Modulo 26 – Esercizio #9
Ho già discusso la casistica nell’esercizio 1, e ti rimando lì per una diagnosi precisa della situazione.
Qui voglio analizzarne una variante: sì, può pure accadere – più che altro per fortuna – di riuscire a trarre dal proprio vissuto un’esperienza che sia anche narrativamente valida; ma quanta strada può fare una buona idea, prima di crollare sotto il peso di una tecnica antiquata e di uno stile pessimo?
Poco fa il sole era un gigantesco rosso d'uovo che infiammava le facciate dei palazzi prima di scivolare piano sotto la linea dell'orizzonte, e adesso è già sera. Il muro di cinta del palazzo accanto getta la sua ombra lunga su un cortile uguale a tanti altri, teatri di giochi e schiamazzi, di chiacchiere, di papà che insegnano ai figli più piccoli ad andare in bicicletta senza le ruotine, con la mano stretta sulla sella per tenere la bici in equilibrio. E quelli come Pasquale, l'inquilino del pianterreno, l’uomo che fungeva da portinaio anche se di fatto nel palazzo non esisteva una vera e propria portineria. Lui era il babau per noi bambini poiché compariva sempre all'improvviso con l’intento di sorprenderci a combinare qualche marachella. Il fatto è che riusciva a tenere a bada anche gli adulti facendo da arbitro nelle tante e inevitabili diatribe che regolarmente si innescavano in uno stabile abitato da ventiquattro famiglie. Lo vedevo come una figura istituzionale e irrinunciabile, nonostante avessi un po' paura di lui, e credevo che in tutti i palazzi ci fosse un Pasquale a vigilare sulle cose.
Dunque, dicevo, uno dei tanti cortili di periferia e quattro bambine che giocano a palla cantando.
“o che bel castello marcondirond...”
– Via, via...sta arrivando! –
Le parole della filastrocca rimangono sospese nell'aria, come appese a un ramo invisibile e le bambine si rifugiano svelte nell'androne del palazzo. Il quartetto adesso è seduto sul primo dei tre gradini dell’ingresso, è un momento cruciale e non possono perderlo. Attesa e trepidazione. Paura e curiosità. Silvia la maggiore, undici anni e una lingua che taglia il ferro, crede di sapere già tutto sulla vita. Lena la rossa, ha una fiamma rosso acceso al posto dei capelli e da grande darà del filo da torcere a molti. Marta, la selvatica, quando le parli si gira dall’altra parte. Azzurra, la piccolina, suo padre va pazzo per Celentano.
Il portone d’ingresso ha una struttura d’acciaio intervallata da tre finestrelle alte e strette di vetro scuro da cui si può guardare fuori senza essere visti. Lui è lì, loro lo sanno e trattengono il fiato. Lo vedono fermarsi davanti al portone e avvicinare il viso per scrutare dentro. Grazie a dio la luce interna è spenta e nessuno va e viene per le scale. Quattro paia di occhi si posano sulla figura al di là del vetro, indugiando dapprima sulla testa di capelli neri con la stempiatura alla Diabolik – Silvia è un'esperta di fumetti per via di suo fratello – poi sul giubbino sbottonato che lascia intravedere la leggera prominenza del ventre e in breve lo sguardo di tutte e quattro si attesta sulla patta dei pantaloni. È aperta!
Giusto il tempo di sentire il cuore accelerare i battiti e ancor prima di riuscire anche solo a immaginare qualcosa – tac! – la luce delle scale si accende e un secondo dopo lui non c'è più. I cuori adesso sono martelli impazziti e i visi rossi per la vergogna ma il gusto del proibito si fa sentire forte.
