Modulo 26 – Esercizio #10
Veniamo da un esercizio – il 9 – in cui una buona idea è stata rovinata da una tecnica inadeguata, da uno stile ingenuo, anche se non fino al punto da inibirne una riscrittura (seppur a prezzo di sforzi notevoli).
L’occasione è utile per chiarire un punto generale: un testo è scritto bene, non già se è privo di errori, ma se gli (inevitabili) errori che contiene ammettono una correzione, ed è scritto tanto meglio quanto meno tempo serve a correggerli; è solo il tempo necessario a correggere gli errori – non il numero di errori in sé o la loro gravità formale – a segnalare la qualità della scrittura.
Possiamo spingerci sino al paradosso, e arrivare a dire che, sì, è auspicabile conoscere la lingua italiana – parole, strutture, sintassi, grammatica – ma non sarebbe così drammatico se per assurdo un testo contesse una marea di congiuntivi sbagliati: perché potrebbero essere corretti automaticamente in pochi minuti, proprio come in pochi minuti si correggono tutti i refusi.
Non sei a scuola, non devi dimostrare alla professoressa di italiano di aver studiato da pagina 12 a pagina 17, e di aver prodotto un testo rispettoso dei formalismi spiegati da pagina 12 a pagina 17.
Possiamo spingerci sino al paradosso, e arrivare a dire che, sì, è auspicabile conoscere la lingua italiana – parole, strutture, sintassi, grammatica – ma non sarebbe così drammatico se per assurdo un testo contesse una marea di congiuntivi sbagliati: perché potrebbero essere corretti automaticamente in pochi minuti, proprio come in pochi minuti si correggono tutti i refusi.
Non sei a scuola, non devi dimostrare alla professoressa di italiano di aver studiato da pagina 12 a pagina 17, e di aver prodotto un testo rispettoso dei formalismi spiegati da pagina 12 a pagina 17.
Sei – ambisci a essere – uno scrittore con un suo percorso autoriale, e i tuoi errori (in senso proprio) non sono quelli di grammatica o altri dello stesso ceppo (che in ogni caso – fuori dal paradosso – non mi aspetto di trovare in misura rilevante) ma gli errori tecnico-stilistici, e la loro gravità dipende da quanto tempo (sforzo) occorre a rimuoverli.
Per spiegarlo ancora con l’efficacia del paradosso – ma meno di quanto si pensi – immagina di aver infilato un avverbio modale all’interno del mattoncino [PS] delle percezioni sensoriali, contravvenendo alla regola che ne legittima l’uso solo nei pensieri [P] e nei dialoghi [D]. È un errore grave o no? Ci vuole un istante a cancellare il malefico avverbio (e quindi potrebbe sembrare un errore veniale) ma cosa succede dopo averlo eliminato? La frase sta ancora in piedi? Passa ancora il messaggio che si voleva far passare? O aver eliminato l’avverbio modale ha distrutto l’informazione?
Se avevi scritto “Mi affaccio cautamente alla finestra”, e l’editor ti sopprime quell’improprio “cautamente”, cosa ne rimane della frase? Un semplice “Mi affaccio alla finestra”, che però non era ciò che volevi dire. Tu volevi comunicare che il personaggio guardava dalla finestra con una certa cautela, con uno stato d’animo guardingo. E come farai – ora che la stampella del “cautamente” non ti sorregge più – a trasmettere la cautela? Quanto tempo ti ci vorrà a riscrivere la frase? E se riscrivere quella specifica frase ti obbligasse per disgrazia a rimodulare anche le successive e magari pure le precedenti? Un bel casino, non trovi?
Ragiona sempre sugli effettivi tempi di correzione, per avere la migliore proxy della tua scrittura, per evitare di produrre testi che renderebbero sicuramente felice la tua professoressa del liceo, ma che un editor ti restituirebbe intonsi, non già perché perfetti, bensì perché incorreggibili.
Per spiegarlo ancora con l’efficacia del paradosso – ma meno di quanto si pensi – immagina di aver infilato un avverbio modale all’interno del mattoncino [PS] delle percezioni sensoriali, contravvenendo alla regola che ne legittima l’uso solo nei pensieri [P] e nei dialoghi [D]. È un errore grave o no? Ci vuole un istante a cancellare il malefico avverbio (e quindi potrebbe sembrare un errore veniale) ma cosa succede dopo averlo eliminato? La frase sta ancora in piedi? Passa ancora il messaggio che si voleva far passare? O aver eliminato l’avverbio modale ha distrutto l’informazione?
