Modulo 15B – L’inferno è lastricato di avverbi e aggettivi


Un manuale di scrittura non è un libro giallo, per cui dichiariamo subito le regole di utilizzo di avverbi e aggettivi, per poi giustificarle.

Gli avverbi di modo e di tempo si possono usare – si devono usare, per realismo – nei dialoghi e nei pensieri, dentro i mattoncini [D] e [P]; sono invece vietati nelle azioni e nelle percezioni sensoriali e psicologiche, cioè nei mattoncini [A], [PS], [PP].

Gli aggettivi si possono usare – si devono usare, a ragion veduta – nei dialoghi e nei pensieri, dentro i mattoncini [D] e [P]; richiedono parecchie cautele quando li si vogliono impiegare nelle azioni e nelle percezioni sensoriali e psicologiche, cioè nei mattoncini, [A], [PS], [PP].
 

Avverbi di modo e di tempo

Gli avverbi modali – facciamola semplice, ché questo non è un corso di lingua italiana – sono quelli che finiscono in “-mente” e precisano il modo con cui si svolge un’azione o una situazione: violentemente, pacatamente, completamente, parzialmente, accuratamente, debolmente, approssimativamente, linearmente…
 
Li usiamo di continuo, nel mondo reale, quando parliamo o pensiamo. “Sei completamente fuori di testa” è una frase che ognuno di noi può benissimo pronunciare o pensare, e quindi ha diritto di cittadinanza anche nel mondo della pagina, come battuta di dialogo [D] o pensiero [P] del personaggio. Non serve aggiungere altro: esiste nella realtà, può esistere nella pagina.

Le cose cambiano, e di parecchio, quando da dialoghi e pensieri ci spostiamo alle azioni e alle percezioni.

Chiudo violentemente la porta.

Respiro affannosamente.

Salgo velocemente le scale.
 
Stringo fortemente i pungni.
 
Corro velocemente.

Qual è il problema? Che gli avverbi modali non corrispondono a nulla di simulabile, o a voler essere meno trachant, producono una simulazione subottimale; e tu non vuoi produrre testi subottimali, in cui la simulazione della pagina sconti la debolezza della scrittura, perché la scrittura è sotto il tuo pieno controllo – anzi, è l’unica cosa sotto il tuo controllo – e non si capisce quali vantaggi avresti nell’indebolirla.
 
La presenza di avverbi modali – al di fuori di dialoghi e pensieri – è segno inequivocabile di debolezza: hai scelto la parola sbagliata, e ora provi a trarla in salvo appiccicandogli un avverbio. 
 
Ma tu non vuoi riempire il testo di parole sbagliate. Tu vuoi (devi) andare a caccia della parola giusta.

Sbatto la porta.

Ansimo.


Corro su per le scale oppure Salgo i gradini a due a due.
 
Serro i pugni.
 
Sfreccio. 

Vietarsi l’uso di avverbi nelle azioni e nelle percezioni significa imporsi di trovare la parola giusta, vuol dire vaccinarsi contro la pigrizia, la causa principale di una scrittura debole. Quando ci si abitua a usare gli avverbi modali ci si avvita in una spirale di mediocrità da cui poi è problematico tirarsi fuori, perché gli avverbi sembrano non bastare mai: diventano un tic, un ipnotico, un sedativo.
 
Ma tu sei qui perché ti interessa un linguaggio espressivo, efficace, che colpisca e non concili il sonno.  
 
Attraversò a grandi passi il salone e si affacciò cautamente dalla finestra
 
Questa frase – ripresa da un testo reale – è una grave mancanza di rispetto verso il lettore. Perché se sei così pigro, svogliato e sciatto da scrivere “si affacciò cautamente”, se non vuoi spendere nemmeno cinque minuti di ragionamento per verificare se esista un verbo che, da solo, riassuma il verbo “affacciarsi” e l’avverbio “cautamente”, quale considerazione puoi mai avere per chi ti legge? E se non hai nessuna considerazione per chi ti legge, perché mai qualcuno dovrebbe leggerti?

