Modulo 15E – Sorrido come un gatto che sorride


 
Le figure retoriche sono strumenti ad alto potenziale scientifico, didattico e divulgativo.
 
Molti ragionamenti procedono per riduzione di cose ignote a cose note attraverso accostamenti, parallelismi e trasfigurazioni, che danno di colpo una struttura a ciò che prima non l’aveva: con un paragone, una similitudine o una metafora, tutta una storia ci si para all’istante davanti, e induce a considerazioni che altrimenti non avremmo saputo sviluppare, o almeno non con altrettanta rapidità e precisione.
 
A volte basta un semplice “è come se”, per avere all’istante una visione più nitida delle cose, per arricchire il nostro repertorio di mondi organizzati, con cui decifrare una realtà altrimenti rumorosa e confusa. Il filosofo tedesco neokantiano Vaihinger ci costruì sopra una categoria metodologica – la teoria del “come se”, dell’als ob, in lingua originale – un modo potente e accattivante per riconoscere un “già visto” in una situazione altrimenti d’incerto significato.
 
Ma ovviamente – come ogni attrezzo della coscienza umana – anche le figure retoriche si prestano a essere strumentalizzate.
 
Nel linguaggio filosofico del resto hanno acquistato cittadinanza le metafore introdottesi in gran quantità e con tendenza ad aumentare” – annotava Prezzolini – “I logici se ne sono intimoriti scorgendovi un pericolo per la purezza della verità. Essi le studiano come pericoli logici di confusione, ma si possono studiare come mezzi persuasivi di seduzione. Sono vesti splendide per nascondere corpi poveri, oppure cinture astringenti per corpi troppo grossi. Bisogna saperle usare con cautela, e scegliere le più adatte al carattere e alle esperienze di chi si vuol convincere”.

Molto affascinante, ma… cos’ha a che fare tutto ciò con la scrittura di narrativa?

Qual è il ruolo della figura retorica in una narrazione che ha lo scopo di riportare sulla pagina la versione elegante del mondo reale, di persuadere di una tesi, trasportando il lettore nella vita di un altro?
 
Estratto da Gilet Fantasia, in L’ “Affaire” Susanna, di Pitigrilli.
 
La scrittura di narrativa a cui riconosciamo valore è fatta tutta e solo di azioni [A], pensieri [P], dialoghi [D], percezioni sensoriali [PS] e percezioni psicologiche [PP].

Qual è – prima di tutto – il mattoncino che può accogliere una figura retorica? Non ci sono dubbi: il mattoncino [PP], la percezione psicologica.

Fiocchi di neve iniziarono a scendere danzando come stanche ballerine.

È ovvio che il venir giù dei fiocchi di neve non è una danza di stanche ballerine. I fiocchi di neve sono… fiocchi di neve. Però, nell’osservarli, il personaggio li vede – soggettivamente, attraverso il suo filtro psicologico – come stanche ballerine. È giusto? È sbagliato? Dipende dal personaggio e dalla sua storia.
 
Il tuo personaggio è una ragazza mossa dal desiderio di diventare la prima ballerina della Scala di Milano. La storia ci parla di lei, del suo cambiamento interiore necessario a superare tutti gli ostacoli esterni che si frappongono tra lei e il suo sogno. E alla fine, sì, ci riesce: vive – come si dice in gergo – un arco eroico, arriva alla vittoria, realizza il sogno, diventa la prima ballerina della Scala.

Nella scena finale del romanzo la vediamo seduta su una panchina, dopo aver sostenuto l’ultima selezione, e aver avuto conferma che, sì, da domani sarà lei la prima ballerina. Alza la gli occhi al cielo e inizia a nevicare, o meglio…
 
Fiocchi di neve iniziarono a scendere danzando come stanche ballerine.
 
