MODULO 12 – Dialoghi: struttura, stile, contenuti


I dialoghi, il mattoncino [D]. O meglio, il blocco [BDG] perché i dialoghi sono per natura strutturati su una sequenza di battute, e va quindi capito come incastrare tra loro i singoli mattoncini [D] per formare un [BDG].
 
Sui dialoghi narrativi si sentono tante cose d’intonazione problematica – ad esempio che basta poco a renderli goffi, perdendo credibilità agli occhi del lettore – e non sorprendono i tentativi di placare così tante preoccupazioni con altrettanta letteratura specializzata.
 
 
C’è da rimanere meravigliati, almeno sulle prime.
 
Parlare è un’azione naturale, spontanea, e dialogare è la nostra attività principale e ricorrente. Parliamo e dialoghiamo di continuo, e le nostre giornate trascorrono per lo più così, parlando e dialogando.

Perché allora la scrittura dei dialoghi nel mondo della pagina è così complicata, se il correlato empirico nel mondo reale è così ovvio e spesso banale?
 
Vediamo di far chiarezza, col richiamo a concetti immediatamente spendibili, che toccano gli standard, la struttura, lo stile e il contenuto dei dialoghi narrativi; ne approfitteremo, in conclusione, per trarre delle considerazioni più generali su somiglianze e differenze tra il mondo reale e il mondo della pagina.
 

Standard


Bisogna leggere molto, anzi moltissimo, se si vuole avere qualche chance di scrivere bene.
 
L’indicazione è sostanzialmente corretta, ma si presta anche a ogni fraintendimento possibile. Non polemizziamo, non qui, non ora. Per scrivere bene, bisogna leggere molto, d’accordo. 

E tu – dimmi – lo stai facendo? Stai leggendo molto, anzi moltissimo? Ne dubito. Perché altrimenti io non avrei bisogno di dedicare una sezione agli standard di scrittura.

Una delle ragioni per cui si deve leggere molto – se vogliamo basilare, ma essenziale per la scrittura – è la possibilità di impadronirsi degli standard senza nessuna fatica, inconsciamente, semplicemente leggendo di continuo.

Gli standard sono l’unico tecnicismo che si può trasmettere direttamente attraverso la lettura, che può essere appreso “per contatto”. A furia di leggere ci si accorgerà che la scrittura di narrativa obbedisce a un numero ristretto di standard redazionali. Non esiste lo standard universale, è vero, ma il catalogo degli standard non è neppure così ampio.

Quindi mi sembra folle dover dedicare uno spazio agli standard, visto che gli standard si possono assimilare anche passivamente, col semplice contatto ripetuto con la pagina scritta.

Due parole però diciamole, visti gli orrori in circolazione.

La battuta di dialogo – per convenzione universale – è racchiusa tra virgolette, che possono essere le “alte” (“…”), secondo lo standard anglosassone, o le “caporali” («…») secondo lo standard italiano.

Avvolgere la battuta tra virgolette (alte o caporali) permette di identificare il dialogo a prima vista, ancor prima di leggerlo, e ciò favorisce l’immersione nella storia (tecnicamente parlando, agevola la decodifica della pagina, perché il mondo della pagina è un mondo scritto in codice).
 
Formalmente c’è la possibilità di annunciare la battuta con la lineetta (–), ma che sia la lineetta per l’amor del cielo, una lineetta, e non un trattino (-). Però non è una scelta furba, perché la lineetta non vuole la chiusura e quindi visivamente non si riesce a scorgere la fine della battuta; la stessa battuta – se annunciata dalla lineetta – deve poi essere breve, perché altrimenti se ne perde il controllo. La lineetta, insomma, crea più problemi di quanti ne risolva solo problemi, quindi evitala, e se proprio ti va di usarla, domandati almeno come mai non la adotta quasi nessuno (sono tutti stupidi e tu sei l’unico fenomeno?).

Altra cosa: non me ne frega un cazzo non importa se Saramago scriveva i dialoghi senza virgolette per maggior senso del realismo, perché – così diceva lui – nessuno nel mondo reale viene a chiudere tra virgolette le parole che pronunciamo, e quindi non serve farlo neppure nel mondo della pagina. Tu sei forse Saramago? Hai vinto anche tu un Nobel per la letteratura? No? E allora, fai il cazzo di favore di scrivere come i comuni mortali. Anche perché, vedi, gli dèi tollerano e consentono ai Re, cose che aborrono nei farabutti di strada, e siccome qui in giro non vedo teste coronate…
 
Scegli un tipo di virgolette per i tuoi dialoghi e usa sempre quelle. Io ti consiglio le caporali – le caporali per l’amor del cielo, le caporali («…») non il doppio minore e il doppio maggiore (<<…>>) chiaro? – perché così puoi sfruttare altrove le virgolette alte, semmai ti servissero.

Discorso punteggiatura: mettiti d’accordo con te stesso, o almeno con la maggioranza delle personalità multiple che si agitano dentro di te.
 
O la punteggiatura è esterna alla battuta oppure è interna.

Se scrivi:

«Cazzo, sarà dura imparare a scrivere i dialoghi».

con il punto fuori dalle virgolette, allora, per stretta coerenza, dovresti pure scrivere:

«Ma siamo sicuri che questo manuale serva davvero»?

col punto interrogativo fuori dalle virgolette, perché hai deciso che la punteggiatura va fuori.

Una merda cosa sgradevole, non trovi?
 
D’altra parte, se scrivi:
 
«Ma siamo sicuri che questo manuale serve davvero?»

stai usando un doppio standard – una volta la punteggiatura è esterna, una volta è sia interna che esterna – e già parlare di “doppio standard” dovrebbe insospettirti, perché uno standard è uno standard perché standardizza, e se invece si fa ogni volta diverso, allora che standard è? 
 
Meglio – secondo me – mettere la punteggiatura sempre dentro la battuta. Però sono solo convenzioni, e non voglio sembrarti più talebano di quanto già ti appaia, perciò fai pure come vuoi, purché tu faccia sempre la stessa cosa, in modo coerente.

Ultima precisazione, che in realtà nemmeno andrebbe data, se non fosse che a cadere nell’errore non sono solo gli scappati di casa con ambizioni di scrittura, ma anche sedicenti scrittori che beneficiano continuamente dei migliori consigli di grandi letterati (?) moderni.

VAI SEMPRE A CAPO – SEMPRE – QUANDO CAMBIA IL PERSONAGGIO CHE PARLA.
 
O se preferisci la declinazione al negativo:

NON SCRIVERE MAI – MAI – SULLA STESSA RIGA 
DELLE BATTUTE DI DIALOGO PRONUNCIATE DA PERSONAGGI DIVERSI.
 
Mi sembra folle dover precisare questa cosa. Bisogna non aver mai letto nulla in vita propria, o aver letto pensando a tutt’altro, per non essersi mai accorti, anche solo inconsciamente, che si va a capo quando cambia il personaggio che parla.
 
Questa sezione è già diventata insopportabilmente lunga, per pensare di tirarla ancora avanti. Non posso che ripeterti quel che ti sarai già sentito dire centinaia di volte: leggi, leggi, leggi…

Struttura


La struttura è quella cosa di cui ti accorgi solo quando traballa. Non ti interroghi mai sulla struttura di un tavolo, finché il tavolo è stabile e fermo. Ma se dondola, ti domandi il perché, ti accorgi della sua struttura (che non funziona più come dovrebbe).

È fondamentale dare una struttura solida al [BDG], affinché nessun lettore la noti, e possa così esser attratto esclusivamente dal dialogo in sé, da ciò che i personaggi dicono e da ciò che fanno mentre parlano, senza preoccuparsi di nient’altro.
 
Un [BDG] ammette 4+1 strutture (e arrivati alla fine delle prime quattro, capirai da solo, spero, perché dico 4+1 e non 5: perché la 4+1 non è un’opzione realmente spendibile, e viene citata solo per metterti in guardia contro l’errore del pirla):

1) battute nel vuoto;
 
2) dialogue-tag;
 
3) beat canonici;
 
4) beat nidificati;
 
4+1) battute annunciate.

Struttura 1: battute nel vuoto

«Che ore sono?»

«È ora che mi riaccompagni a casa.»
 
Compare solo lo scambio di battute, che se astratto dalle parti di testo precedenti e successive, è come se si materializzasse nel vuoto della pagina.
 
