Modulo 26 – Esercizio #1

    

Bisogna avere un’incrollabile fiducia in Dio o in sé stessi, meglio se coincidono, per ostinarsi a scrivere oggi un libro. Lo fanno tutti, il numero degli autori ha superato il numero dei lettori, come i morti superano i nati. Mezza umanità pretende di raccontare all’altra metà la sua vita”.
 
Le parole di Marcello Veneziani andrebbero stampate su un foglio da attaccare allo specchio del bagno, per richiamarle alla memoria tutte le mattine, e ogni volta che ci si guarda in faccia.

Muoviamo da un dato di fatto: gli scrittori sono diventati un multiplo dei lettori, l’offerta (di romanzi) sovrasta la domanda (di lettura) e, sì, bisogna credersi onnipotenti per pensare di aver creato un’opera speciale, unica, realmente diversa dalle altre 84.999 che ogni anno – ogni anno! – invadono il mercato (nel 2000 erano “solo” 20.000, per darti un’idea di quanto sia dilagata la smania di scrivere). Un terno al lotto avrebbe probabilità decisamente migliori – 1 su 11.748 – ma credendosi Dio, appunto, a quell’unica probabilità viene conferito il potere di fagocitare le altre 84.999 concorrenti.
 
Qualche statistica elementare sull’editoria, fornita da Livio Gambarini.

C’è mezza umanità che proprio non resiste all’impulso di raccontare la propria storia, perché intimamente convinta che la propria vita sia stata un romanzo che tutti devono – devono! – conoscere, bellamente inconsapevole che l’autobiografia è il genere letterario più rischioso in assoluto.
 
Figurarsi!  

Against the gods, against the odds: il mio romanzo (autobiografico) sarà un successo, anche se non ho mai studiato scrittura, anche se sono un esordiente. 
 
 

Su questo libro, al momento, abbiamo solo tre informazioni: il nome dell’autrice (Adriana Giotti, una esordiente), il titolo (La linfa sale dalle radici), la copertina (un albero inclinato sulla sinistra, col mare sullo sfondo) e la casa editrice (Scatole Parlanti, che non è un editore a pagamento).

Non si può dire nulla sul contenuto del libro, sin qui. Bisognerebbe leggerlo, si dirà. Ma siamo sicuri che serve leggerlo per darne un giudizio, o almeno per farsene un’idea?

Procediamo con ordine.

Questo libro si presenta al pubblico come un romanzo, e voglio allora richiamare alla tua attenzione – con le parole di Will Storr – la caratterizzazione tecnica di un romanzo, ciò che il lettore si aspetta di trovare dentro un’opera qualificata come romanzo:

“… vogliamo scoprire come quella particolare persona, con quella particolare storia, e con quei punti di forza e quei punti deboli riuscirà a cavarsela. Di solito ci riuscirà solo forzando la propria natura, tentando qualcosa di nuovo, compiendo uno sforzo senza precedenti. Insomma, cambiando.

È chiaro che tipi di storie differenti avranno un diverso grado di enfasi e complessità psicologica, ma alla fine una trama senza personaggio sarebbe soltanto una giostra di luci e suoni. Il senso viene a crearsi soltanto quando l’imprevisto giusto va a toccare la persona giusta al momento giusto
”.
 
E ancora:

“… i protagonisti della storia non sono in guerra soltanto con il mondo esterno. Ma anche con sé stessi. Devono affrontare battaglie che avranno luogo soprattutto nei sotterranei oscuri del loro subconscio. In gioco c’è la risposta all’interrogativo cruciale di ogni dramma: chi sono io?

Chi è questa persona? Ecco l’interrogativo che tutte le storie ci pongono. Emerge contestualmente al punto di innesco. Quando il cambiamento iniziale lo colpisce, il protagonista reagirà in modo eccessivo o darà comunque prova di un comportamento insolito. Saltiamo su, improvvisamente più attenti. Chi è questa persona che si sta comportando così? L’interrogativo tornerà a porsi tutte le volte che il protagonista verrà messo in discussione e sarà costretto a compiere una scelta.

Dovunque, nella trama, si porrà tale interrogativo, il lettore o lo spettatore si sentiranno coinvolti. Quando questo dilemma non si presenta, e gli eventi procedono al di fuori del suo fascio di luce narrativo rischieranno di provocare un senso di distacco, o persino di noia.
 
Se esiste un segreto nello storytelling credo proprio che sia questo. Chi è questa persona? O, dal punto di vista del personaggio: Chi sono io? Ecco l’essenza del dramma. La sua elettricità, il suo battito, il suo fuoco”.
 
Sono parole così chiare, precise, sintetiche ed esaustive, che ad aggiungere altro – a volerle commentare o chiosare – si rischierebbe di rovinarle.

E ora – con le parole di Will Storr nello specchietto retrovisore – vediamo come il libro La linfa sale dalle radici viene presentato dalla stessa casa editrice che lo ha pubblicato.
 

Quel che hai appena letto è il cosiddetto pitch: una descrizione sintetica dell’opera, che dovrebbe invogliare ad acquistarla e leggerla (l’equivalente di un teaser per un qualsiasi altro prodotto commerciale, perché, sì, incredibile a dirsi, ma i libri sono dei “prodotti da portare sul mercato”, con l’obiettivo di venderne il più possibile).

E ora fermati un attimo, prima di leggere le mie osservazioni.

Cosa noti di strano in questo pitch?
 
Pensaci bene, alla luce delle parole di Will Storr sul “segreto nello storytelling” su quale sia l’essenza di una storia, “la sua elettricità, il suo battito, il suo fuoco”.
 
 
Ti do ancora qualche minuto per pensarci, e intanto ne approfitto per un’osservazione puramente formale, relativa alla costruzione testuale del pitch, che trascrivo in parte e in modo da far risaltare il punto.

La Sicilia del dopoguerra, in ritardo sul processo di ricostruzione post-bellica dopo essere stata relegata ai margini del miracolo economico italiano, e il popolo siciliano, la cui fierezza ha trasformato miriadi di dominazioni e invasioni in lingua, usi e tradizioni unici al mondo: sono loro i veri protagonisti delle pagine di questo romanzo.

Cosa sono le frasi in rosso? Non lo sai? Te lo dico io. Sono degli incisi.

E cos’è un inciso? È una frase che ne spezza un’altra.

E perché mai dovremmo desiderare spezzare una frase? Calma e ragioniamo.

Spezziamo una frase quando vogliamo attirare l’attenzione su un messaggio particolare, pertinente al discorso generale, ma esterno all’ordinario flusso comunicativo: l’inciso è cioè un modo per enfatizzare un messaggio (spezziamo il flusso, per dare risalto a quel che ci sta in mezzo).

Nel caso volesse rinnovare il contrattosoluzione che auspichiamole ricordiamo che dovrà farci pervenire conferma a mezzo raccomandata entro 15 giorni e provvedere al contestuale invio di una e-mail all’indirizzo segreteria.societaria@affitti.com.

Quel “soluzione che auspichiamo” ha messo in pausa il flusso informativo sulle azioni necessarie per rinnovare il contratto, per comunicare l’auspicio che la controparte lo rinnovi: la trasmissione di un’informazione puramente tecnica (sulle modalità di rinnovo del contratto) è stata interrotta per comunicare uno stato d’animo (l’auspicio di rinnovo).

È chiaro qual è l’uso corretto dell’inciso? Una frase (breve) che ne spezza un’altra, allo scopo di attirare l’attenzione su di sé, nell’ovvio presupposto che sia una frase meritoria di attenzione.

Qual è invece l’uso distorto dell’inciso? Una frase (spesso lunga a piacere) che ne spezza un’altra, al solo scopo (privo di senso) di inzeppare quante più informazioni possibili in un unico periodo testuale.

Diffida per principio di chi sbaglia a usare gli incisi: è un segnale inequivocabile di scarsa presa sul linguaggio scritto, e se non si ha presa sullo strumento che si usa, cosa mai si potrà produrre?



Okay, d’accordo, lanciamo il cuore oltre l’ostacolo dell’inciso e andiamo alla sostanza del pitch, che riscrivo in forma abbreviata e asciutta (senza incisi) per coglierne il messaggio con chiarezza.

La Sicilia del dopoguerra e il popolo siciliano: sono loro i veri protagonisti delle pagine di questo romanzo.


Cosa? La Sicilia del dopoguerra e il popolo siciliano? Sono loro “i veri protagonisti” del romanzo?

Ma come fanno “la Sicilia del dopoguerra” e “il popolo siciliano” a essere i protagonisti di un romanzo?

Cosa dice Will Storr?

… vogliamo scoprire come quella particolare persona, con quella particolare storia, e con quei punti di forza e quei punti deboli riuscirà a cavarsela”.

Di questo parla un romanzo: di quella particolare persona, con quella particolare storia, con quei particolari punti di forza e debolezza. E come si raccordano tutte queste particolarità – questo essere una persona precisa, con una storia precisa, in una situazione precisa – con “la Sicilia del dopoguerra” e “il popolo siciliano”, che sono entità generiche e astratte?

