Modulo 24G – Analisi del film “American History X”
Istruzioni per l'uso
Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
L’opera ricorre di frequente allo strumento del flashback, che rende problematica – non facilmente fruibile a fini didattici – un’analisi basata sulla sequenza di scene originaria; procederò quindi secondo un ordine logico, che per gran parte recupera l’ordinaria linea temporale.
La storia in un guscio di noce
Perché "American History X"?
Questo – in soldoni – è il dilemma degli archi tragici: come si concilia la partecipazione emotiva alla storia con un personaggio che non cambia, o non cambia come dovrebbe, e comunque mai in misura sufficiente?
American History X lo risolve attraverso una raffinata reinterpretazione delle indicazioni da manuale, che, senza essere smentite, vengono poste in una nuova luce, suscettibile di rivelarne significati nuovi, inattesi e profondi.
Il personaggio cambia, e possiamo anzi dire che il suo cambiamento è perfetto, e tuttavia la posta in gioco viene comunque persa.
Vedremo come ciò sia possibile, giustificabile, coerente.
Una trasformazione perfetta…
Questo è il biglietto da visita di Derek Vinyard, il protagonista del film.
Ora – manuali di sceneggiatura alla mano – si potrebbe rivelare un problema enorme di empatia: Derek è chiaramente un “cattivo”, e della sua cattiveria ci viene immediatamente mostrato il lato peggiore, non solo la violenza, ma anche – e soprattutto – l’incapacità di tenerla a freno, la mancanza del dominio di sé.
Derek è dunque un “cattivo” e – paradossalmente – ciò che sconvolge non è né la scena iniziale (col duplice omicidio) né l’assalto al supermercato gestito da persone di colore (dal minuto 34.30).
Come farà un personaggio così estremo – così polarizzato e radicale – a intraprendere un percorso di cambiamento?
Finire in carcere – in fondo – è un evento contemplato, da chi conduce un certo tipo di vita.
La trova in un gruppo di carcerati bianchi con le sue stesse idee, con cui si accredita nel modo più diretto possibile: in cortile, durante l’ora d’aria, si toglie la maglietta affinché tutti possano vedere la svastica tatuata sul suo petto.
Messaggio inviato, messaggio ricevuto: a mensa, i carcerati bianchi gli fanno segno di sedersi vicino a loro, e Derek entra così a far parte della Fratellanza Ariana.
Ti invito a notare l’eleganza narrativa realizzata col più stretto rispetto del realismo: il cambio di ambientazione – per quanto sgradevole – non ha di per sé cambiato il personaggio, il Derek che vediamo subito dopo l’entrata in carcere è in assoluta continuità col Derek che abbiamo visto sino a quel momento, prima del carcere. Perché il cambiamento è un processo lungo e doloroso, e la tendenza naturale è forzare la realtà nei propri schemi precostituiti, per convincersi che in fondo nulla è cambiato, che tutto procedere come sempre, e se possibile anche meglio: “ero dentro da un anno, e sembrava una crociera”, sentiamo dire a Derek al minuto 1.13.23.
Però qualcosa di nuovo accade, anche se sulle prime non sembra così rilevante.
A Derek viene assegnato un lavoro di lavanderia, e qui conosce Lamont, un neretto con “un fisico che non spaventerebbe nemmeno mia nonna” – come lo sfotte Derek – ma con un carattere tosto, spavaldo, senza peraltro mai essere aggressivo.
“Bene, ragazzi, questo è quello che faremo: odieremo qualche negro.
La delusione – piuttosto – arriva dalla comunità dei bianchi. Derek nota un’anomala vicinanza fisica tra Mitch, il capo della Fratellanza Ariana, e il capo degli ispanici; chiede spiegazioni a un altro bianco, e così vien fuori che Mitch è in affari con l’ispanico per un giro di droga all’interno del carcere; “questa è politica, amico, favori… capisci? Mitch alza un bel po’ di bigliettoni facendo affari con loro” gli viene chiarito come se si trattasse della più naturale dinamica sociale tra carcerati.