Questa struttura è consigliabile quando si vuole enfatizzare il contenuto delle battute, senza distrazioni di alcun tipo, ma è utilizzabile solo se il testo che la precede rende evidente – col contesto o per naturale alternanza – chi sta parlando. È sconsigliata – fortemente sconsigliata, lasciami dire – se in scena vi sono più di due personaggi, perché, al solito, se il contesto non lo rende auto-evidente, si rischia di non capire chi sia il detentore del diritto di parola.
 
In ogni caso, le battute nel vuoto devono essere brevi (non superare le due righe, che sono già un limite parecchio generoso) e non si può comunque pensare di tirarle troppo in là (questa struttura – in linea di massima – può supportare un dialogo con al più quattro battute, due per parte).
 
Il motivo è ovvio, se pensi alla storia come a una dinamica simulabile in fase di lettura, o se preferisci, a una recitazione su un palcoscenico: le battute nel vuoto equivalgono a due attori fermi e inespressivi, uno di fronte all’altro, che parlano senza fare nient’altro. È irreale, perché nessuno parla senza fare nient’altro. Ci sono sempre piccoli gesti o piccole azioni che accompagnano il dialogo. Nella struttura della battute nel vuoto, invece, è come se tutto si fosse cristallizzato. D’accordo, può succedere per qualche istante, poi però la scena deve tornare a scorrere.
 
Ti mostro un testo mal gestito, in termini di scelta di struttura.
 
 
Tralasciamo l’uso del doppio minore e del doppio maggiore in luogo delle virgolette caporali, e tralasciamo pure l’incoerenza della notazione, con la punteggiatura ora interna e ora esterna alle battute, per concentrarci sul puro testo.
 
La prima frase non sembra ottimizzata per localizzare il personaggio, però quel “Posta del cuore” restituisce all’istante l’idea di una rivista amena, di quelle che di regola occupano i tavolini delle sale di attesa degli studi medici, e infatti è proprio lì che il personaggio si trova.
 
Il primo [BDS] si conclude col personaggio con una caramella in bocca, e insieme alla caramella si “cucciola” (presumo voglia dire ciuccia) anche il dito. Nella testa del lettore, alla fine del [BDS], si è perciò formata l’immagine di una donna con una caramella e un dito in bocca. Immediatamente dopo, avendo in testa la fotografia di una donna con una caramella e un dito in bocca, arriva la battuta nel vuoto “Scusi”.

Chi ha parlato? Finora non abbiamo visto nessun altro personaggio in scena, quindi non può che essere la nostra protagonista, anche perché è lei che ha compiuto l’ultima azione e ha quindi il diritto di parola. Ma la nostra protagonista ci è stata fotografata con una caramella e un dito in bocca, cioè con la bocca impegnata. Come fa a parlare? Tu riusciresti a farlo, con una caramella e un dito in bocca?

E poi, a chi sta dicendo “scusi” e di cosa si sta scusando? La battuta stessa (“Scusi”) non ha in sé quella carica esplosiva che ne giustifichi l’isolamento, per assorbire interamente l’attenzione del lettore.
 
Proseguendo nel testo si scopre che il personaggio si è alzato (e ha stretto la borsa in grembo). Ma perché? Qualcuno lo ha chiamato? Chi? E perché io, lettore, non ho sentito nulla?

Andiamo avanti e capiamo che il personaggio sta attraversando la sala di attesa, e qui sorgono due domande. La prima: quanto è grande questa sala d’attesa? La seconda: quanta gente c’è in questa sala, da richiedere così tante scuse da parte del personaggio?

Noi leggiamo solo le continue scuse del personaggio, ma non vediamo nulla di ciò che l’ambiente gli sta rimandando in termini di percezioni sensoriali – di mattoncini [PS] – e che dovrebbe giustificare quel suo continuo scusarsi. Ha pestato i piedi a qualcuno? Lo ha spinto? O è un modo per chiedere di fare spazio? O che altro? Non si sa. Non solo le battute, ma un po’ tutta la scena è “immersa nel vuoto”: manca il contesto, l’ambiente.
 
E si può fare di peggio, perché al peggio non c’è fine, e toccato il fondo si inizia a scavare.



Questa battuta nel vuoto apre il racconto (scelta pessima!) e oltrepassa la riga; va bene che ti avevo detto che potevi spingerti fino a a due, ma avevo anche precisato che era un limite sin troppo generoso; suvvia, un minimo di buon senso.

Il grande problema, a ogni modo, arriva dopo, quando leggiamo “Patrizia parlò con voce sicura”. Quindi è Patrizia ad aver parlato, ad aver pronunciato la battuta che abbiano appena letto, e a cui solo ora capiamo che dobbiamo dare una “intonazione sicura”?

Tecnicamente funziona così: se scrivi una battuta nel vuoto, e poi appare un personaggio, la battuta è di quel personaggio. Tanto più che qui siamo all’inizio del racconto, non abbiamo ancora visto nulla, se non una battuta e un personaggio, e perciò il collegamento tra le due cose è meccanico, automatico.

E invece no! Non ha parlato Patrizia, ma qualcun altro. Chi? Bisogna aspettare ancora per saperlo, come se la narrativa fosse un gioco di enigmistica. È un professore che ha parlato, e Patrizia, ora, sta rispondendo con “voce sicura”. Peccato solo che io, lettore, non sento nulla della sua risposta, perché l’autore ha scelto di ricorrere al discorso indiretto (scelta pessima, anzi no, errore grave, da matita blu). E, per finire, ecco la prelibatezza della battuta annunciata, la nostra struttura 4+1, che abbiamo citato solo per mettere in guardia contro l’errore del pirla.

Un bellissimo strike, non c’è che dire.

Struttura 2: dialogue tag

«Ti amo,» sussurrò Daniela.

Alla battuta di dialogo si aggancia (si “tagga”, per usare un neologismo terrificante) una doppia qualificazione, per precisare chi parla (se non è ovvio) e soprattutto per dare il tono della battuta (se non è scontato dal contenuto della battuta stessa).
 
Attenzione, quindi, a non cadere in banalità imbarazzanti.
 
«Mi sto allenando a scrivere,» dice Daniela.

Sì, lo ha detto, e tutti abbiamo capito che lo ha detto nell’istante stesso in cui abbiamo letto la battuta: la semplice lettura della battuta ci ha già informato di per sé che Daniela ha detto “Mi sto allenando a scrivere”. Che bisogno c’è di sottolinearlo, di ribadirlo? Perché occupare spazio nella pagina con un parola (il disse) assolutamente inutile? E poi non senti come quel disse fa molto Faraone dell’antico Egitto? “Uccidete il prigioniero, ho detto”. Buffo, non trovi?
 
Dovresti a questo punto percepire da solo anche la goffaggine di cose di questo tipo.

«Imparerò mai a scrivere i dialoghi?» domandò Daniela.

«Sei senza speranza,» le rispose Fabiola.


C’è davvero bisogno di scrivere domandò, se la battuta è già una domanda con tanto di punto interrogativo, e precisare rispose, se si sta rispondendo proprio a quella domanda?

Il tag è inutile, se non qualifica l’intonazione della battuta, e la pagina è uno spazio troppo ristretto (e prezioso) per riempirlo con cose inutili. Evita i disse, i domandò, i rispose, e tutto ciò che non concorre a dare un tono a ciò che si legge.

«Ne sono convinto,» affermò Andrea.
 
«Sono d’accordo con te,» convenne Luca.

«Mi sembra una cazzata,» ribatté Paolo.
 
«Maledizione!» imprecò Antonio.
 
Cosa significano le parole affermò, convenne, ribatté, imprecò? In che modo ci aiutano a dare unintonazione a ciò che leggiamo? E poi non vedi che il contenuto stesso della battuta esprime già un’asserzione (nel primo caso) un assenso (nel secondo) un dissenso (nel terzo) e un’imprecazione (nel quarto)? Perché ribadire l’ovvio? Perché occupare spazio inutilmente?
 
Altri tag inutili sono replicare, sottolineare, concludere, e lascio a te – per esercizio – il completamento della lista, o meglio ancora lo sviluppo della sensibilità necessaria a ragionare senza sovrastrutture (giacché la lista dei tag molesti è infinita).


Condizione necessaria per la legittimità di un tag è l’aggiunta di un’informazione utile per colorare la battuta: sussurrare, urlare, piagnucolare, borbottare, bisbigliare, biascicare, mormorare, sono esempi di tag potenzialmente legittimi; sono leciti anche i tag del tipo abbaiare, sibilare, cinguettare, gracchiare che sono versi di animali e non corrispondono ovviamente all’effettivo tono di voce di un personaggio, ma ne rappresentano la soggettivazione psicologica messa in atto dal “Punto di Vista” (se questa spiegazione non ti è chiara, torna al modulo 9). 

