ho sempre avuto un personale interesse a comprenderlo a fondo. Ho letto tutti i libri autobiografici scritti da ragazze anoressiche; ho visto tutti i reportage sull’argomento; per quanto possibile, nei limiti delle mie capacità, ho consultato anche articoli scientifici; e anche se non sono anoressica e non ho mai davvero conosciuto anoressiche, grazie a internet ho dialogato con alcune di loro virtualmente, su siti o forum; e su tutta questa mia conoscenza – puramente teorica, lo ammetto – ho riflettuto a lungo e rifletto ancora, di continuo, sforzandomi di collegare e razionalizzare tutto ciò che so, per capire sempre di più, per capire sempre meglio.
 
È chiaro, ora, cosa sono una conoscenza diretta, una indiretta e una teorica? O servono altri esempi? Ma sì, dai, vediamo ancora un caso.

Io non sono mai stata una ragazzina anoressica, né una dottoressa che si occupa di anoressia, e dell’anoressia non mi è mai importato nulla. Almeno fino al giorno in cui mia figlia lo è diventata. In quel momento, in quel preciso istante, sono stato catapultato in un mondo per me sconosciuto, che mai avrei pensato di dover esplorare in ogni suo anfratto, alla ricerca di una via di uscita per mia figlia e di riflesso per me. Il mondo dell’anoressia lo conosco bene. Non sono mai stata anoressica, non ho nessun campione statistico di anoressiche a cui riferirmi, e men che meno ho studiato l’argomento. Ma so di cosa si parla, quando si parla di anoressia. Lo so dal punto di vista di un genitore, e allora, se voglio scrivere di anoressia, scriverò la storia di un genitore che si ritrova con una figlia anoressica, e parlerò della sua battaglia per aiutare la figlia, perché io è questo che conosco – lo stato d’animo del genitore, i suoi pensieri, le sue parole, le sue percezioni, le sue azioni – e bisogna scrivere sempre e solo di ciò che in qualche modo si conosce. 

Chiaro, adesso, cosa sono una conoscenza diretta, una indiretta e una teorica?
 
Chiediti sempre, prima di iniziare a scrivere, se conosci l’argomento e, in caso affermativo, quale sia la fonte da cui proviene la tua conoscenza – se diretta, indiretta o teorica – quanta ne possiedi effettivamente e da quale punto di vista, per regolarti di conseguenza nella tua scrittura, per dare sempre a chi ti legge almeno la sensazione di essere un’autorità sulla materia, di sapere di cosa stai scrivendo.

Verrebbe da pensare che la situazione migliore si ha quando si posseggono tutti e tre i tipi di conoscenza – diretta, indiretta e teorica – quando la nostra dottoressa c’è passata lei stessa per l’anoressia, e proprio questa sua esperienza diretta l’ha spinta poi a voler trarre in salvo altre ragazze, accumulando così altre esperienze oltre la sua, esperienze indirette, ognuna con le proprie sfumature, di cui magari sarà venuta a capo grazie a una dedizione che l’ha spinta a saperne quanto più possibile sull’argomento, studiando in continuazione da ogni fonte giudicata utile.

Sì, ovvio, avere tutti e tre i tipi di conoscenza è la situazione migliore. Ma non serve attingere a tutte e tre le fonti, per scrivere storie emozionanti. Ne basta anche una sola, e non necessariamente deve essere la fonte diretta.

Potrebbero darsi casi in cui una conoscenza indiretta, o anche solo teorica, purché solida e ben sistematizzata, si riveli superiore a una conoscenza diretta non ancora adeguatamente rielaborata e compresa per poterne scrivere.
 
Posso voler scrivere di barboni, ma io – viva Iddio! – non sono un barbone. Però, magari, ho dedicato dieci anni della mia gioventù al volontariato, sono stato a stretto contatto con barboni di ogni tipo, quando i miei amici se ne andavano in giro per locali e discoteche. Non sono un barbone, ma ne so abbastanza di barboni da poterne scrivere credibilmente, ne so abbastanza per apparire autorevole agli occhi dei lettori, per fargli dire “ehi, questo sì che sa di cosa sta parlando”,  e alzare così su un piano più alto la loro sospensione dell’incredulità e avere di conseguenza maggiore spazio per la mia storia, per farli emozionare. E sicuramente posso farlo meglio io, con la mia conoscenza indiretta, che non un barbone vero e proprio, che pure la condizione di barbone la vive sulla propria pelle.
 
In molti casi, poi, la conoscenza teorica è l’unica possibile, basti pensare al romanzo storico: se il mio personaggio è un garibaldino, piazzato sullo scoglio di Quarto l’11 maggio 1860, io non posso far altro che studiare il Risorgimento più a fondo e meglio che posso.