Se avevi scritto “Mi affaccio cautamente alla finestra”, e l’editor ti sopprime quell’improprio “cautamente”, cosa ne rimane della frase? Un semplice “Mi affaccio alla finestra”, che però non era ciò che volevi dire. Tu volevi comunicare che il personaggio guardava dalla finestra con una certa cautela, con uno stato d’animo guardingo. E come farai – ora che la stampella del “cautamente” non ti sorregge più – a trasmettere la cautela? Quanto tempo ti ci vorrà a riscrivere la frase? E se riscrivere quella specifica frase ti obbligasse per disgrazia a rimodulare anche le successive e magari pure le precedenti? Un bel casino, non trovi?
Ragiona sempre sugli effettivi tempi di correzione, per avere la migliore proxy della tua scrittura, per evitare di produrre testi che renderebbero sicuramente felice la tua professoressa del liceo, ma che un editor ti restituirebbe intonsi, non già perché perfetti, bensì perché incorreggibili.
Era una mattinata domenicale nel momento più bello della primavera.
Il din-don delle campane di San Pietro scompigliava l’aria del quartiere a ridosso delle Mura Vaticane, anche l’abitazione della famiglia Grezzani, al quinto piano di un palazzone d’epoca dove fervevano grandi preparativi. Era il giorno della finale.
«Sei pronto? Dai, prendi gli scarpini, i calzettoni e i parastinchi. E poi, la tuta, i pantaloncini. Tommaso vi farà l’ispezione prima della partita, come al solito» disse Marco Grezzani al figlio Gabriele che si attardava sul divano a giocare alla playstation con la musichetta a palla di sottofondo.
«Sì, sì, quante cose devo ricordare» fece il ragazzo scuotendo la testa. Spense tutto e si diresse verso l’armadio della sua stanza; il padre lo seguiva dappresso, malfidato.
«Io non farò mai il calciatore, lo vuoi capire? Io voglio solo giocare, divertirmi, come ai Lupetti»
«Dai, sbrigati… I lupetti? Ma vedi un po’ questo. Oggi devi fa’ gol!» tagliò corto il padre, infastidito dalle obiezioni del figlio.
Assolte le principali partite della vita, sposato serenamente con Franca, senza malattie da ricordare né vizi da combattere, Marco Grezzani a quasi cinquant’anni vedeva davanti a sé il figlio calciatore in erba come unico movente di vita. Era una persona equilibrata, concreta, istruita, con dei valori robusti, eppure non era riuscito a sfuggire alla subdola sindrome. Negli ultimi tempi, Marco non era più lo stesso, se ne accorse anche la moglie: era diventato ormai l’allenatore, il procuratore, il nutrizionista, l’istigatore, il guardiano di Gabriele.
La giornata si presentava colma di aspettative. Era in ballo la coppa del Torneo C.S.I. “Urbi et orbi” di calcio a 5 under 12. Gabriele, da tutti considerato una vera promessa, gareggiava, lui di dieci anni, con ragazzi tutti più grandi di età.
Il padre aveva faticato non poco per convincerlo a saltare l’uscita con i Lupetti sul Monte Soratte. Si era inventato che avrebbero assistito alla finale gli osservatori della Roma, era l’occasione per mettersi in mostra. E poi, sicuramente, sarebbero andati tutti a festeggiare la vittoria con una magnifica carbonara da Dino e Tony.
Vestito di tutto punto con la divisa bianca e azzurra, il ciuffone in evidenza, Gabriele aveva finalmente varcato la soglia di casa. Il padre lo seguiva soddisfatto di sé: per questa domenica abbiamo battuto i Lupetti, facciamo sempre un passo per volta.
Il din-don delle campane di San Pietro scompigliava l’aria del quartiere a ridosso delle Mura Vaticane, anche l’abitazione della famiglia Grezzani, al quinto piano di un palazzone d’epoca dove fervevano grandi preparativi. Era il giorno della finale.