Se vuoi parlare dell’umanità, parla di un singolo uomo è un precetto basilare della narrativa. Le storie – ripetiamolo – parlano di “come quella particolare persona, con quella particolare storia, e con quei punti di forza e quei punti deboli riuscirà a cavarsela”. E chi è, qui, che dovrebbe riuscire a cavarsela? La Sicilia in tutta la sua interezza, tutto il suo popolo, nessuno escluso?

Pazienza, se l’autrice ignora bellamente i prerequisiti necessari per dire di aver scritto un romanzo. Ma la casa editrice – santo cielo! – dovrebbe conoscerli, non ti pare? È il suo lavoro, accidenti! E invece no. Anche la casa editrice – a quanto pare – sembra all’oscuro delle basi della narrativa.

Ma si può sapere, esattamente, cos’è questo libro e come si pensa di venderlo? O perché si crede che qualcuno dovrebbe comprarlo?
 
Io ho capito cos’è che autrice e casa editrice volevano fare. Ma il punto è che non si fa così, non in modo così maldestro e pacchiano. Ci arriveremo, passo dopo passo, partendo dal principio.



L’idea di scrivere una storia traendola dal proprio vissuto – di travasare le proprie esperienze reali sulla pagina, per trasformare la propria vita in un romanzo – si colloca in un filone letterario classico, che torna periodicamente di moda: l’autobiografia.

Qual è il problema?

Semplice: o hai un vissuto straordinariamente interessante, oppure scriverai qualcosa di cui non fregherà niente a nessuno.

Banale, vero? Forse lo è, ma sai qual è il problema? Che se non sei un professionista della scrittura, se non hai precise conoscenze narratologiche, non sarai mai in grado di capire quali eventi della tua vita siano davvero interessanti e quali no, perché tutto ti apparirà straordinario, eccezionale, unico, e quindi meritorio di essere raccontato.

E tutto ti apparirà così – straordinario, eccezionale, unico – per il semplice fatto che è la tua vita, che quelle esperienze le hai vissute tu, nel mondo reale, sulla tua pelle. Sono tutte cose che ti hanno segnato nel profondo, e viste in retrospettiva ti fanno sentire il protagonista di un libro che si dipana automaticamente sotto i tuoi occhi: il libro, il romanzo, della tua vita.
 
Amici e parenti – i tuoi lettori caldi – corroborano poi la tua convinzione: sì, la tua vita è davvero straordinaria, eccezionale unica, e dovresti proprio scriverlo questo libro meraviglioso. Dai, su, coraggio! Cosa stai aspettando?

Qual è il problema? Che questo romanzo meraviglioso – il libro della tua vita – al momento ha per lettori soltanto te e la tua cerchia.

Quel che invece tu vuoi fare – che dovresti voler fare – è trasformare gli eventi della tua vita in una narrazione capace di avvincere chiunque, senza illuderti che il responso dei lettori caldi  (che colorano e ravvivano le tue pagine con la conoscenza diretta che hanno di te) sia una buona proxy della risposta dei lettori tiepidi o freddi (che non ti conoscono, non fanno sconti, e per i quali rileva solo ciò che si trova scritto sulla pagina).

Rimane una frattura tra lettori caldi e lettori tiepidi, che può sanarsi solo con la conoscenza delle tecniche di scrittura e sceneggiatura. Altrimenti – con imperdonabile faciloneria – finirai con lo snocciolare sulla pagina delle interminabili sequenze di fatti che saranno pure bellissimi per te, ma risulteranno incredibilmente urticanti per il lettore. Sempre ammesso che qualcuno sia arrivato ad acquistarlo il tuo libro, che il tuo pitch, anziché incoraggiarlo, non l’abbia dissuaso dall’aprire il portafoglio.
 
Questo è esattamente ciò che tu NON vuoi fare:
tu non vuoi vendere il tuo libro al “caro Antonio”;
tu non vuoi lettori che hanno imparato a conoscere “la piacevolissima persona” che sei,
o almeno non nel senso così intimo che traspare da questo scambio di convenevoli;
tu vuoi lettori che per te rimarranno per lo più anonimi (nessun “caro Antonio”),
ma che avranno apprezzato il tuo ecosistema di social network.
 
Consacra come un postulato questa elementare verità: il 99% degli esseri umani sono persone normali, con vite normali, anche se il 99% degli esseri umani, guardandosi indietro, ritiene di aver vissuto esperienze straordinarie.

E – al solito – ti prego di non farmi dire quel che non dico, semplicemente ripetendo le mie parole.

Io non dico che tutte le vite siano piatte e anonime; al contrario; io dico che in ogni vita, anche nella più scialba, ci saranno sempre degli eventi interessanti, che possono formare la base di una storia; ma questi eventi interessanti, con il loro potenziale narrativo, bisogna filtrarli dalla massa di tutta l’esperienza vissuta; e – dopo averli filtrarti – serve disporli nel giusto ordine e scriverli nel modo più efficace, avendo presente che li stai raccontando oggi, anno 2024, al pubblico di oggi, del 2024, di cui serve conoscere le inclinazioni e le attitudini, le soglie di interesse e tolleranza, le aspettative, i bisogni, le idiosincrasie; e tutto questo lavorio sotterraneo non puoi realizzarlo senza una salda padronanza della tecnica narrativa.
 

 
Io – lo diresti mai? – ho avuto una vita pazzesca.

A 17 anni provai ad aggredire fisicamente il mio professore di informatica. Ci volle l’impressionante forza di Padre Papotto, l’insegnante di religione (non invento nulla: si chiamava proprio così, Padre Papotto, ed aveva una forza mostruosa) per bloccarmi e impedirmi di mettergli le mani addosso.
 
Era il 1991, e nel 1991 una tentata aggressione a un professore poteva avere una sola conseguenza: l’espulsione della scuola o, al meglio, la bocciatura a fine anno per cattiva condotta. Ma – guarda un po’ – mio zio insegnava in quella scuola da decenni, e da decenni era in eccellenti rapporti con tutti, e così si attivò per minimizzare i danni: due giorni di sospensione e rimandato a settembre in informatica, praticamente un puffetto sulla guancia.

Ricordo il sorriso tenero di mia madre, l’anno successivo, dopo la maturità (strappata con 40/60): “tu non sei quello che dicono tutti, tu sei in gamba, e io ho fiducia in te… perché non provi con l’università, puoi farcela, io lo so…”.

Ma va là! Stiamo scherzando? Mi risuonavano ancora nelle orecchie le parole del professore di Fisica: “Ascolta a me: tu libri non ne mangi, lo studio non fa per te, non sei proprio cosa. Sai qual è l’unica cosa che puoi fare nella vita? Prendere un bel mitra, un bel passamontagna e… tarataratan… andare a rapinare le banche!”, con tanto di mimica – braccia piegate e pollice e indice distesi a richiamare una pistola – per simulare una smitragliata.

Ma quale università, per favore! Il mio primo colloquio di lavoro – a 18 anni – fu per un’impresa di pulizie di condomini. Volevo fare questo nella vita: lavare scale e pianerottoli. Erano pur sempre soldi, no? 

Non mi presero. Sai perché? Perché non avevo la patente. Buffo, vero? Se avessi fatto anch’io come tutti i miei amici, se mi fossi organizzato per avere la patente al compimento della maggiore età, ora starei con un SuperMocio Vileda in mano, anziché a digitare tasti al computer.

“Io ho fiducia in te…”. Il sorriso di mia madre si faceva ogni giorno più dolce. “Prova ad andar via da qui. Ti piacerebbe studiare a Roma?”

Cazzo, se mi piaceva l’idea di Roma: significava poter andare allo stadio ogni volta che la Roma giocava in casa! Bisognava però trovare una facoltà che fosse soltanto a Roma, e da nessun altra parte, così da rendere presentabile la scelta anche a mio padre.

Dopo una ricerca piuttosto complessa – era il 1992, internet non esisteva – atterai su un corso di laurea dal nome criptico: Scienze Statistiche Attuariali. Fino a “Scienze Statistiche” ci arrivavo. Cosa volesse dire “Attuariali” non ne avevo idea. Ma non importava. Tutto ciò che contava è che – all’epoca – queste “Scienze Statistiche Attuariali”, qualunque cosa significassero, stavano solo a Roma e Trieste.

Fatto! Che Scienze Statistiche Attuariali sia. Da Sant’Agata Li Battiati – paesino del catanese, con nemmeno diecimila anime – a Roma, la capitale: wow!

I primi mesi romani furono meravigliosi: ogni giorno era una Disneyland, un carnevale di Rio, e tutto a spese di mamma, s’intende, perché “tu devi pensare solo a studiare, di tutto il resto mi occupo io” (e mamma, per inciso, era un assistente sociale, non un’ereditiera).

Fino al giorno del primo esame: compito scritto di Analisi Matematica I. Mi siedo al banco, leggo il testo, sospiro e scuoto la testa: mi alzo e riconsegno il foglio bianco, senza neppure provare a svolgere gli esercizi. Per poi regolarmi col classico strumento dello studente fuori sede, per acquietare i genitori: la bugia.