Attenzione, però: la condizione è necessaria, ma non sufficiente. Anche un tag di per sé  legittimo può diventare superfluo, se non fa altro che confermare ciò che si era già capito dalla lettura della battuta.
 
«N-non ho ca-capito,» balbetta Antonio. 
 
Il balbettio in linea di principio sarebbe un tag legittimo – segnala una evidente alterazione di pronuncia rispetto alla normalità – ma siccome è la battuta stessa a essere balbettata, con la ripetizione di alcune lettere o sillabe, non ha senso ribadire ciò che il lettore avrà già inteso da sé, semplicemente leggendo.
 
E, ovviamente, è ancora più assurda una cosa di questo tipo (che pure ho visto scritta, perché non sarei mai arrivato a immaginarla da solo come esempio in negativo).

«Non ho capito,» balbetta Antonio.
 
Antonio ha balbettato? Sul serio? E perché io, lettore, non ho sentito nulla del suo balbettio? Per me, lettore, la frase “Non ho capito” scorre che è una bellezza, quando la leggo. Dove mai sarebbe il balbettio? Dove lo devo localizzare (in quale parola?) e quale estensione gli devo dare (quanto dura?) se tutto quel che leggo è un normalissimo “Non ho capito”?
 
Fai attenzione a non renderti ridicolo, qui come altrove.

«Sei una testa di cazzo!» urlò Alberto.
  
Urlò, di per sé, è un tag legittimo (fa immaginare un tono di voce sensibilmente più alto del normale) ma qui rischia di diventare una qualificazione banale. Se la battuta è “sei una testa di cazzo!”, con tanto di punto esclamativo, come pensi che lo si possa dire? Calmo, sereno e tranquillo?
 
Urlò, qui, potrebbe essere giustificato solo se in scena, fino a quel momento, Alberto non ha manifestato nessuna alterazione, o comunque si è trattenuto dal palesare la sua rabbia, e poi, all’improvviso, è esploso nella battuta “sei una testa di cazzo!”, che va quindi marcata con urlò.
 
Però, anche in questo caso, c’è da chiedersi quanto il tag aggiunga a ciò che si è implicitamente capito dalla lettura sino a quel momento. Se abbiamo visto Alberto sforzarsi il più possibile per mantenere la calma, se magari Alberto è il personaggio Punto di Vista” e quindi abbiamo accesso ai suoi pensieri, e se magari lo abbiamo sentito avere pensieri stizzosi, se insomma tutto il contesto ci ha trasmesso la sensazione di un Alberto che da un momento all’altro poteva esplodere di rabbia, ecco che urlò, tenuto anche conto del punto esclamativo, aggiunge veramente poco a quel che si può intuire da soli.
   
«Sei una testa di cazzo,» sussurra Alberto.
 
Qui il sussurra potrebbe aver senso. Alberto è nell’ufficio del capo, e ha appena subito un cazziatone per qualcosa che non ritiene essere colpa sua. Ascolta il rimprovero in silenzio, poi si alza e fa per andarsene. E, poco prima di uscire, arriva la battuta “sei una testa di cazzo”. Qui il sussurra ci sta tutto, perché non è scontato. Alberto sta dicendo “sei una testa di cazzo”, ma lo sta dicendo per sfogarsi, non per farsi sentire dal capo. Potrebbe però anche essere il contrario, potrebbe dirlo a voce normale, per farsi sentire e mostrare il suo disappunto prima di andar via. Il lettore non lo sa, e allora lo informiamo proprio con quel sussurra.
 
Chiediti sempre se il tag stia effettivamente aggiungendo informazioni utili a qualificare la battuta o se non faccia altro che ribadire ciò che è ovvio, o in varia misura noto dal contesto o dal contenuto della battuta stessa.
 
Ma la Rowling usa un sacco di “disse”, “chiese” e “rispose” nei suoi dialoghi, e mica solo lei. Lo fanno anche tanti altri, tutti scrittori di grande successo, e nessuno di loro si è mai fatto di questi problemi. Come la mettiamo?
 
La mettiamo che non ho mai detto che l’uso ridondante dei tag impedisca di essere pubblicati, e persino di riscuotere un notevole successo commerciale. Ho solo detto che l’uso ridondante dei tag segnala la mancanza di sensibilità verso le qualità musicali del linguaggio. Lo so benissimo che vengono pubblicati di continuo libri infarciti di dialogue-tag improponibili, ma non tutti gli scrittori pubblicati sono bravi scrittori, e la pubblicazione non santifica una pagina scritta male.

Eh, vabbè, vabbè… ma guarda cosa ho trovato in rete…guarda, guarda… non è come dici tu, alcune cose che tu segnali come sbagliate, in realtà si possono fare.

Ma tu hai capito dove ti trovi? Hai capito che sto dando il massimo per restituirti gratuitamente il meglio che ci sia, per mantenerti aggiornato sul miglior stato dell’arte possibile, per farti tenere il passo di un mondo che evolve rapidamente, in cui ciò che ieri era uno standard, oggi è indice di dilettantismo? Lo hai capito o no? Si le cose nun le sai… salle! – come pare si dica a Bolzano o a Bellinzona, e per favore torniamo seri.

La struttura dei dialogue-tag impone anch’essa battute brevi, anzi molto più brevi di quelle nel vuoto.

Una battuta è breve se il tag cade nel campo visivo del lettore già quando inizia a leggere il dialogo.
 
«Ti amo,» sussurrò Daniela.

Le frasi vengono sì lette parola per parola, ma interi pezzi di frase vengono percepiti in un colpo solo, non appena lo sguardo si posa sulla pagina: abbiamo appena letto il “Ti” di “Ti amo”, ma nello stesso istante abbiamo anche percepito l’intera frase (“Ti amo”, sussurrò Daniela) per cui già alla lettura del “Ti” sappiamo che a parlare, anzi a sussurrare, è Daniela.
 
Una regola del pollice stabilisce che la battuta non dovrebbe mai superare le cinque parole, in una struttura di dialogue-tag. E sicuramente non si possono mai scrivere cose di questo tipo.

«Già fatico ogni volta ad arrivare a fine mese col mio stipendio striminzito, ora non so proprio come diavolo farò, con questa spesa condominiale imprevista,» piagnucola Luigi.

Non funziona, perché il lettore scorre la battuta senza sapere quale intonazione darle, quindi la immagina pronunciata con tono sostanzialmente neutro, per scoprire solo alla fine che a tutto ciò che ha letto doveva invece dare una colorazione piagnucolosa. Brutto, non aiuta l’immersione nella storia, e rischia seriamente di pregiudicarla.
 
Osserva però che – al netto della lunghezza della battuta, che invalida la struttura – il piagnucola è corretto: una battuta di questo tipo – se astratta dalla sua lunghezza – può in effetti essere pronunciata in vari modi, con un tono piagnucoloso oppure, ad esempio, con un tono arrabbiato, e allora ci sta il dover informare il lettore sul tono usato dal personaggio.

Struttura 3: beat canonico

Laura si accomoda sul divano. «Hai una bellissima casa, Daniela».
 
Il beat è un’azione compiuta dal personaggio – o a volte, nel caso del personaggio Punto di Vista” anche un pensiero o una percezione – che di regola precede la battuta e consegna il diritto di parola; serve, formalmente, a dichiarare chi è che parlerà.

Laura si accomoda sul divano è un’azione compiuta da Laura, che le dà diritto di parola, e ci fa capire che è proprio lei a pronunciare la battuta successiva (“Hai una bellissima casa, Daniela”).
 
Attenzione, però. Sai cosa vuol dire la parola beat?
 
 
Il beat deve dare il senso ritmo, avere quanta più attinenza possibile con la battuta, andare in stretta continuità con ciò che il personaggio dirà, al punto da lasciarne intendere la stessa intonazione.
 
Tu puoi scrivere:
 
«Ti amo,» sussurra Daniela.

Ma potresti anche scrivere:

Daniela sorride e si avvicina al mio orecchio. «Ti amo.»

Molto meglio, non trovi? È ovvio – e non abbiamo avuto bisogno di esplicitarlo – che Daniela abbia sussurrato la battuta, perché si è avvicinata all’orecchio (e le cose all’orecchio vengono sempre dette sottovoce) e poi, dato il contesto, è la battuta stessa (“Ti amo”) ad acquistare un che di sussurrato. Osserva come il beat aggiunga un minimo di dinamicità (il sorriso di Daniela e il suo movimento verso l’orecchio del personaggio) che è sempre preferibile rispetto a una situazione statica.
 
