MODULO 5 – Come Dio nella creazione

 
Il mondo della pagina è reale, vero, concreto, proprio come il mondo in cui viviamo noi, ed è popolato da esseri reali, veri, concreti, come lo sei tu che stai leggendo questo post, come lo sono io che l’ho scritto.

Il mondo della pagina è reale, vero, concreto, e lo scrittore è il suo dio creatore.

E ora – dimmi – tu, proprio tu che stai leggendo, tu, essere reale del mondo reale, lo hai mai visto Dio? Lo hai mai incontrato? Gli hai mai parlato? O lui ha mai parlato a te? Vi siete mai intrattenuti a pranzo o a cena, o anche solo a un aperitivo? Non credo, ma in caso contrario… beh, hai una grande storia da raccontare!

La maggioranza potrà pure credere o non credere in Dio – non saprei dire – ma all’atto pratico trascorre poi gran parte della propria vita senza essere sfiorata dal pensiero di un’entità superiore a cui tutto è riconducibile; e quell’entità superiore lascia che ognuno si regoli come vuole, senza mai interferire esplicitamente con chi non vuol essere disturbato, e a dirla tutta neppure con chi la invoca di continuo, e tuttavia è sempre lì a svolgere il suo lavoro di entità superiore, a comportarsi da Dio.

Dio – se c’è – è nella bellezza delle albe e dei tramonti, nelle nevicate, nelle forme delle nuvole, nella pioggia e nel vento, nelle balene e nelle mosche, nelle ortiche e nelle querce, nel sole e nelle altre stelle, e sicuramente è in ognuno di noi, sia quando ci conformiamo alla sua volontà, sia quando ci opponiamo, perché anche l’opposizione presume un riferimento rispetto al quale andare in direzione contraria: Dio è un cerchio che ha il suo centro ovunque e la circonferenza da nessuna parte.

Allo stesso modo tu   scrittore  devi essere presente nel mondo della pagina che hai creato.
 
Gustave Flaubert è categorico: “Lo scrittore deve essere come Dio nella creazione: invisibile e onnipotente, presente dappertutto, ma visibile in nessun luogo, bisogna percepirlo ovunque e non vederlo mai”.

Una indicazione analoga proviene da Jack London. “Devi scordarti di te stesso. E allora il mondo si ricorderà di te. Ma se non ti danni e non ti scordi di te stesso, allora il mondo si turerà le orecchie per non sentirti. Riversati tutto nel tuo lavoro fino a che il tuo lavoro non diventi te stesso, senza però che ti si veda da nessuna parte”.

E sullo stesso tono troviamo V.S. Naipaul. “Voglio che la mia prosa sia trasparente, non voglio che il lettore mi inciampi addosso. Voglio che veda oltre quello che sto dicendo, che veda quello che sto descrivendo. Non voglio che dica mai 'Oh, buon dio, come è scritto bene!'. Sarebbe un fallimento”.

Perché – ci ricorda Henri Bergson – “l’arte di scrivere consiste nel far dimenticare al lettore che ci stiamo servendo di parole”.

Lo scopo della narrativa – in definitiva, citando Ford Madox Ford – è “prendere il lettore, immergerlo nella vicenda così a fondo da renderlo inconsapevole sia di stare leggendo che dell’esistenza di un autore”.

Il lettore non deve pensare allo scrittore – al dio creatore – più di quanto una persona media possa pensare a Dio, all’ineluttabilità della morte e a quel che verrà dopo. Tu quante volte ci pensi durante il giorno? Mai, giusto? E allo stesso modo nessuno – né i personaggi né i lettori – devono mai pensare a te.

Come Dio nella creazione:
diventa il tuo mondo senza che il mondo si accorga di te;
prendi il lettore e immergerlo così a fondo nella storia
da fargli perdere consapevolezza sia di stare leggendo,
sia dell’esistenza di un autore dietro a quella lettura;
 usa una prosa trasparente, vai oltre le semplici parole;
non raccontare niente, fa sì che la storia si racconti da sola;
dimenticati di te stesso, diventa invisibile,
per far vivere al lettore l’esperienza del personaggio.
La narrazione deve sembrare vera: e questo è tutto.
 