Derek subisce un doppio shock: il semplice essere “in affari” con altre razze è già un tradimento dell’intera ideologia, e poi l’oggetto stesso degli affari – la droga – è di per sé censurabile (“Buttala via, l’erba è da negri: rispetta te stesso” è il rimprovero che Derek aveva rivolto a uno della sua banda, poco prima dell’assalto al supermercato, al minuto 35.18).
La replica del suo compare bianco dà i brividi.
A intimarlo di smetterla “di predicare stronzate”, e a paragonare certi discorsi razzisti alla “merda”, non è un nero in giacca e cravatta della buona società, che vuole redimere Derek e insegnargli come si sta al mondo. A rimproverarlo in quei termini aspri – a dirgli “dacci un taglio” – è un membro della Fratellanza Ariana, uno come lui, che in teoria dovrebbe pensare e agire come lui, e invece separa nettamente le parole dalle azioni (dice una cosa e ne fa un’altra) e che risulta addirittura infastidito quando certe parole – che dovrebbero rappresentare il fondamento dell’ideologia – vengono ripetute troppo spesso.
Questa scena rappresenta il midpoint: il protagonista non abbandona il suo sistema di valori, ma sicuramente quel sistema subisce un duro colpo, e il personaggio realizza – anche solo confusamente – che qualcosa non torna, che nelle sue credenze potrebbe esserci qualcosa di sbagliato.
Derek non ha neppure il tempo di riprendersi, di realizzare ciò che ha vissuto, ed ecco arrivare la visita della madre.
Tornato nella comunità dei bianchi, in mezzo ai membri della Fratellanza Ariana, vede ripetersi la stessa scena che lo aveva sconvolto e per lui inconcepibile: Mitch si avvicina di nuovo al portoricano per prendere qualcosa che poi passa ad un altro bianco, che fa una bella faccia soddisfatta.
Mitch si accorge di essere stato notato da Derek e gli lancia un’occhiata di complicità. Derek, per tutta risposta, gli volta le spalle e va via, ignorando il saluto nazista che Mitch gli rivolge in segno di pace.
Lamont aveva rubato un televisore, nella fuga gli era scivolato dalle mani ed era finito sul piede del poliziotto che tentava di fermarlo. In tribunale, però, era passata un’altra versione: Lamont – si era sentenziato – aveva lanciato volontariamente la tv sul piede del poliziotto, quindi la sua azione criminale non era più un semplice furto, ma un’aggressione a un’esponente delle forze dell’ordine. Risultato: 6 anni di carcere.
E Derek, invece? Derek deve scontare soltanto 3 anni – sebbene abbia ucciso volontariamente due persone – perché il fratello minore non ha testimoniato al processo, e non è stato quindi possibile ricostruire esattamente gli eventi; di conseguenza la pena è stata proporzionata a quel poco che si è potuto accertare; ma Derek avrebbe avuto l’ergastolo, se Danny avesse testimoniato.
Da questo momento assistiamo a una chiara inversione di comportamento da parte di Derek: a mensa non si unisce più ai membri della Fratellanza Ariana e preferisce stare solo; e soprattutto lo vediamo mischiarsi apertamente con i neri, nel corso di un’allegra partita di basket in cui riceve gli apprezzamenti di tutti (e qui ti invito a notare come la scena – per quanto breve – sia speculare a ciò che avevamo visto dal minuto 17.21 in poi, prima che Derek finisse in carcere, quando la partita di basket dei bianchi contro i neri aveva lo scopo di stabilire il possesso del territorio ed era impregnata d’odio).
Cambiare non è mai facile, non solo perché ogni sistema di valori, una volta innestato, è inerziale e tende ad auto-perpetuarsi, ma anche perché cambiare significa andare incontro alle conseguenze del cambiamento, nell’immediato sempre parecchio sgradevoli.