Bisogna evitare i beat pigri, sciatti, banali, incolore, messi lì giusto per far compiere un’azione al personaggio – e meglio sarebbe dire non sapendo quale azione fargli compiere – solo per consegnargli un formale diritto di parola. Evita di far alzare o sedere il personaggio, di fargli grattare una guancia, o bere un bicchier d’acqua, o di farlo sospirare o tossire – un classico! – solo perché non sai cos’altro fargli fare.

Piuttosto, studia bene il linguaggio del corpo – ci sono testi dedicati all’argomento, che non ti sarà difficile recuperare – e poi convalida ciò che hai studiato con l’osservazione della recitazione inconsapevole delle persone, nel mondo reale, ogni volta che parlano.
 
Saper scrivere i beat – a più forte ragione se nidificati – significa avere il senso del ritmo delle battute, sforzarsi di riprodurre nel mondo della pagina quel mix di parole, gesti, mimica e pause, caratteristico della comunicazione orale nel mondo reale.

 
Mi raccomando: il beat deve rimanere un beat, cioè una piccola azione (o anche pensiero, se ci riferiamo al personaggio Punto di Vista”) con cui arricchire la battuta; non scrivere beat troppo lunghi, non trasformare il beat in un [BDS].
 
Volendo, puoi anche invertire l’ordine, mettere prima la battuta e poi il beat, cosicché la struttura si avvicina molto al dialogue-tag, con la differenza di avere un’azione anziché una qualifica di tono. Ma allora opera lo stesso vincolo del dialogue-tag: la battuta deve essere breve, se precede il beat; il lettore deve poter vedere il nome del personaggio già a inizio lettura.
 

Struttura 4: beat nidificato

Laura si accomodò sul divano. «Hai davvero una bella casa, Daniela.» Si guardò intorno e sorrise. «Arredata con gran gusto, complimenti.»
 
In una struttura a beat nidificati si ha un’alternanza di beat e battute, una sequenza del tipo [beat]-[battuta]-[beat]-[battuta]-[beat]-[battuta]-, senza mai andare a capo, particolarmente utile per tenere la scena in movimento in modo naturale, anche quando i personaggi sono fermi (ad esempio seduti uno davanti all’altro, separati da una scrivania).
 
È sicuramente una struttura dinamica preferibile a una di dialogue-tag agganciata ai gerundi (che se non adeguatamente ragionata crea simultaneità impossibili, insensate o comiche, come vedremo nel modulo 15D).
 
La nidificazione non può comunque andare troppo oltre (una sequenza [beat]-[battuta]-[beat]-[battuta]-[beat]-[battuta] è già piuttosto spinta) perché si rischia di scadere in una recitazione meccanica, robotica, quindi attenzione a non esagerare.
 
È buona norma concludere una struttura a beat nidificati con una battuta, perché concludere con un beat, sul piano formale, significa lasciare diritto di parola al personaggio, laddove, andando a capo, ci si aspetta che il diritto di parola sia trasferito a un altro personaggio. Evita insomma di creare conflitti tra le convenzioni di scrittura.
 
Ti lascio un esercizio: riscrivi – ottimizzandolo – questo dialogo della Rowling.
 
«Non gli si può dar torto» disse Silente con dolcezza. «Per undici anni abbiamo avuto ben poco da festeggiare».

«Lo so, lo so» disse la professoressa McGranitt in tono irritato. «Ma non è una buona ragione per perdere la testa. Stanno commettendo una vera imprudenza, a girare per la strada in pieno giorno senza neanche vestirsi da Babbano e scambiandosi indiscrezioni»
.
 
Lo scopo dell’esercizio è eliminare il disse con dolcezza (nella prima battuta) e il disse con tono irritato (nella seconda) e sostituirli con azioni (con beat) che di per sé comunichino dolcezza e irritazione (e, se è il caso, modificando anche il contenuto delle battute).  
 

Struttura 4+1: battute annunciate

E Dio disse: «Beati coloro che sanno scrivere i dialoghi, perché di essi è il Regno della Scrittura.»

Scrivi un dialogo così, un solo dialogo con questa struttura, dove la battuta viene preannunciata dal tag, e sarai ricoperto di infamia a vita.
 
Cose del tipo:

Daniela disse: «Bla, bla, bla.»
 
Fabio esclamò: «Bla, bla, bla.»
 
sono una colata di merda fumante sbagliate. 

È fondamentale che tu lo capisca, perché capendo questa cosa ne interiorizzerai tante altre.

La scrittura simula (con eleganza) la vita reale, quindi ogni cosa che scrivi sulla pagina è la versione (elegante) di ciò che accade nella vita reale. Ogni volta che scrivi qualcosa devi domandarti quale sia il corrispettivo reale di ciò che si trova sulla pagina.

Vediamo due casi.

«Che palle tutte queste correzioni,» borbotta Daniela.
 
Qual è il corrispettivo di questo passaggio, nel mondo reale? È Daniela che dice “Che palle tutte queste correzioni” con un tono lamentoso, con un borbottio. Prova a simularlo, e ti renderai conto che funziona: è recitabile su un palcoscenico in modo realistico e credibile.
 
E ora leggi qui.
 
Daniela borbotta: «Che palle tutte queste correzioni.»
 
A cosa corrisponde, nel mondo reale, questo passaggio? Corrisponde a qualcuno – un tuo amico, un estraneo, un altoparlante, una voce esterna – che ci blocca per richiamare la nostra attenzione su ciò che Daniela deve borbottare (“Oh, fermi tutti, che Daniela deve borbottare qualcosa. Dobbiamo stare tutti a sentire cosa Daniela ha da borbottare”). E dopo che questo amico (o estraneo, o altoparlante, o voce nel vuoto) le ha dato diritto di parola – anzi, di borbottio – Daniela può finalmente borbottare quel che deve borbottare: “Che palle tutte queste correzioni”.

E ora, dimmi, come funziona il mondo reale? Nel primo o nel secondo modo?
 
E poi non vedi come il preannunciare le battute, oltre a sbalzare fuori dalla storia, abbia un che di biblico, di mistico?
 
E Dio disse: «Beati coloro che sanno scrivere i dialoghi, perché di essi è il Regno della Scrittura.»
 
Appunto.
 

Mischia le carte!

Cosa ci insegna l’analisi delle quattro strutture (la 4+1 neanche la considero)?
 
Anzitutto che il beat (canonico o nidificato) è il modo più naturale ed elegante di gestire i dialoghi, perché è solo con i beat che puoi immaginare battute di dialogo un po’ più lunghe e accompagnare le battute con la recitazione. Le altre strutture (battute nel vuoto e dialogue-tag) presumono sempre battute brevi.

Attenzione, però. I beat (canonici o nidificati) sono la base di costruzione di un dialogo, ma in un testo ben fatto devono essere presenti anche le battute nel vuoto e i dialogue-tag, se pur con minor frequenza. Le quattro strutture devono esserci tutte, con prevalenza dei beat, d’accordo, ma ci devono essere tutte, e devono alternarsi senza nessuna regolarità.

Il motivo è ovvio, ma precisiamolo con un caso estremo: se usi sempre la stessa struttura (a esempio il beat canonico), il lettore a un certo punto lo noterà, anche solo a livello inconscio – “che strano, i dialoghi si assomigliano tutti … non so come dire, ma sembrano fatti con lo stampino” – e tu non vuoi che ciò avvenga, perché sarebbe un fallimento.

Le strutture dei dialoghi devono rimanere nascoste, e l’unico modo per nasconderle e variarle di continuo, farle girare, alternarle, senza regolarità. Devi tenerti lontano dalla ripetitività delle strutture come Superman dalla kryptonite. Cambiare e variare, alternanza e varietà: sono queste le parole d’ordine nell’uso delle strutture dei dialoghi e della scrittura in generale.

La ricerca di varietà può spingersi sino a una “violazione del canone”, che – ti prego di non fare confusione – non è una violazione delle regole. Le regole non si possono trasgredire, i canoni, volendo, si possono invertire.

Azzardo un paragone musicale. “Nella musica classica” – ci dice Wikipedia – “un canone è una composizione contrappuntistica che unisce a una melodia una o più imitazioni, che le si sovrappongono progressivamente”. Ma esiste anche il canone inverso, che “fa muovere la voce conseguente in moto contrario rispetto alla voce antecedente”, e non serve essere musicisti per capire che si tratta di una forma più complessa, proprio perché non basata sulla ripetizione dello stesso tema. Ma tanto il canone quanto il canone inverso sono legittimi.