Dissi a mia madre – al telefono – che l’esame era parecchio impegnativo, che preferivo provarlo alla seconda sessione, piuttosto che alla prima, perché altrimenti avrei rischiato una figuraccia.

Potevo vedere il suo sorriso, senza averlo sotto gli occhi. “Certo, fai bene: sono sicura che andrà benissimo”.

Misi gù la cornetta – all’epoca non esistevano i cellulari – e scoppiai a piangere, tra lo sgomento dei ragazzi con cui condividevo l’appartamento.

La seconda sessione d’esame si aprì con una dichiarazione di guerra, da parte di uno degli assistenti del professore: “Sono accaduti fatti piuttosto sgradevoli durante la prima sessione, che non siamo disposti a tollerare una seconda volta. Perciò, sia chiaro: se per qualsiasi ragione, anche ingiustificata, dovessimo avere anche solo la vaga sensazione che qualcuno sta copiando, provvederemo a ritirare i compiti all’istante, e non accetteremo repliche o giustificazioni”.

Erano le tre del pomeriggio di un qualche giorno di inizio febbraio, e un sole pallido illuminava appena il mio banco. Calai la testa sul foglio e quando la rialzai era tutto buio intorno. Avevo riversato in quel compito tutto me stesso, e se possibile anche di più. Non restava che aspettare il verdetto.

L’esame funzionava così: se superavi lo scritto, potevi evitare la prova orale, nel senso che il professore – il più delle volte – ti offriva la verbalizzazione del voto dello scritto, esonerandoti dall’interrogazione; sostenere l’orale era una libera scelta della studente, finalizzata ad alzare il voto, ma era una scelta sgradita al professore, un po’ perché lo annoiava dover organizzare un’ulteriore sessione d’esame, un po’ perché la interpretava come una manifestazione di superbia da parte dello studente; quei pochi che c’avevano provato – che si erano avventurati oltre le colonne d’Ercole del voto positivo dello scritto – erano stati un monito per tutti gli altri, della serie “colpirne 2 per educarne 20” (a uno era stato confermato il voto dello scritto, e quindi aveva faticato invano, e l’altro… era stato bocciato!).

Questa era la regola, la norma. Ma poi – di quando in quando – c’erano le eccezioni. Compiti scritti che erano sì fatti bene, ma non così bene da giustificare il superamento dell’esame senza un’interrogazione orale. Eccezionalmente, cioè, era il professore stesso a imporre la prova orale a quegli studenti con una preparazione percepita borderline. Io ero un un’eccezione, un borderline.

C’erano quattro eccezioni da valutare, in quel pomeriggio freddo e cupo  di fine febbraio, e funzionava così: ti chiamavano alla cattedra e ti interrogavano, professore e assistenti; poi ti facevano allontanare e confabulavano tra loro per una ventina di secondi; e poi i casi erano due; o scuotevano la testa, per dirti che non era andata, che eri stato bocciato, oppure facevano segno di avvicinarti, per comunicarti il voto, che a quel punto non poteva che essere positivo.

Va la prima eccezione: interrogazione, allontanamento, confabulazione, teste scosse.

Va la seconda eccezione: interrogazione, allontanamento, confabulazione, teste scosse.

Va la terza eccezione: interrogazione, allontanamento, confabulazione, teste scosse.

Arriva il momento della quarta eccezione, il mio momento.

La prima domanda è sulle serie numeriche; le serie non le avevo studiate granché, ma conoscevo bene le successioni (che sono alla base delle costruzione delle serie) e così tenni botta come potevo; ma le smorfie sulle loro facce non lasciavano sperare nulla di buono.

La seconda domanda non la ricordo, ma – qualunque fosse e qualunque cosa abbia risposto – ricordo che le smorfie del professore e degli assistenti si erano fatte più cattive.

La terza domanda rimane indimenticabile: “La funzione y=x2 è suriettiva, iniettiva, o biiettiva?”.

Rimasi in silenzio un paio di secondi.

L’assistente mi incalzò. “Quindi?”.

Abbozzai un sorriso. “Sto solo aspettando che lei completi la domanda”, e Dio solo sa dove trovai la forza per una replica così sfrontata.

Si scambiò uno sguardo con l’altro assistente e col professore, a metà tra il deluso e il compiaciuto, due stati d’animo contrapposti, ma originati dallo stesso fatto: la sua era una domanda-trabocchetto e io – cazzo, vaffanculo – nel suo trabocchetto non c’ero cascato.

Il professore, con un gesto della mano, mi invitò a spiegarmi meglio.

“Una funzione è definita da una legge e da un dominio. Voi mi avete dato solo la legge, y=x2, ma non il dominio, non mi avete detto in quale insieme varia la x, e quindi non posso rispondere. Perché se il dominio è quello ‘formalmente ammissibile’ – cioè l’intero asse reale – allora è una cosa; ma se il dominio, per dire, fosse limitato ai reali positivi, allora la cosa cambierebbe del tutto”.

Spiegai con gran dettaglio i diversi casi, e da quella domanda specifica ritornai poi alla logica generale, senza che nessuno – professore o assistenti – mi avesse chiesto nulla.

Sospirarono all’unisono, e mi dissero di allontanarmi.

Forse parlottarono per i soliti venti secondi, o forse no, non so dirlo; di sicuro, per me, ogni secondo si dilatò all’infinito; mi sembrava di vivere una sospensione spazio-temporale.
 
Fin quando uno degli assistenti non mi fece cenno di avvicinarmi. Rimasi immobile. Stava accadendo davvero? Il professore ripeté il gesto, in maniera più plateale. Sì, stava accadendo realmente. Mi stavano invitando ad avvicinarmi. Significava che avevo superato l’esame. C’è l’avevo fatta! Fregava cazzi del voto – anzi: ’sti gran cazzi! – avevo superato l’esame, c’è l’avevo fatta, e questo era tutto ciò che contava.

“Ventuno” fu l’unica parola dell’assistente.

Annuii, per confermare che il voto mi andava bene, e si procedette alla verbalizzazione.

Il ragazzino che a 17 anni aveva provato ad aggredire un professore, e si era salvato solo grazie alla raccomandazione dello zio, ora aveva superato il suo primo esame universitario, Analisi Matematica I, in una sessione che sino a quel momento era stata una strage (molti anni dopo venni a sapere che quando mio zio lo aveva raccontato alla professoressa di matematica della scuola – “sai, mio nipote ha superato l’esame di Analisi I all’università” – la sua replica era stata un inno allo scetticismo: “non ci credo, non ci crederò mai, neppure se vedo il libretto”).

Presi le mie cose e iniziai a correre verso casa (abitavo a via dei Mille, vicino l’università). Correvo veloce e sempre più veloce, in preda allo sconvolgimento interiore di chi sente che sta attraversando uno stargate, per entrare in un nuovo mondo.

Afferrai il telefono, composi il numero, e… 

“Mammaaaaa! Eravamo in quattro, e solo uno ha superato l’esame: indovina chi?”. 

Sentivo la sua gioia, e la sua gioia ravvivava la mia, le dava un senso profondo: non l’avevo delusa, ero stato all’altezza della situazione, la sua fiducia era sta ben riposta.

Quel giorno – il giorno del mio primo esame universitario – è senza discussioni uno dei cinque giorni più belli di tutta la mia vita, e sicuramente è il giorno più importante in assoluto: è il giorno in cui tutto è cambiato, il giorno in cui ho capito che, no, non era vero che io libri non ne mangiavo, il giorno in cui ho realizzato che potevo fare qualcosa di più, di meglio, che indossare un passamontagna e imbracciare un mitra per rapinare le banche.

Alzai il ritmo, e di molto, e iniziai a macinare un esame dopo l’altro; in alcuni frangenti arrivai a studiare oltre dieci ore al giorno, per parecchi mesi di fila, a dare fino a 8 esami in un anno, senza trucchi, senza mezzucci, senza scorciatoie, ma solo con un duro lavoro sistematico. Non andò sempre tutto liscio, ovvio. A volte (poche) giravo a vuoto, le cose non andavano come volevo, ma non aveva nessuna importanza. Perché ormai possedevo la mentalità giusta, quella che – per dirlo con Renato Zero – “più la combatterai, più si difenderà, non sai tu questa gente quante risorse ha!”.

Un pomeriggio di inizio marzo, davanti alla bacheca degli orari delle lezioni, notai la presenza di un bando di concorso: “BANCA D’ITALIA – 60 ASSUNZIONI DI LAUREATI CON ORIENTAMENTO ECONOMICO STATISTICO”.

Un mese dopo, per Pasqua, mia madre venne a trovarmi. Nella mia stanza, seduti sul letto, le raccontavo come procedevano le cose.

“Sai, mamma, credo di sapere cosa voglio fare dopo l’università: lavorare in Banca d’Italia. Mi sono già informato, il concorso esce tutti gli anni, sempre più o meno verso settembre. Sì, io lavorerò in Banca d’Italia”.

Mi abbracciò e sul viso le si dipinse un sorriso che non le avevo mai visto, e che forse covava da sempre dentro di sé. “Non sai quanto sono felice…”.