Attraversò a grandi passi il salone e sbirciò dalla finestra.

E  – per favore – non mancare di rispetto a te stesso con furbate che furbate non sono, e denunciano solo la tua stupidaggine: scrivere “con cautela” equivale a scrivere “cautamente”, perciò non provarci neppure ad aggirare la regola in un modo così pacchiano.
 
Dopodiché – riconosciamolo – vi sono situazioni dove è impossibile evitare l’avverbio modale, a meno di non ricorrere a una lunga e noiosa descrizione dell’azione, che rischia di indurre un effetto di straniamento nel lettore.

La mia indicazione rimane però intransigente. Se non hai altra scelta, se ti ritrovi a far uso di un avverbio modale in un’azione o una percezione, significa che sei incappato in una di queste due situazioni:
  • hai pensato male la scena, non l’hai visualizzata per come realmente si svolge, perché se lo avessi fatto non avresti alcun bisogno dell’avverbio modale; e non ne avresti bisogno per la semplice ragione che nel mondo reale – nelle azioni e nelle percezioni, nel mondo reale – gli avverbi modali non esistono; ripensa quindi la scena, raffiguratela meglio, in modo più nitido, e vedrai che l’avverbio modale sparirà da sé;
  • hai pensato una scena che va incontro al fenomeno della lost in translation, che non può cioè essere rispecchiata nel mondo della pagina con sufficiente fedeltà rispetto a come si svolge nel mondo reale; e c’è da chiedersi per quale ragione vorresti scrivere scene simili, che dovresti invece sforzarti di evitare.
Dopodiché – d’accordo – in un romanzo di 350 pagine si potranno pure avere un paio di casi in cui proprio non ce la si fa a concepire una scena senza l’avverbio modale. Se servono due o tre righe di testo per mostrare “la cautela” con cui viene srotolato un antico papiro egizio , allora, sì, c’è da fermarsi e porsi due domande.
 
Cosa vuoi che ti dica? Mettilo pure il malefico avverbio, e, qui sì, mascheralo come puoi (“con cautela” invece di “cautamente”, anche per evitare l’effetto cantilenante del “-mente”) ma sul piano tecnico rimane un errore.

Se poi vogliamo dire che non saranno un paio di avverbi modali (mascherati) a rovinare una scrittura per il resto brillante, diciamolo pure, e sicuramente stiamo dicendo una cosa vera: non saranno un paio di errori a inficiare la qualità complessiva di un testo. Ma non crearti illusioni su ciò che hai fatto, e continua a percepire l’avverbio modale (nelle azioni e nelle percezioni) per ciò che è: un errore.

Lo stesso principio vale per gli avverbi di tempo, se pur con diverse qualificazioni.

Gli avverbi di tempo – anche qui facciamola semplice – stabiliscono una connessione temporale tra gli eventi: prima, poi, dopo, durante, mentre, quando

Li usiamo di continuo quando parliamo o pensiamo, per comunicare la dinamica di un fatto o per mettere ordine nelle nostre riflessioni, e quindi  usiamoli pure, se servono, nei dialoghi [D] e nei pensieri [P] del mondo della pagina.

Ma non hanno ragione di esistere al di fuori di dialoghi e pensieri, perché la scrittura dei mattoncini è una sequenza di eventi “qui e ora”, perché la realtà del mondo reale è “qui e ora”, e quindi anche nella realtà della pagina – creata attraverso la scrittura – tutto avviene sempre “qui e ora”. Se lo vogliamo dire in modo inverso, non c’è nessun “prima” e nessun “dopo”, nessun “poi” e nessun “quando”, nel mondo della pagina, perché non ci sono “prima”, “dopo”, “poi” e “quando” nella realtà reale, che è fatta solo di istanti “qui e ora”, e che tu devi riprodurre allo stesso modo, “qui e ora”, nella pagina.
 