«Sei pronto? Dai, prendi gli scarpini, i calzettoni e i parastinchi. E poi, la tuta, i pantaloncini. Tommaso vi farà l’ispezione prima della partita, come al solito» disse Marco Grezzani al figlio Gabriele che si attardava sul divano a giocare alla playstation con la musichetta a palla di sottofondo.
«Sì, sì, quante cose devo ricordare» fece il ragazzo scuotendo la testa. Spense tutto e si diresse verso l’armadio della sua stanza; il padre lo seguiva dappresso, malfidato.
«Io non farò mai il calciatore, lo vuoi capire? Io voglio solo giocare, divertirmi, come ai Lupetti»
«Dai, sbrigati… I lupetti? Ma vedi un po’ questo. Oggi devi fa’ gol!» tagliò corto il padre, infastidito dalle obiezioni del figlio.
Assolte le principali partite della vita, sposato serenamente con Franca, senza malattie da ricordare né vizi da combattere, Marco Grezzani a quasi cinquant’anni vedeva davanti a sé il figlio calciatore in erba come unico movente di vita. Era una persona equilibrata, concreta, istruita, con dei valori robusti, eppure non era riuscito a sfuggire alla subdola sindrome. Negli ultimi tempi, Marco non era più lo stesso, se ne accorse anche la moglie: era diventato ormai l’allenatore, il procuratore, il nutrizionista, l’istigatore, il guardiano di Gabriele.
La giornata si presentava colma di aspettative. Era in ballo la coppa del Torneo C.S.I. “Urbi et orbi” di calcio a 5 under 12. Gabriele, da tutti considerato una vera promessa, gareggiava, lui di dieci anni, con ragazzi tutti più grandi di età.
Il padre aveva faticato non poco per convincerlo a saltare l’uscita con i Lupetti sul Monte Soratte. Si era inventato che avrebbero assistito alla finale gli osservatori della Roma, era l’occasione per mettersi in mostra. E poi, sicuramente, sarebbero andati tutti a festeggiare la vittoria con una magnifica carbonara da Dino e Tony.
Vestito di tutto punto con la divisa bianca e azzurra, il ciuffone in evidenza, Gabriele aveva finalmente varcato la soglia di casa. Il padre lo seguiva soddisfatto di sé: per questa domenica abbiamo battuto i Lupetti, facciamo sempre un passo per volta.
* * *
Da quando aveva tre anni, il bambino trafficava con la palla di pezza per casa. Marco non perdeva occasione per giocare a pallone col figlio, come suo padre non aveva fatto con lui. Approfittava di qualunque spazio e circostanza per introdurre Gabriele alla magia dello sport più bello del mondo.
La bibbia del calcio di Grezzani vedeva al primo posto l’esercitazione al muretto, lo sbattamuro, che Gabriele doveva eseguire almeno per un quarto d’ora, ogni volta. Il muretto cambiava spesso, lo sbattamuro mai.
Qualunque giardinetto, ogni angolo del quartiere era buono per segnare i pali della porta e mettersi a parare i tiri del figlioletto. Utilizzarono perfino il piazzale della stazione Cipro della metropolitana, nonostante fossero disturbati dall’andirivieni delle persone. Anche i giardini pubblici di Via Sabotino avevano fatto da spugna assorbente per la spinta compulsiva del padre nell’addestramento del figlio.
Dopo un paio di anni passati sotto il suo stretto controllo, arrivò la scuola calcio della parrocchia di Santa Maria delle Grazie. Gabriele aveva appena compiuto sei anni, iniziava la prima elementare, la faccia tonda come il padre, moro, né tonto né furbo, sempre con un pezzo di lingua di fuori quando eseguiva una cosa difficile.
Imparava facilmente e in fretta Gabriele all’oratorio, come a scuola. Non aveva il minimo imbarazzo nel tocco del pallone. Il padre gli aveva già insegnato il tocco di piatto, di collo, di punta, l’effetto, il tacco quando necessario. E gli ripeteva che nel calcio la forza non è tutto, va usata quando serve.
«Gabri, se sei da solo davanti al portiere, non serve sempre la cannata, bello di papà. Devi ragionare, che ne so, dribblarlo o metterlo a sede’». Marco usava raramente il romanesco, solo quando necessario, come per la forza.