– ehi, avete fatto in tempo a vederlo? –
– noo... io no, e voi? –
– niente, è andata male, è scappato! –
– ma tu, Silvia, avevi detto di averlo visto, una volta! –
– sì, ma non era mica il suo, quello era il coso di mio fratello… e adesso zitte che sta scendendo qualcuno. Allora, questo è il nostro segreto, dovete giurare che non racconterete niente. Forza, giurate! –
Con due dita incrociate sulle labbra e le gambe che ancora tremano come foglie in autunno le quattro amiche siglano il patto di segretezza, giusto un istante prima che la madre di Azzurra sbuchi dalle scale.
– Allora ti decidi o no a salire? Ti ho chiamata tre volte! E voi, filate su che è ora di cena! –
Azzurra, trascinata per un braccio dalla madre, si volta verso le altre. Silvia, portandosi l’indice sulla punta del naso le ricorda il giuramento, poi tutte e quattro prendono la via delle scale.
Forse domani lui tornerà.
Mentre sfoglio distrattamente la pagina dei necrologi, un trafiletto cattura la mia attenzione. Poche righe di commiato, la foto è un po’ sgranata ma è lui, ne sono certa. Sono passati più di trent’anni ma il suo viso non è cambiato poi molto e ha ancora quell’inconfondibile stempiatura alla Diabolik, solo che i capelli adesso sono diventati bianchi. Ripensandoci ora, qualche volta l’avevo anche incrociato andando a trovare i miei. Bazzicava nel quartiere, o stava seduto ai tavolini fuori dal Piccolo bar. A casa non si parlò mai più di quel che successe all’epoca ma io qualche anno dopo, indagando qua e là, riuscii a ricostruire i fatti.
Il nostro solenne patto di segretezza era durato poco, alcuni fra i nostri genitori avevano fiutato qualcosa, forse allertati da certe voci che giravano nel quartiere. Lui ogni tanto passava di lì, specialmente di sera e alla fine c’era stato almeno un incontro ravvicinato con noi bambine. Mia madre, che sapeva bene come fare per tirarmi fuori le cose, mi aveva fatto parlare. Avevo nove anni ma dai mezzi discorsi dei miei qualcosa avevo intuito e con il tempo misi insieme i vari pezzi e il puzzle si completò. C’era stata una specie di spedizione punitiva da parte di un gruppetto di genitori (probabilmente capitanati da Pasquale che figli non ne aveva ma si era assunto il ruolo di tutore dell’ordine) e l'uomo era finito all'ospedale piuttosto malconcio. Coglievo frammenti di discorsi in casa, frasi del tipo “ha avuto quel che si meritava” o anche “magari gli scappa la voglia di fare certe cose”.
La redenzione deve passare attraverso l’inferno.
I miei, insieme ad altri genitori, erano stati convocati in questura come persone informate sui fatti ma essendosi coalizzati fra loro la faccenda si concluse con un nulla di fatto e lui non si vide più gironzolare da quelle parti. Provavo un vago senso di colpa per aver infranto il giuramento spiattellando tutto ma probabilmente non ero stata io l’unica.
Pover’uomo… tutto sommato, a parte quel vizietto, credo che fosse innocuo. Scopro soltanto adesso che si chiamava Augusto, e se gli è stato dedicato un necrologio forse aveva dei parenti, o qualcuno che si prendeva cura di lui, chissà. Se io fossi una che prega adesso pregherei per lui, invece gli dovrà bastare questo rigurgito di compassione.
Ogni tanto ripasso dalle strade del mio quartiere, che conserva ancora lo stesso volto malgrado qualche piccolo cambiamento avvenuto nel corso degli anni. Al posto del forno c'è un internet point e finalmente hanno asfaltato via Treves, ma i palazzi della mia rugginosa periferia sono sempre là, granitici testimoni delle sue tante storie.
Delle mie amiche di allora mi arrivano notizie frammentate, da grandi abbiamo preso strade diverse.
Silvia, la maggiore, fa l’avvocato. D'altra parte ce l'aveva nel dna, ricordo ancora l’arringa che fece in mia difesa quando ruppi uno di vetri del famoso portone.
Lena dai capelli rossi si è sposata e ha divorziato tre volte. Attualmente vive in Sicilia con un coltivatore di limoni.