Qui la figura retorica ci sta tutta: il personaggio è una ragazza col sogno di diventare una ballerina, la storia ci parla di ballo e ballerine, il contesto è fatto di scuole di danza, di prove selettive per ballerine, di ballerine concorrenti disposte a tutto pur di prevalere, di genitori che si oppongono al desiderio della protagonista di ballare, di un fidanzato che la abbandona a causa della sua fissazione per la danza.

Siamo immersi sin dal principio in un mondo esteriormente trainato dalla danza, che ha nella danza il suo centro di gravità visibile. E allora, sì, fiocchi di neve iniziarono a scendere danzando come stanche ballerine, con quelle ballerine stanche che sintetizzano la fatica della protagonista per arrivare alla vittoria, tutta la stanchezza che ora, tagliato il traguardo, sente all’improvviso piombarle addosso. 

Ma se rimuovi il personaggio e la sua storia, se questa figura retorica la piazzi in una storia qualunque, in cui magari sino a quel momento non vi era stato neanche un accenno alla danza e alle ballerine, si può sapere cosa stai facendo? Te lo dico io: stai infilando merda pseudo-poesia nella tua prosa, in due parole stai sbagliando
 
Quando mai – e ti prego di essere sincero, di non ingannare te stesso per puro spirito di contrapposizione –  la visione di una nevicata nel mondo reale ti ha suscitato l’immagine di una danza di stanche ballerine? Quale emozione dovrebbe mai trasmettere questa retorica, se non è altro che un artificio dello scrittore, decontestualizzato, buttato nella pagina solo per atteggiarsi, per mostrare agli altri quanto è bravo a “inventarsi cose”?
 
L’uso ortodosso delle figure retoriche in narrativa è legittimato esclusivamente dal mattoncino [PP] della percezione psicologica, e serve a comunicare l’interiorità del personaggio, in relazione alla storia che sta vivendo.

Vi è poi un uso eterodosso, formalmente legittimo, ma da valutare di volta in volta con estrema cura: la figura retorica come mezzo per comunicare un’informazione altrimenti non esprimibile.

Il liocorno di Saturno ruggì come un leone.

Il tuo personaggio – un viaggiatore galattico – è appena atterrato su Saturno, che nella tua ambientazione è un pianeta abitato e umanamente esplorabile. Se ne va in giro e incontra un liocorno che emette il verso di… Già: qual è il verso di un liocorno di Saturno? Sarà il suo verso, il verso caratteristico di un liocorno di Saturno, che però è sconosciuto e inconoscibile, se non attraverso la sua riconduzione a un verso noto e sperimentato, ad esempio il ruggito del leone.
 
La modalità d’uso eterodossa recupera così il ruolo didattico della figura retorica: un dispositivo per comprendere ciò che non si conosce attraverso la sua mappatura in uno schema noto.

Serve però rimanere vigili nell’uso eterodosso delle figure retoriche: primo, perché in linea di principio tu non vuoi trovarti a dover comunicare cose che non sai comunicare; e, secondo, perché se proprio ti sei messo in questa situazione problematica, devi aver chiaro che l’elemento noto usato per “comunicare l’incomunicabile” potrebbe essere visualizzato dal lettore, e tu non vuoi che il lettore visualizzi “cose a caso” che nulla hanno a che fare con la storia o la scena.

Quando riconduci il verso del liocorno al ruggito del leone, il rischio è che il liocorno sparisca dalla testa del lettore, per essere soppiantato da un leone. Magari qui non succede, e il lettore preserverà l’immagine del liocorno a cui aggancerà solo il suono del ruggito, senza far apparire il leone. Probabile, sì. Ma il punto rimane: tu non sai cosa succede esattamente nella testa del lettore quando usi una figura retorica, fossero pure le più semplici, come paragoni e similitudini, basate sul “come se”; tu sai solo che le parole sulla pagina chiamano immagini, suoni, odori e sensazioni nella testa del lettore.

Mamma agita gli indici come tergicristalli impazziti.