Il ragazzino faceva amicizia, scherzava con i compagni, era benvoluto, non faceva il bullo, dava retta al padre, che ci teneva alla correttezza. «Mi raccomando, non ci facciamo riconoscere, Gabriele, noi Grezzani siamo persone serie, ricordatelo sempre»
Ogni anno Tommaso, il boss della polisportiva delle Grazie, organizzava una manifestazione di fine stagione e selezionava i ragazzi più bravi di ogni categoria. Per tre anni Marco aveva atteso la premiazione di Gabriele, inutilmente. Quei due anti-romanisti, Tommaso laziale e Giulio milanista, non volevano riconoscere la bravura di suo figlio.
Per ogni annata avevano trovato il pretesto per premiare un altro ragazzino. Nella categoria dei sette anni, avevano individuato Sandro Guerrieri, il figlio di un professore di storia di un’università scalcagnata, una famiglia importante del quartiere, che poteva tornare sempre utile. L’anno successivo, il premio era andato a Jonathan, un bambino filippino di una famiglia disagiata, sai i valori di integrazione della parrocchia, un bambino che non era nemmeno costante negli allenamenti. Il terzo anno un ragazzo anche bravo, Giovanni Bettini, che era assurto agli onori della cronaca per un episodio di violenza familiare, e anche quella volta non ci fu un riconoscimento per Gabriele.
Solo allora, non a scuola, non in famiglia, non al lavoro, non nella società, Marco Grezzani capì che la vita è una cosa strana, ingiusta, incomprensibile.
Il periodo del lockdown mise a dura prova la sua calcio-dipendenza per conto terzi.
Organizzava gli allenamenti del bambino, solitari, seguendo le tabelle di attività di un manuale di calcio a 5 scritto da allenatori della federazione inglese. Ben quattro allenamenti a settimana. Per aggirare i divieti uscivano di casa alle ore più impensate come fossero ladri. Gabriele non sempre eseguiva in maniera diligente gli esercizi richiesti dal padre, che controllava perfino la sua alimentazione.
Oltre lo sbattamuro, lo faceva esercitare in continuazione a tirare i rigori, con lui in porta, anche se finora nelle partite e nei tornei di Gabriele non ve ne era stato alcun bisogno. Lo riteneva un fondamentale indispensabile. Anche nel battere i rigori il figlio era molto bravo e determinato.
«Pa’, mi sono rotto con questi rigori»
«Zitto, vedrai, servono sempre. Non vedi anche tu che migliori, che ne sbagli sempre di meno?»
Acquistò online gli integratori più indicati per i fenomeni del calcio e li propinava a Gabriele a colazione.
«Papà che schifo!»
«Zitto che ti fa bene, devi pure compensare l’inattività di questo periodo, e non mangiare più di un saccottino, hai capito?»
Marco aveva incominciato a vivere in rete, di notte. Era entrato in contatto con Gianfranco Nardelli, un intermediario che campava diventando procuratore di ragazzi molto giovani. Chiacchieravano su Zoom fino a tarda ora del futuro di Gabriele.
Dopo un anno e mezzo si tornò a una certa normalità. La polisportiva della parrocchia riprese gli allenamenti. Nel 2022 tornarono finalmente le partite e i tornei. Nella prospettiva prossima di Gabriele, Marco andava anche a vedere le partite delle squadre giovanili nel circondario, il calcio a 11 per gli under 14, si faceva coinvolgere da quel mondo da cui non si era mai separato, lui che era stato un giocatore semiprofessionista. Aveva militato in Serie C con la Lodigiani prima di un grave infortunio e l’abbandono del calcio agonistico, a soli vent’anni.
Nel mese di gennaio Grezzani, non contento degli orizzonti limitati della parrocchia, aveva portato Gabriele a sostenere un provino con la Vigor Perconti. Assistette anche Nardelli. Fecero provare al ragazzo tutti i fondamentali e lo inserirono in una partitella di mezz’ora con ragazzi sconosciuti, più grandi di lui. Il padre, aggrappato alla rete, seguiva ansioso i movimenti del figlio, le mosse azzeccate e quelle meno. Andò bene. La società manifestò un forte interesse a tesserarlo per il calcio agonistico a 8, ma il ragazzo disse di no, aveva paura di non essere all’altezza, non voleva abbandonare gli amici di Santa Maria delle Grazie.