Marta la selvatica, un'esistenza vissuta di sbieco come il suo sguardo sulle cose. Non ha saputo patteggiare con il dolore e da un po’ di tempo manca da questo mondo.
Pasquale ha novant’anni e vive solo nello stesso appartamento di allora. Si vocifera che non ci sta più con la testa ma che ci prova ancora, anche con i nuovi coinquilini, a dettare legge.
Sulla lapide dove riposa mio padre c’è scritto “Ora mi annoio più di allora”.
Le premesse narrative ci sono. Ma dopo? Cosa succede dopo? Succede che l’autore non ha idea su come “metterle in posa”, per dirlo con quegli artigiani che sono i muratori (da cui gli scrittori avrebbero tanto da imparare).
Si comincia così.
“O che bel castello marcondirondirondello, o che bel castello marcondirondirondà”.
Poco fa il sole era un gigantesco rosso d'uovo che infiammava le facciate dei palazzi prima di scivolare piano sotto la linea dell'orizzonte, e adesso è già sera. Il muro di cinta del palazzo accanto getta la sua ombra lunga su un cortile uguale a tanti altri, teatri di giochi e schiamazzi, di chiacchiere, di papà che insegnano ai figli più piccoli ad andare in bicicletta senza le ruotine, con la mano stretta sulla sella per tenere la bici in equilibrio.
Questo blocco denuncia impietosamente la confusione tra scrittura e cinema: vorrebbe essere cinematografico, nel senso che ambirebbe a riprodurre sulla pagina quella sequenza di immagini che vedremmo se fossimo al cinema (con tanto di voce fuori campo che canta “O che bel castello”) e non starò qui a rispiegare ciò a cui ho già dedicato un intero modulo.
Ma andiamo avanti comunque.
E quelli come Pasquale, l'inquilino del pianterreno, l’uomo che fungeva da portinaio anche se di fatto nel palazzo non esisteva una vera e propria portineria. Lui era il babau per noi bambini poiché compariva sempre all'improvviso con l’intento di sorprenderci a combinare qualche marachella. Il fatto è che riusciva a tenere a bada anche gli adulti facendo da arbitro nelle tante e inevitabili diatribe che regolarmente si innescavano in uno stabile abitato da ventiquattro famiglie. Lo vedevo come una figura istituzionale e irrinunciabile, nonostante avessi un po' paura di lui, e credevo che in tutti i palazzi ci fosse un Pasquale a vigilare sulle cose.
Sai battezzare questo blocco di testo? Dovresti, arrivato qui.
È un micidiale infodump, il marchio del dilettante, nel senso letterale di “colui che scrive per il proprio diletto” (senza preoccuparsi delle esigenze e delle aspettative del lettore, di cui però brama poi l’apprezzamento).
Proseguiamo.
Dunque, dicevo, uno dei tanti cortili di periferia e quattro bambine che giocano a palla cantando.
“o che bel castello marcondirond...”
– Via, via...sta arrivando! –
Le parole della filastrocca rimangono sospese nell'aria, come appese a un ramo invisibile e le bambine si rifugiano svelte nell'androne del palazzo. Il quartetto adesso è seduto sul primo dei tre gradini dell’ingresso, è un momento cruciale e non possono perderlo. Attesa e trepidazione. Paura e curiosità. Silvia la maggiore, undici anni e una lingua che taglia il ferro, crede di sapere già tutto sulla vita. Lena la rossa, ha una fiamma rosso acceso al posto dei capelli e da grande darà del filo da torcere a molti. Marta, la selvatica, quando le parli si gira dall'altra parte. Azzurra, la piccolina, suo padre va pazzo per Celentano.