 
 
Deve sembrare vero: e questo è tutto.
 
 
 
ll piede di Dafne mette le radici,
nel corso della trasformazione da Ninfa a pianta d’alloro.
Deve sembrare vero… anche quando è chiaramente finto. 
 
Tu, scrittore, sei come Dio nella creazione: invisibile e onnipotente. Il tuo potere è infinito, ma proprio per ciò lo userai a gocce, e non farai mai irruzione in quel mondo della pagina che hai creato, non violerai mai uno spazio che rimane esclusivo dei personaggi e delle loro vite.
 
Tu, scrittore, sei il dio creatore: crei il mondo della pagina, convochi i personaggi più adatti per stare in quel mondo, e quando la storia inizia  alla prima parola del primo rigo tu, dio creatore, sparisci, e non ti si vede più. Sono i personaggi alla prima parola della prima riga della tua storia a prendersi la scena, a vivere le loro vite, condizionati dallambientazione in cui tu li ha messi e dal carattere con cui li hai forgiati, ma per il resto liberi di agire, pensare, parlare, percepire, in accordo con ciò che sono e con la situazione in cui si trovano.

I personaggi non sanno che tu – dio creatore – esisti; alcuni forse lo sospettano o lo immaginano – come alcuni di noi sperano in Dio – ma non potranno mai saperlo con certezza, e comunque sono troppo impegnati a cavarsela nelle circostanze in cui tu li ha messi per pensare a te, alla tua presunta esistenza.
 
E lo stesso vale per il lettore, che deve trasformarsi nel personaggio e vivere la vita del personaggio in tutto e per tutto. Anche il lettore non deve mai sapere che tu, scrittore, dio creatore, esisti. Perché il lettore ti ha accordato la sospensione dell’incredulità, si sta accostando alla storia con la convinzione che sia vera, che non vi sia nessuno che se l’è inventata di sana pianta o l’abbia mutuata in varia misura da eventi reali. Esistono solo i personaggi, le loro vite e le loro storie: ed è tutto vero.
 
Tu sei il dio creatore, e non un maestrino incaricato di spiegare la storia (sic!) agli scolaretti-lettori (sic!). La storia perfetta si racconta da sé: nella storia perfetta spariscono sia lo scrittore che l’ha creata sia le parole che la compongono, nella storia perfetta non si fa in tempo a leggere, che le parole hanno già lasciato il posto a un’immagine, a un’emozione, a un sentimento, a una curiosità.
 
Tu sei il dio creat—
 
Ho capito! Io sono il dio creatore, sono ovunque nella storia, ma non mi si vede mai. Basta ripeterlo. Non possiamo andare al modulo successivo?

Il prossimo modulo arriva venerdì, come tutti i moduli, ma tu sei sicuro di aver capito cosa vuol dire essere come Dio nella creazione?

Leggi qui:
 

E poi qui:


Se non noti nulla di strano, se ti sembrano passaggi narrativi normali, che possono piacere o non piacere in base ai gusti, ma di per sé tecnicamente legittimi, allora non hai ancora capito cosa voglia dire essere come Dio nella creazione.

Non preoccuparti, forse è meno grave di quanto pensi.
 
Siamo abituati a concepire l’apprendimento come una linea retta – prima l’aritmetica elementare, poi l’algebra, quindi la geometria, a seguire il calcolo infinitesimale, infine l’analisi superiore – ma la conoscenza è un circolo: non esiste un prima e un dopo, devi solo scegliere un punto da cui entrare, e poi girare, girare e girare ancora, finché non ti sarà tutto chiaro.
 
Capirai cosa voglia dire essere come Dio nella creazione dopo almeno tre giri completi del manuale. Garantito.
 
Però, intanto, prova a ragionarci da solo e a buttar giù qualche considerazione, seppur parziale; poi valuta tu se leggere la mia spiegazione, per confrontarla con la tua, oppure passare ai moduli successivi, affinché tutto si completi e si amalgami a dovere, e poi ritornare qui a riesaminare le cose con maggiore consapevolezza.
 