Da quel momento iniziò la mia scalata a Palazzo Kock, supportato da una squadra – per dirlo col rapper J-Ax – “in cui ancora gioco e credo, che mi ha allenato, mi ha cresciuto, mi ha difeso, e in cambio non ha mai preteso niente, gente che per anni ha dato, ha atteso, e in cambio nulla ha preso”.

Non è stato facile. Proprio no. Ci sono stati momenti esaltanti e altri deprimenti. Attimi in cui tutto sembrava possibile, e periodi in cui sentivo persino il peso delle piume. Ci sono stati sorrisi e lacrime, speranze e delusioni, giorni di burrasca e altri senza vento. C’è stato tutto e il suo contrario, e tutto quel che successo – per dirlo ancora con J-Ax – “fu per arrivare te”.
 







“Ascolta a me: tu libri non ne mangi, lo studio non fa per te, non sei propria cosa. Sai qual è l’unica cosa che puoi fare nella vita? Prendere un bel mitra, un bel passamontagna e… tarataratan… andare a rapinare le banche!”

Già. Proprio così. Più o meno.
 
 
 
Ti ho annoiato, per caso?

Perché, sai, io ho lacrimato tutto il tempo, nel ripercorrere questo tratto della mia vita, e tutta la gente intorno me, in questo bistrot in cui abitualmente scrivo, mi guardava come fossi uno scemo.

E forse anche tu hai avuto la stessa sensazione, nel sentirmi dire che il giorno del mio primo esame universitario è stato il più importante di tutta la mia vita, e tra i cinque più belli in assoluto. Tutta questa enfasi per un esame universitario? Che esagerazione! E che sarà mai? È solo un esame!

Già. Ma per me che l’ho vissuto è invece meraviglioso. Perché è capitato a me, che ho una mia specifica storia alle spalle, che solo io e la mia cerchia conosciamo in tutti i suoi più minuti dettagli, e che ci porta a percepire quel giorno – il giorno del primo esame – come pazzesco, esaltante, straordinario. Ma per tutti gli altri, sì, è solo uno stupido esame universitario, come se ne tengono di continuo in ogni parte del mondo.
 
E ora ci sono due cose che voglio farti notare (nella speranza che tu le abbia già intraviste da solo).
 
La prima: ho scritto di getto questo breve pezzo di autobiografia, senza badare a forma e stile, e sicuramente ho commesso parecchi errori tecnici di scrittura (in gran parte è una narrazione raccontata e non mostrata, e lo stesso mostrato è comunque scadente); sarò inciampato pure in imperfezioni sintattiche, e probabilmente ho sfarfallato persino sui tempi verbali (e sinceramente non ho voglia di revisionare per correggere); e tuttavia – lo avrai notato – mi è venuto spontaneo, naturale, prospettare una storia in cui il personaggio (io) va incontro a un cambiamento attraverso una sequenza di conflitti; mi è venuto spontaneo, sì, perché io ormai non riesco più neanche a immaginare di raccontare storie dove il personaggio non cambia, ma è una spontaneità che ho acquisito attraverso un duro lavoro su me stesso, con un tirocinio metodico, mirato; è una naturalezza costruita a tavolino  – per quanto possa suonare come un ossimoro – e non già presente in me da sempre.
 
La seconda osservazione è più sottile e ci riporta alla questione lasciata in sospeso – cosa volevano fare l’autrice e la casa editrice scrivendo un pitch così anomalo? – a cui, di nuovo, spero che tu abbia saputo dare quanto meno un avvio di risposta.
 
Vedi, non importa quanto la tua vita possa sembrare straordinaria a te che l’hai vissuta, e non importa neppure – guarda un po’ – quanto possa esserlo oggettivamente, se poi non riesci a renderla qualcosa di più della tua vita, a trasformarla in una narrazione che oltrepassi te stesso e le persone che ti stanno accanto, per restituire un messaggio universale.

Cosa ci insegna Pontiggia?

Che scrivere non è trascrivere quel che si è pensato o vissuto, ma scoprire sulla pagina quel che non si sapeva di pensare o di aver vissuto: scrivere è pensare con la penna, perché la testa sa poco di ciò che la mano scrive, e deve scoprire quel che la penna vuol dire.

Il romanzo indimenticabile è quello che ti fa scoprire e riconoscere qualcosa che stava dentro di te e non sapevi di avere, qualcosa che evoca valori universali attraverso specifici eventi personali.
 
Non c’è proporzione tra scrivere un libro in cui racconti che ti è nata una figlia disabile e la tua vita è diventata un gran casino – una cosa che punta a farti sfogare, mentre la scrivi – e una storia come Il precipizio dell’amore di Mariangela Tarì.
 
Intendiamoci: sfogarsi con la scrittura – trasformare la scrittura in una terapia a costo zero – non è un male, non è sbagliato; ma se vuoi raggiungere un pubblico, allora devi capire dove finisce lo sfogo per acquietare te stesso, e dove inizia ciò che puoi fare per gli altri; e ti sarà impossibile tracciare il confine tra i due campi, senza un’adeguata formazione narratologica.
 
La tua vita non la devi valutare con criteri narrativi. Perciò non sentirti sminuito se non si trasforma automaticamente in una storia valida. Perché una storia è valida se e solo se obbedisce a tecnicismi precisi, che nella vita in genere non si verificano, ma a cui puoi sempre riferirti per trasformare la tua vita in un’opera d’arte, in un processo che è inverso a quello immaginato: non già dalla (brutta) realtà alla (brutta) pagina, ma dalla (elegante) teoria della pagina scritta alla (meravigliosa) vita reale.
 
Lo dico a te, caro lettore del blog, affinché ti sia chiaro nel modo più brutale:
del tuo “disagio diffuso” non frega niente a nessuno,
e se la tua scrittura diventa lo specchio di una cosa a cui non frega niente a nessuno,
cosa pensi che possa accadere a ciò che scrivi?
Togliti dalla testa, caro lettore del blog, che sia il “disagio diffuso”
– o qualsiasi altra tua fisima pseudo-filosofica – a dare valore alla tua scrittura.
Pensare che disagi, tormenti e squilibri siano delle sorgenti di buona narrativa
è una credenza che sta bene tra il moto perpetuo e la quadratura del cerchio,
tra l’alchimia per trasformare il ferro in oro e l’elisir di eterna giovinezza.
E lo scrittore che fa leva su questa fuffa è il gonzo col metodo sicuro per vincere alla roulette.
Dopodiché – chiaro – puoi sempre fondare l’ennesima rivista on-line, autoproclamartene redattrice,
e dire che, sì, scrivere non ha senso se non è specchio del disagio diffuso.
 
Ti è chiaro, ora, cos’è che ha fatto – ingenuamente  – il pitch del libro La linfa sale dalle radici? Ha restituito direttamente un messaggio alto e generale che – ammesso fosse stato davvero presente – doveva essere lasciato alla spontanea deduzione del lettore attraverso la fruizione dell’opera (con la conoscenza di specifici personaggi e delle specifiche vicende in cui erano coinvolti) e non certo spiattellato in malo modo in quarta di copertina.
 
Puoi guardare – per confronto – ad American History X:  l’opera ci parla di “come quella particolare persona, con quella particolare storia, e con quei punti di forza e quei punti deboli riuscirà a cavarsela”, per riprendere ancora una volta le mai troppo citate parole di Will Storr. 

Noi vediamo – in American History X – un personaggio specifico, che vive esperienze specifiche, affrontate con punti di forza e debolezza specifici, e che hanno esiti specifici, da cui poi deduciamo, da soli, tutta una serie di considerazioni generali sul razzismo, senza bisogno che l’opera si diffonda in sermoni, prediche, ramanzine e spiegazioni.

La fisiologia del romanzo va da una narrazione specifica ed esplicita (che si trova nel mondo della pagina) a una riflessione alta e generale sulla vita reale (che avviene spontaneamente suscitata nella testa del lettore, a seguito della fruizione dell’opera).
 
Ma se la morale viene invece esplicitata – se il lettore viene di fatto portato dietro le quinte del romanzo – il castello narrativo implode: perché le persone si approcciano alla lettura di narrativa per sapere come quel personaggio “riuscirà a cavarsela”, e non per sentirsi fare delle lezioni di vita (che pure il romanzo riuscirà a dare, se si sapranno rispettare le giuste regole di presentazione).
 
Dire esplicitamente – nel pitch  – che i veri protagonisti del romanzo sono “la Sicilia del dopoguerra, in ritardo sul processo di ricostruzione post-bellica dopo essere stata relegata ai margini del miracolo economico italiano, e il popolo siciliano, la cui fierezza ha trasformato miriadi di dominazioni e invasioni in lingua, usi e tradizioni unici al mondo”, dichiarare così apertamente che le storie particolari contenute nel mondo della pagina sono espressione di una realtà più vasta e generale, è un’autentica aggressione a mano armata alla sensibilità di qualsiasi lettore tiepido, che – comprensibilmente – scapperà a gambe levate.
 