Il portone d’ingresso ha una struttura d'acciaio intervallata da tre finestrelle alte e strette di vetro scuro da cui si può guardare fuori senza essere visti. Lui è lì, loro lo sanno e trattengono il fiato. Lo vedono fermarsi davanti al portone e avvicinare il viso per scrutare dentro. Grazie a dio la luce interna è spenta e nessuno va e viene per le scale. Quattro paia di occhi si posano sulla figura al di là del vetro, indugiando dapprima sulla testa di capelli neri con la stempiatura alla Diabolik – Silvia è un'esperta di fumetti per via di suo fratello - poi sul giubbino sbottonato che lascia intravedere la leggera prominenza del ventre e in breve lo sguardo di tutte e quattro si attesta sulla patta dei pantaloni. È aperta!
Giusto il tempo di sentire il cuore accelerare i battiti e ancor prima di riuscire anche solo a immaginare qualcosa – tac! – la luce delle scale si accende e un secondo dopo lui non c'è più. I cuori adesso sono martelli impazziti e i visi rossi per la vergogna ma il gusto del proibito si fa sentire forte.
– ehi, avete fatto in tempo a vederlo? –
– noo... io no, e voi? –
– niente, è andata male, è scappato! –
– ma tu, Silvia, avevi detto di averlo visto, una volta! –
– sì, ma non era mica il suo, quello era il coso di mio fratello... e adesso zitte che sta scendendo qualcuno. Allora, questo è il nostro segreto, dovete giurare che non racconterete niente. Forza, giurate! –
Con due dita incrociate sulle labbra e le gambe che ancora tremano come foglie in autunno le quattro amiche siglano il patto di segretezza, giusto un istante prima che la madre di Azzurra sbuchi dalle scale.
– Allora ti decidi o no a salire? Ti ho chiamata tre volte! E voi, filate su che è ora di cena! –
Azzurra, trascinata per un braccio dalla madre, si volta verso le altre. Silvia, portandosi l'indice sulla punta del naso le ricorda il giuramento, poi tutte e quattro prendono la via delle scale. Forse domani lui tornerà.
Anzitutto quel “Dunque, dicevo” equivale a trattare il lettore come un bambino di cinque anni. “Dunque, dicevo” lo puoi dire giusto a un bambino, e neppure troppo sveglio, e non certo a un normale lettore tiepido, che non vuole “sentirsi dire” (raccontare) proprio nulla, ma desidera vivere un’esperienza nel mondo della pagina come se fosse reale.
“Dunque, dicevo” = ti chiedo scusa se ho confuso la scrittura con il cinema, e se ti ho ammorbato con informazioni fornite dall’esterno della scena; mi spiace davvero, credimi, ma mi servivano per creare un minimo di ambientazione, e non sapevo come fare altrimenti; comunque sia, visto che sei riuscito ad arrivare sin qui, ora la storia può finalmente cominciare.
Dai, su, ti pare?
E poi quell’altro indigeribile infodump: “Silvia la maggiore, undici anni e una lingua che taglia il ferro, crede di sapere già tutto sulla vita. Lena la rossa, ha una fiamma rosso acceso al posto dei capelli e da grande darà del filo da torcere a molti. Marta, la selvatica, quando le parli si gira dall'altra parte. Azzurra, la piccolina, suo padre va pazzo per Celentano”.
Ce ne vuole di forza, per proseguire, ma proseguiamo lo stesso.
Mentre sfoglio distrattamente la pagina dei necrologi, un trafiletto cattura la mia attenzione. Poche righe di commiato, la foto è un po’ sgranata ma è lui, ne sono certa. Sono passati più di trent'anni ma il suo viso non è cambiato poi molto e ha ancora quell'inconfondibile stempiatura alla Diabolik, solo che i capelli adesso sono diventati bianchi. Ripensandoci ora, qualche volta l’avevo anche incrociato andando a trovare i miei. Bazzicava nel quartiere, o stava seduto ai tavolini fuori dal Piccolo bar. A casa non si parlò mai più di quel che successe all'epoca ma io qualche anno dopo, indagando qua e là, riuscii a ricostruire i fatti.