Mangiare da solo e fare comunella con i neri è una dichiarazione di guerra alla comunità dei bianchi, alla Fratellanza Ariana, giacché in questa ambientazione – lo si è capito – la neutralità non è contemplata: se non sei con noi, allora sei contro di noi, e se sei contro di noi, allora te la dobbiamo far pagare.
I bianchi aggrediscono Derek sotto la doccia, con la complicità di una guardia silente; il più muscoloso lo violenta tra le risate e il compiacimento degli altri, e quando ha finito lo sbatte contro il muro, per poi lasciarlo a terra sanguinante.
Ti invito a notare come queste visite (prima della madre, poi del preside) avvengono sempre dopo un’esperienza traumatica vissuta da Derek (prima la scoperta del giro d’affari tra bianchi e portoricani, poi la violenza sessuale) e osserva pure come i traumi sono ogni volta diversi (prima ideologico, poi fisico).
Il dialogo tra Derek e il preside Sweeney è un piccolo capolavoro, un riferimento eccellente per capire come gestire tutto ciò che orbita attorno al cambiamento definitivo del personaggio, una volta che se ne siano creati i presupposti: vediamo un protagonista in preda alla confusione, ancora aggrappato al suo antico sistema di valori, sebbene ogni punto di presa gli si sgretoli tra le mani, e vediamo il ruolo decisivo del mentore nel mettere ordine nel suo stato d’animo.Derek: “Non lo so, non so come mi sento, sono… mi sente un po’ confuso.
Derek: “Ehi, aspetta! Ho solo detto di essere confuso. Non ho mai detto che non ci credo”
Derek: “C’hai mai fatto caso?
Preside Sweeney: “No. So cosa c’è dentro di me.
Derek: “Che ne sai tu dello stato un cui mi trovo?”
Preside Sweeney: “C’è stato un momento in cui incolpavo qualsiasi cosa,
Derek: “E qual è?”
Preside Sweeney: “Tutto quello che hai fatto, ti ha reso la vita migliore?”
Derek: “Ti prego, aiutami… devi aiutarmi: fammi uscire di qui.
Preside Sweeney: “L’ho già fatto. E quando uscirai che succederà?”
Derek: “Non voglio più incasinare tutta la mia famiglia. Me ne andrò via, il più lontano possibile”
Preside Sweeney: “Non è una soluzione. Se vuoi il mio aiuto, devi fare meglio di così:
Osserva come le esperienze vissute da Derek in carcere siano tutte diverse, come nessuna di esse sia di per sé sufficiente a determinare il cambiamento, ma ognuna vi concorra per la sua quota parte e con un contributo autonomo rispetto alle altre, cosicché è il loro insieme – e la loro scansione temporale – a rendere possibile la trasformazione.
La Fratellanza Ariana manda un segno di riappacificazione, dopo la violenza sessuale. Mitch, a mensa, fissa Derek e batte la mano su una sedia vuota, per invitarlo a riunirsi a loro. Come a dirgli: dovevamo punirti, siamo stati obbligati a farlo, perché con il tuo comportamento non ci hai dato scelta; ma ora, se hai imparato la lezione, puoi tornare nel gruppo, e saremo felici di riaccoglierti tra noi.
Derek, ancora zoppicante, ignora l’invito, passa oltre e si siede in un posto isolato.
E in questo carcere – come già notato – la neutralità non è contemplata: sei non sei con noi, allora sei contro di noi, e se sei contro di noi, allora non ti dobbiamo più nessuna protezione.
Derek – il nuovo Derek, il Derek arrivato vittorioso alla fine del suo arco di trasformazione – ora è solo, esposto alle ritorsioni che la comunità dei neri avrebbe voluto infliggergli sin dal primo giorno, e che soltanto lo scudo della Fratellanza Ariana aveva impedito.
I neri, in effetti, lo guardano minacciosi ogni volta che l’incrociano, e ogni momento sembra buono per consumare la loro vendetta. Derek ne è consapevole ed è pronto ad accettare quel che deve accadere.
