Modulo 15E – Sorrido come un gatto che sorride
Molto affascinante, ma… cos’ha a che fare tutto ciò con la scrittura di narrativa?
È ovvio che il venir giù dei fiocchi di neve non è una danza di stanche ballerine. I fiocchi di neve sono… fiocchi di neve. Però, nell’osservarli, il personaggio li vede – soggettivamente, attraverso il suo filtro psicologico – come stanche ballerine. È giusto? È sbagliato? Dipende dal personaggio e dalla sua storia.
Vi è poi un uso eterodosso, formalmente legittimo, ma da valutare di volta in volta con estrema cura: la figura retorica come mezzo per comunicare un’informazione altrimenti non esprimibile.
Il tuo personaggio – un viaggiatore galattico – è appena atterrato su Saturno, che nella tua ambientazione è un pianeta abitato e umanamente esplorabile. Se ne va in giro e incontra un liocorno che emette il verso di… Già: qual è il verso di un liocorno di Saturno? Sarà il suo verso, il verso caratteristico di un liocorno di Saturno, che però è sconosciuto e inconoscibile, se non attraverso la sua riconduzione a un verso noto e sperimentato, ad esempio il ruggito del leone.
Serve però rimanere vigili nell’uso eterodosso delle figure retoriche: primo, perché in linea di principio tu non vuoi trovarti a dover comunicare cose che non sai comunicare; e, secondo, perché se proprio ti sei messo in questa situazione problematica, devi aver chiaro che l’elemento noto usato per “comunicare l’incomunicabile” potrebbe essere visualizzato dal lettore, e tu non vuoi che il lettore visualizzi “cose a caso” che nulla hanno a che fare con la storia o la scena.
Quando riconduci il verso del liocorno al ruggito del leone, il rischio è che il liocorno sparisca dalla testa del lettore, per essere soppiantato da un leone. Magari qui non succede, e il lettore preserverà l’immagine del liocorno a cui aggancerà solo il suono del ruggito, senza far apparire il leone. Probabile, sì. Ma il punto rimane: tu non sai cosa succede esattamente nella testa del lettore quando usi una figura retorica, fossero pure le più semplici, come paragoni e similitudini, basate sul “come se”; tu sai solo che le parole sulla pagina chiamano immagini, suoni, odori e sensazioni nella testa del lettore.
Il tuo personaggio è una ragazzina di sedici anni che ha appena chiesto alla mamma di restare fuori per la notte di ferragosto, sulla spiaggia, intorno a un falò, con l’immancabile bagno a mezzanotte, insieme a un gruppo di amici più grandi conosciuti qualche giorno prima, e che ora l’hanno invitata.
E la madre – che sa bene cosa accade la notte di ferragosto intorno ai falò sulla spiaggia, perché… ha avuto sedici anni anche lei – non vuole assolutamente, e manifesta il suo dissenso muovendo freneticamente gli indici, fa “no, no, no, no” con le dita, che sembrano appunto tergicristalli impazziti.
Un attimo di riflessione, per favore. La ragazzina vede la madre agitare gli indici in senso di diniego, e tu, scrittore, vuoi comunicare che il movimento è frenetico. Arrivato qui – a questo sotto-modulo del corso – sai di non poter scrivere una cosa del tipo:
perché gli avverbi modali sono proibiti nelle azioni e nelle percezioni sensoriali, nei mattoncini [A] e [PS], e questa frase esprime proprio una percezione sensoriale del personaggio “Punto di Vista” (la ragazzina) relativamente all’azione compiuta da un altro personaggio (la madre).
Però vuoi comunicare il movimento frenetico, e trovi comodo ricorrere all’immagine dei tergicristalli impazziti. Ragioniamo. L’immagine in sé ci può pure stare, perché rende perfettamente l’idea di un movimento isterico. Ma c’entra qualcosa con la storia e con il personaggio? Perché la ragazzina – data la sua interiorità, la sua psicologia – dovrebbe associare l’oscillazione degli indici a un movimento di tergicristalli? Lavora forse in un autolavaggio ed ha a che fare ogni giorno con tergicristalli? Non credo. E allora da dove sbuca questa immagine dei tergicristalli? Come si giustifica – dal punto di vista del personaggio – nella scena in cui si trova e nella storia in generale? Se sta lì solo per dare a te, scrittore, la possibilità di comunicare ciò che vuoi comunicare, beh, mi spiace, ma allora non funziona.
Sorrido come un gatto che sorride? Io non ho mai visto un gatto sorridere, e non riesco neppure a immaginarlo. Mia ignoranza, è chiaro. Allora ho domandato a venti persone di età diverse se lo avessero mai visto, e tutte mi hanno risposto allo stesso modo: i gatti non sorridono (undici di loro posseggono o hanno posseduto un gatto). Ho fatto ricorso al giudice supremo: Google Immagini. Niente, nulla di chiaro, di univoco, di preciso. Il gatto potrà pure sorridere, non lo nego, ma l’immagine è fallimentare ai fini narrativi: non solo non chiarisce, ma addirittura manda il lettore in confusione, lo obbliga a sospendere la lettura per domandarsi come sia fatto il sorriso di un gatto.