Il nostro solenne patto di segretezza era durato poco, alcuni fra i nostri genitori avevano fiutato qualcosa, forse allertati da certe voci che giravano nel quartiere. Lui ogni tanto passava di lì, specialmente di sera e alla fine c'era stato almeno un incontro ravvicinato con noi bambine. Mia madre, che sapeva bene come fare per tirarmi fuori le cose, mi aveva fatto parlare. Avevo nove anni ma dai mezzi discorsi dei miei qualcosa avevo intuito e con il tempo misi insieme i vari pezzi e il puzzle si completò. C’era stata una specie di spedizione punitiva da parte di un gruppetto di genitori (probabilmente capitanati da Pasquale che figli non ne aveva ma si era assunto il ruolo di tutore dell'ordine) e l'uomo era finito all'ospedale piuttosto malconcio. Coglievo frammenti di discorsi in casa, frasi del tipo “ha avuto quel che si meritava” o anche “magari gli scappa la voglia di fare certe cose” …
La redenzione deve passare attraverso l’inferno.
I miei, insieme ad altri genitori, erano stati convocati in questura come persone informate sui fatti ma essendosi coalizzati fra loro la faccenda si concluse con un nulla di fatto e lui non si vide più gironzolare da quelle parti. Provavo un vago senso di colpa per aver infranto il giuramento spiattellando tutto ma probabilmente non ero stata io l’unica.
Pover’uomo… tutto sommato, a parte quel vizietto, credo che fosse innocuo. Scopro soltanto adesso che si chiamava Augusto, e se gli è stato dedicato un necrologio forse aveva dei parenti, o qualcuno che si prendeva cura di lui, chissà. Se io fossi una che prega adesso pregherei per lui, invece gli dovrà bastare questo rigurgito di compassione.
Ogni tanto ripasso dalle strade del mio quartiere, che conserva ancora lo stesso volto malgrado qualche piccolo cambiamento avvenuto nel corso degli anni. Al posto del forno c'è un internet point e finalmente hanno asfaltato via Treves, ma i palazzi della mia rugginosa periferia sono sempre là, granitici testimoni delle sue tante storie.
Delle mie amiche di allora mi arrivano notizie frammentate, da grandi abbiamo preso strade diverse.
Silvia, la maggiore, fa l’avvocato. D'altra parte ce l'aveva nel dna, ricordo ancora l’arringa che fece in mia difesa quando ruppi uno di vetri del famoso portone.
Lena dai capelli rossi si è sposata e ha divorziato tre volte. Attualmente vive in Sicilia con un coltivatore di limoni.
Marta la selvatica, un'esistenza vissuta di sbieco come il suo sguardo sulle cose. Non ha saputo patteggiare con il dolore e da un po’ di tempo manca da questo mondo.
Pasquale ha novant’anni e vive solo nello stesso appartamento di allora. Si vocifera che non ci sta più con la testa ma che ci prova ancora, anche con i nuovi coinquilini, a dettare legge.
Sulla lapide dove riposa mio padre c’è scritto “Ora mi annoio più di allora”.
A proposito, io sono Azzurra, la piccolina.
Sì, ho fatto una tirata sino alla fine, perché non ha senso soffermarsi sulle singole parti del testo.
“Non ti grattare, perché ‘gratta’ chiama ‘gratta’, quindi smettila” era il monito di mio padre, quando mi vedeva grattarmi furiosamente, nel tentativo di acquietare il prurito.
Potremmo riformularlo così: infodump chiama infodump sino a far sanguinare la storia, sino a farla morire dissanguata.
Perché, alla fine, cos’è tutto questo blocco di testo, se non un gigantesco infodump che porta la storia al collasso?
È come se un gruppo di persone si fossero riunite di notte intorno al fuoco, e una di loro stesse raccontando una sua esperienza, inframmezzando di quando in quando la narrazione con delle considerazioni personali su ciò che è accaduto.