Il tempo scorre nel mondo della pagina nello stesso modo con cui scorre nel mondo reale – con un flusso di azioni, dialoghi, pensieri e percezioni – e non con parolacce come “prima”, “dopo”, “poi” e “quando”.
 
La scrittura d’altra parte è sequenziale, anzi è la più sequenziale delle arti, e l’ordine cronologico degli eventi narrativi è già incorporato nella sequenzialità della scrittura: che un evento avvenga “dopo” è implicito nel fatto che si trova (de)scritto dopo, quindi non avrai mai bisogno di scrivere “dopo” per comunicare il passaggio del tempo.

Apro il frigo e poi prendo una birra.

Apro il frigo e prendo una birra oppure Apro il frigo per prendere una birra.

L’atto di prendere la birra è (de)scritto dopo l’atto di aprire il frigo, quindi è già temporalmente successivo, proprio per essere stato (de)scritto dopo, e quindi il “poi” è inutile.

Puoi anche vederla in termini di (mancata) simulazione: le due frasi hanno prodotto lo stesso film mentale – un personaggio che apre e il frigo e prende una birra – con o senza il “poi”, quindi il “poi” non dà alcun contributo simulativo, e tu non vuoi parole che – nelle azioni e nelle percezioni – non siano simulabili.

Nessun avverbio di tempo – in generale – è simulabile, e quindi nessun avverbio di tempo è legittimo nelle azioni e nelle percezioni, perché la tecnica del mattoncino, simulando la realtà, è tutta “qui e ora” e il lavoro degli avverbi di tempo lo svolge già in automatico la sequenzialità della scrittura.

La sola eccezione può essere rappresenta dall’avverbio fino a o finché, quando accompagna lo svolgimento di un’azione un po’ più lunga, che non avrebbe senso frazionare in una sequenza di micro-azioni.
 
Matteo allungò il foglio sulla scrivania come fosse un candelotto di dinamite, sino a portarlo sotto lo sguardo di Alessandro.
 
Due parole – per chiudere – sull’avverbio mentre, perché offre la possibilità di una considerazione generale.
 
Il mentre crea simultaneità (“mentre mamma prepara il sugo, io affetto il pane” ci comunica che un personaggio prepara il sugo e allo stesso momento un altro affetta il pane) ma in scrittura – a esprimersi con rigore – la simultaneità non esiste, non può esistere, proprio in ragione della sua stretta sequenzialità, o se vogliamo del fatto che è assente il senso della vista, per cui le cose si possono immaginare una alla volta, nell’ordine in cui le si leggono, e mai in contemporanea. Nel mondo della pagina, la simultaneità va costruita come impressione, come sensazione, giocando col ritmo della scena e se il caso aiutandosi con i gerundi (da maneggiare come fossero fili ad alta tensione) senza far mai uso di avverbi di tempo.