Che figura davanti a Nardelli! Il padre masticò amaro, ma non si diede per vinto. Era pronto a tornare alla carica sperando, diceva lui, in una maturazione del ragazzo.
* * *
Marco e Gabriele arrivarono mezz’ora prima dell’orario ufficiale della partita. Gli allenatori e i ragazzi erano già tutti lì ad aspettare. Grande casino, vociare, frutto della tensione che animava soprattutto i genitori. Più di un centinaio di persone erano sugli spalti.
Con fare preoccupato, il padre prese da parte mister Tommaso.
«Questi non so’ niente de ché, sono andato mercoledì a vedere un loro allenamento a Santa Gemma»
«Si, lo so, ce la possiamo fare, grazie per la dritta»
«E menano come fabbri, sono addestrati a mozzicare»
«È così. Gliel’ho detto ai nostri che non devono cadere nella provocazione. Se restano calmi, sereni, la portiamo a casa. E poi noi abbiamo Gabriele. Vuoi mettere? Daje!» concluse l’allenatore facendo il gesto del pugno ai fianchi.
Marco non riusciva a mettersi seduto in gradinata, friggeva, girovagava intorno alla rete di ferro che delimitava il campo di gioco.
Vedeva i ragazzi nel riscaldamento e dovette assumere la prima dose di veleno: Gabriele non era nel quintetto iniziale. Quel laziale di Tommaso, che ipocrita, pensò aggrappato all’inferriata con le mani che gli ribollivano. Che ingiustizia! È una follia.
Subito arrivò la realtà: gli avversari del Santa Gemma non erano scarsi come lui li aveva dipinti. Erano belli tosti. Nei primi cinque minuti le Grazie beccarono due gol. Partita tutta in salita. Ci credo, manca Gabriele, il più bravo, diceva ad alta voce il padre.
E l’arbitro, un riccioletto dei quartieri alti, non sanzionava il comportamento scorretto, anche a parole, dei ragazzi dell’altra squadra.
Marco aveva puntato l’allenatore degli avversari, uno che incitava i ragazzi al gioco pesante. Si era messo dietro la loro panchina.
«La smette di aizzare i ragazzi? Questi si fanno male a giocare così!»
«Si faccia i c…. suoi» rispose il mister infastidito.
«Arbitro, questo signore sta disturbando i miei ragazzi» disse, non contento, rivolto al ricccioletto.
«È lui che incita i ragazzi a fare male!» rispose Marco, ma si allontanò per evitare che il clima della partita trascendesse.
Quelli delle Grazie soccombevano, avevano paura, e non erano aiutati dalla fortuna. Presero un palo sul finale del primo tempo e un altro nel secondo tempo. L’arbitro tollerava il gioco pesante. Come nella vita, non sanzionare un comportamento dei potenti significa affossare i deboli, meditava Grezzani inviperito, con la lingua tra i denti.
Gabriele entrò solo nel terzo tempo e segnò un bel gol di testa, su di una ribattuta del portiere.
Il padre non si fece scappare, rivolto alla tribuna: «Avete visto quando entra uno bravo?!»
Ci si misero ora i genitori più sguaiati del Santa Gemma a sostenere i loro ragazzi contro i signorini del centro storico. Qualcuno inveiva contro Grezzani che si agitava intorno alla rete esterna.
Il gol di Gabriele suonò la carica per un ribaltamento clamoroso. In pochi minuti Flavio e Michele delle Grazie fecero due prodezze, il primo con un traversone quasi dal fondo che ingannò il portiere sul primo palo, il secondo con un tiro al volo quasi da centrocampo, un vero eurogol.
Nel quarto tempo ci pensò l’arbitro a regalare due rigori al Santa Gemma, di cui uno palesemente inventato. Tommaso l’allenatore fu espulso per proteste.
Le Grazie riacciuffarono la parità solamente nell’ultimo minuto con un gol stupendo di Gabriele alla fine di un dribbling insistito. Comparve davanti al portiere e gli fece uno scavetto che solo i veri talenti riescono a escogitare nei momenti topici di una partita. Gabriele in estasi andò alla rete per afferrare le mani del padre, che per poco non gli prendeva un coccolone.
Fischio finale: 4 a 4.