E sì che l’autrice, da siciliana fiera e orgogliosa di esserlo, aveva un riferimento meraviglioso: Il Gattopardo, di Tomasi di Lampedusa.
 
Il Gattopardo viene presentato come una storia specifica, di un personaggio specifico (il Principe di Salina) in un luogo specifico (la Sicilia) in un’epoca specifica (il 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi), e sono tutte queste specificità a interessare e attrarre il lettore.

Dopodiché, sì, in tutte queste specificità riecheggiano temi generali, di ampio respiro, sulle contraddizioni del Risorgimento e sulla natura dei siciliani, che offrono spunti di notevole interesse per capire meglio un pezzo di storia nazionale mai abbastanza studiato, nonché l’indole di un popolo tra i più caratteristici al mondo: “l’incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l’incapacità vera di modificare sé stessi, e quindi l’orgoglio innato dei siciliani” – nella sintesi di Wikipedia – è un messaggio che aleggia sull’intera storia, che si desume dalla storia, ma che non si potrebbe mai usare come pitch della storia (di sicuro non oggi, anno 2024).
 
Perché chi prende in mano un libro di narrativa – lo diresti mai? – vuole leggere narrativa, cioè una storia specifica – di un personaggio specifico, in un contesto specifico di un’epoca specifica – e sarà poi la lettura di questa storia specifica, per ricaduta, a lasciargli eventualmente delle suggestioni e degli stimoli che vadano oltre la storia. 

Se invece si prende in mano un libro di narrativa, lo giro per leggere la quarta di copertina, e anziché un pitch accattivante, ci si vede prospetta un’analisi socio-economico-antropologica della Sicilia e dei siciliani, beh, scusa tanto, ma il libro con ogni probabilità lo si lascerà dove sta, perché alla fine si voleva semplicemente leggere un romanzo, e non sorbirsi una pseudo lectio magistralis di una professoressa improvvisata.
 
Ti è chiaro o devo ripeterlo ancora? Dimmi tu.
 

Questo e l’incipit del libro La linfa sale dalle radici, reso pubblicamente disponibile dell’autrice, sul suo profilo Facebook.

Il vicolo in cui sono nata è una strada senza uscita, incuneata tra le mura e i ruderi di uno stabilimento industriale devastato durante la Seconda Guerra.

Il troncone di via s’innesta in un viale di cipressi secolari che svettano oltre i tetti e abbuiano le casupole basse di uno dei rioni più poveri della città, dove la miseria serpeggia ignara di vie di fuga o sedotta da insidiose scorciatoie. In quei dedali disordinati e impenetrabili restano i segni del caos postbellico, e di un tentativo fallito di ricostruzione e ripresa economica dell’isola.

Cinquant’anni fa, la mia famiglia viveva in quel moncone di via, miracolosamente risparmiato dai bombardamenti dal ’40 al ’43, che avevano devastato la zona circostante. Tra la gente si era diffusa la voce che il vicolo avesse un santo protettore particolare, forse persino più potente della ‘santuzza’. Forse per questa ragione o, più plausibilmente, per preservare i figli dalla fame che la guerra aveva lasciato come prova del suo passaggio, nonno Alfredo aveva acquistato un’intera palazzina del vicolo.

Dentro il vicolo la povertà non trovava via d’uscita e s’accaniva contro i miserabili intrappolati in quel budello di mondo
.
 
L’ho già precisato nel modulo di apertura, e lo ripeto adesso: non ha senso fare line editing su un testo concepito senza l’obbedienza a un set condiviso di principî e regole (e in questo caso, a dirla tutta, non si sa bene neppure con la quale tecnica, ammesso ve ne sia una).
 
Potrei far notare che quel “troncone di via s’innesta in un viale di cipressi secolari che svettano oltre i tetti e abbuiano le casupole basse” denuncia tutta la confusione tra il cinema e la scrittura.
 
O che “quei dedali disordinati e impenetrabili” e “quel budello di mondo” avranno pure esaltato l’autrice nel concepirli, ma rimangono vuoti di significato per un lettore tiepido, perché non sono simulabili.
 
O, ancora, che l’intero periodo “Cinquant’anni fa, la mia famiglia viveva etc. etc.” è un infodump indigeribile.
 
E potrei notare che non basta scrivere “uno dei rioni più poveri della città” per trasmettere la sensazione di povertà, perché la povertà va mostrata, e non dichiarata.
 
Così come che “la miseria serpeggia ignara di vie di fuga o sedotta da insidiose scorciatoie” è un’altra di quelle creazioni tipiche di una fantasia povera, che non trasmette nulla al solito lettore tiepido.
 
Potrei pure osservare che l’attacco non fa nulla di ciò che un incipit dovrebbe fare.

Potrei fare tutto questo e tanto altro, ma non servirebbe a nulla, perché l’autrice ha un talento naturale per la scrittura, come le ripetono di continuo i suoi lettore caldi, i quali – secondo l’autrice – sono anch’essi scrittori dotati di talento naturale, in un micidiale circolo auto-referenziale.

Va bene tutto, d’accordo. Ma almeno la coerenza – l’ormai celeberrimo find the logic di Ilenia Zodiaco – si potrà pretendere o no?

Leggiamo di “uno dei rioni più poveri della città, dove la miseria serpeggia”, di una “povertà [che] non trovava via d’uscita e s’accaniva contro i miserabili”, e poi però veniamo a sapere che “nonno Alfredo aveva acquistato un’intera palazzina del vicolo”.

Un’intera palazzina, per l’amor del cielo! Ma come si concilia l’acquisto di un’intera palazzina – non una casa o due, no: un’intera palazzina – con la necessità di “preservare i figli dalla fame”?

Find the logic: per acquistare un’intera palazzina, fosse pure in un quartiere degradato, ci vuole denaro, molto denaro, e come si raccorda l’avere molto denaro con l’immagine di una situazione di povertà estrema?
 
Find the logic! Potrai pure fregartene della tecnica di scrittura moderna – e pensare che sia furbo scrivere come Manzoni – ma la congruenza interna al testo, almeno quella, deve essere preservata, no?

Find the logic!


E le cose peggiorano, se si prosegue nella lettura.
 
Ancora uno stralcio, ancora una volta proposto pubblicamente dall’autrice.
 
Gli Uomini si rialzano e, anche quando le ossa scricchiolano e nessun muscolo rivendica l’istinto di sopravvivenza, sono pilastri della sacralità della vita intesa, non come un principio astratto che obbedisce a leggi ultraterrene e prestiti incomprensibili, ma come pungolo della coscienza e della ragione umana che creano precisi e invalicabili limiti all’agire.

Sulle strade che odorano di sangue e sconfitta, siamo costretti a scegliere ogni giorno di restare dove l’onestà rischia di diventare una colpa.

Gli eroi pagano per i vivi mai per i morti.

Sulla tomba di un eroe piangiamo la perdita, ma impariamo a diventare tedofori dei valori e dei principi che sono il segno, l’emblema dell’onore. Sulla tomba di “mezzi omini” e “ominicchi” non c’è nulla da piangere né da imparare, tranne che, per chi grufola nel fango, la vita e la morte sono parte della stessa inesorabile sconfitta.
 
Ma cosa sono esattamente queste frasi? Cosa dovrebbero comunicare? E – qualunque cosa siano e qualunque cosa vogliano dire – cosa ci fanno dentro un’opera qualificata come romanzo?
 
Un romanzo è una storia, e una storia – a non dirlo in modo semplice – è una sequenza di scene, vale a dire un flusso simulabile guidato dal conflitto e finalizzato alla trasformazione del personaggio.
 
Qui abbiamo semplicemente un’autrice che si rivolge direttamente al lettore, per sciorinargli il suo bel monologhino sull’essenza della vita. Come se il regista di American History X, anziché mostrarci i drammi personale di Derek e Danny in un percorso scena-per-scena, si fosse piazzato lui davanti alla telecamera (anziché rimanervi dietro, come deve essere) e avesse iniziato a filosofeggiare su quanto è brutto il razzismo. Ti pare? 

E ora dimmi: qual è stata, secondo te, la risposta commerciale del libro La linfa sale dalla radici di Adriana Giotti?

 
Chi lo avrebbe mai detto!

Il libro – avrai capito che parlare di romanzo è fuori luogo – lo “hanno letto solo parenti e amici”, per usare le parole testuali dell’autrice.
 
Ma va? Chi se lo sarebbe immaginato!
 
E qui, però, serve fermarsi un attimo, per capire un po’ meglio come funzionano le cose.
 

 
Il signor Adriano Poletto, chiunque egli sia, riporta un dato di fatto.

Se “42” è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, sull’universo e tutto il resto – nella serie di romanzi di fantascienza umoristica Guida galattica per gli autostoppisti, di Douglas Adams – la costante universale per la totalità degli autoproclamati scrittori è invece “50”. Cinquanta libri: questa è la soglia invalicabile, per le copie vendute da chiunque abbia velleità letterarie, per chi coltiva ambizioni senza coltivare i mezzi per realizzarle.

Possibile? Sì, possibile, anzi è proprio così: la stragrande maggioranza dei libri – e pressoché la totalità dei libri degli esordienti – non supera le 50 copie vendute (per gran parte, se non tutte, all’interno della cerchia dei lettori caldi).