Il tuo personaggio è una ragazzina di sedici anni che ha appena chiesto alla mamma di restare fuori per la notte di ferragosto, sulla spiaggia, intorno a un falò, con l’immancabile bagno a mezzanotte, insieme a un gruppo di amici più grandi conosciuti qualche giorno prima, e che ora l’hanno invitata.

E la madre – che sa bene cosa accade la notte di ferragosto intorno ai falò sulla spiaggia, perché… ha avuto sedici anni anche lei – non vuole assolutamente, e manifesta il suo dissenso muovendo freneticamente gli indici, fa “no, no, no, no” con le dita, che sembrano appunto tergicristalli impazziti.

Un attimo di riflessione, per favore. La ragazzina vede la madre agitare gli indici in senso di diniego, e tu, scrittore, vuoi comunicare che il movimento è frenetico. Arrivato qui – a questo sotto-modulo del corso – sai di non poter scrivere una cosa del tipo:

Mamma agita freneticamente gli indici.

perché gli avverbi modali sono proibiti nelle azioni e nelle percezioni sensoriali, nei mattoncini [A] e [PS], e questa frase esprime proprio una percezione sensoriale del personaggio “Punto di Vista” (la ragazzina) relativamente all’azione compiuta da un altro personaggio (la madre).

Però vuoi comunicare il movimento frenetico, e trovi comodo ricorrere all’immagine dei tergicristalli impazziti. Ragioniamo. L’immagine in sé ci può pure stare, perché rende perfettamente l’idea di un movimento isterico. Ma c’entra qualcosa con la storia e con il personaggio? Perché la ragazzina – data la sua interiorità, la sua psicologia – dovrebbe associare l’oscillazione degli indici a un movimento di tergicristalli? Lavora forse in un autolavaggio ed ha a che fare ogni giorno con tergicristalli? Non credo. E allora da dove sbuca questa immagine dei tergicristalli? Come si giustifica – dal punto di vista del personaggio  – nella scena in cui si trova e nella storia in generale? Se sta lì solo per dare a te, scrittore, la possibilità di comunicare ciò che vuoi comunicare, beh, mi spiace, ma allora non funziona.

Il vincolo con la storia e l’interiorità del personaggio opera sempre, anche nell’uso eterodosso, magari in modo appena meno stringente rispetto alla modalità ortodossa, ma un collegamento tra figura retorica, storia e personaggio ci deve comunque essere, per quanto blando.
 
Estratto dalla “Lezione 26  – Aggettivi, riflettiamo prima di usarli”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Finirai col riempire la pagina di merda pseudo-poesia priva di senso, se usi le figure retoriche senza vincolarti ai personaggi, alla storia e all’ambientazione.
 
E merdata dopo merdata pseudo-poesia dopo pseudo-poesia arriverai a scrivere cose di questo tipo (non invento nulla, l’ho visto scritto davvero, anche perché non sarei mai stato capace di creare una simile stupidata): 
 
Sorrido come un gatto che sorride.

Sorrido come un gatto che sorride? Io non ho mai visto un gatto sorridere, e non riesco neppure a immaginarlo. Mia ignoranza, è chiaro. Allora ho domandato a venti persone di età diverse se lo avessero mai visto, e tutte mi hanno risposto allo stesso modo: i gatti non sorridono (undici di loro posseggono o hanno posseduto un gatto). Ho fatto ricorso al giudice supremo: Google Immagini. Niente, nulla di chiaro, di univoco, di preciso. Il gatto potrà pure sorridere, non lo nego, ma l’immagine è fallimentare ai fini narrativi: non solo non chiarisce, ma addirittura manda il lettore in confusione, lo obbliga a sospendere la lettura per domandarsi come sia fatto il sorriso di un gatto.

Svincolarsi dai personaggi e dall’ambientazione è un suicidio artistico. Leggi qui:

La guardia giurata spalanca la porta in uscita e dal collo taurino e mal rasato erompono un nome e l’ordine arrochito dal tedio di un rito che si ripete uguale da millenni: mi segua.