«Si va ai rigori! I rigori! Daje!» Urlavano tutti, memori delle fortune dell’Italia con i rigori agli Europei 2021.
Marco non andò in ansia, con tutti i rigori che aveva fatto calciare a suo figlio.
Seconda dose di veleno, un vero e proprio affronto: Gabriele non era tra i primi cinque rigoristi. Che imbecille quel laziale! Ci vuole proprio far perdere.
I rigori furono un’altalena da infarto. L’arbitro ci aggiunse del suo ammonendo costantemente il portiere delle Grazie, a non muoversi dalla linea di porta. E fece ripetere, con un cavillo, un rigore sbagliato dal Santa Gemma. Alla fine della serie, le squadre trasformarono entrambe tre rigori su cinque. Ancora parità. Si continuava ad oltranza, goccia a goccia.
I genitori erano stremati, sui ragazzi incombeva la morte dietro l’angolo.
Toccò prima al Santa Gemma. Il loro possente centravanti non sbagliò. Gol!
Venne quindi il turno di Gabriele. Serviva un gol per continuare a sperare. Il ragazzo sembrava tranquillo, il padre pure, anche se il battito cardiaco dell’ex-calciatore salì vorticosamente.
Tiro impeccabile di destro, alto al sette a incrociare. Gol!
«Evviva! Si continua! Grande Gabriele!» esultavano quelli delle Grazie.
Ma ecco che quel cornuto dell’arbitro emise un fischio che sembrava la sirena dei vigili del fuoco.
Rigore da ripetere: al momento del tiro ben due giocatori delle Grazie avevano fatto ingresso nell’area di rigore, sosteneva. Inventò di sana pianta una regola che si applica solo nel calcio agonistico, non nel calcio a 5.
Ci fu un parapiglia. L’arbitro decretò l’espulsione di Giulio l’allenatore in seconda e di Flavio, per proteste. Marco gliene urlò di tutti i colori. Non sembrava di certo il responsabile della Contabilità Generale della Camera dei Deputati.
Dopo cinque minuti di baraonda, il riccioletto rimise protervamente il pallone sul dischetto per la ripetizione del calcio di rigore.
Gabriele sembrava un agnello portato al macello, schiacciato dall’ingiustizia. Senza rincorsa, senza nemmeno la lingua di fuori, fece un tiro rasoterra ben angolato, di piatto destro, preciso ma non forte, per non buttarla alle stelle. Il portierino del Santa Gemma indovinò la direzione e con la punta delle dita sventò il gol.
Venne giù il mondo di quei leoni di periferia! Avevano vinto loro. Invasione di campo.
Gabriele rimase nei pressi del dischetto, chinò la testa per la vergogna, non voleva vedere l’esultanza di quelli del Santa Gemma. Nessuno lo avvicinava.
Si piegò sulle ginocchia, le mani sugli occhi.
Così doveva finire, pensò il padre guardando il figlio, Gabriele non c’entra niente.
Subito corse da lui, gli si inginocchiò davanti e lo strinse forte. Lo baciò tra i capelli bagnati. Il bambino singhiozzava in modo sommesso in mezzo a tutto quel casino.
«Dai, pa’, la vita è così, il pallone è così, non ci si può fare nulla. Tu hai fatto del tuo meglio. Sei stato bravissimo. Quello scavetto, davvero, nemmeno Totti»
Non lo ascoltava, piangeva senza requie.
«Alzati, dai, che andiamo a farci la carbonara con tutti i ragazzi, anche se abbiamo perso»
«Scusami, tu non c’entri nulla, è solo colpa mia… ti prego, non piangere» disse al figlio cercando lui stesso di trattenere la piena delle lacrime.
Questo testo è incorreggibile, nel senso che è un unico, immenso, monolitico errore (tecnico-stilistico).
Mancano quei pur minimi appigli – presenti nell’esercizio 9 – su cui reimpostare la narrazione.
Osserva l’attacco di stampo “meteorologico”.
Era una mattinata domenicale nel momento più bello della primavera.
Il din-don delle campane di San Pietro scompigliava l’aria del quartiere a ridosso delle Mura Vaticane, anche l’abitazione della famiglia Grezzani, al quinto piano di un palazzone d’epoca dove fervevano grandi preparativi. Era il giorno della finale.