Cosa dice il nostro canone di scrittura, in fatto di dialoghi? Che l’ultimo personaggio che compie un’azione ha diritto di parola. Quindi, se il personaggio “A” compie un’azione, e subito dopo appare una battuta di dialogo, il lettore si aspetta che a parlare sia stato “A”.

E ora guarda questo stralcio dal racconto L’eredità.


Nel primo rigo, il notaio ha compiuto l’azione del “sorridere” e questa azione gli consegna il diritto di parola: è lui, secondo il canone, il detentore della battuta.

E invece la battuta successiva non è sua. Qui si è voluta smazzare via ogni ambiguità, inserendo la parola “notaio” nella battuta, per cui è chiaro che a parlare non è il notaio (nonostante il diritto di parola lo aveva lui) ma sarebbe stato chiaro anche senza questo espediente, perché è ovvio dal contenuto che a parlare non può essere il notaio. Già, ma allora chi sta parlando? Jacopo, Diego o Adele?

Non ci sono dubbi: è Adele. E non solo perché – a prova di scemo – al rigo successivo arriva la conferma (con Jacopo che stringe la mano di Adele per zittirla). È ovvio nel momento stesso in cui la battuta viene pronunciata, via via che la si legge, perché è chiaro – sin dal primo rigo del racconto – che solo Adele può parlare con così tanto livore.
 
Ecco cosa vuol dire consegnare una voce al personaggio, rendere evidente chi sta parlando, anche senza nominarlo.
 
E lo stesso schema lo si ritrova nella battuta finale – altra battuta nel vuoto, con più personaggi in scena: situazione sconsigliata dal canone – che, di nuovo, non può che essere pronunciata da Adele, perché solo lei è così spasmodicamente interessata a capire l’entità dell’eredità.
 

Un’accortezza di metodo

Non commettere la stupidata di iniziare una scena con una battuta di dialogo, e non ti beare dei complimenti ricevuti per questa stupidata, da chi è ancora più stupido di te.
 
 

 
I casi sono due, se inizi una scena con una battuta di dialogo: o sei straordinariamente bravo o sei incredibilmente stupido. Ma se tu fossi già straordinariamente bravo, dubito che saresti qui a leggere il mio blog.
 
Te lo ripeto: non fare la stupidata di mettere in moto la scena con una battuta di dialogo.
 
Parleremo delle scene narrative nel modulo 22, e lì ti sarà chiarissimo perché partire con un dialogo è una scelta idiota.

Qui mi basta portare alla tua attenzione un punto molto semplice: chiunque può avviare una scena con una battuta a effetto, ne siamo capaci tutti, non ci vuole nessuna abilità, nessuna arte.

E perché dovresti desiderare far qualcosa di cui tutti sono capaci, qualcosa che non richiede né abilità né arte e non dà luogo ad alcun merito?
 

Stile

 
Lo stile (nei dialoghi) è ciò che marca la differenza più netta tra il mondo reale e il mondo della pagina.

Parlare e dialogare sono le attività umane più naturali, apprese già nella prima infanzia e mai più abbandonate sino al giorno della morte (anche perché indispensabili per stare al mondo, o almeno percepite tali da tutti). Parliamo e dialoghiamo di continuo, nel mondo reale. Il più delle volte per non dire nulla.

Abbiamo un po’ tutti – e alcuni in misura sorprendente – la straordinaria capacità di dilatare il più piccolo dei concetti nella massima quantità di parole, incuranti dell’ammonimento evangelico – “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto” (Matteo 12, 36) – che dovrebbe indurre tutti a un loro uso più misurato e consapevole.

Oppure usiamo la parola, nel mondo reale, come tanti sedicenti scrittori la usano nel mondo della pagina: per sfogarsi e lamentarsi, come se sfoghi e lamentele potessero rappresentare una soluzione ai problemi.

E quando non parliamo a vanvera e non ci lamentiamo, gli scambi di battute si riducono spesso a comunicazioni di servizio.

«Stai uscendo a fare la spesa?»

«Sì. Ti serve qualcosa?»

«Il collutorio della Elmex, se lo trovi»

«Okay.»

 
Che dialogo fascinoso! Peccato sia già finito. Avrei continuato a leggere per ore, per sapere se il collutorio l’hai poi trovato o no.

Parliamo e dialoghiamo di continuo, è vero, ma è anche vero che un buon 80% di ciò che produciamo nel mondo reale, in termini di dialoghi, è un “bla, bla, bla” inservibile per il mondo della pagina.

I dialoghi del mondo della pagina devono avere stile, e tuttavia sembrare reali, devono di necessità essere artificiosi, e però suonare naturali; e soprattutto devono servire a qualcosa.
 
Le parole-chiave del dialogo narrativo – gli elementi che ne definiscono lo stile – sono conflitto e obliquità.
 
Il conflitto è il grado di tensione nelle battute.

L’obliquità è il grado di disconnessione tra le battute.

Il conflitto nasce – in generale – da un desiderio che incontra un’opposizione, ma non si rassegna, e spinge con forza per essere appagato.

È il conflitto a mettere curiosità, e quindi a invogliare a leggere, ed è il conflitto a essere portatore di informazioni sui personaggi, che vengono fuori al meglio grazie all’obliquità.
 
L’obliquità è l’opposto della formula “a domanda, rispondi”, così in voga nel mondo reale. Nel mondo della pagina, al contrario, a una domanda non si risponde se non con un’altra domanda, o cambiando argomento, o in qualsiasi altro modo, ma mai direttamente; e tuttavia si risponde in modo da portare avanti la scena. Per usare una metafora, i rapaci non scendono sulla preda in linea retta, ma secondo una spirale, e allo stesso modo devono svilupparsi i dialoghi narrativi.
 
Scrivere buoni dialoghi significa saper dosare conflitto e obliquità.

Se crei dialoghi dove c’è solo conflitto, e non c’è obliquità, produrrai l’equivalente di una scazzottata.
 
Sei crei dialoghi dove c’è solo obliquità, e non c’è conflitto, produrrai l’equivalente di una discussione tra pazzi.
 
Se crei dialoghi dove c’è troppo conflitto e troppa obliquità, produrrai l’equivalente di una scazzottata tra pazzi.
 
Se crei dialoghi dove c’è poco conflitto e poca obliquità, produrrai l’equivalente di una discussione ordinaria. 

Conflitto e obliquità sono quindi strumenti delicati, da gestire con accortezza.
 
Più c’è conflitto (più le battute sono aspre) e più c’è obliquità (più è labile la connessione tra domande e risposte) e più il dialogo è brillante e la scena si carica di tensione, e quanta più informazione possiamo cavar fuori dalle battute, per far aumentare la curiosità del lettore e incollarlo alla pagina. Ma tanto più c’è conflitto e tanto più c’è obliquità, quanto più rischiamo di produrre dialoghi assurdi, irreali, che non portano a nulla e trasmettono un senso di estraneità.


Una ragazzina vuole andare al concerto di Jack Palumbo, l’idolo delle teenager di tutto il mondo, che farà una sola serata nella città in cui vive la ragazzina (e forse non ci tornerà mai più). La madre non vuole (la figlia è troppo piccola per stare in quella calca, chissà chi potrebbe incontrare, e poi il concerto finisce troppo tardi e si spaventa all’idea che giri di notte per la città).

Abbiamo una situazione conflittuale: il desiderio frustrato della ragazzina (di andare al concerto) che non si rassegna e lotta per affermarsi.
 
E ora? Cosa ce ne facciamo? La potenza è nulla, senza controllo, il conflitto non serve a nulla, se non c’è l’obliquità.

Analizziamo quattro scenari (le battute di dialogo sono piatte, ma tu devi coglierne il senso; utilizzeremo inoltre le battute nel vuoto, solo perché più veloci).

Obliquità assente

«Voglio andare al concerto di Jack Palumbo!»
 
«Ti ho detto di no.»
 
«Ma io voglio andarci!»
 
«E io ti ho già detto di no.»
 
«E invece si.»
 
«E invece no.»
 
Forse l’ho fatta un po’ troppo breve, ma è qui che arriva, anche abbastanza in fretta, un conflitto senza obliquità: a una ripetizione ossessiva del proprio punto di vista, al più riformulato con parole diverse.
 
Che ce ne facciamo di un conflitto così? Nulla.
 