Il pubblico in attesa nel vasto corridoio obbedisce a un movimento simile alla fuga sincrona di un branco di sardine attaccate dagli squali.

Arrivato qui – a questo punto del manuale – dovresti essere in grado di individuare i numerosi e gravi problemi di scrittura presenti in questo stralcio di testo.
 
Qui – in questo modulo – parliamo di figure retoriche, perciò restiamo in tema.

Le informazioni fornite dall’autore ci restituiscono – ancorché sommariamente – la sensazione di un tribunale, di un’aula giudiziaria, e in effetti e proprio lì che ci troviamo: in tribunale.

Siamo dunque in un tribunale, ci siamo formati alla bell’e meglio l’immagine di un’aula giudiziaria, quando all’improvviso compare la “fuga sincrona di un branco di sardine attaccate dagli squali”.

Punto primo: cosa c’entrano le sardine attaccate dagli squali con la storia, l’ambientazione e i personaggi?

Punto numero due: ammesso che c’entrino qualcosa (ma vorrei davvero capire cosa) quanti lettori hanno mai visto una “fuga sincrona di un branco di sardine attaccate dagli squali” e sono quindi capaci di evocarla? E, ammesso siano in grado, qual è la furbizia nel far sparire il tribunale e trasportare il lettore in fondo al mare?

Punto numero tre, che poi è il punto zero: per quale motivo “il pubblico in attesa nel vasto corridoio” dovrebbe ora muoversi in modo simile alla “fuga sincrona di un branco di sardine attaccate dagli squali”?

The answer my friend is blowin in the wind, cantava Bob Dylan.

Proseguiamo con un altro stralcio da un altro brano.  

L’oste lo osservò con occhi come fuochi di S.Elmo.

Come i fuochi di Sant’Elmo? Ma cosa sono i fuochi di Sant’Elmo? Chi li ha mai visti? Cosa deve immaginare il povero lettore?

Abbi la decenza – come misura minimale di rispetto verso chi ti ha dato la sua fiducia – di eseguire dei rapidi test, prima di spendere certe similitudini: domanda a dieci persone se sanno cosa siano “i fuochi di Sant’Elmo”, e se 9 su 10 ti guardano con una faccia a forma di punto interrogativo, allora fai la cortesia di rinunciare ai fuochi di Sant’Elmo nella tua prosa, senza pensare – segno distintivo dei pessimi autori – a quanto sia becero questo volgo che non conosce i fuochi di Sant’Elmo.

E – per favore, per favore, per favore – non te ne uscire con la stupidata colossale che il lettore sarà incuriosito da ciò che non conosce e quindi si documenterà, e così grazie a te – ai tuoi fuochi di Sant’Elmo – ne saprà più di prima. Perché se il lettore smette di leggere la tua storia, per documentarsi sui fuochi di Sant’Elmo, tu hai fallito. Perché lo scopo terra-terra della narrativa è “obbligare” il lettore a rimanere sulla pagina, parlando alle sue emozioni. Se voglio studiare, approfondire, documentarmi, leggerò un bel saggio (sui fuochi di Sant’Elmo) e non un testo di narrativa. Chiaro, sì?

Andiamo avanti: nuovo brano, nuovo autore, stesse assurdità.

I polmoni si dilatano, e il dolore esplode come una scarica elettrica che attraversa ogni cellula.

I polmoni si dilatano? Cioè? Cosa devo immaginare? Un conto è se mi dici “il cuore accelera il battito”, perché una frequenza cardiaca accelerata è una sensazione che tutti abbiamo provato, anche più volte, e siamo quindi in grado di simulare. Ma cosa significa – in concreto – che i polmoni si dilatano? È come se mi dicessi che il sangue circola più velocemente. Quindi? Quale sensazione fisica devo simulare?