L’apprendimento è un circolo, per l’appunto.
 
 
 
Osserva prima di tutto lo stile da agente immobiliare in entrambi i testi, lo stesso di Victor Hugo già segnalato nel modulo 0, che riporto di seguito per tua comodità.
 
 
E poi dicono che se alla scrittura si impongono delle regole si finirà con lo scrivere cose tutte uguali!
 
Hai davanti la dimostrazione plastica del contrario: è proprio l’ignoranza dei principî e delle regole di scrittura che porta a concepire dei testi tutti sostanzialmente uguali, perché ignorando la differenza fondamentale tra ciò che in un testo deve rimanere stabile – la struttura – e ciò che invece può variare da scrittore a scrittore – lo stile – si finisce col clonare tutto in blocco, col ripetere meccanicamente ciò che fanno gli altri, senza discernimento critico, incuranti addirittura del tempo che passa: Hugo (nel 1862) scriveva come stesse stilando un annuncio immobiliare, io (nel 2023) scrivo come se stessi stilando un annuncio immobiliare, perché se l’ha fatto Hugo (nel 1862) vuol dire che lo possa fare anch’io (nel 2023). Piuttosto comico, non trovi?

La tendenza inconscia a replicare i modelli classici può raggiungere punte impressionanti.

Qui abbiamo la mitica “vigna di Renzo”, da I promessi sposi dell’Alessandro nazionale, anno 1842.
 

E qui abbiamo lo stralcio di un testo scritto nel 2021.

 
Il calco stilistico lascia esterrefatti.
 
Nel 1842 Manzoni, il dio creatore, ci mostra nei più minuti dettagli la vigna che ha creato, quando il personaggio – Renzo – non vi sta badando affatto ed è evidentemente preso e coinvolto da tutt’altro (“non si curava di entrare in tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla”).
 
Nel 2021 un autore contemporaneo ci mostra nei più minuti dettagli la camera da letto che ha creato (sempre più agente immobiliare!) quando il personaggio – Maria – è evidentemente impegnata in tutt’altro (“invece è già sveglia perché la sera prima è andata a letto prestissimo”).

E poi dicono che se alla scrittura si impongono regole si finirà con lo scrivere cose tutte uguali! Ma non vedi che è proprio la mancata conoscenza delle regole che azzera ogni filtro critico e, di conseguenza, pialla tutti gli spunti artistici?
 
C’è da rimanere allibiti: quasi due secoli di teoria narratologica bellamente buttati nel cesso. Come se avendo bisogno di un dentista – per un’estrazione, un’otturazione, una pulizia, un ponte – ci si rivolgesse a qualcuno che usa ancora strumenti e tecniche dell’800!
 
Dovrebbe suonarti tutto un po’ buffo, per quel minimo di sensibilità artistica che ti è richiesta, se vuoi cimentarti nella scrittura, oggi, anno di grazia 2023.
 
 
Cosa avevamo detto?
Che alla prima parola del primo rigo della prima pagina, tu, dio creatore, dovevi sparire
e lasciare la scena ai personaggi, per farli andare incontro alle loro avventure.
E in che modo pensi di essere come Dio nella creazione,
se il tuo personaggio sta vivendo la sua vita, e tu, dio creatore, ti compiaci con me, lettore,
delle cose che hai creato occupando spazi enormi di pagina per mostrarmele?
Perché io lettore vedo una vigna, se il personaggio non ci sta badando?
Perché vedo una camera da letto, se il personaggio si è già alzato?
 
Riposizioniamoci sui due stralci dei testi presi a mo’ di esempio.
 
Nel secondo – quello di vicolo Baiamonte – l’errore stilistico da agente immobiliare si combina con l’errore di presentare i personaggi come se si stesse chiamando l’appello in un’aula di scuola: nonno Giuseppe? Presente. Sorella maggiore di nonna Cristina? Presente.

È un errore, senza se, senza ma.
 
Estratto dalla Lezione 9 - Quei temerari che imitano Proust, di Giuseppe Pontiggia.
 