Obliquità moderata

«Voglio andare al concerto di Jack Palumbo!»
 
«Ti ho detto di no.»
 
«Ma ci vanno tutte le mie amiche.»
 
Stop. Cos’è cambiato rispetto alla situazione precedente? È comparso un soggetto terzo (“tutte le mie amiche”, tutte le amiche della ragazzina) che prima non c’era e, a rigore, è esterno al conflitto madre-figlia. Non è totalmente esterno (perché siamo ancora dentro il perimetro del concerto: le amiche ci vanno, e lei no) ma è un elemento che non tocca né il desiderio della ragazzina di andare al concerto (lei vorrebbe andarci comunque, a prescindere che le sue amiche vadano o no) né le paure della madre (che sempre quelle rimangono, a prescindere da chi ci va). Abbiamo introdotto un filo di obliquità. Non tanta, ma c’è, e la presenza di questa obliquità può dare spunti interessanti.
 
La madre potrebbe ad esempio avere un tentennamento: cavolo, mia figlia sarà l’unica a non andare; il giorno dopo, a scuola, tutte le sue amiche parleranno di Jack Palumbo, e lei ne sarà esclusa, e magari finirà sola in un angolo a piangere, e tutto questo per una mia paura irrazionale, perché la vedo come una bambina, quando invece ha già sedici anni…
 
E come lo risolverà quel tentennamento? Cederà o no? Qualunque cosa farà, noi ne sapremo di più del suo carattere. Ecco che il personaggio-madre sta diventando reale: il conflitto esterno con la figlia sta portando alla luce un suo conflitto interno, e questi conflitti andranno sciolti, e sciogliendoli noi ne sapremo di più di lei, ed è esattamente così che il personaggio diventa tridimensionale, vedendo come reagisce davanti a situazioni conflittuali.

Ma perché siamo arrivati qui? Perché abbiamo introdotto un minimo di obliquità, che dal conflitto tira fuori qualcosa del carattere del personaggio.

Obliquità sufficiente

«Voglio andare al concerto di Jack Palumbo!»
 
«Ti ho detto di no.»
 
«E questa la mia ricompensa per tutti i bei voti a scuola?»
 
Stop. Stavamo parlando di andare al concerto, giusto? E cosa c’entrano i bei voti a scuola con Jack Palumbo? Assolutamente nulla. Sono due cose di per sé totalmente sconnesse. E tuttavia sono due cose che è lecito collegare, e noi le abbiamo collegate. E, collegandole, sappiamo ora che la ragazzina ha bei voti a scuola. Il lettore ora lo sa, come conseguenza naturale di ciò che sta avvenendo in scena.
 
Ma perché il lettore ora lo sa? Perché la battuta della figlia è piuttosto obliqua rispetto alla battuta della madre. L’obliquità genera informazione.
 
Però attenzione perché

Obliquità eccessiva

«Voglio andare al concerto di Jack Palumbo!»
 
«Ti ho detto di no.»
 
«Che palle! Quando avrò diciotto anni andrò via di casa e farò quello che voglio.»
 
«A diciotto anni farai quel che vuoi, ma finché stai qui, si fa come dico io.»
 
Più le risposte sono oblique, più si può generare informazione, ma se si esagera si rischia di distruggere tutto, e regredire di fatto a una situazione di assenza di obliquità.
 
La risposta della ragazzina (“a 18 anni vado via di casa”) è totalmente sconnessa dal concerto di Jack Palumbo. Potrebbe anche starci in un dialogo vero – anzi, in un dialogo vero sarebbe proprio la risposta più probabile – ma il fatto è che ci porta fuori pista, ci riconduce a un muro contro muro da cui non è possibile cavare niente.
 
Quindi, sì, schiacciamo pure il pedale dell'obliquità, ma attenzione a non schiantarci.
 

Contenuto


Ora sai quale struttura dare al dialogo, come formalizzarlo sulla pagina affinché il lettore non sia distratto dalle convenzioni di scrittura.

Sai pure quale taglio stilistico dare alle battute, affinché il lettore sia incuriosito dalla conversazione dei personaggi e incentivato a proseguire.

Siamo all’ultimo punto, il più delicato, rispetto al quale non ci potranno mai essere risposte altrettanto precise.

Quali battute mettere in bocca ai personaggi? Cosa scrivere materialmente tra le virgolette per avere dialoghi brillanti e verosimili?

Questa pretesa – di sapere da altri quali battute far pronunciare ai propri personaggi – non è diversa dalla pretesa di avere una formula preconfezionata, di sicuro successo, per fare innamorare una donna (o anche solo per persuaderla a fare sesso).

Cosa vuoi che ti dica? Non esiste, non c’è. E mano male. Perché altrimenti il gioco (della conquista, della scrittura) perderebbe ogni fascino. Devi sapere – semplicemente, tautologicamente – come si fa.

Devi conoscere i tuoi personaggi, e questo è tutto. Che, se vogliamo, è una declinazione del principio generale “scrivi solo di ciò che conosci”.
 
Conoscere il tuo personaggio significa sapere tutto di lui: la carta di identità (nome, cognome, età, luogo di nascita, di residenza, di lavoro, aspetto fisico, …); la sua giornata tipo (come si veste, come si sposta, come mangia, quando a va a dormire, …); l’ambiente in cui si trova (famiglia, amicizie, titolo di studio, lavoro, sport, hobby, …); la sua interiorità (vizi e virtù, debolezze, miti, maestri, riferimenti culturali, rapporto con la religione, con la sessualità, …); e poi il suo passato e la relazione con la storia, proprio come se fosse una persona reale.

Ovviamente non tutte queste cose entreranno nella storia, anzi, per esser chiari, solo una frazione minima di tutto ciò che conosci del tuo personaggio troverà uno spazio esplicito all’interno della pagina. Ma non è questo il punto.

La rilevanza sta tutta nel fatto che devi comunque sapere tutto del tuo personaggio, per consegnarli una sua voce.

Avere personaggi ciascuno con una sua voce è un mantra della narrativa, una di quelle formule che si ripetono di continuo, anche se nessuno ne capisce realmente il senso, ma che bisogna comunque continuare a ripetere, perché così si esorcizza il male.

Cosa significa – in concreto – che ogni personaggio deve avere una sua voce? Cosa vuol dire – in pratica – che il lettore dovrebbe poter capire chi sta parlando senza bisogno di leggere il nome del personaggio? Come si ottiene questo effetto, ammesso sia realizzabile?

Molti problemi tecnici di costruzione del mondo della pagina si smarcano con l’osservazione critica del mondo reale, con un’opportuna trasposizione all’interno della pagina di ciò che accade nella realtà.

Ma la realtà ci mette in fuori gioco, quando si arriva alla voce dei personaggi, perché ci pone davanti al più classico dei lost in translation.

Cosa caratterizza la nostra voce, nel mondo reale? Il timbro vocale, il tono, la cadenza, l’accento, le pause, il ritmo di scansione delle frasi, insomma tutta una serie di elementi strettamente sonori, acustici, impossibili da rendere anche solo approssimativamente nel mondo della pagina. Prova a consegnare al tuo personaggio la cadenza siciliana, non il dialetto, ma solo la cadenza, la parlata, l’accento. Non ci riuscirai mai. Perché è impossibile (a meno di non introdurre uno o più termini dialettali, che inducano a sentire la frase con accento siculo).

Un trucchetto infantile per caratterizzare la voce di un personaggio è attribuirgli un intercalare, in modo che il lettore lo colleghi all’istante alla battuta in cui l’intercalare è presente. Ragionaci un attimo e ne capirai da solo i limiti.

Un intercalare è una parola infilata con alta frequenza in una frase – qualunque sia la frase, di qualunque cosa si parli – e che può essere rimossa senza alterarne il significato. Ho un collega che ha l’intercalare come dire. “Il problema, qui, non è tanto nell’impostazione, quanto – come dire? – nelle modalità attuative”. Avevo un’amica, all’università, che infilava un ve’? alla fine di ogni frase. “Bella villa Torlonia, ve’?”. Mio padre – che possa riposare in pace – metteva un non so se mi sono spiegato a conclusione di qualsiasi cosa dicesse, fosse pure la più banale. Il mio primo capo, nel mio primo lavoro, infarciva di teoricamente e praticamente tutte le sue indicazioni, alternandoli peraltro in modo casuale, senza alcuna connessione con ciò che stava dicendo, e il più delle volte – te lo giuro – li abbreviava in oricamente e raticamente, e quando era nervoso contraeva tutto in ricamente.