I polmoni si dilatano” non è una figura retorica, ma valeva la pena notarli, visto che se ne è data l’occasione, per ricordare che a nulla serve riempire la pagina di tante belle parole super-mega-iper-emozionanti (?) se poi quelle parole non sono simulabili.

Andando invece alla figura retorica vera e propria, troviamo un “come una scarica elettrica che attraversa ogni cellula”. E quindi, di nuovo, cosa deve mai simulare il povero lettore quando legge di “una scarica elettrica che attraversa ogni cellula”, se tutto quel che avrà provato nella sua vita sarà stata una scossa di un paio di secondi ed estremamente localizzata? È ovvio che nessuno sa cosa sia “una scarica elettrica che attraversa ogni cellula” – a cominciare dall’autore – perché, se lo sapessimo, saremmo belli che morti e non qui a leggere di scariche elettriche che attraversano ogni cellula, ti pare?

Non ne hai ancora abbastanza? E allora beccati questo:

I lampioni illuminano le strade vuote come le teste dei passanti che adesso dormono. La luna che si trascina addosso sempre delle nuvole sabbiose come schegge illumina il cielo notturno quasi come quello di un pianeta sconosciuto.


Quei “passanti che adesso dormono” fa parecchio ridere. Un passante è un passante perché… passa o sta passando. Quando smette di passare non è più passante. E invece no: rimane passante – secondo l’autore – anche quando dorme. Non ha a che fare con le figure retoriche, però notiamole queste cose, per evitare di cascarci.

Andando invece alle figure retoriche, troviamo un “vuote come le teste dei passanti che adesso dormono”. Primo: perché scomodare una figura retorica per comunicare un concetto elementare come una strada vuota? Secondo: le teste delle persone, quando dormono, non è detto che siano vuote, anzi, spesso sono piene di sogni, quindi la figura retorica è fallimentare.

Servono altri esempi? Ne ho quanti ne vuoi.

L’insegna al neon, una squallida scritta in corsivo con doppia linea rossa e azzurra e ricciolo finale, scimmiottava le peggiori insegne dei motel americani.

Scimmiottava le peggiori insegne dei motel americani? E chi le ha mai viste “le peggiori insegne dei motel americani”? Perché ricorrere a una figura retorica per spiegare qualcosa che è già perfettamente chiaro, e che diventa confusa a causa della figura retorica?

Continuiamo.

Si chiama Fiorenzo ed è bello come la neve ad aprile.

E chi l’ha mai vista la neve ad aprile? È perché la neve ad aprile dovrebbe essere bella? Forse l’autore voleva comunicare che questo Fiorenzo è di una bellezza particolare, inusuale, perché – presumo – è inusuale veder nevicare ad aprile.

Ma se l’inusuale bellezza di Fiorenzo è davvero rilevante, allora la devi mostrare nei suoi dettagli concreti, affinché io, lettore, me ne possa formare un’immagine sufficientemente precisa. Evocare la neve ad aprile è solo pigrizia, e se sei pigro, allora non sei – non puoi essere – uno scrittore.

Proseguiamo.
 
Ora il dolore arriva a ondate, come le doglie prima del parto.

Bravo, ben fatto, eccezionale davvero, se l’obiettivo era buttare fuori in blocco tutti i lettori maschi. Perché io – uomo – leggo questa cosa e, al solito, si può sapere cosa devo immaginare? Che ne sappiamo – noi uomini – delle doglie del parto? La parità di genere dovrebbe valere anche in senso inverso: quando scrivete le vostre meraviglie, preoccupatevi di far capire le cose anche a noi maschietti, se non è troppo disturbo.