E perché mai il libro di Adriana Giotti (o di chiunque altro) avrebbe dovuto fare eccezione?
 
So cosa stai pensando: ma se così stanno le cose – e, sì, stanno proprio così – come fa l’editore a trarre un profitto dalla sua attività imprenditoriale (di selezione degli autori e pubblicazione dei loro libri)?

Domanda lecita, ma – vorrai scusarmi – l’argomento lo trovo di una noia insostenibile.

Ne ho accennato nel modulo 21C, e qui mi limito alla sintesi della sintesi: gli editori stampano gran parte dei libri, non già per guadagnare, ma per saldare debiti; la pubblicazione del libro dà luogo a una serie di scritture contabili e di operazioni bancarie che forniscono la liquidità necessaria per fronteggiare un impegno finanziario immediato; ma al tempo stesso ne generano di nuovi, che si presenteranno in futuro, e imporranno la replicazione della stessa procedura (nuova pubblicazione, per saldare il nuovo debito, che ne genera un altro collocato più in là nel tempo, e così via); è il caro, vecchio “schema Ponzi”, o la “catena di Sant’Antonio”, per dirlo in linguaggio più popolare.

Su YouTube trovi almeno tre video – due correlati, il terzo indipendente – che ti spiegheranno in dettaglio l’intero meccanismo, se la cosa proprio ti interessa.
 
 
La spiegazione di Chiara Berretta Mazzotta.




Ecco come funziona.
Io sono un piccolo editore.
Pubblico un libro perché ci credo, mi piace, lo ritengo bello e utile.
Lo pubblico di carta, perché sono un vero editore, tradizionale. 
Vado in tipografia, dove mi dicono che ne devo stampare almeno 1.000 copie,
ché farne di meno tanto costa uguale.
Parlo col distributore, che mi dice:
ehi, se non mi dai almeno 2.000 copie per coprire significativamente le librerie
io non posso impegnarmi a distribuire il tuo titolo’.
Diciamo che ne stampo 2000. Diciamo che stamparle mi costa € 5.000, € 2,50 a copia.
A quanto lo vendo? Vediamo… 
Il 60% del prezzo lo vuole il distributore,
che poi se lo divide con la libreria che vende il libro al privato.
Io devo pagare il costo di stampa, l’impaginazione, l’illustratore, i diritti d’autore,
e ovviamente anche l’affitto dell’ufficio, le utenze, il mio stipendio, il commercialista…
Se lo vendo a € 10 me ne tornano 4, e 2,50 sono già spesi per la stampa.
Mi bastano € 1,50 per coprire tutte le altre spese? Mi sa proprio di no.
Vendiamolo a € 15, e speriamo bene.
Il distributore a questo punto mi compra  le 2000 copie
 (si fa per dire, c’è sempre il diritto di reso!)
e io, tutto felice, stacco la mia prima fattura: ho venduto 2.000 copie,
per un importo totale di ben (30.000 – 30.000×60%) = € 12.000!
Ovviamente il distributore non mi paga subito (figuriamoci: paga a 120-210 giorni).
Sono un editore per bene, e voglio pagare chi ha lavorato per me.
L’autore no, perché prenderà le royalties sul venduto, ma gli altri li devo pagare subito:
al tipografo devo dare i suoi € 2.000, all’impaginatore i suoi € 300,
al grafico altrettanti, e così pure al correttore di bozze.
Ah, ci sono anche gli € 600 di affitto, altrettanti di bollette, e… dove li prendo i soldi?
Aspetta, lo so: ho fatto proprio adesso una fattura di ben € 12.000.
Vado in banca e mi faccio anticipare l’importo,
e poi, quando il distributore mi pagherà la fattura, li restituirò alla banca.
‘Okay, non c’è problema, metti una firma qua’, mi dice il direttore della banca.
‘Sì, è la fideiussione, una formalità obbligatoria, ovviamente’.
Mi ritrovo € 12.000 nel conto.
Pago chi devo pagare, mi prendo uno stipendiuccio anch’io, e mi fermo,
non pubblico più niente, aspetto che mi paghino la prima fattura.
Ho pagato tutti, e dopo quattro mesi mi trovo con poco o niente nel conto.
Ho dovuto pagare i mensili dell’affitto e le bollette, e un po’ di stipendio per me.
Sono passati 120 giorni, chiamo il distributore: Allora, mi puoi pagare questa fattura?’.
In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%:
ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute.
Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie,
e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente.
Ma facciamo finta che il mio libro si comporti come il libro-medio.
Dunque ho appena chiamato il distributore per farmi pagare la fattura,
e mi fa: ehi, guarda che di quelle 2.000 copie ne abbiamo vendute 800,
che facciamo con le altre 1.200?.
L’editore gli dice beh, che ne so io?’,
e il distributore gli dice beh, lo so io: io non ti pago duemila, ma ottocento copie,
quindi intanto fammi una nota di credito per le copie invendute così ti pago i 4.800 euro che ti devo.
Già, la mia bella fattura di € 12.000 si è ridotta a € 4.800.
Ma c’è dell’altro, mi dice il distributore:
Le altre 1.200 copie devo andarle a prendere dalle librerie dove le ho portate,
perché devono liberare i loro spazi per altri libri, e questo ha un costo, che ovviamente ti addebiterò.
Poi se vorrai le tengo io nel mio magazzino, e ti costerà un tot a metro cubo
per ogni giorno di giacenza, oppure te le porto a casa tua, e ci sarà un altro costo che ti addebiterò.
E io dove le metto? Forse mi tocca affittare un piccolo magazzino per metterci le copie invendute!
A quel punto chiama il direttore di banca:
Ciao Piccolo Editore, sono passati i 120 giorni, quell’anticipo sulla fattura è scaduto,
devi restituirmi l’importo che ti ho anticipato!.
Il dramma: devo restituire, e subito, alla banca i 12.000 euro che mi ha prestato.
Ma il distributore me ne ha dati solo 4.800, come faccio?
Già, come faccio a tappare il buco
senza che venga a pignorarmi la casa che mi è toccato dargli in garanzia per il fido?
Facile: pubblico un altro titolo, stacco un’altra fattura da € 12.000,
e con quelli tappo il buco e faccio un altro giro di giostra: wow!
Ecco spiegato come mai ci sono così tanti titoli nuovi
in un mercato in cui tutti si lamentano che nessuno legge
(Antonio Tombolini, piccolo editore)



La spiegazione di Marco Carrara, il Duca di Baionette,
che riprende e commenta la spiegazione delleditore Tombolini.


 
 
La spiegazione di Francesco Durigon.
 
Qui mi limito a riprendere le parole di Chiara Berretta Mazzotta, dal suo video sulle Dieci verità scomode sull’editoria.
 
Fare l’editore è un lavoro folle. Tu produci ogni anno centinaia di prodotti diversi, che hanno in comune tra di loro soltanto il contenitore, una copertina con dentro dei fogli, e dentro ci sono centinaia di prototipi. È come se un’industria dolciaria producesse cento linee di biscotti tutti gli anni, biscotti ovviamente diversi, biscotti che hanno nomi differenti, e dovesse scegliere chi promuovere e chi invece abbandonare al suo destino, e ogni anno, inesorabilmente, vedesse la maggior parte dei suoi prototipi… morire!”.

Quindi, fai la cortesia: smettila di prendertela con l’editore, di dare la colpa all’editore per ciò che succede a te, autore; perché l’editore ha già i suoi diavoli a cui dar conto, e non può mettersi appresso alle lagne di chi si crede un Pirandello redivivo solo perché alle scuole medie i suoi temi facevano venire i lucciconi alla professoressa di italiano.
 

Il Signor Giampaolo Galloni, chiunque egli sia, dimostra di non avere nessuna conoscenza del processo editoriale, o peggio, di essere prigioniero di uno dei tanti miti che ancora sopravvivono nel sempre troppo affollato mondo dei sedicenti scrittori.

Nell’immaginario collettivo c’è lo scrittore da un lato, con la sua arte, il suo talento, il suo genio, che si manifestano nel libro finito; e poi c’è l’editore dall’altro, con la sua conoscenza del mercato, le sue abilità di marketing, i suoi canali distributivi, che garantiscono la massima diffusione della creazione letteraria dello scrittore. A ognuno il suo compito, ognuno si occupi di ciò che sa fare: io – autore, artista – creo quell’entità pura e nobile che è il libro, e tu – editore – ti occupi dello sporco commercio.

Non so dire, sinceramente, se sia mai esistita una fase in cui vi fosse davvero una contrapposizione di compiti così netta, ma oggi – anno 2024 – di sicuro non funziona più così (ammesso, ripeto, che abbia mai funzionato così in un trapassato remoto).