La conoscenza teorica sull’animo umano, a ogni buon conto, non è mai eludibile, perché – ricordiamolo – una narrativa ben fatta obbedisce a un precetto fondamentale: dietro l’oggetto immediato, in primo piano, la curiosità del lettore sia guidata verso un secondo piano, e da qui verso prospettive ancora più distanti.

Tu non scrivi di anoressia, di barboni, di medici, di pirati, di teenager, di streghe o principesse. Tu scrivi sempre e solo di cose che toccano le corde dell’animo umano, suscettibili di scuotere l’animo umano, capaci di risuonare con l’animo umano, e che prenderanno forma, di volta in volta,  nella storia di una ragazzina anoressica, di un barbone, di un medico, di un pirata, di una strega, in funzione della tua conoscenza di quell’argomento, che ti permetterà di selezionare i dettagli migliori per veicolare il messaggio che dà anima e respiro alla tua storia.

Devi conoscere la natura umana, documentarti sui nostri sentimenti morali, approfondire i meccanismi della persuasione, farti un’idea sui processi del nostro cervello.
 
Mi spieghi dove pensi di andare, senza queste letture?
Non dico in scrittura, ma proprio nella vita
 
E che non ti salti in testa di sottovalutare l’importanza della documentazione, dello studio, dell’approfondimento, solo perché l’argomento – nel sentire comune – appare frivolo.
 
Se scrivi di qualcosa è perché quella cosa ha per te grande rilevanza, perché la percepisci importante, altrimenti non ne scriveresti per condividerla con altri. Se altri pensano che tu stia scrivendo delle stupidate colossali, affari loro. Per te, che ne scrivi, hanno la massima importanza, perché tu scrivi delle cose che ti urgono in gola, ma il rispetto per il lettore (e prima ancora per te stesso) ti impone di moderare quell’urgenza col dominio di ciò di cui vuoi scrivere.
 
Quindi, per dire, se vuoi scrivere di draghi, fai un favore all’umanità: documentati sui draghi.
 
Dalla presentazione del libro:
“Ogni specie di drago ha caratteristiche fisiche e sociali 
che ne determinano preferenze e necessità variabili nel corso dell’anno e nell’arco di vita.
Alcune specie sono migratrirci, altre superano i periodi difficili andando in letargo
e solo una minoranza sono stanziali e attive in tutte le stagioni.
L’opera si compone di 15 capitoli dedicati a draghi europei e mediterranei
come viverne, idre, basilischi e tarasche.
Di ogni specie vengono date una introduzione storico
e un approfondimento naturalistico su temi di fisiologia,
ecologia e problemi ambientali attuali.
 
Lo scrittore è un persuasore: deve convincere emozionando, veicolare la verità di un messaggio attraverso le emozioni; ma non potrà mai riuscirci se lui per primo non si cala a fondo nella realtà di cui vuole scrivere.

Bisogna esser capaci di capire e anche di avere molte personalità; giacché nessuno si lascia meglio convincere che dai simili, o da chi crede simile” – scrive Prezzolini – “Il persuasore deve stare coi santi in chiesa e coi ghiottoni in taverna, e far la voce del lupo fra i lupi, zoppicar con gli zoppi e urlare con gli indemoniati; però cercando d'essere sempre più santo, più ghiottone, più lupo, più zoppo e più indemoniato dei compagni”.

Quando si dice che lo scrittore è come il medico o il carabiniere – sempre in servizio – che deve prendere tonnellate di appunti in qualunque situazione si ritrovi coinvolto – dalla sala di un consiglio di amministrazione alla camera da letto, dalla fila al supermercato a un’aula di tribunale, da un tragitto in autobus a un safari nel deserto, da un letto di ospedale a una passeggiata in montagna – si intende proprio questo: che deve creare un deposito di conoscenze il più possibile vasto, ricco, variegato, perché nulla è estraneo alla scrittura, perché scrivere impone di chiamare a raccolta tutte le proprie risorse – fisiche, psichiche, intellettuali, materiali – e perché non si può mai sapere come una certa conoscenza o competenza, un’annotazione, una fotografia o un frammento di conversazione, si potranno rivelare utili allo sviluppo della propria scrittura.
 
Puoi pure avere tutta la buona volontà del mondo, ma senza materiali da assemblare in immagini e modelli, cosa pensi di poter produrre?
 