Cosa avevamo detto, poi? Che dovevamo essere invisibili e onnipotenti, che bisognava percepirci ovunque e non vederci mai, da nessuna parte, affinché il lettore potesse vedere oltre le parole sulla pagina, e diventare inconsapevole sia di stare leggendo sia dell’esistenza di un autore. Avevamo detto in una parola che volevamo una scrittura trasparente.

Essere come Dio nella creazione: lasciar fluire la vita dei personaggi nel mondo della pagina come la nostra vita fluisce nel mondo reale, con la percezione di ciò che ci circonda, con azioni e interazioni, pensieri e dialoghi.

E ora – dimmi – hai forse la sensazione di vivere la vita – un’altra vita, la vita del personaggio – nel leggere i due stralci che ti ho proposto? O ti sembra di leggere un annuncio immobiliare, solo di stampo appena un po’ artistoide? È tutto vero oppure c’è qualcuno che ti sta raccontando delle cose?
 
Dove sono i personaggi che parlano, pensano, agiscono, percepiscono, combattono, soffrono, gioiscono? Dov’è – in una parola – la loro vita che fluisce? Non c’è.
 


In compenso abbiamo lo scrittore – il dio creatore – che invade il mondo che ha creato – la pagina – e si rivolge direttamente a noi lettori per presentarci la sua creazione: le stanze di una vecchia casa immerse nel buio e nel silenzio come in una messa da requiem. E meno male che dovevi essere invisibile, che non ti si doveva vedere da nessuna parte! Meno male che avevi capito cosa voleva dire essere come Dio nella creazione.
 
Quel come in una messa da requiem rende la tua scrittura proprio trasparente, sì, massimamente trasparente: nessuno si accorge che sei tu, scrittore, ad aver concepito questa figura retorica solo per impressionare noi lettori. Non se ne accorge proprio nessuno, davvero: è tutto incredibilmente fluido, reale, vivido… come in una messa da requiem!

Sì, è proprio questo che intendevano Flaubert&Co. quando invitavano lo scrittore a essere invisibile, ad adottare una scrittura trasparente, per far perdere al lettore consapevolezza sia di stare leggendo sia dell’esistenza di un autore. Esattamente questo, intendevano: come in una messa da requiem.  

 
Ma sì, ma sì, rivolgiti al lettore, parlagli direttamente, forniscigli pure le coordinate spazio-temporali della tua storia – giorno, mese e anno – sotto il testo dell’annuncio immobiliare.

È proprio così che il lettore non si accorgerà di te, dio creatore, e sarà magicamente catapultato al 10 aprile del 1900: scrivendo brutalmente “Era 10 aprile del 1900”.
 
Hai capito perfettamente cosa vuol dire essere come Dio nella creazione: complimenti e… continua così!
 
Se gli errori non li vedi ancora, sebbene io te li abbia segnalati, se ti sembra ancora tutto giusto, sebbene ti abbia spiegato perché è tutto sbagliato, allora, forse, abbiamo un problema.
 
Proviamo ancora.

Leggi qui:

 
E qui:
 
 
E poi qui:
 
 
E ancora qui:
 
 
E qui, sei hai ancora energie:

 
E poi dicono che se alla scrittura si impongono delle regole si finirà con lo scrivere cose tutte uguali!
 
Non vedi come è proprio l’ignoranza dei principî e delle regole che spinge tutti a invadere la pagina e a scrivere le stesse cose, con una originalità che consiste solo nell’ovvia diversità delle parole?

Ma noi cosa avevamo detto? Che volevamo far dimenticare al lettore che ci stavamo servendo di parole, che non volevamo farlo inciampare nelle parole, che volevamo condurlo oltre le parole per immergerlo nella storia, per fargliela vivere come se fosse vera, per fargli dire e io c’ero, io ero lì.

Se non noti ancora nulla di strano, nemmeno dopo questa carrellata di testi errati fatti a stampino, allora, sì, abbiamo sicuramente un problema: non ti stai impegnando abbastanza nello studio della scrittura, e forse non ti stai impegnando perché scrivere bene – in realtà – non ti interessa.