“In pratica nel mondo dell’editoria c’è questa dinamica
per cui gli autori sono i fornitori sia della materia prima, il libro,
sia i fornitori di clienti”
 

“Fin da ragazzina, quello di diventare scrittrice per me era più di un sogno.
Era la cosa che desideravo di più in assoluto,
al punto che in base a questa aspirazione avevo scelto il mio percorso di studi.
Il mio tempo libero era sempre dedicato a leggere e a scrivere.
Ero sempre in cerca di concorsi e opportunità
che mi permettessero di farmi notare dagli editori.
Finché, al terzo anno di università, finalmente non ci riuscii.
E fu l’inizio del più grave errore del mio percorso.
Una grande casa editrice mi propose un contratto.
Ero convinta di aver toccato il massimo delle mie aspirazioni.
Ricordo ancora le notti insonni per la fatica e l’entusiasmo,
sebbene siano passati quasi 10 anni.
Poi il libro uscì. Solo che… non lo sapeva nessuno.
Le case editrici, anche quelle più grandi,
difficilmente promuovono una signorina nessuno com’ero io,
senza “santi in paradiso” e senza un pubblico già costruito.
Quello che era successo non era la realizzazione del mio sogno.
Era un incubo!”
 
L’editore, oggi, semplicemente “ti presta il suo nome” e mette a disposizione il suo circuito di vendita; ma poi – sottinteso, ovvio – sei tu, autore, che devi promuovere il tuo libro, preoccuparti di farlo conoscere, in una parola di venderlo; sei totalmente fuori strada se pensi che l’editore abbia a disposizione un pubblico già bell’è pronto a cui rifilare il tuo romanzo; il pubblico – notiziona! – devi portarglielo tu.

E a questo punto, probabilmente, ti si starà formando in testa un pensiero preciso.

Ma se sono io a dover scrivere il libro, a dover trovare il pubblico, e infine a convincerlo ad acquistare, si può sapere a cosa mi serve l’editore?

Esatto, bravo! 
 
A cosa ti serve l’editore? Non dico a nulla, ma sicuramente a poco, e gran parte di quel poco insiste su una vanità che comunque non dovresti avere.
 
La tecnologia ha reso possibile il cosiddetto self-publishing, per cui un autore può (deve) diventare imprenditore di sé stesso, costruendosi un eco-sistema di riferimento entro cui collocare le proprie opere, come accennato a conclusione del modulo 21C.
 
Questa è la normalità, oggi: accreditarsi come “autorità” in un determinato campo attraverso un uso mirato e consapevole dei social network (blog, canali YouTube, Instagram, Facebook…); crearsi un pubblico e fidelizzarlo proponendo argomenti di interesse in modo innovativo; e poi, a un tratto, tra un video e un post, buttare lì quasi per caso la notizia: “ehilà gente, non mi ricordo più se vi ho detto che ho pure scritto un romanzo”.
 
Questa è la normalità, oggi, ed è questo new normal che serve avere in testa se si vogliono fare due metri di strada in questo mondo, anche quando c’è un editore di mezzo, e anche se si tratta di un grande editore.
 
Liberati dall’idea che la presenza di un editore sia di per sé garanzia di qualità dell’opera, che l’editore funzioni da filtro rispetto al mondo anarchico del self-publishing. Perché non è così.
 
Liberati dall’idea che la presenza di un grande editore ti esoneri da un impegno personale sul piano commerciale. Pubblicare con un grande editore ti esonera sì da una serie di attività che sono centrali quando pubblichi con un editore minore, ma di base – grande o piccolo che sia l’editore – il miglior promoter del tuo romanzo sei tu e solo tu (persino Bruno Vespa deve fare il giro delle sette chiese per promuovere i suoi libri, persino lui non può delegare).
 
Liberati dall’idea che un e-book sia di rango inferiore rispetto al tradizionale libro stampato (di carta). “Ah, l’odore della carta”, “la sensazione tattile della pagina sul polpastrello” e altri simili idiozie non saranno mai ridicolizzate a sufficienza. Citando Chiara Gamberetta: “non cambia niente se una storia è stata miniata a mano su pergamena o stampata in digitale. Ognuno avrà le proprie preferenze, ma è assurdo rifiutare una storia perché la cornice non si adatta ai propri capricci. Tanto assurdo che sorge il sospetto che forse si sta leggendo per tutte le ragioni sbagliate. Non è che il presunto ‘piacere della carta’ sia dovuto alle sostanze tossiche presenti nelle rilegature? Dietro la passione per la letteratura ci sarebbe solo il desiderio di sniffare colla”.
 
Liberati da questi e da tanti altri bias cognitivi, ma soprattutto entra nell’ordine di idee che – come autore – il tuo obiettivo primario non è “vendere libri”, ma “provare piacere nello scriverli”, il che non vuol dire – attenzione! – disinteressarsi al lato commerciale, ma intenderlo come naturale corollario del teorema principale che regola tutto: la passione nel fare ciò che si fa, e da cui, sì, deriveranno anche le vendite, se saprai come muoverti, se avrai creato i presupposti per realizzarle.
 
Ma le vendite rimangono  – devono rimanere – il precipitato di un processo attivato e mosso da forze interiori che nulla hanno a che fare con i risvolti materiali della faccenda. Se le vendite diventano invece il tuo principale obiettivo, il tuo pensiero fisso – inconscio o conclamato – allora non avrai né le vendite né il piacere della scrittura.
 

Ecco qui il risultato: il libro lo hanno letto solo amici e parenti, per ammissione della stessa autrice, e lei, ora, sente di aver “accumulato altri debiti con me stessa”, sino a dire che “il tempo perso non me lo restituirà nessuno”, che non “non ho in mente altri sogni da sognare”.

Le repliche migliori le sono arrivate proprio dai suoi amici su Facebook, non da tutti, ovviamente, ma da alcuni sì, e sono argomentazioni perfette in sé e molto ben formulate.

  
 
 


 
Esatto.
 
Perché parli di “tempo perso”? Non ti piaceva lavorarci? Non ti è piaciuto fare tutto quel che hai fatto, per arrivare alla pubblicazione con “un vero editore”? Non hai trovato un tuo equilibrio, nella somma dei momenti dedicati alla scrittura? Non ti senti in sintonia con l’opera che hai realizzato? E se tuto ciò  è accaduto – ma è evidente che non è accaduto – com’è possibile che tu abbia bisogno d’altro per star bene? Non sai che non c’è salvezza al di fuori della tua pace interiore?
 
Basterebbe riflettere un minimo su questo insieme di osservazioni – relativamente facili da interiorizzare, provenendo da da persone amiche, verso cui si presume una spiccata propensione all’ascolto – per rimettere tutto nella giusta prospettiva, imparare dall’esperienza, e ripartire con un nuovo sogno.
 
Ma – notoriamente – fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, e allora basta una sola nota stonata a sabotare il complesso processo di riequilibrio interiore.

 
È sufficiente una sola idiozia, proveniente da una parente (sic!) ignara del funzionamento del mondo dell’editoria (sic!) per rianimare tutto un inferno di passioni auto-distruttive.
 

E certo!
 
Ora la colpa è dell’editore, che non ha sponsorizzato a dovere il tuo libro meraviglioso – attività che spetta a te, autore – e brama invece gli scritti di “personaggi da baraccone” col solo merito – lo diresti mai? – di vendersi alla grande al prezzo di 17,5 euro a copia.
 
E il dramma – ahimè – è che un’argomentazione folle ne chiama a raccolta tante altre, e tutta questa follia finisce per auto-confortarci che, sì, noi e solo noi siamo nel giusto, che “intere fette di umanità sono stupide, cattive o malate di mente” – citando Will Storr – e noi e la nostra cerchia siamo “l’unico vero faro di chiarezza e genio che riverserà la sua divina luminescenza nell’universo”. 

 
E sì, certo, prendiamocela con l’umanità – come se noi fossimo degli alieni – e con la sua congenita pochezza che la porta a leggere “le biografie dei calciatori”, di cui l’editoria è lo specchio fedele, dovendo tener conto – lo diresti mai? – delle “richieste del mercato”.
 
Diamo la colpa al mondo – dopo essercene chiamati fuori, s’intende: “il mercato non siamo tu e io, cara amica”, come se il mercato fosse un luogo malefico e infestato anziché il naturale banco di prova di ogni artista – e scagliamo la nostra ira contro il pubblico-bue che non riesce a vedere nel libro “una fonte di crescita, di arricchimento, di conoscenza”.

Ma sì, certo, continuiamo pure a urlare contro il soffitto: vedrete quante belle soddisfazioni ci toglieremo con la scrittura!
 
E infine, a chiudere il cerchio delle assurdità, ecco arrivare un micidiale ribaltamento di proporzioni, lo scambio di posto tra l’1% e il 99%, con l’eccezione che diventa regola: il parere favorevole di un solo lettore caldo (che ha persino sbagliato il cognome dell’autrice: Giotto invece di Giotti) è sufficiente a ribaltare l’indifferenza di una moltitudine di lettore freddì, perché, sì, citando ancora Will Storr, solo noi e la nostra cerchia siamo “l’unico vero faro di chiarezza e genio”.
 
“Una scrittura, puntuale, agevole e fluente…”
 
E tu, invece, lettore del blog, ricorda un fatto basilare e pur fondamentale: il 99% dei lettori prende in mano un romanzo con l’idea di svagarsi, di vivere un’avventura (che spesso gli è preclusa nel modo reale) attraverso l’immedesimazione nelle vicende del protagonista della storia.