Svincolarsi dai personaggi e dall’ambientazione è un suicidio artistico. Leggi qui:
La guardia giurata spalanca la porta in uscita e dal collo taurino e mal rasato erompono un nome e l’ordine arrochito dal tedio di un rito che si ripete uguale da millenni: mi segua.
Proseguiamo con un altro stralcio da un altro brano.
L’oste lo osservò con occhi come fuochi di S.Elmo.
I polmoni si dilatano, e il dolore esplode come una scarica elettrica che attraversa ogni cellula.
I polmoni si dilatano? Cioè? Cosa devo immaginare? Un conto è se mi dici “il cuore accelera il battito”, perché una frequenza cardiaca accelerata è una sensazione che tutti abbiamo provato, anche più volte, e siamo quindi in grado di simulare. Ma cosa significa – in concreto – che i polmoni si dilatano? È come se mi dicessi che il sangue circola più velocemente. Quindi? Quale sensazione fisica devo simulare?
“I polmoni si dilatano” non è una figura retorica, ma valeva la pena notarli, visto che se ne è data l’occasione, per ricordare che a nulla serve riempire la pagina di tante belle parole super-mega-iper-emozionanti (?) se poi quelle parole non sono simulabili.
Andando invece alla figura retorica vera e propria, troviamo un “come una scarica elettrica che attraversa ogni cellula”. E quindi, di nuovo, cosa deve mai simulare il povero lettore quando legge di “una scarica elettrica che attraversa ogni cellula”, se tutto quel che avrà provato nella sua vita sarà stata una scossa di un paio di secondi ed estremamente localizzata? È ovvio che nessuno sa cosa sia “una scarica elettrica che attraversa ogni cellula” – a cominciare dall’autore – perché, se lo sapessimo, saremmo belli che morti e non qui a leggere di scariche elettriche che attraversano ogni cellula, ti pare?
Non ne hai ancora abbastanza? E allora beccati questo:
I lampioni illuminano le strade vuote come le teste dei passanti che adesso dormono. La luna che si trascina addosso sempre delle nuvole sabbiose come schegge illumina il cielo notturno quasi come quello di un pianeta sconosciuto.
Quei “passanti che adesso dormono” fa parecchio ridere. Un passante è un passante perché… passa o sta passando. Quando smette di passare non è più passante. E invece no: rimane passante – secondo l’autore – anche quando dorme. Non ha a che fare con le figure retoriche, però notiamole queste cose, per evitare di cascarci.
Andando invece alle figure retoriche, troviamo un “vuote come le teste dei passanti che adesso dormono”. Primo: perché scomodare una figura retorica per comunicare un concetto elementare come una strada vuota? Secondo: le teste delle persone, quando dormono, non è detto che siano vuote, anzi, spesso sono piene di sogni, quindi la figura retorica è fallimentare.
Servono altri esempi? Ne ho quanti ne vuoi.
L’insegna al neon, una squallida scritta in corsivo con doppia linea rossa e azzurra e ricciolo finale, scimmiottava le peggiori insegne dei motel americani.
Scimmiottava le peggiori insegne dei motel americani? E chi le ha mai viste “le peggiori insegne dei motel americani”? Perché ricorrere a una figura retorica per spiegare qualcosa che è già perfettamente chiaro, e che diventa confusa a causa della figura retorica?
Continuiamo.
Ora ti propongo un caso più elaborato e interessante.
Il campanile rintocca fin dentro ai miei sogni e mi risveglio ai piedi del letto, nuda, adagiata su un lenzuolo di plastica nero che mi avviluppa i piedi.
Qui abbiamo una scrittura di ben altro livello, di tutt’altra categoria, rispetto agli stralci di brani visti sinora.
Siamo in un contesto “erotico” – se proprio vogliamo battezzare il genere – col personaggio che si sveglia, richiama alla memoria le pratiche BDSM della notte precedente e percepisce l’ambiente circostante e le sensazioni sul proprio corpo.
Arriviamo al punto critico.
Qui l’autore ha fatto una scommessa, come si fa sempre quando si usa una figura retorica: ha scommesso che la gran parte dei lettori conosca il wasabi, e sia quindi capace di simulare ciò che il personaggio prova nell’inghiottire la saliva.
Su cosa ha scommesso, in pratica? Sul fatto che i ristoranti giapponesi siano una realtà sufficientemente diffusa nell’esperienza dei più, da giustificare l’uso del wasabi come metro di confronto per veicolare una sensazione fisica altrimenti complicata da far avvertire.
È una scommessa ragionevole? Quanto è rischiosa? Questo può saperlo solo l’autore. C’è da augurarsi che abbia “testato” la figura retorica, prima di usarla, chiedendo almeno a una decina di persone, possibilmente diverse tra loro, se sapessero cosa fosse il wasabi, e di aver ricevuto un responso che ne giustificasse l’impiego.