Io posso pure trasferirti tutte le mie conoscenze nel modo didatticamente più efficace, ma se non ti impegni a riceverle, se non hai uno stato d’animo ricettivo, dove pensi di poter arrivare?

Per fare un applauso ci vogliono due mani. La mia è qui, la tua dov’è?

 
Essere come Dio nella creazione è maledettamente complicato. Il diavolo ci mette la coda almeno tre volte.

 
Gli stessi Flaubert&Co. non erano come Dio nella creazione – non riuscivano a essere invisibili nelle loro pagine, a scrivere in modo trasparente, pur sponsorizzando l’invisibilità dello scrittore e la trasparenza della scrittura – perché avere un’intuizione geniale non implica in automatico la capacità di realizzarla.
 
Un prigioniero in un campo di concentramento notò che tutti i giovedì pomeriggio un camion prelevava la massa di cadaveri che giacevano in una fossa comune all’aria aperta. Ebbe un’idea geniale: infilarsi nella fossa la mattina presto, l’unico momento possibile prima di iniziare le attività nel campo, e aspettare di esser prelevato il pomeriggio. Sarebbero stati i suoi stessi carcerieri a liberarlo!
 
Geniale, ma… sai farlo? Riesci a fingerti morto, in mezzo a una massa di morti veri? Riesci a non farti impressionare dal cumulo di cadaveri che ti circondano, o più banalmente a sopportarne la puzza? Riuscirai a restare fermo, a non fiatare, quando il camion verrà a prelevarti, e ti sballotterà di continuo da ogni parte? Riuscirai a sopportare il dolore nella più assoluta immobilità? La tua idea è geniale, ma… sai come realizzarla?

In generale, la conoscenza (sapere di dover fare una cosa) non implica automaticamente la competenza (sapere come farla in pratica).


Abbiamo esperienza di centinaia di libri realizzati con una scrittura opaca, in cui lo scrittore si intrufola di continuo nella pagina, quando non la occupa del tutto, e molti di quei libri ci sono stati presentati come degli standard – vuoi perché sono dei classici, vuoi perché sono best-seller, confondendo i contenuti con lo stile, e lo stile con la risposta commerciale – e il nostro cervello, ormai abituato all’idea, rifiuta di farsi formattare per reimpostarsi sul corpo di teoria narratologica nel frattempo maturata.

Forse è un’esagerazione dire che il tuo cervello ti è nemico, ma di sicuro non è un alleato nel percorso verso la buona scrittura moderna. Al tuo cervello non importa nulla di imparare a scrivere bene. La percepisce un’attività inutilmente dispendiosa. Che male c’è a scrivere as usual? Preoccupati piuttosto della tua sopravvivenza. Perché il tuo cervello si preoccupa solo di questo, della stretta sopravvivenza, e deve proteggerti da tutto ciò che nella sua percezione può minacciarla.
 
Il cervello – tendenzialmente – si oppone allo studio, perché studiare non ha a che fare con la sopravvivenza, ma con l’evoluzione. Dovresti saperlo, se hai studiato: restare concentrati su un libro, azzerare le distrazioni, proseguire sin dove si era programmato, prendersi un breve pausa, che sia realmente breve, e poi ricominciare allo stesso ritmo fino a concludere la sessione, per ripartire il giorno dopo e replicare lo stesso schema, non sono operazioni meccaniche, naturali, spontanee. Richiedono una volontà ferma, una presa forte di consapevolezza, l’attitudine ad andare in direzione ostinata e contraria, rispetto a quanto sarebbe istintivo fare.

E con la scrittura abbiamo un ostacolo in più: scrivere bene – in effetti – non serve a nulla. Se gli studi scolastici o universitari hanno uno scopo, o almeno è possibile raccontare al cervello che lo hanno per fargli allentare la sua resistenza, lo studio dell’arte della scrittura è totalmente inutile, o almeno così apparirà sempre al tuo cervello, che farà opposizione sistematica.

Devi essere più forte e determinato di lui, del tuo cervello, nella consapevolezza che lui, il tuo cervello, non si arrenderà mai.
 