L’incipit di un romanzo pubblicato: un raro en plain di mostruosità.
Si parte con un riferimento extra-testuale (4 ottobre 2006, ore 9.13)
da cui c’è tutto da temere sulla capacità dellautore di rendere il senso di luogo.
Perché se è davvero così importante far sapere che sono le 9.13 del 4 ottobre 2006,
allora l’informazione va comunicata dall’interno della storia,
come conseguenza di ciò che avviene in scena, e non appiccicata come un post-it da fuori.
La prima parola è un “mentre”, il più micidiale degli avverbi di tempo,
perché crea – come si dice – uno “sbilanciamento a destra”:
il lettore non sa cosa sta succedendo finché non arriva alla fine della frase,
e quindi è come se tutta la scena fosse messa in pausa, finché non termina la lettura.
Già nel primo rigo, poi, si viene sbalzati fuori dal “Punto di Vista”:
cosa vuol dire “un film di serie B”?
Il personaggio saprà bene cosa sta guardando, no? Cos’ha davanti agli occhi?
 L’esorciccio? Pierino torna a scuola? Alle dame del castello piace molto fare quello?
Il personaggio lo saprà cos’ha davanti agli occhi, no?
E perché allora io lettore non lo so, se io sono lui e dovrei sapere tutto quel che sa lui?
Abbiamo poi “leccandosi le dita”, il ché è un’assurdità,
perché il gerundio crea simultaneitàfa sì che gli eventi accadano in contemporanea,
quindi si sta dicendo che il personaggio non fa altro che leccarsi le dita, per tutta la visione del film.
Ti pare? Dai, su
Non siamo ancora arrivati alla fine del secondo rigo,
e l’autore prova a far accadere in scena una molteplicità di cose,
nel tentativo inconscio di emulare il cinema (una follia, come vedrai nel modulo 18C).
Ed ecco arrivare il nostro bell’avverbio modale – “bellamente” –
che non si capisce quale contributo dia al processo di simulazione della pagina.
Concludiamo con il dialogo al telefono, una della cose più stupide al mondo
 (a meno di non limitarla a poche battute, ma non è questo il caso:
la conversazione andrà avanti a lungo)
perché si perde la recitazione di uno dei due personaggi
(tecnicamente: puoi usare i beat solo per uno dei due, non per entrambi).
Ce ne voleva di impegno per inanellare così tanti errori, in così poco spazio:
come “fare zero  al Totocalcio”, si sarebbe detto ai miei tempi.
 

Aggettivi


Per gli aggettivi valgono – all’ingrosso – le stesse regole degli avverbi.

Tutti noi ne facciamo largo uso nel parlato, così come nelle riflessioni personali, quindi via libera agli aggettivi nei dialoghi [D] e nei pensieri [P] del mondo della pagina.

Attenzione invece nell’usarli nelle azioni e nelle percezioni.
 
Estratto dalla “Lezione 26  – Aggettivi, riflettiamo prima di usarli”, di Giuseppe Pontiggia.

La posizione di Pontiggia va esasperata, condotta alle sue conseguenze ultime, quando si vuol fare entrare un aggettivo in un’azione o in una percezione.

Aggettivo viene da aggiungere, l’aggettivo è appunto una parola aggiunta a un’altra per qualificarla o determinarla, e c’è sempre da chiedersi se la qualificazione sia reale o apparente.

Valeria indossa un abito elegante.

Cosa vuol dire? Cosa deve immaginare il lettore? O meglio: cosa ha visto precisamente il personaggio, nel mondo della pagina, quando ha posato gli occhi su Valeria? Avrà visto Valeria indossare un tailleur, o una gonna con lo spacco e una camicetta, o non so che altro, ma di sicuro non ha visto “elegante”, perché “elegante” non esiste.

In che modo “elegante” aggiunge informazioni sull’abbigliamento di Valeria, se il lettore viene lasciato completamente libero di immaginare quel che vuole? La totale libertà di simulazione – su quelle cose che lo scrittore dovrebbe sorvegliare e tenere sotto controllo – equivale alla mancata simulazione, e la mancata simulazione è sempre e solo un errore.
 
“Elegante”, al più, è la rielaborazione soggettiva di ciò che il personaggio ha visto – ciò che abbiamo chiamato percezione psicologica, il mattoncino [PP] – ma devi appunto prestare la massima attenzione nell’infilare aggettivi nelle percezioni – fisiche o psicologiche che siano – così come nelle azioni, perché altrimenti rischi di infarcire il testo di semplici etichette prive di valore (cioè di parole non simulabili).
 
Semmai il personaggio potrà prima aver avuto una precisa percezione fisica, e quindi a esempio aver visto Valeria indossare un tailleur blu, e poi, eventualmente, dopo che al lettore è stato comunicato l’esatto abbigliamento di Valeria tramite la percezione visiva del personaggio, si potrà avere una rielaborazione della visione – ad esempio attraverso un pensiero, un mattoncino [P] – del tipo “come è elegante Valeria, questa sera”.