Non sminuire i lettori – che sono pur sempre un pubblico da conquistare, blandire e coccolare – solo perché di quando in quando vogliono svagarsi in una vita che ha già le sue pesantezze, e nella quale – non lo dimenticare – vi sono oggi tante altre fonti di svago alternative a un buon libro, tutte realizzate da figure molto più preparate e competenti dei cosiddetti, sedicenti, “scrittori”.

Piuttosto, ribalta il tavolo a tuo favore: avvicina il lettore con quel che il lettore vuole – una storia con cui svagarsi – ma poi abbi cura di trasmettergli un messaggio forte, chiaro, duraturo – attraverso l’arco di trasformazione del tuo protagonista – affinché quel momento di svago si riveli sì “una fonte di crescita, di arricchimento, di conoscenza”, ma nel modo corretto, coerente con lo scopo e le tecnica dell’arte narrativa (persuadere di una tesi attraverso le emozioni provate immedesimandosi nella vita di un altro).
 
Se ti ostini invece ad anestetizzare il dolore degli schiaffi della realtà con lo sciocco piacere di credere di aver ragione, se ciò che ti accade t’insinua sì qualche dubbio, senza però condurlo fino alle sue conseguenze ultime, se vuoi – insomma – che sia il mondo a conformarsi a te, perché è troppo bello credere di aver ragione, allora ti scoprirai paralizzato persino di fronte alle cose più semplici.
   

Da vent’anni – vent’anni! – l’autrice lavora a un saggio dall’intonazione criptica, e di quando in quando nota “una certa ‘fatica’ nei pochi lettori che hanno la pazienza di leggere”, che le fa valutare l’alternativa di “pubblicare foto di animali e qualche ricetta”, anziché provare a concluderlo.

E allora leggiamolo qualche stralcio – reso pubblico – di questo saggio “sui talenti, vera motrice del pensiero” – che sta nel cassetto da oltre un ventennio. 
 
 
Chi ha talenti non crede che il bene e il male siano esiti dell’eterna lotta tra potenze incoercibili e occulte, ma piuttosto che siano le conseguenze dell’agire umano. Dunque, non serve stilare preventivi, fare i conti, compensare i costi con gli utili. Serve imparare a usare i talenti per veicolare ogni altra facoltà, e impedire che il pensiero degeneri in esaltazione, che la capacità di credere si trasformi in fanatismo, che il coraggio di sognare precipiti nei deliri dell’ambizione, che la volontà traligni in vanità, e così via. Ancor meno serve credere che la vita sia governata da ignote forze mistiche che a nostra insaputa combinano i casi che chiamiamo destino. Il destino è scevro da ogni logica e giustizia, non perché disdegni i nostri meriti, ma perché lo mandiamo al posto nostro sul banco degli imputati quando falliamo o siamo incapaci di resistere agli eventi, di scompaginarne gli effetti e le conseguenze.
 

Nessuno sembra più comprendere che i tuoi silenzi sono gli spazi che concedi alle coscienze. Nessuno crede che nella babele di suoni e di lingue sei Colui che ascolta e comprende ogni voce.

Gli uomini ti “rivelano” e ti “sigillano” a loro piacimento, come se Tu non avessi più niente da dire o noi non dovessimo cercarti fuori dai recinti delle religioni che ti contendono come se Tu fossi un trofeo. Proclamano la tua onnipresenza, ma negano che sei in ogni Credo e creatura. Proclamano la tua onniveggenza, ma accecano la ragione e oscurano la verità con sigilli, dogmi, canoni e decreti. Proclamano la tua onnipotenza, ma ti destituiscono, manipolano le tue parole e i tuoi verbi, rinnegano i tuoi insegnamenti, millantano l’infallibilità, trasformano le creature in carnefici e militi di crociate e guerre sante.
 
Tu non sei morto, anzi, noi abbiamo più che mai bisogno di Te. Perché quando le nostre colpe diventano insostenibili, quando smettiamo di usare i nostri talenti, sei Tu la vittima sacrificale. È a Te che imputiamo le nostre guerre, i nostri campi di sterminio, i nostri olocausti, la siccità e le inondazioni, i disgelamenti e le desertificazioni, i cancri e i virus, i conati del mondo che sembra stanco di ospiti voraci, indiscreti e insolenti. 
 
Tu sei il perfetto capro espiatorio: non gemi, non ti discolpi, non ti lamenti, non ti difendi.
 
Eppure solo chi t’incontra comprende il senso della vita, la misteriosa vittoria sul niente, il prodigioso potere di spendere i talenti.

 
Tu dici che io sono miscredente e cieca.
 
Ma io so che avanzo a fatica sotto il fragile riparo della conoscenza, e lascio sia la ragione l’egida delle mie convinzioni. Preferisco le mie pavide e infedeli certezze al tuo bieco e sanguinario culto. Preferisco i miei dubbi all’esaltazione che tu chiami fede, preferisco i miei martellanti “perché” alle tue esanimi risposte.
 
Nessuno potrà mai convincermi che, al respiro affannoso e roco di chi lo cerca, Dio preferisca i cori e le litanie di miliardi di servi obbedienti che ne soffocano la voce.
 
Non tento la scalata all’infinito con la zavorra dei dogmi e dei veti, dei deliri e delle visioni. Non accetto di perdermi negli abissi del fanatismo, del dogmatismo e del proibizionismo spirituale.

Il mio Credo accoglie le verità semplici che sfuggono alle anime contorte e ai miserabili, e mi pongo davanti alla realtà senza la pretesa di sapere e senza la paura di non sapere.
 
L’esercizio al pensiero mi ha reso abbastanza umile da tentare la verità, abbastanza coraggiosa da non arrendermi troppo tardi o troppo in fretta, e abbastanza onesta da ammettere che tutte le creazioni umane sono imperfette, anche le religioni.
 
 
Sei diventato un tessitore abilissimo a catturare i margini della conoscenza e a irretirla nelle innumerevoli maglie delle tue intuizioni e illuminazioni. Ma hai trasformato la fede in flagello e hai seguito visioni che contraddicono la ragione.
 
E così hai spaccato il mondo in due emisferi incompatibili: quello in cui ti abbandoni all'insolenza e al cinismo dei vincitori che credono di non avere più bisogno di provare la propria grandezza morale, spirituale e intellettuale; e quello in cui rinneghi i talenti.
 
E così, se da un lato pretendi di esercitare un potere assoluto anche sulle cose che non hai creato e di stabilire un ordine che privilegia i risultati ai meriti; dall’altro, ti pieghi a culti e pregiudizi atavici, e ti stordisci con echi desertici che destituiscono la ragione e ti allontanano dalla verità.
 
Hai creato due emisferi incompatibili su cui erigi altari sconsacrati per sacrificare le prerogative che ti hanno permesso di pensare, creare, sognare e amare come la creatura più simile a un dio.
 
Ma davvero non comprendi che sono la ragione, la morale e i sentimenti a pagare il prezzo delle tue illusioni e delle tue ambizioni? Davvero non ti accorgi che stai cedendo ad altri il potere di essere artefice del tuo destino, l’unico legittimato a dare forma e consistenza alla propria esistenza?
 
 
Io non so se l’autrice farebbe meglio – come dice lei stessa – “a pubblicare foto di animali e qualche ricetta”; però capisco quella “certa fatica” nella lettura dei suoi scritti, che lei stessa ha riscontrato persino nel suo pubblico caldo.
 
Perché, vedi, se parlare non è necessario, scrivere lo è ancora meno.

Parlare e scrivere “non è necessario per vivere da esseri umani” – ricorda il famoso linguista Tullio De Mauro – perché ciò di cui “non possiamo fare a meno” non sono certo le parole, bensì “la comunicazione”.

Se vogliamo addestrarci all’uso consapevole ed efficace delle parole, se vogliamo capire e usare meglio la nostra facoltà di parlare, se vogliamo intenderne tutta la straordinaria importanza nella nostra vita privata e pubblica, dobbiamo almeno per un momento fermarci a riflettere su questo punto.
 
Le parole, le lingue che parliamo, sono una parte per noi grande e importante di un insieme molto più vasto e vario: l’insieme della comunicazione. Se vogliamo capire perché è importante saper parlare e scrivere, dobbiamo capire quanto, come e perché ci è necessario comunicare”.

Se esprimere sé stessi è un’attività libera e auto-referenziale, comunicare è invece una tecnica precisa, da studiare e applicare, per affinarla di continuo.

Chi non ha voglia di studiare e di applicare ciò che ha studiato, chi si pratica da sé degli sconti rispetto alla tecnica, chi pensa che non accada nulla a trasgredire le regole della comunicazione, potrà ancora esprimere sé stesso, sicuramente, ma non dovrà poi meravigliarsi se la più parte del pubblico preferirà leggere una ricetta di cucina o guardare foto di animali carini, che – nella loro futilità – mantengono il pregio di comunicarsi agli altri con la massima chiarezza.

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