Ma ogni vittoria sul tuo cervello aumenterà di dieci volte la probabilità di vincere anche la sfida successiva, così come ogni sconfitta aumenterà di dieci volte la probabilità di essere sconfitti di nuovo. Parafrasando BoJack Horseman, vincere sarà ogni giorno più facile, ma devi vincere tutti i giorni, e questo è difficile.


La tentazione di intrufolarsi nella pagina ci sarà sempre, anche quando conoscerai alla perfezione i principî e le regole della scrittura moderna, o almeno ci sarà sin quando quella conoscenza non sarà stata così interiorizzata da non poter più concepire nessun altro tipo di scrittura al di fuori di quei principî e di quelle regole.
 
Le regole che ti presenterò in questo manuale devono diventare – per te scrittore, dio creatore – l’equivalente della forza di gravità per noi esseri umani del mondo reale, nella nostra vita di ogni giorno: qualcosa a cui viene naturale sottomettersi, qualcosa di cui non puoi dimenticarti e che non vorrai mai sfidare.
 
Commettere un errore di scrittura, violare una regola e dire “me ne ero dimenticato”, è come pensare che ci si possa “dimenticare” della forza di gravità e iniziare allora a volteggiare per aria.

Pensi che possa accadere nel mondo reale? E allora perché credi possa accadere in scrittura?
 
 
Essere come Dio nella creazione è un esercizio che quasi non fa presa sulle capacità umane. Proprio come Dio, anche tu, scrittore, dio creatore, non puoi distrarti un solo attimo. Ne sei capace? Perché, vedi, nessuno sembra esserlo davvero, per più di una ragione.
 
Gli standard della buona scrittura moderna evolvono così rapidamente che si fatica a tenerne il passo, per cui o si rimane sempre vigili, all’inseguimento, oppure si rischia di rimanere sì concentrati, ma su cose che non sono più di attualità, già superate.

Prendiamo questo passo di Pontiggia, a esempio.

Estratto dalla “Prima lezione” di Giuseppe Pontiggia.

Ma no, ma no, ma no! Ma che stai dicendo, Pontiggia?

Quest’idea che “basta leggere la maggior parte delle cose che si stampano” per imparare a scrivere, forse era ancora vera quando Pontiggia la manifestò, ma sicuramente non è più vera oggi, anno 2023.

Chi pensa – oggi, 2023 – di imparare a scrivere solo leggendo a più non posso, chi confonde ancor oggi l’amore per la lettura con la capacità di scrittura, andrà incontro a continue frustrazioni, che si cumuleranno le une sulle altre, e saranno sopportabili solo fino a quando il piacere di credere di aver ragione non sarà superato superato dal disgusto per una realtà che procede pedissequamente in senso contrario: ritorna al modulo 0, se sei ancora prigioniero di questo equivoco.
 
Estratto dalla “Lezione 27 – ‘La calda estate’ si sente di più” di Giuseppe Pontiggia.
 
Ma cosa dici Pontiggia, cosa dici?

Sì, è vero che la tecnologia ha messo a punto macchine statistiche capaci di setacciare i testi per scovare tutti gli abbinamenti inflazionati – in particolare tra sostantivi e aggettivi, del tipo velocità folleintervalli regolari, odore acre, ampio salone, bellezza arcana, attesa snervante – e quindi assolutamente da evitare.

Ma è infantile – oggi, con le conoscenze e la sensibilità del 2023 – pensare che il problema dell’accoppiata inflazionata si possa risolvere semplicemente cambiando l’ordine dei fattori: se “estate calda” o “silenzio irreale” sono espressioni abusate, non è certo scrivendo “calda estate” o “irreale silenzio” che si può risolvere il problema, vi pare?
 
Non solo.
 