Ma l’uscita dal carcere, se chiude un capitolo travagliato, ne apre un altro per molti versi più problematico: là fuori c’è una comunità neonazista che vede in Derek un eroe di guerra, un martire, un simbolo, e ovviamente si aspetta che riprenda il suo attivismo con una foga ancora maggiore, che diventi una guida per tutti. Cosa accadrà quando capiranno che quel Derek non esiste più?
Cameron – la grande mente dietro tutta l’organizzazione neonazista – ha pianificato un raduno, una festa, un momento di incontro per celebrare i progressi realizzati in tutti questi anni.
Derek proibisce al fratello minore Dany di andarci, ma si becca una risposta acida: “non sono più un bambino di quattordici anni, lo sai?”; Danny va al raduno, com’era prevedibile, e alla fine va anche Derek.
Viene accolto in pompa magna, e Cameron lo invita ad appartarsi con lui, per comunicargli tutte “le belle cose” fatte in sua assenza, ma Derek rimane ovviamente insensibile; la discussione si inasprisce quando si arriva a parlare del futuro di Danny, sino a sfociare in uno scontro fisico in cui Cameron ha la peggio (finiesce a terra, sanguinante, col naso rotto).
Subito dopo Derek confessa il suo cambiamento alla fidanzata Stacey, le propone di abbandonare dall’organizzazione, di seguirlo nella sua nuova vita, magari in un altro posto, di ricominciare tutto daccapo. La ragazza è incredula, sconvolta: lo allontana, fugge da lui, gli mostra tutto il suo disprezzo.
La notizia del tradimento si sparge nel gruppo e Derek si ritrova circondato.
Una volta al sicuro, Derek racconta a Danny tutto ciò che gli è accaduto in carcere, e lo persuade ad abbandonare quell’ideologia malata e le compagnie in cui prende forma, se non vuol buttar via la sua vita per niente.
Li vedremo – ancora insieme – impegnati a smontare quell’arsenale di simboli nazisti che da sempre ornava la loro stanza, come a voler mettere il sigillo ufficiale sul loro cambiamento, a dare la manifestazione visiva più evidente della loro trasformazione perfetta.
… e inutile
Inizia così la tesina di Danny sul fratello Derek, che il preside Sweeney gli ha ordinato di scrivere in sostituzione di quella che il ragazzo aveva elaborato sul Main kampf di Hitler.
La frase non esprime solo la percezione immediata di ogni spettatore – il fratello minore che ripercorre i passi del maggiore – ma rappresenta la dichiarazione di una scelta tecnica ben precisa: Danny e Derek sono lo stesso personaggio, o se preferisci, sono due personaggi fotocopia, a meno della diversa età, irrilevante sul piano tecnico e strumentale a distinguerli in superficie.
È una scelta irrituale, che può lasciare perplessi, perché un precetto standard di sceneggiatura è proprio la chiara differenziazione dei personaggi: non devono esistere – di regola – personaggi sostanzialmente identici, o con profili caratteriali e comportamentali altamente correlati; ogni personaggio deve essere ben distinguibile dagli altri (avere “una sua voce”, come si dice in gergo) e offrire un contributo autonomo allo sviluppo della storia; la ridondanza è dannosa, e se due personaggi appartengono a uno stesso ceppo allora vanno comunque introdotte delle sfumature che permettano di coglierne le rispettive particolarità e specificità.
Qui abbiamo invece due personaggi – Derek e Danny – identici: lo spettatore guarda Derek e vede Danny, guarda Danny e vede Derek.
Come si spiega una così smaccata deviazione da una regola standard? È un errore?
Il punto – ne parlavamo nel modulo 15A – è che nessuna scelta è di per sé “giusta” o “sbagliata” così come nessuna nota musicale è in sé intonata o stonata: ogni scelta è giusta o sbagliata in rapporto alle altre scelte a cui si lega, con cui va a connettersi, e che determinano l’opera nel suo complesso, così come una nota è intonata o stonata rispetto allo spartito su cui è collocata.