Ora, se anche tu hai avuto esperienze simili, starai realizzando quanto è fastidioso intrattenere discussioni con persone affette dagli intercalari, e quanto l’intercalare finisca col diventare – inevitabilmente – motivo di scherno o motteggio. È un’idiozia attribuire un intercalare al personaggio, con l’idea di “consegnargli una sua voce”, a meno che tu non voglia creare un personaggio detestabile, anti-empatico, verso cui il lettore deve provare repulsione; in questo caso, sì, dagli pure un intercalare, se vuoi.

Entra piuttosto nell’ordine di idee che la cosiddetta voce del personaggio ha poco a che fare – in generale – con la voce del mondo reale. Esprime più che altro tutto il suo mondo (interiore ed esteriore) ed è per questo che quel mondo va conosciuto in ogni dettaglio: per poter poi selezionare le parole più adatte a rappresentarlo, perché sulla pagina – modulo 6 – ci sono solo parole scritte, meri segni grafici da decodificare.

Estratto da Scrivere grandi dialoghi, di Linda Seger e Johm Rainey.

Ovviamente le parole pronunciate in un dialogo restano centrali, e devono essere massimamente congruenti con il personaggio che le pronuncia, ma sempre sotto il vincolo di comprensione da parte del lettore.

Se il tuo personaggio è un ispettore della Banca d’Italia, allora dovrà esprimersi come un ispettore della Banca d’Italia, soprattutto quando si trova nell’ambiente lavorativo. Parole come “sofferenze”, “trading book”, “IAS”, “rettifiche analitiche e forfettarie”, “requisito di capitale” faranno parte del suo gergo tecnico, del suo parlare comune quando si trova al lavoro. Però non bisogna dimenticarsi del lettore. L’ispettore della Banca d’Italia parlerà come un ispettore della Banca d’Italia, ma il lettore dovrà sempre capire tutto, perché se il lettore non capisce, a causa del gergo tecnico, allora a nulla vale avere un ispettore della Banca d’Italia che si esprime come deve esprimersi.

L’abilità sta nel mediare tra esigenze contrapposte: bisogna semplificare il linguaggio tecnico per renderlo comprensibile al lettore, senza snaturarlo, senza mai portarlo sotto quella soglia che non rende più credibile che a parlare sia un ispettore della Banca d’Italia: “everything should be made as simple as possible, but no simpler”, per dirlo con una frase attribuita (impropriamente?) ad Einstein.

Ti mostro un esempio reale, ripreso da una mia esperienza di editing con un’autrice di racconti di fantascienza.

Siamo dentro un’astronave, e quindi i nostri personaggi sono astronauti, che giustamente parlano tra loro a colpi di termini tecnici. I dialoghi erano ineccepibili nei loro contenuti – l’autrice sapeva bene di cosa stava scrivendo, perché sull’argomento si documenta… da sempre – ma incomprensibili a un lettore medio (e probabilmente anche a un lettore in target di fantascienza).
 

 
Uno stralcio della documentazione usata dall’autrice, per scrivere i dialoghi.

Lei difendeva le sue scelte in un modo se vogliamo anche legittimo: “non posso togliere tutti i termini tecnici di utilizzo ‘normale’ dei personaggi. Se io sono il personaggio, devo usare il suo linguaggio per renderlo credibile, non posso farlo parlare come un pasticcere, per dire”.
 
E dimostrava pure una notevole sensibilità artistica, nel voler evitare i cosiddetti infodump, che qui avrebbero preso la forma di dialoghi irrealistici, a uso esclusivo del lettore: “loro sanno di cosa stanno parlando, cioè non posso mica far spiegare tutto al personaggio”.

Tutto giustissimo, solo che non teneva conto del vincolo di comprensione da parte del lettore.

Uno dei passaggi problematici – a quanto sono riuscito a recuperare dallo scambio di mail – era nel termine “manovre di ingresso e uscita dall’orbita”, che secondo lei era troppo scolastico, didascalico. Come se un ispettore della Banca d’Italia si mettesse a dire – a uso del lettore – “quantità di capitale proprio che una banca deve stanziare a copertura dei rischi, in modo da assorbire eventuali perdite che si dovessero registrare in bilancio, senza scaricarle sui depositanti”, anziché usare il termine tecnico “requisito di capitale”, di cui conosce perfettamente il significato, e che userebbe realmente in un contesto lavorativo.
 
Le ho dato l’unico suggerimento possibile: aggirare il problema. Perché – e questo è un principio generale – la scrittura, almeno qui, fortunatamente, non è come la vita: in scrittura i problemi o si evitano o si aggirano, ma di sicuro non si affrontano mai a viso aperto.
 
Ti riporto lo stralcio della mia mail, con sottolineato in rosso il passaggio decisivo.
 

È chiaro quel che puoi fare per contemperare il realismo della situazione con la comprensione del lettore?
 
Dai al lettore un elemento che possa capire (a esempio fai rivolgere a un personaggio una domanda in termini accessibili a tutti) e poi sfrutta la continuità della scena con quell’elemento noto per introdurre un gergo più specialistico, che a quel punto sarà chiaro per naturale estrapolazione dall’elemento noto (la risposta alla domanda potrà pure essere squisitamente tecnica, ma avendo chiara la domanda, il lettore riuscirà ad afferrare anche il senso della risposta).

Dopo vario mercanteggiare, si era arrivati a una soluzione di questo tipo:
 
«Come va il check dei propulsori di controllo orbitali?»

Rick entra sul ponte e si infila al suo posto, sul sedile di sinistra. «Quasi terminato Comandante. Motori RCS, okay.»
 
«Ho sentito delle lievi vibrazioni, hai dovuto correggere l’assetto?»
 
«No comandante, l’assetto è okay, ma i propulsori Vernier hanno stabilizzato la velocità orbitale.»

Per la cronaca: il racconto è stato poi pubblicato da una rivista specializzata in storie di fantascienza. Piccole soddisfazioni, che sono tutto: “c’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…” – scriveva Trilussa – “Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.
 
 
 
Il problema dei termini tecnici ti si presenterà in realtà di continuo, perché tutti i personaggi – ispettori della Banca d’Italia, astronauti, insegnanti di scuola elementare, contadini, antiquari, … – vivono in un loro mondo che avrà sempre i suoi tecnicismi.
 
Mettiamo che il tuo personaggio sia un collezionista di francobolli antichi. Un possibile dialogo con un commerciante – che al solito, per brevità, riporto nella forma di battute nel vuoto – potrebbe essere questo.

«Mi spiace, non compro lettere con annulli non passanti.»

«Ma le assicuro che—»

«Guardi, non mi importa cosa lei mi assicura, io non compro lettere con annulli non passanti.»


I collezionisti e i mercanti filatelici si esprimono così: annulli non passanti. Ma tu, lettore tiepido, cosa hai capito? Nulla, vero? E allora a nulla vale che il collezionista si sia espresso come si doveva esprimere.

Però, se stai scrivendo di collezionisti, ne saprai abbastanza di collezionismo da aggirare il problema, sarai capace di preservare il gergo e al tempo stesso a far capire al lettore di cosa si sta parlando.

«Mi spiace, non compro lettere con annulli non passanti.»

«Ma le assicuro che—»

«Non se ne abbia a male, non metto in dubbio l’originalità della lettera, ma io ho bisogno di vedere un annullo che colpisce sia il francobollo che la lettera, perché è solo allora che ho la sensazione che le due cose siano fuse: quando l'annullo non passa sulla lettera, proprio non riesco ad emozionarmi.»


Chiaro, ora, cos’è un annullo non passante? È un annullo che colpisce solo il francobollo, ma non la lettera; e i collezionisti sono per natura guardinghi verso lettere con annulli non passanti, perché temono che i francobolli siano stati apposti successivamente, per creare ad arte un oggetto postale di valore commerciale più elevato (visto che le lettere complete valgono più dei francobolli singoli).

Il collezionista non sta spiegando al commerciante cosa sia un annullo non passante. Perché mai dovrebbe? Entrambi già lo sanno. Il collezionista gli sta comunicando i motivi – intimi, personali – per cui per lui una lettera con un annullo non passante non può entrare in collezione. Non teme una truffa, non sta dubitando dell’originalità dell’oggetto né dell’onestà del commerciante, solo che se l’annullo non passa, lui non si emoziona, perché è come se venisse meno il legame tra la lettera e il francobollo; e spiegando questa cosa al commerciante, anche noi, lettori, veniamo a sapere cosa sia un annullo non passante.
 