È, o no, l’ennesima riproposizione della formula “su quel ramo del lago di Como”? Poteva andare bene nell’800, ma oggi – anno 2024 – suona anacronistica come l’orgogliosa esibizione di un titolo nobiliare.
E se questa è la qualità delle prime righe che si offrono al lettore – le più importanti – cosa ci si può aspettare di trovare nel seguito?
Ad esempio un personaggio delineato in netta contrapposizione con i principî di costruzione dell’empatia.
«Sei pronto? Dai, prendi gli scarpini, i calzettoni e i parastinchi. E poi, la tuta, i pantaloncini. Tommaso vi farà l’ispezione prima della partita, come al solito» disse Marco Grezzani al figlio Gabriele che si attardava sul divano a giocare alla playstation con la musichetta a palla di sottofondo.
«Sì, sì, quante cose devo ricordare» fece il ragazzo scuotendo la testa. Spense tutto e si diresse verso l’armadio della sua stanza; il padre lo seguiva dappresso, malfidato.
«Io non farò mai il calciatore, lo vuoi capire? Io voglio solo giocare, divertirmi, come ai Lupetti»
«Dai, sbrigati… I lupetti? Ma vedi un po’ questo. Oggi devi fa’ gol!» tagliò corto il padre, infastidito dalle obiezioni del figlio.
E arrivati a questo punto – dopo un bollettino meteo e un padre frustrato che si sfoga sul figlio – cosa può mai seguire, se non il più micidiale degli infodump, nel maldestro tentativo di conferire dei tratti di umanità al personaggio?
Assolte le principali partite della vita, sposato serenamente con Franca, senza malattie da ricordare né vizi da combattere, Marco Grezzani a quasi cinquant’anni vedeva davanti a sé il figlio calciatore in erba come unico movente di vita. Era una persona equilibrata, concreta, istruita, con dei valori robusti, eppure non era riuscito a sfuggire alla subdola sindrome. Negli ultimi tempi, Marco non era più lo stesso, se ne accorse anche la moglie: era diventato ormai l’allenatore, il procuratore, il nutrizionista, l’istigatore, il guardiano di Gabriele.
E dopo? Altri indodump, solo ed esclusivamente indodump, affastellati uno sopra all’altro, come se dare informazioni purchessia potesse aiutare a creare il mood della storia.
Mancano quei pur minimi appigli – presenti nell’esercizio 9 – su cui reimpostare la narrazione.
Osserva l’attacco di stampo “meteorologico”.
Era una mattinata domenicale nel momento più bello della primavera.
Il din-don delle campane di San Pietro scompigliava l’aria del quartiere a ridosso delle Mura Vaticane, anche l’abitazione della famiglia Grezzani, al quinto piano di un palazzone d’epoca dove fervevano grandi preparativi. Era il giorno della finale.
È, o no, l’ennesima riproposizione della formula “su quel ramo del lago di Como”? Poteva andare bene nell’800, ma oggi – anno 2024 – suona anacronistica come l’orgogliosa esibizione di un titolo nobiliare.
E se questa è la qualità delle prime righe che si offrono al lettore – le più importanti – cosa ci si può aspettare di trovare nel seguito?
Ad esempio un personaggio delineato in netta contrapposizione con i principî di costruzione dell’empatia.
«Sei pronto? Dai, prendi gli scarpini, i calzettoni e i parastinchi. E poi, la tuta, i pantaloncini. Tommaso vi farà l’ispezione prima della partita, come al solito» disse Marco Grezzani al figlio Gabriele che si attardava sul divano a giocare alla playstation con la musichetta a palla di sottofondo.
«Sì, sì, quante cose devo ricordare» fece il ragazzo scuotendo la testa. Spense tutto e si diresse verso l’armadio della sua stanza; il padre lo seguiva dappresso, malfidato.
«Io non farò mai il calciatore, lo vuoi capire? Io voglio solo giocare, divertirmi, come ai Lupetti»
«Dai, sbrigati… I lupetti? Ma vedi un po’ questo. Oggi devi fa’ gol!» tagliò corto il padre, infastidito dalle obiezioni del figlio.
E arrivati a questo punto – dopo un bollettino meteo e un padre frustrato che si sfoga sul figlio – cosa può mai seguire, se non il più micidiale degli infodump, nel maldestro tentativo di conferire dei tratti di umanità al personaggio?