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma non è solo il principio fondante della Chimica e della Fisica. È una posizione filosofica sulla conoscenza in sé. Il cervello umano (e non solo umano) può soltanto operare su cose note – ovvio, no? – e riconfigurarle di volta in volta in modi diversi. Un pesce avrà difficoltà a immaginare qualcosa di diverso da un pesce alato, se tutto ciò che conosce sono i pesci del suo laghetto e le farfalle che vi svolazzano sopra.

L’originalità è esclusivamente nella riconfigurazione, non negli elementi in sé, ma più elementi informativi si hanno, più cresce il numero di possibili riconfigurazioni, e con esso la possibilità di creare opere originali, nel senso – l’unico possibile – di riconfigurazioni non ancora viste o viste non troppe volte.
 
In alcuni casi può bastare poco, quasi nulla, per tirar fuori un’idea geniale (pensa all’hula-hoop: viene fuori dalla ricombinazione di tre concetti semplicissimi, singolarmente elementari – “tubo di plastica”, “cerchio”, “roteare” – ma che messi insieme hanno prodotto un gioco evergreen). Può in effetti accadere – e talvolta accade – che la riconfigurazione di cose anche banali dia poi luogo a risultati esplosivi, un po’ come con la nitroglicerina – sostanzialmente la dinamite – che vien fuori da due componenti – l’acido nitrico e la glicerina – di per sé di moderata o nessuna pericolosità. In generale, però, per scrivere buona narrativa bisogna farsi una cultura, con un’incursione ragionata in quanti più campi possibili della conoscenza.

Il modo più veloce – e così si chiarisce una della finalità di un consiglio ricorrente – è leggere il più possibile, perché leggere vuol dire vivere la vita di un altro, far propria la sua esperienza, senza bisogno di muoversi da dove ci si trova: si può leggere a casa, al parco, in metrò, alla fermata dell’autobus, in fila al supermercato, nella sala d’attesa del dentista. Ecco qual è la grande forza della lettura: permette di accumulare conoscenza in gran quantità e varietà, senza alterare i propri ritmi di vita.
 
Ma ti sia chiaro che vivere la vita sulla propria pellaccia rimane di regola un’esperienza di ben altro livello. La lettura di dieci, cento, mille libri di avventura difficilmente riuscirà a eguagliare la quantità e la qualità di conoscenze che si possono avere con un solo viaggio “a sorpresa”, di quelli con un gruppo di sconosciuti verso località improbabili, purché intrapreso col giusto piglio.
 
Più che leggi, leggi, leggi, il consiglio per chi vuol scrivere bene dovrebbe essere vivi, vivi, vivi: perché la scrittura attinge al giardino della vita, perché il dato di realtà è sempre il punto di partenza della scrittura, anche quando questo dato viene poi trasfigurato in luoghi e personaggi immaginari.

Quando Lambert Strether – negli Ambasciatori di Henry James – incita il giovane artista John Little Bilham a vivere, a fare esperienza della vita, a essere all’altezza della sua gioventù, laddove per lui è ormai troppo tardi – “Ed è come se il treno mi avesse puntualmente aspettato in stazione senza ch’io avessi il buon senso di capire che era là. Ora sento il suo fievole fischio allontanarsi per chilometri e chilometri lungo la linea. Quel che si perde, si perde; non facciamoci illusioni in proposito” – sta esortando tutti noi a cambiare registro, a smetterla di vivere inconsapevolmente, senza sentire con profondità, senza capire ciò che stiamo vivendo.

Non esiste un uomo comune, pratico, inserito in una rete di relazioni sociali e rispettoso delle leggi e delle tradizioni, contrapposto allo scrittore, all’artista, rinchiuso nella sua stanza, alieno da tutto e da tutti, dedito esclusivamente alla sua opera in modo quasi criminoso. Esiste un uomo-artista che vive quanta più vita gli è possibile, e che osserva la vita così in profondità da trasformare l’osservazione in un’esplorazione selettiva dell’esperienza umana, per favorire l’esercizio creativo, la passione costruttiva.

Vivete tutto quello che potete; è un errore non farlo” – ancora con le parole del personaggio di Henry James – “Non ha molta importanza quello che fate in particolare, purché la vita sia vostra. Se non avrete quella, che cosa avrete avuto?”.

 
Ma quindi mi stai dicendo che devo sempre scrivere in proporzione a ciò che conosco, perché così come la gente detesta le persone che parlano di cose che non conoscono, allo stesso modo è insofferente verso chi scrive di cose che ignora, e perché scrivere di ciò che ignoro mi porterà a rimescolare cliché, stereotipi e brutte scene da film medio, e nessuno sente il bisogno di simili porcherie?

Esatto! Hai capito.

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