In teoria – te lo segnalo giusto per completezza – si possono pure produrre battute di dialogo dove il lettore capisce tutto in generale pur non capendo nulla in particolare.
 
«Abbiamo un trauma occipitale, una frattura pelvica esposta, una grossa ferita aperta addominale.»
  
Nessuno – a meno che non sia un medico – ha capito esattamente, in dettaglio, in cosa consistano i singoli specifici problemi; ma tutti – medici e non – abbiamo capito che la situazione è grave, e tanto basta; è una manifestazione di un principio generale della scrittura – non è la somma a fare il totale  – ma io ti sconsiglio di cimentarti in questi virtuosismi, quanto meno all’inizio.

Il messaggio generale da trattenere è che i personaggi parlano sempre e solo tra di loro, di cose di cui per loro ha senso parlare, e nei modi in cui ha senso farlo, in funzione della situazione in cui si trovano.
 
I personaggi non sanno che c’è qualcuno là fuori – fuori dal mondo della pagina – che sta leggendo la loro storia, perciò non parlano mai a uso del lettore (perché, appunto, non sanno e non credono che ci siano dei lettori, proprio come nessuno di noi crede che ci siano degli spettatori metafisici, fuori dal mondo reale, che osservano le nostre vite).

Solo tu scrittore, dio creatore, sai che là fuori c’è pure il lettore, che deve sempre capire tutto quello che i personaggi si dicono. E l’arte dello scrivere dialoghi è tutta qui: mettere i personaggi in situazioni in cui possano venire fuori con naturalezza delle informazioni comprensibili e utili anche al lettore.
 
Ci si muove sempre su un filo teso per aria senza rete di protezione sotto, quando si fanno parlare i personaggi: è un attimo a cadere nella gora dell’eterno fetore dell’ infodump.
  
Un dialogo naturalissimo e massimamente realistico sulla pandemia.

Ti suggerisco di cominciare a vedere annulli non passanti un po’ ovunque.

Cosa voglio dire? Semplicemente che devi abituarti a mostrare le cose, a non adagiare la tua scrittura su una sequenza di etichette, magari di per sé precise, ma che rischiano di non significare nulla per il lettore. Nel dubbio, mostra, non etichettare.

Non cullarti sull’idea che “tutti conoscono il significato di questa parola”. Almeno 7 volte su 10 non è così, se usciamo dal vocabolario standard. Molti termini – e sicuramente più di quanti ne puoi immaginare a intuito – sono più tecnici di quanto credi oppure non sono così diffusi come credi.

Ragiona a fondo sulle parole. Aiutati con Google, se necessario, se non altro per avere un’indicazione della loro frequenza.

 

 
Se Google trova quasi 8 milioni di risultati alla voce “appendiabiti”,
e neanche 2,5 milioni alla voce “attaccapanni”,
valuta di usare appendiabiti invece di attaccapanni. 
 
È un luogo comune – semplicemente falso – che i dialoghi siano la bestia nera degli scrittori. Lo diventano solo quando non conosci i personaggi, o pur conoscendoli ti disinteressi sovranamente del lettore, o quando te ne preoccupi sin troppo ingozzandolo di spiegazioni. Altrimenti – garantito – le cose fluiscono alla grande (sotto la solita condizione di pensare prima di scrivere).

Per riassumere

Non riuscirai mai a scrivere un buon dialogo, se ti focalizzi sul dialogo. Devi spostare i riflettori sul personaggio, sulla conoscenza profonda del personaggio e della situazione in cui si trova, da cui poi scaturiranno in modo (quasi) naturale le parole da mettergli in bocca.
 
Torneremo sulla conoscenza dei personaggi nei moduli 18A e 18D, e allora ti sarà chiaro in che senso – come si legge nei manuali – i dialoghi servono per rivelare la mentalità del personaggio, esprimere la sua vita relazionale, renderne noto il background e il vissuto, rivelarne le priorità, le speranze e i desideri, lasciarne intendere le paure, dare risalto alle sue qualità.
  

Sull'eleganza dei dialoghi (e della pagina)

Registra un dialogo tra i tuoi amici, e poi riascoltalo, o meglio ancora trascrivilo. Ne avrai una sensazione di sgomento: incisi, interruzioni, balbettii, frasi spezzate o lasciate in sospeso, altre fuori contesto, e poi tutti quegli “ehm”, “uhm”, “oh”, e troppo ci sarebbe da aggiungere. Ma davvero le persone parlano così? Eppure non è questa la sensazione che abbiamo, quando le ascoltiamo in tempo reale. 
 
Ora guarda i dialoghi nel mondo della pagina: precisi, chiari, perfetti… e così incredibilmente realistici! Com’è possibile? La gente non parla in quel modo, nel mondo reale – lo hai sperimentato tu stesso, con la registrazione dei tuoi amici – eppure i dialoghi nella pagina sembrano veri, sono una costruzione artificiale capace – se fatta bene – di restituirci un’immediata impressione di genuinità.

Questa illusione percettiva veicola un obiettivo generale sull’effetto da ricercare in ogni fase della narrazione, dagli aspetti microscopici, come i dialoghi, sino alla dimensione macroscopica sull’impostazione della storia: non la realtà a tutti i costi, la realtà così com’è, ma una finzione elegante, che sembri reale.

Guarda la vita, la tua vita di ogni giorno, nel mondo reale. Gli eventi sono per lo più fuori dal tuo controllo diretto, li subisci nel loro accavallarsi senza logica, e tra un giorno e l’altro c’è sempre un grande punto interrogativo, quando non c’è un burrone. Ti regoli come puoi, in teoria al meglio delle tue possibilità, in pratica per tentativi ed errori, a volte a intuito, a istinto, altre con ragionamenti lucidi ma inevitabilmente approssimati, altre ancora sull’onda dell’emotività, comunque sempre pronto a cambiare idea, a invertire la direzione di marcia, senza mai sapere quel che accadrà, se la tua scelta si rivelerà vincente o se dovrai pentirtene sino all’ultimo dei tuoi giorni. E nuovi eventi sono già all’orizzonte, pronti a scombinare ogni calcolo, a farsi beffa di ogni previsione.

Ognuno di noi – citando Shakespeare – “non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora” e la nostra vita, nel mondo reale, è solo “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.

E ora guarda la vita dei personaggi, nel mondo della pagina. Riesamina tutte le storie che conosci, da Cenerentola e Biancaneve sino a Romeo e Giulietta, Macbeth, I promessi sposi, I miserabili, Madame Bovary, Il fu Mattia Pascal. Pensa a questi mondi immaginari, usciti fuori dalla fantasia dei loro autori, che in vario modo traggono ispirazione dal mondo reale, ma sono poi impostati su sequenze logiche e sviluppi precisi, con l’obiettivo di restituire al lettore un messaggio ricco di significati, di dargli un insegnamento che risuoni con la sua anima. Persino i cosiddetti “colpi di scena” – se spogliati della prima impressione e analizzati col tecnicismo narratologico – si rivelano per quel che sono: non già eventi imprevisti e imprevedibili, ma situazioni a cui l’autore ha pensato sin dal principio, e di cui ha perciò gettato le basi lungo tutta la storia, definendone le necessarie premesse, per renderli coerenti.

Nella realtà, banalmente, gli eventi accadono e basta. Nelle storie, al contrario, ogni evento ha un significato e uno scopo nell’economia della narrazione. Si dice – in questo senso – che il Demone del Caso domina la realtà, il Principio di Necessità governa le storie, che “la vita può sbagliare, l’arte no”, con l’efficace slogan di Pontiggia.
 
Così, se la vita nel mondo reale è “una favola raccontata da un idiota, che non significa nulla”, la vita nel mondo delle storie si ispira sì alla realtà, ma poi l’oltrepassa, per definire un filo conduttore tra gli eventi non solo a livello causale o cronologico, ma soprattutto tematico, per proporre contenuti che stimolino nel lettore tutta una serie di riflessioni su sé stesso, sulla vita, sul mondo.
 
Il mondo della pagina è la versione elegante del mondo reale, a ogni livello, con qualunque grado di risoluzione lo si voglia osservare, dagli aspetti micro (come i dialoghi) a quelli macro (di progettazione della storia) senza che l’eleganza tolga verosimiglianza alla costruzione artistica.

Quel che va ricercato nella costruzione della pagina – a ogni livello – è quella wonderful confusing che ci porta a dire “è così bella che sembra finta” di una pianta vera, e “è fatta così bene che sembra vera” di una pianta finta.

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