Noi sappiamo – oggi – che se il caldo estivo è rilevante per la storia, allora quel caldo va mostrato nelle sue conseguenze osservabili, simulabili in fase di lettura. Se il caldo è rilevante, allora non scriveremo né “estate calda” né “calda estate”, ma metteremo sulla pagina persone che sudano da ferme, altre che si sventolano di continuo senza trovare pace, altre ancora che vanno a farsi un bagno al mare ogni dieci minuti, mostreremo uomini che si appoggiano la birra fredda sulla fronte per cercare refrigerio, creeremo delle ambientazioni dove l’aria condizionata resta accesa 24h24, e daremo evidenza delle preoccupazioni di pescivendoli e fruttivendoli per il rischio di rovinare la merce (magari faremo vedere che il pescivendolo non fa in tempo a circondare i pesci di cubetti di ghiaccio, che subito si sciolgono); e per dare un giro di vite al tutto potremmo mettere in bocca a un vecchietto una battuta del tipo “non mi ricordo un caldo così, da quando sono nato” (ma solo dopo aver mostrato il caldo sulla pagina).
 
Faremo tutto questo, e molto altro ancora, se è davvero rilevante – ai fini della storia – che il lettore abbia chiaro che l’estate è particolarmente calda, ma di sicuro non ci verrà in testa – oggi, anno 2023 – di metterci a giocherellare con le parole, di permutare “estate calda” in “calda estate”, illudendoci di aver raggiunto chissà quale effetto stilistico.
 
Estratto dalla “Lezione 33 Se non c’è curiosità l’incipit è sbagliato”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Ma no, ma no, ma no! Non è così! O almeno non più.

L’incipit – oggi, anno 2023 – è la parte della storia in assoluto più codificata e formalizzata.

Oggi – anno 2023 – noi sappiamo esattamente cosa deve fare un incipit e come farglielo fare, per mettere curiosità nel lettore (e, più in generale, è la stesura di tutto il Primo Atto di una storia a essere massimamente guidata).

Oggi – anno 2023 – può sbagliare un incipit solo chi lo vuole sbagliare, chi non vuole studiare il meccanismo di avvio di una storia, chi non si vuole impegnare per applicarlo al meglio. Oppure – il che è lo stesso – chi si amminchia sul fatto che la storia deve iniziare così, perché i fatti sono andati così, chi è vittima del cosiddetto pregiudizio realistico, l’atteggiamento tipico di chi non ha nessuna storia da raccontare, e usa la pagina come mezzo di sfogo o di libera espressione.
 
La teoria narratologica evolve di continuo – come accade in ogni disciplina seria – e ciò che ieri era giudicato impossibile, oggi magari è diventato uno standard.

Ma – attenzione – non è solo un fatto di essere “sorpassati a destra”, di non accorgersi cioè dell’evoluzione del quadro di riferimento. Si può sbagliare – e si sbaglia – anche rispetto ai principî e alle regole che si conoscono perfettamente: si sbaglia per non aver riflettuto, o per non aver riflettuto abbastanza o, avendo riflettuto, per non aver saputo resistere alla tentazione di sbagliare pur sapendo di sbagliare.

Emblematica, al riguardo, l’auto-diagnosi di Pontiggia sul suo romanzo La grande sera:


Giuseppe Pontiggia,
citato da Cristina De Santis in “Insegnare a scrivere: una sfida d’autore”,
postfazione al volume Per scrivere bene imparate a nuotare.
 
E poi:
 
Giuseppe Pontiggia,
citato da Cristina De Santis in “Insegnare a scrivere: una sfida d’autore”,
postfazione al volume Per scrivere bene imparate a nuotare.
 
È lo stesso Pontiggia che – anni dopo – teneva cattedra sui “pericoli della retorica”, sulla parsimonia da avere nello spendere le figure retoriche in narrativa, sulla necessità di calibrarle su ogni specifica situazione, per non trasformarle in una “presenza ingombrante”, per evitare che il lettore sia “più attento alla gabbia retorica che non a quello che racchiude”, con pregiudizio sulla efficacia della persuasione a cui la narrativa mira.
     
Estratto dalla “Lezione 16 - Quando la retorica diventa pericolosa”, di Giuseppe Pontiggia.

L’uso delle figure retoriche in narrativa è un argomento delicato, che nel tempo ha avuto sviluppi notevoli.