Serve indietreggiare di un passo, mettere in stand-by il film e tornare a esaminare la vita vera nel mondo reale, se si vuol capire il senso – e lasciami dire la necessità – di una scelta stilistica altrimenti indecifrabile.
Sei libero di agire, parlare e pensare come vuoi, come meglio ritieni, riguardo al tuo presente. Ma non sei libero – nessuno lo è – dal passato.
Tutte le tue azioni passate – ma anche le parole e persino i pensieri – hanno prodotto una o più conseguenze dirette; e le conseguenze dirette si sono intrecciate tra loro, originando conseguenze indirette, che a loro volta hanno interagito sia tra loro sia con le conseguenze dirette, e hanno determinato effetti di terz’ordine sui quali si è messo all’opera un nuovo meccanismo di interazione, all’interno un processo ad alta complessità, che a ogni momento restituisce uno stato preciso, lo stato in cui ti trovi.
A ogni momento, in ogni istante, tu fronteggi quel “mondo di cose” che tu stesso hai generato col tuo flusso di azioni, parole e pensieri. La tua prossima azione o parola è di per sé libera – sei tu che decidi cosa fare o cosa dire – ma andrà poi a interferire con quel “mondo di cose” ereditato dal passato, che si rimodulerà di conseguenza con tutto il suo complesso gioco di reciproche influenze.
Ogni azione produce conseguenze (dirette, indirette, di terz’ordine e così via) ma non sempre il complesso delle conseguenze viene interamente notato o riceve la giusta considerazione, e alcune sue parti possono essere volutamente trascurate, cosicché a volte si continuano a compiere azioni sbagliate senza sosta, fin quando le loro conseguenze – cumulandone gli effetti – assumono una dimensione e un’estensione tali da non poter essere più ignorate.
A una serie di azioni di un certo segno – di cui hai finalmente realizzato la fallacia – puoi ora opporre altrettante azioni di segno contrario, e magari di intensità maggiore, finendo addirittura in overshooting: non solo poni rimedio agli sbagli, ma riesci addirittura a creare una situazione migliore di quella iniziale (precedente cioè alla sequenza di azioni sbagliate). È un caso raro, ma quando si verifica si è quasi felici di aver commesso quegli errori, perché hanno rappresentato un passaggio – per quanto doloroso – verso una situazione di vita superiore, oggettivamente migliore. Certo, sarebbe stato meglio raggiungerla per una via più lineare, senza tutto quel trambusto di azioni e reazioni, senza commettere errori (che comunque rimarranno scolpiti nel passato, apparterranno al tuo curriculum) ma bisogna pure sempre fare i conti con l’imperfezione della natura umana, e c’è solo da rallegrarsi se il punto di arrivo è superiore al punto di partenza, qualunque sia stato il percorso seguito.
Ma il più delle volte è già una gran bella cosa se si fa pari e patta, se si riesce a ripristinare una situazione sostanzialmente analoga a quella iniziale (prima che fosse guastata da una serie di azioni sbagliate).
Il caso prevalente è però un altro ancora: le azioni sbagliate producono di regola una quota di conseguenze irrimediabili, pur in quadro rimesso complessivamente in ordine dalle appropriate azioni di contrasto; non tutto torna esattamente come prima, dopo aver commesso una serie di errori; qualcosa – poco o molto, a seconda dei casi – è perso per sempre.
È la situazione tipica degli archi eroici, se ci rifletti: il protagonista rimuove il suo difetto fatale e mette in salvo la posta in gioco – quel che di più importante vi sia – ma ciò non significa che non si ritrovi a fare i conti con delle perdite, anche gravi. Guarda John Travolta in A civil action: la posta in gioco è salva, ma tutto il suo mondo esteriore è andato in frantumi.
Quindi – in generale – il protagonista potrà pure cambiare, e rimuovere il suo difetto fatale, ma sarà sempre gravato dalla sua quota di perdite, in proporzione a tutti gli sbagli irrimediabili compiuti durante l’arco di trasformazione.
Tutto piuttosto ovvio, sin qui.