 
Un applauso per l’elegantissima Valeria.
 
I sostantivi, e non gli aggettivi, determinano la realtà; e sono pochissimi gli aggettivi che – accoppiandosi ai sostantivi – qualificano effettivamente meglio la realtà definita dal sostantivo.
 
Devi entrare nell’ordine di idee che gli aggettivi spendibili sono una rarità, che scovare l’aggettivo giusto rimane un’impresa, e più in generale che tutto ciò che è rilevante per la storia va mostrato – in modo dinamico – e non etichettato con aggettivazioni.

Piuttosto che qualificare i sostantivi con gli aggettivi, sforzati di creare comparazioni tra sostantivi.

Non scrivere:

Il panino è gigante.

ma piuttosto:

Il panino occupa l’intero piatto.

Allo stesso modo, non scrivere:

La finestrella è piccola.

anche perché come vuoi che sia una finestrella? Gigante? Dai, su.

E non ricorrere – meno che mai – all’indicazione delle misure:

La finestrella misura 20 cm quadrati

come se il tuo personaggio se ne andasse in giro con un righello in mano, a prendere le misure di tutto quel che incontra.

Scriverai piuttosto:

Dalla finestrella si riesce appena ad affacciarsi, la testa non ci passa.

Per dirlo in tre parole: non essere pigro.

Per riassumere

Lo scrittore va a caccia delle parole giuste – delle parole migliori per massimizzare l’impatto emotivo di  ciò che vuol comunicare – e sa bene che la prima parola che viene in testa non è mai quella giusta.
 
Per trovare la parola giusta – l’unica parola adatta a centrare l’obiettivo – serve ragionare, testare, modificare… e poi ricominciare.
  
Vietarsi l’uso di avverbi e di buona parte degli aggettivi – per riempire i mattoncini [A] e [PS] – vuol dire imporsi una disciplina nello scrivere, obbligarsi a trovare la parola giusta, rifiutare la complicità dei falsi amici che allontanano dalla scelta corretta, dei contrabbandieri che spacciano per buona la parola sbagliata, di parassiti che spostano su l’attenzione su di sé e la distolgono dalla scena
 
Ricorda: non esiste nessun avverbio o aggettivo capace di nobilitare la parola sbagliata, di trasformare una parola sbagliata in un’immagine giusta.


Editor


L’orologio sulla parete del mio studio segna le 9 passate: ancora devo iniziare, e sono già stanco.

Compio un giro completo sulla poltrona, sino a tornare davanti alla scrivania. Sospiro: iniziare è sempre la parte più difficile. Facciamo forza.

Stringo il segnalibro infilato tra le pagine delle Opere di Pirandello, e apro il volume: “Non so perché tutti i malcontenti della vita tutti i traditi dalla sorte, i gabbati, i disillusi i mezzi matti debbano venire proprio da me. Se li trattassi bene, capirei. Ma li tratto spesso a modo di cani; e sanno che non sono di facile contentatura, che sono crudelmente curioso, che non mi lascio ingannare dalle apparenze né abbindolare dalle chiacchiere.”

Eh sì, caro il mio Luigi! Parli così dei tuoi perché non hai mai visto i mei: chissà cosa sperano, a cosa ambiscono, quali muse li ispirano, quali spettri li tormentano

Tiro un lungo sospiro per prendere coraggio.

«Avanti il primo!»

Un panzone stempiato apre la porta e se la sbatte alle spalle. «La settimana scorsa le ho inviato il primo capitolo del mio romanzo.» Sposta una delle due poltrone attaccate alla scrivania e ci sprofonda dentro. «Lo ha letto?»

«Sì,
» sussurro.

Frugo dentro il cassetto alla ricerca della copia su cui ho annotato le mie osservazioni: dove diavolo è finita?