Rimane tra i pericoli maggiori, almeno per i principianti (per chi è ancora al principio del proprio percorso autoriale) perché è l’ambito in cui più facilmente si rischia di cadere in quell’auto-compiacimento deleterio che allontana dall’essere come Dio nella creazione.

Volendo riassumerne il senso, in un slogan che funzioni da test, si può dire che se il lettore si accorge della figura retorica, allora la tua retorica ha fallito.

“Come scrivi bene!” è la peggior cosa che uno scrittore può sentirsi dire.
 
“Come scrivi bene!” significa che il lettore è stato attratto dalle parole in sé, anziché esser travolto dagli stati d’animo che quelle parole avrebbero dovuto suscitare.
 
“Come scrivi bene!” equivale a dire “che bel libro!”, riferendosi alle sue dimensioni, al tipo di carta, al colore, alle immagini in copertina, alla sua capacità di tener fermo un tavolo altrimenti traballante.


Tu non vuoi assolutamente – assolutamente no! – simili commenti ai tuoi racconti.
Tu non vuoi che il lettore si accorga dellanafora, perché se si accorge dellanafora,
vuol dire che si è accorto di te, scrittore, che quella anafora l’hai piazzata nel testo.
Cosa avevamo detto?
Che non volevamo, proprio no, che il lettore ci inciampasse addosso.
Che non volevamo sentirci dire “Oh, buon dio, come è scritto bene!”,
perché “come è scritto bene” è una dichiarazione di fallimento:
vuol dire che il lettore si è accorto di te, della tua scrittura,
e quindi che la tua scrittura non è trasparente.
Tu non vuoi che nella storia ci sia un “narratore che ripete ogni volta la frase iniziale”,
perché se c’è un narratore allora vuol dire che ci sei tu, scrittore, e che ti si vede nella pagina,
quando invece dovresti essere invisibile, come Dio nella creazione.
Tu non vuoi come dice Pontiggia – imporre la tua presenza ingombrante,
 non vuoi che il lettore ascolti le tue cadenze anziché le tue idee,
non vuoi che i manierismi retorici coprano il calo di tensione emotiva.
Tu vuoi semplicemente che la storia sembri vera,
che il lettore si dimentichi sia di leggere una storia sia di chi quella storia se l’è inventata.
E in che modo un focus sulla presunta abilità del narratore esterno, anziché sulla storia,
ci permette di “entrare con passo lieve nella vita altrui”, nella vita dei personaggi?
In che modo aver rilevato esplicitamente lanafora messa lì dallo scrittore
può far sentire il lettore “talmente coinvolto da sentire quasi il bisogno di scusarsi”? 
Tu non vuoi – assolutamente no! – complimenti di questo tipo,
che nulla hanno a che fare con le tue effettive capacità di scrittura,
ed esprimono solo una simpatia personale verso di te,
se non un obbligo a ricambiare i complimenti che tu hai rivolto a chi ora ti commenta,
per un suo racconto scritto altrettanto male, e probabilmente anche peggio.
Tu non vuoi ricevere nove palle gialle perché a tua volta le hai date a chi non le meritava.
Tu non vuoi tutto questo: proprio no!




Quando i tuoi lettori iniziano a parlare di sineddoche, puoi star certo di aver fallito.
E che hai fallito lo capisci già dal linguaggio involuto del commento:
“Stile accattivante, forse un po calcato per essere accattivante, ma è la sua bellezza”.
Ma insomma com’è questo stile?
Accattivante o troppo calcato per essere accattivante?
Che hai fallito lo capisci dal maldestro tentativo di scusarsi,
non sia mai il commento abbia urtato la tua suscettibilità:
“sto facendo il contropelo: trovo il racconto bellissimo,
ma se devo trovare qualche lato migliorabile per una non-critica costruttiva
cerco di spiegarmi e scrivere qualche riga; la mia insistenza non vuole essere un rimprovero” (sic!).
Ma in fondo hai fallito già prima di iniziare, già nel titolo:
perché può pure andar bene un titolo dall’intonazione accattivante,
ma se prendi questa china, allora è un attimo a degenerare in stupidaggini colossali,
che non avranno mai alcuna presa su un lettore tiepido.

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