Non rimane che spingere il ragionamento al punto limite, l’ideale punto di incontro di due rette parallele, per usare un’immagine geometrica sempre carica di fascino.
E cosa accade al punto limite? Accade che la sequenza di errori è così lunga, e i singoli errori così gravi, da rendere irrilevante ogni pentimento e ogni azione di rimedio. Proprio perché – appunto – siamo tutti liberi riguardo al presente e al futuro, ma nessuno – scrive Oscar Wilde – è così ricco da potersi comprare il proprio passato.
Non ce ne rendiamo mai ben conto, ma ognuno di noi – col suo flusso di pensieri, parole e azioni – è un creatore di mondi; e quei mondi – una volta creati – procedono da soli, funzionano da sé, indipendentemente dalla volontà del loro dio creatore; potremmo pure pentirci di ciò che abbiamo creato, e fare tutto ciò che è in nostro potere per distruggerlo, ma a seconda di ciò che abbiamo creato – di quanto vasta, solida e pervasiva sia la nostra creazione – non è detto che ci si riesca; il male non scompare solo perché ci siamo pentiti di averlo commesso, e a volte neppure quando ci sforziamo di annullarlo; se è diventato troppo grande, se si è diffuso, allora nessuno sforzo individuale sortirà effetti.
Questo è esattamente ciò che accade in American History X e per farlo accadere serviva replicare tale e quale il personaggio di Derek nel personaggio di Danny.
Noi vediamo un “Derek adulto” in carcere, impegnato in un travagliato processo di trasformazione; ma contemporaneamente vediamo anche un “Derek ragazzino” (personificato in Danny) che ne rappresenta un alter ego (“la gente guarda me e vede mio fratello”) ancora impegnato a propagandare attivamente l’ideologia neonazista.
Il “Derek ragazzino” altro non è che la personificazione delle conseguenze del comportamento del “Derek adulto”, quelle conseguenze che – per quanto sono pesanti, numerose ed estese – procedono ormai da sole nel creare altre conseguenze, e da qui nuove conseguenze ancora, secondo un meccanismo di interazioni divenuto indipendente da ciò che può accadere al “Derek adulto” (cioè sganciato dalla sorgente da cui tutto proviene).
Quando Derek – in carcere – dice prima alla madre e poi al preside di non avere colpe per le scelte di Danny, sta di fatto ignorando le conseguenze delle sue azioni; e quando – uscito dal carcere – vuole proibire a Danny di andare al raduno neonazista, e il fratello gli risponde a brutto muso (“non sono più un bambino di quattordici anni, lo sai?”) ecco che viene messo di fronte a conseguenze ormai fuori dal suo controllo.
La provocazione di “Derek ragazzino” (Danny) che fuma in faccia ai ragazzini di colore nei bagni della scuola (minuto 11.02), successivamente rinforzata dal presentarsi sul loro territorio senza neppure temere i ragazzi neri più grandi (minuto 16.03), è solo l’ultima conseguenza di un complesso meccanismo di cause ed effetti messo in piedi da “Derek adulto”, e che ora gira da sé e produce conseguenze su cui la trasformazione di “Derek adulto” non può più influire.
Il personaggio, prima di tutto
Si può essere tentanti di banalizzare, e attribuire il successo dell’opera all’argomento prescelto, o almeno di pensare che sia da lì – dal tema, il razzismo – che provenga la marcia in più.
… i protagonisti della storia non sono in guerra soltanto con il mondo esterno. Ma anche con se stessi. Devono affrontare battaglie che avranno luogo soprattutto nei sotterranei oscuri del loro subconscio. In gioco c’è la risposta all’interrogativo cruciale di ogni dramma: chi sono io?
Dovunque, nella trama, si porrà tale interrogativo, il lettore o lo spettatore si sentiranno coinvolti. Quando questo dilemma non si presenta, e gli eventi procedono al di fuori del suo fascio di luce narrativo rischieranno di provocare un senso di distacco, o persino di noia.
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