Ma vuoi ridere davvero? E allora sappi che, andando avanti nella lettura, si scopre che la protagonista che sente arrivare il dolore a ondate come le doglie del parto… non ha mai avuto figli! Ma allora cosa ne può mai sapere lei stessa dei dolori del parto, se non ha mai partorito? Come fa a percepire i dolori del parto, se non sa cos’è un parto? Vedi quali vette di assurdità si riescono a toccare, quando si sgancia la figura retorica dal personaggio e dalla storia?

E ora mettiti comodo che arriva il gran botto del fuoco d’artificio finale. 
 
E la barca scivolò via lieve come una piuma sulla mappa della memoria.
  
Fenomenale!

La figura retorica ha lo scopo di ricondurre un concetto ignoto a uno noto, per renderlo comprensibile. Qui abbiamo invece il contrario: un concetto perfettamente noto e facilmente visualizzabile (la barca che scivola via lieve) viene riportato a qualcosa di impossibile da materializzare per quanta fantasia ci si metta (una piuma sulla mappa della memoria).

Straordinario, davvero.
 
 
Ti ho portato a spasso per questa piccola bottega degli orrori per metterti in guardia contro errori pacchiani, in cui però tutti possono cadere, non appena si allentano un minimo i propri standard.

Minuto 1.41:
“Preparatevi, perché le metafore in questo libro sono tutte così:
non hanno un vero e proprio senso figurativo.
Perché ricordiamo che le metafore sono delle immagini
che l’autore deve creare nella mente del lettore, e non cagate a caso”

Ora ti propongo un caso più elaborato e interessante.
 
Il campanile rintocca fin dentro ai miei sogni e mi risveglio ai piedi del letto, nuda, adagiata su un lenzuolo di plastica nero che mi avviluppa i piedi.
 
Porto i palmi al viso, pochi giri di corda sottile intrecciano una coppia di legature alla schiava sui polsi, una più lenta dell'altra. Il Padrone è gentile con me, ha ornato la mia vergogna. Il fetore di immondizia mi punge il naso e una nota di ammoniaca lo spinge dritto in fondo alle narici fino a sfondarmi il palato, gli odori si impastano all’amaro che ho in bocca.
 
Spremo l'interno delle guance, sanno di frutta matura, appiattisco la lingua a drenare una stilla di sputo che brucia come wasabi quando la ingoio.
 
Qui abbiamo una scrittura di ben altro livello, di tutt’altra categoria, rispetto agli stralci di brani visti sinora.

Siamo in un contesto “erotico” – se proprio vogliamo battezzare il genere – col personaggio che si sveglia, richiama alla memoria le pratiche BDSM della notte precedente e percepisce l’ambiente circostante e le sensazioni sul proprio corpo.

Arriviamo al punto critico.
 
una stilla di sputo che brucia come wasabi quando la ingoio.
 
Qui l’autore ha fatto una scommessa, come si fa sempre quando si usa una figura retorica: ha scommesso che la gran parte dei lettori conosca il wasabi, e sia quindi capace di simulare ciò che il personaggio prova nell’inghiottire la saliva.

Su cosa ha scommesso, in pratica? Sul fatto che i ristoranti giapponesi siano una realtà sufficientemente diffusa nell’esperienza dei più, da giustificare l’uso del wasabi come metro di confronto per veicolare una sensazione fisica altrimenti complicata da far avvertire.

È una scommessa ragionevole? Quanto è rischiosa? Questo può saperlo solo l’autore. C’è da augurarsi che abbia “testato” la figura retorica, prima di usarla, chiedendo almeno a una decina di persone, possibilmente diverse tra loro, se sapessero cosa fosse il wasabi, e di aver ricevuto un responso che ne giustificasse l’impiego.

Verifica sempre le tue figure retoriche, anche le più ovvie. Non prenderti rischi, se li puoi evitare.
 

“Eutrema japonicum, conosciuta comunemente come wasabi
o anche con il nome di ravanello giapponese,
è una pianta di origine giapponese appartenente alla famiglia delle Brassicacee
[da cui] si ottiene una pasta di colore verde e dal sapore particolarmente piccante,
usata nella cucina giapponese e conosciuta con lo stesso nome della pianta, wasabi”
(Wikipedia)
 
C’è qualcosa di più sottile e sofisticato, nell’uso del wasabi come metro di confronto.