Assolte le principali partite della vita, sposato serenamente con Franca, senza malattie da ricordare né vizi da combattere, Marco Grezzani a quasi cinquant’anni vedeva davanti a sé il figlio calciatore in erba come unico movente di vita. Era una persona equilibrata, concreta, istruita, con dei valori robusti, eppure non era riuscito a sfuggire alla subdola sindrome. Negli ultimi tempi, Marco non era più lo stesso, se ne accorse anche la moglie: era diventato ormai l’allenatore, il procuratore, il nutrizionista, l’istigatore, il guardiano di Gabriele.
E dopo? Altri indodump, solo ed esclusivamente indodump, affastellati uno sopra all’altro, come se dare informazioni purchessia potesse aiutare a creare il mood della storia.
Già, la storia. Ma quando inizia questa storia? Più o meno da qui:
Marco e Gabriele arrivarono mezz’ora prima dell’orario ufficiale della partita.
Ma allora cosa abbiamo letto finora? E – soprattutto – perché dovremmo continuare a leggere, ammesso di essere arrivati sin qui? Cosa potrà mai aver scritto un autore così concentrato su sé stesso e così poco preoccupato del lettore, così incurante della seconda delle ventidue regole della Pixar (“Concentrati su quello che ti interessa in quanto spettatore, non su quello che ti piace come autore. Sono due cose diverse”)?
Potrà ad esempio aver fatto ricorso a repentini cambi di “Punto di Vista” – dall’interiorità del figlio a quella del padre – nell’illusione di far emozionare il lettore, ignaro che i continui salti di “Punto di Vista” mandano in confusione il processo simulativo.
Gabriele
rimase nei pressi del dischetto, chinò la testa per la vergogna, non
voleva vedere l’esultanza di quelli del Santa Gemma. Nessuno lo
avvicinava.
Si piegò sulle ginocchia, le mani sugli occhi.
Così doveva finire, pensò il padre guardando il figlio, Gabriele non c’entra niente
Si piegò sulle ginocchia, le mani sugli occhi.
Così doveva finire, pensò il padre guardando il figlio, Gabriele non c’entra niente
Se pure ci fosse del buono in questa storia – e in ogni storia c’è qualcosa di buono, per il semplice fatto che a scriverla è stata pur sempre un cervello umano – come la si potrebbe mai trarre in salvo?
Esiste una sola risposta sensata, davanti a un testo così: qui c’è l’indice del manuale – finalmente completo – e tu devi leggerlo e rileggerlo, fin quando non capirai da solo quanto è scadente ciò che hai prodotto, e di conseguenza raderlo al suolo per poter riedificare il tutto su basi solide.
Esiste una sola risposta sensata, davanti a un testo così: qui c’è l’indice del manuale – finalmente completo – e tu devi leggerlo e rileggerlo, fin quando non capirai da solo quanto è scadente ciò che hai prodotto, e di conseguenza raderlo al suolo per poter riedificare il tutto su basi solide.
“Devi conoscere te stesso: la differenza tra impegnarti al massimo e l’agitarsi per nulla” – citando la diciottesima delle ventidue regole della Pixar per una sceneggiatura a regola d’arte – “La storia serve a metterci alla prova, non a raffinarci”.
Devi metterti alla prova, e come minimo abituarti a ragionare in termini di strutture simulative – a pensare alla facilità con cui il testo
corrisponde a un flusso che il lettore può naturalmente visualizzare
nel suo “come”, “dove”, “quando” e “perché” – più a badare alla metrica scolastica delle strutture grammaticali e alla mai ben chiarita “bellezza” dello stile.
E se le
strutture simultative – le uniche ammissibili, nella scrittura dei
mattoncini – ti sembrano insopportabilmete poche, è solo perché sei abituato a una scrittura classica dove sono infinite, dove – per esser chiari – puoi fare il cazzo che ti pare senza che nessuno ti dica nulla.
Ma i vincoli, qui, li intendiamo come i pioli di una scala per arrivare in alto e sempre più in alto, e se a te a invece sembrano le sbarre di una prigione, è solo perché li stai guardando storti.
Buona fortuna – di cuore – per tutto.
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