Verifica sempre le tue figure retoriche, anche le più ovvie. Non prenderti rischi, se li puoi evitare.
Se la stilla di sputo brucia come il wasabi, ciò può voler dire solo una cosa: che la nostra protagonista – la protagonista, non necessariamente l’autore – non solo è amante della cucina giapponese, ma è proprio fissata col giappo, al punto da rievocarlo anche quando si ritrova in una situazione che, per quanto le possa essere abituale, rimane comunque particolare.
La soluzione ottimale sarebbe stata averla già vista in una scena precedente in un ristorante giapponese – sperabilmente di livello, vista la sua fissazione – in compagnia del Padrone, davanti a un piattino di wasabi, che per una ragione narrativamente valida sia diventato un motivo di discussione tra i due, e per questa via sia stato mostrato anche al lettore (che così viene preparato all’uso del wasabi come figura retorica).
Riporto di seguito – a mero titolo d’esempio, nella forma di copione da teatro – un abbozzo di una possibile scena.
Il Padrone e la Schiava si trovano in un ristorante giapponese (di lusso). Ordinano, arrivano i piatti e il cameriere poggia sul tavolo, tra le altre cose, anche il wasabi. Il Padrone fa una smorfia.
Schiava: “Cosa c’è?”
Padrone (con aria disgustata): “No, niente è che… non mi abituerò mai a vederti mangiare quella poltiglia verdastra.”
Schiava (con tono di replica al limite dell’aggressivo): “Il wasabi è spettacolo puro: quando ti scende in gola e te la brucia…” (segue espressione di godimento).
Fatto. Migliorabile in più punti, ovvio, ma sostanzialmente fatto. Ora il lettore sa cos’è il wasabi, e se il dialogo prosegue per un paio di battute (e non di più) intorno al wasabi in modo vivido e sensoriale, è probabile che il lettore ne tenga memoria quando rincontrerà la Schiava nel suo stato confusionale e il wasabi sarà usato come figura retorica.
Ricordati – qui più che altrove – che in scrittura devi essere come Dio nella creazione, e l’obiettivo si raggiunge meglio ragionando a fondo sui personaggi e sulla situazione in cui si trovano, su ciò che davvero provano in quella situazione, dato il loro profilo psicologico, che di regola troverà una manifestazione di gran lunga più efficace quanto più semplici sono le parole con cui si esprime (se ci si è davvero ragionato sopra).
“Ti posso fare l’esempio, anche se non mi sembra il caso di citare il nome, di un famoso scalatore, insolitamente loquace, che ho sentito raccontare più volte le reazioni provate al culmine della scalata” – scrive Pontiggia nella sua “Lezione 1 – L’alpinista che aveva visto Dio” – “E le frasi che ripeteva erano sempre le stesse, che si era sentito più vicino all’anima del mondo, a Dio, al centro dell’Universo. E si capiva che nelle sue parole affioravano ricordi scolastici, antologie lette alle elementari, non quello che aveva veramente provato. Ci vuole una radicale scarsità di immaginazione per pensare, oggi, di essere più vicino al centro dell’universo salendo su un corrugamento della crosta terrestre. Dio lo si può incontrare, suppongo, anche in una stazione”.
E poi, a rimarcare la forza dell’esprimersi attraverso le sensazioni reali, anziché con le figure retoriche, “basta confrontare la scolasticità di queste risposte con la sobrietà di altri, ad esempio con quella di un altro grande scalatore, per valutare la differenza. Reinhold Messner – che era salito sull’Everest senza bombola a ossigeno, superando i limiti della scienza – prima ha risposto con il silenzio, poi ha detto lentamente: ‘Ero molto stanco’. In tre parole Messner aveva detto l’essenziale, l’immensa stanchezza, e aveva avuto il coraggio di tenersi entro i limiti della verità. L’intervistatore insisteva: ‘Dimmi almeno cosa volevi in quel momento’. Messner allora l’ha guardato con i suoi occhi di ghiaccio e dopo una pausa ancora più lunga ha detto: ‘Volevo tornare a casa’. Gli ha dato una risposta memorabile. Perché un uomo che supera i confini dell’umano vuole poi ritornare entro quei confini”.
Il sincero e cristallino voglio tornare a casa impressiona e colpisce di più del pomposo e abusato ho incontrato Dio, non fosse altro perché il desiderio di tornare a casa lo capisce chiunque, ma cosa voglia dire aver incontrato Dio rimane piuttosto misterioso per tutti.
Voglio tornare a casa. Bello e semplice come la neurochirurgia: il coltello ha un lato affilato, lo tieni così, e tagli.
A un livello più modesto, se il letto di Heather è scomodo – e se la scomodità del letto è rilevante per la storia – fai in modo che Heather fatichi a prender sonno, che si svegli parecchie volte durante la notte, che la mattina abbia un brutto mal di schiena, fai queste e tante altre cose, ma, per l’amore del cielo, non dirmi che il letto è cromato come il budino di tapioca della nonna.
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