«Ebbene?»

Oh, eccola! «Sì, sì, mi scusi» Inforco gli occhiali, li spingo sul naso. «Dunque, allora» Deglutisco e gli sorrido. «Lei esordisce con in quei brevissimi attimi»

«Precisamente!» Gonfia il petto, dalla camicia mezza aperta fuoriesce una foresta di peli neri. «Ho scelto di iniziare proprio così: brevissimi attimi.»

Nascondo una smorfia dietro un sorriso. 
«Conosce la regola del contrario?»

«La regola di cosa?»

«Del contrario.»

Mi fissa accigliato, il faccione gli si trasforma in un punto interrogativo.

«Chiedersi sempre se un’affermazione possa ammettere il suo contrario. Brevissimi attimi. Può esistere un attimo lungo, anzi lunghissimo?»

Si gratta la guancia ricoperta da una barba sfatta, fissando il soffitto. Voglio proprio sentire con quale altra cazzata giustificherà la cazzata degli attimi brevissimi

«Alcuni attimi sembrano lunghi, se ci pensa bene.»

Lascio andare la testa come fosse un pendolo, accompagnando l’oscillazione con un borbottio a ritmo. «Gli attimi sono già brevi per definizione. Lei addirittura scrive brevissimi.»

«È un rafforzativo,
» grugnisce come se gli stessi estirpando un dente sano.

Soffoco un lamento. «Gli scrittori non hanno bisogno di rafforzativi.» E già che te lo devo spiegare, vuol dire che non lo capirai mai. «Il cosiddetto rafforzativo è segno di insicurezza, denuncia il timore di aver peccato di precisione, di chiarezza, di non aver veicolato l’idea, la sensazione, l’immagine.»

Passa la manona sulla pelata, l’ascella pezzata è quasi meglio del suo testo. Farfuglia qualcosa d’incomprensibile, meglio cambiare discorso.

Sfoglio le pagine. «Lei qui parla di un’orrenda mancanza d’ossigeno. Mi spieghi: una mancanza di ossigeno può forse essere magnifica, meravigliosa, splendida, stupenda?» Allargo le braccia e mi stringo nelle spalle. «È un rafforzativo anche questo?»

«Ha altro da dirmi?»

«Sì. Meticolosamente, semplicemente, definitivamente, completamente, solitamente, totalmente, ardentemente. Ci sono ben sette avverbi modali, in neanche mezza pagina.»

«E allora?»

Manco le basi del mestiere, santo cielo! «Avverbi e aggettivi sono le stampelle di chi zoppica nella scrittura. La forza di una frase è nei sostantivi e nei verbi.» Sfoglio altre due pagine. «Poi, vede, lei scrive subitanei momenti. La parola subitaneo, vocabolario alla mano, significa»

Si alza e piazza le mani sui fianchi, sbuffa. «Lei vuol dar lezioni di scrittura senza essere scrittore!» Scuote la testa, le guance diventano due palloncini. «E si permette di far pesare pure le virgole!»

Va via e sbatte la porta.

Sospiro: faccio pesare le virgole perché voi credete che il mondo ci orbiti, intorno alle vostre virgole.

Mi alzo e giro attorno alla scrivania, a passi leni. Apro il cassetto e tiro fuori il malloppo di opere d’arte da discutere oggi con tutti quei fenomeni là fuori. Le sparpaglio sulla scrivania, alla rinfusa: c'è un personaggio che ha un brivido lungo la schiena e un altro che gli dice “siamo in ballo e dobbiamo ballare”, roba freschissima, mai letta prima, davvero; c’è un donna sommersa in un onda gelida, e pazienza se si viene sommersi da e non in; due innamorati fissano un cielo costernato da stelle, sì, c’è scritto proprio così, costernato, cioè avvilito, desolato, dispiaciuto. 

Non capisco niente di quel che leggo: devono essere tutti dei geni.
 

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