– noo... io no, e voi? –
– niente, è andata male, è scappato! –
– ma tu, Silvia, avevi detto di averlo visto, una volta! –
Sì, è possibile: il testo è pessimo, ma non al punto da inibirne una rielaborazione, anche se ovviamente lo sforzo richiesto è notevole.
Vale il solito disclaimer: l’autore, ragionando a modo, per tutto il tempo necessario, potrà arrivare a concepire un ventaglio di soluzioni infinitamente migliori di quell’unica soluzione che io produco ora, all’istante, su due piedi, per semplici finalità didattiche.
Dobbiamo prima di tutto bonificare la narrazione dalla mostruosità del narratore onnisciente. Serve quindi scegliere un personaggio “Punto di Vista” attraverso cui filtrare ogni evento narrato, e qui non potrà che essere Azzurra, di cui dovremo avere accortezza di non svelare il nome, se non alla fine (a ulteriore testimonianza, semmai ce ne fosse bisogno, che i personaggi non diventano tridimensionali stilandone la carta d’identità).
E come la vogliamo la nostra Azzurra? Adulta o bambina? Siamo obbligati a sceglierla adulta, se vogliamo salvare la maggior parte delle informazioni contenute nel testo originario.
D’accordo, Azzurra – la nostra protagonista – è adulta. E dove la piazziamo, in quale luogo? Potremmo metterla nel parco dove giocava da bambina con le sue amiche, perché – ad esempio – è in quel parco che si è data appuntamento con una di loro, per rivedersi dopo tanti anni.
La nostra protagonista è arrivata all’appuntamento un po’ in anticipo, così ne approfitta per gironzolare (senza allontanarsi troppo, ovviamente) e possiamo fare in modo che, di quando in quando, ciò che vede le susciti dei ricordi, da gestire come flashback (che rimangono una soluzione problematica, ma qui in effetti non abbiamo grandi alternative). Così rispettiamo una regola aurea della buona narrativa: il luogo è un personaggio, e non un semplice sfondo d’ambientazione, perché è proprio il luogo a offrire lo spunto per una serie di specifici flashback che formeranno buona parte della narrazione.
Grazie ai flashback, dunque, creiamo l’atmosfera della storia e stipuliamo un patto col lettore: ciò che vede il “Punto di Vista” gli apre ogni tanto dei cassettini della memoria, gli risveglia dei ricordi.
E magari, dopo due brevi ricordi che servono a creare il mood, ecco arrivare il terzo, la storia vera e propria: le ragazzine che vogliono vedere “il coso” di questo personaggio un po’ equivoco.
La narrazione, ovviamente, deve essere tutta interna alla scena, bisogna cioè trasmettere le informazioni come conseguenza di ciò che avviene nel corso dello svolgimento naturale degli eventi.
Prendiamo ad esempio questo passaggio del testo originario.
Che Silvia abbia 11 anni non lo si può sbattere in faccia al lettore con questa brutalità. Deve venir fuori da ciò che i personaggi stanno naturalmente facendo in scena. Le ragazzine potrebbero ad esempio trovarsi in conflitto tra loro per “occupare un posto in prima fila”, cioè il posto da cui “il coso del tipo” si può vedere meglio. E Silvia, a quel punto, può reclamare il suo diritto al posto migliore, in virtù della sua età, con una battuta del tipo:
“Ho 11 anni, sono la più grande: devo stare io davanti!”
che è perfettamente lecita, perché anche se tutte sanno che Silvia è la più grande, e conoscono la sua età, questa informazione serve al personaggio – all’interno della scena – per rivendicare il suo diritto a una prospettiva privilegiata.
Con altrettanta naturalezza bisogna comunicare che Lena ha “una fiamma rosso acceso al posto dei capelli”. La nostra protagonista – Azzurra – potrebbe ad esempio avere una percezione e poi compiere un’azione, che ci informano sulla fisicità di Lena. Qualcosa del tipo:
Lena si piazza davanti a me, il suo cespuglio di capelli rosso fuoco copre tutto. Glieli afferro e la sposto: “Voglio vedere anch’io!”