Perché l’autore ha usato il wasabi? Perché lui, l’autore, ama il giappo? Speriamo di no, speriamo non sia questa la ragione.  

Se la stilla di sputo brucia come il wasabi, ciò può voler dire solo una cosa: che la nostra protagonista – la protagonista, non necessariamente l’autore – non solo è amante della cucina giapponese, ma è proprio fissata col giappo, al punto da rievocarlo anche quando si ritrova in una situazione che, per quanto le possa essere abituale, rimane comunque particolare.

La soluzione ottimale sarebbe stata averla già vista in una scena precedente in un ristorante giapponese – sperabilmente di livello, vista la sua fissazione – in compagnia del Padrone, davanti a un piattino di wasabi, che per una ragione narrativamente valida sia diventato un motivo di discussione tra i due, e per questa via sia stato mostrato anche al lettore (che così viene preparato all’uso del wasabi come figura retorica).

Riporto di seguito – a mero titolo d’esempio, nella forma di copione da teatro – un abbozzo di una possibile scena.

Il Padrone e la Schiava si trovano in un ristorante giapponese (di lusso). Ordinano, arrivano i piatti e il cameriere poggia sul tavolo, tra le altre cose, anche il wasabi.
Il Padrone fa una smorfia.

Schiava: “Cosa c’è?”

Padrone (con aria disgustata): “No, niente è che… non mi abituerò mai a vederti mangiare quella poltiglia verdastra.”

Schiava (con tono di replica al limite dell’aggressivo): “Il wasabi è spettacolo puro: quando ti scende in gola e te la brucia…” (segue espressione di godimento).

Fatto. Migliorabile in più punti, ovvio, ma sostanzialmente fatto. Ora il lettore sa cos’è il wasabi, e se il dialogo prosegue per un paio di battute (e non di più) intorno al wasabi in modo vivido e sensoriale, è probabile che il lettore ne tenga memoria quando rincontrerà la Schiava nel suo stato confusionale e il wasabi sarà usato come figura retorica.

Ricorda che il il lettore non è tenuto a sapere neppure cosa sia una “tettona”, e che la “tettona” va perciò anzitutto mostrata, evocata con dettagli concreti, e solo dopo battezzata, se proprio lo desideri (e se invece la battezzi prima, allora affrettati a mostrarla).

Se pure nella “fase di test” il wasabi avesse totalizzato un punteggio sufficiente a giustificarne la citazione nella pagina, il punto di metodo rimane: prima mostri, dopo – se vuoi – battezzi.
 

Una ricerca in internet ti rivelerà limportanza attribuita da Umberto Eco alle metafore.
Nessuno lo nega, in un contesto scientifico, didattico o divulgativo.
Ma qui siamo dentro una storia che vuole persuadere attraverso le emozioni.
E le figure retoriche, in questo contesto, creano spesso un circolo distruttivo:
la loro trivialità produce (ed è il prodotto di) pensieri triviali e atteggiamenti approssimativi,
in cui finiscono invischiati tutti coloro che sono alla ricerca di scorciatoie,
senza accorgersi che il solo effetto è sporcare la pagina con sciocchezze e banalità.

L’obiettivo di una figura retorica – ciò che ne giustifica l’uso in un testo di narrativa – è la comunicazione al lettore dell’interiorità del personaggio, attraverso una specifica percezione psicologica (mattoncino [PP]) e quindi coerente con il profilo caratteriale del personaggio e compatibile con la situazione che sta vivendo (e possibilmente con l’intera storia).
 
Se il vento schiaffeggia gli alberi, se gli alberi piangono foglie gialle e la pioggia alimenta le pozzanghere, accertati che il tuo personaggio sia un frate francescano, un monaco buddista, un mistico, qualcuno insomma abituato a percepire ogni cosa – e sé stesso in primis – come una piccola parte di un tutto inscindibile.
 
In subordine, la figura retorica può servire per veicolare un concetto altrimenti non esprimibile, ma sempre sotto un vincolo di coerenza con il carattere del personaggio, la dinamica della scena e la natura della storia.
  
La figura retorica – in entrambi gli usi, ortodosso o eterodosso – rimane uno strumento delicato e problematico, perché è sempre latente la tentazione di usarla per vanità, per il gusto di colpire l’immaginazione del lettore con la propria fantasia, che magari ne sarà pure colpito, ma come potrebbe esserlo da un manganello, se la figura retorica è spuria rispetto al contesto. Bene così, se il tuo scopo è stordirlo e cacciarlo dalla pagina.

Ricordati – qui più che altrove – che in scrittura devi essere come Dio nella creazione, e l’obiettivo si raggiunge meglio ragionando a fondo sui personaggi e sulla situazione in cui si trovano, su ciò che davvero provano in quella situazione, dato il loro profilo psicologico, che di regola troverà una manifestazione di gran lunga più efficace quanto più semplici sono le parole con cui si esprime (se ci si è davvero ragionato sopra).  

Ti posso fare l’esempio, anche se non mi sembra il caso di citare il nome, di un famoso scalatore, insolitamente loquace, che ho sentito raccontare più volte le reazioni provate al culmine della scalata” – scrive Pontiggia nella sua “Lezione 1 – L’alpinista che aveva visto Dio” –  E le frasi che ripeteva erano sempre le stesse, che si era sentito più vicino all’anima del mondo, a Dio, al centro dell’Universo. E si capiva che nelle sue parole affioravano ricordi scolastici, antologie lette alle elementari, non quello che aveva veramente provato. Ci vuole una radicale scarsità di immaginazione per pensare, oggi, di essere più vicino al centro dell’universo salendo su un corrugamento della crosta terrestre. Dio lo si può incontrare, suppongo, anche in una stazione”.

E poi, a rimarcare la forza dell’esprimersi attraverso le sensazioni reali, anziché con le figure retoriche, “basta confrontare la scolasticità di queste risposte con la sobrietà di altri, ad esempio con quella di un altro grande scalatore, per valutare la differenza. Reinhold Messner – che era salito sull’Everest senza bombola a ossigeno, superando i limiti della scienza – prima ha risposto con il silenzio, poi ha detto lentamente: ‘Ero molto stanco’. In tre parole Messner aveva detto l’essenziale, l’immensa stanchezza, e aveva avuto il coraggio di tenersi entro i limiti della verità. L’intervistatore insisteva: Dimmi almeno cosa volevi in quel momento. Messner allora l’ha guardato con i suoi occhi di ghiaccio e dopo una pausa ancora più lunga ha detto: ‘Volevo tornare a casa’. Gli ha dato una risposta memorabile. Perché un uomo che supera i confini dell’umano vuole poi ritornare entro quei confini”.

Il sincero e cristallino voglio tornare a casa impressiona e colpisce di più del pomposo e abusato ho incontrato Dio, non fosse altro perché il desiderio di tornare a casa lo capisce chiunque, ma cosa voglia dire aver incontrato Dio rimane piuttosto misterioso per tutti.

Voglio tornare a casa.
Bello e semplice come la neurochirurgia: il coltello ha un lato affilato, lo tieni così, e tagli.

A un livello più modesto, se il letto di Heather è scomodo – e se la scomodità del letto è rilevante per la storia –  fai in modo che Heather fatichi a prender sonno, che si svegli parecchie volte durante la notte, che la mattina abbia un brutto mal di schiena, fai queste e tante altre cose, ma, per l’amore del cielo,  non dirmi che il letto è cromato come il budino di tapioca della nonna.

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