Mi spinge all’indietro. “Non gridare, ché sennò ci sente. E poi tu sei la più piccola, e devi stare dietro.”
E così sappiamo pure – se non era già chiaro – che Azzurra è la piccolina del gruppo.
E tutte le informazioni devono essere trasmesse così, dall’interno della scena; e se per avventura ci sono informazioni che non possibile trasmettere dall’interno della scena, allora bisogna rinunciarci (oppure ripensare la scena); e, neanche a dirlo, cose del tipo “da grande darà del filo da torcere a molti” vanno eliminate tout-court, perché Azzurra – la bambina Azzurra – non può certo sapere cosa accadrà a Lena in futuro, ti pare?
Mi raccomando, poi, la cura del registro comunicativo. La nostra protagonista è una bambina, e quindi deve esprimersi (e comportarsi) come una bambina. Ad esempio, giusto per capirci, sarei parecchio dubbioso verso una percezione del tipo:
Lena si piazza davanti a me, la sua chioma rossa copre tutto.
Siamo sicuri che una bambina abbia il concetto di “chioma”? Che percepisca una “chioma” quando vede una capigliatura folta? Sinceramente non saprei dirlo. Magari sì, e forse il termine appartiene effettivamente al vocabolario standard di una bambina; o forse no, e poche bambine sanno esattamente cosa sia una chioma. Bisogna verificarlo, e più in generale serve fasarsi sul mondo di una bambina – conoscere le sue parole, i pensieri, le azioni e le percezioni – per evitare di attribuirgli una recitazione surreale.
A questo punto torniamo al presente: facciamo arrivare l’amica all’appuntamento, descriviamo l’incontro tra le due – sempre filtrato dalla prospettiva di Azzurra, ma ora di una Azzurra donna – e le facciamo chiacchierare per tirar fuori altre informazioni (ad esempio Azzurra potrebbe chiedere se l’amica ha notizia delle altre, e in quel frangente può venire fuori che una fa l’avvocato e un’altra ha divorziato tre volte).
Dobbiamo andare a chiudere, e allora possiamo fare in modo che l’amica si sia presentata all’appuntamento con un giornale in mano, anzi facciamo in modo che si sia avvicinata alla nostra protagonista proprio agitando una mano con cui stringeva un giornale, per richiamare l’attenzione su di sé. Così abbiamo introdotto quell’elemento tecnico che i più chiamano “semina”, da utilizzare più in là per mietere il “raccolto” (a me questa terminologia non piace, la trovo disfunzionale, come spiegato nel modulo 16, e qui la uso solo come espediente espressivo).
Dopodiché possiamo fare in modo che la chiacchierata venga spezzata dallo squillo del cellulare dell’amica, che si scusa con Azzurra, ma deve assolutamente rispondere promettendo di chiudere la conversazione in un attimo (inventa tu la situazione che la obblighi a rispondere). A quel punto si alza dalla panchina dove le due sono sedute e si allontana un po’, lasciando il giornale vicino ad Azzurra. Il seguito dovresti immaginarlo da solo, a questo punto: Azzurra prende il giornale, lo sfoglia distratta, finché non arriva alla notizia che cattura la sua attenzione, e che magari fa partire un nuovo flashback, con cui si passano le informazioni rimanenti.
E il racconto si conclude col ricordo che viene spezzato dall’amica, che ha concluso la sua telefonata, è tornata alla panchina e ha visto la protagonista con lo sguardo perso nel vuoto (non sa che era immersa nel suo flashback) e la riporta alla realtà con una battuta del tipo:
“Azzurra, ti sei imbambolata?”
La mia è solo una proposta didattica, a beneficio di chi volesse esercitarsi avendo già a disposizione un set di elementi informativi su cui impostare la narrazione (eventualmente da integrare con altri che ritenesse utili).
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