Modulo 24G – Analisi del film “American History X”


Istruzioni per l'uso

Devi aver visto il film e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
 
Non puoi pensare di capire le mie spiegazioni, se non ti sei già impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando ora.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver visto e analizzato il film, altrimenti perdi solo tempo.
 

Mi riferirò alla versione del film disponibile su Netflix, per l’indicazione del minutaggio.

L’intero video ha una durata formale di 1 ora, 58 minuti e 52 secondi, e – al solito – conterò sempre dall’inizio (tempo 0.00.00) per indicare i passaggi nodali.
 
L’opera ricorre di frequente allo strumento del flashback, che rende problematica – non facilmente fruibile a fini didattici – un’analisi basata sulla sequenza di scene originaria; procederò quindi secondo un ordine logico, che per gran parte recupera l’ordinaria linea temporale.
 

La storia in un guscio di noce

Le esperienze di vita di Derek (peraltro chiarite del tutto solo alla fine del film) lo portano ad abbracciare l’ideologia neonazista.
 
Finirà in carcere per l’omicidio di due ragazzi di colore, e qui vivrà una varietà di situazioni che lo condurranno a pentirsi sinceramente di tutto ciò che ha pensato, detto e fatto sino a quel momento.
 
Ma il suo cambiamento – per quanto spassionato e coraggioso – si rivelerà inutile, e gli errori del passato gli presenteranno il più tremendo dei conti: l’omicidio del fratello minore Danny.
 

Perché "American History X"?

American History X è il miglior arco tragico che conosco, e per di più è una tragedia sui generis perché concilia due aspetti tra loro in netto contrasto – il cambiamento del personaggio e la perdita della posta in gioco – e perciò dimostra la flessibilità del modello dell’arco (a condizione di saperne vedere e sfruttare le potenzialità).
 
I manuali di sceneggiatura mettono in guardia contro i pericoli degli archi tragici: l’arco è tragico se il protagonista perde la posta in gioco, a causa del mancato superamento del suo difetto fatale; ma “non superare il difetto fatale” significa vedere il personaggio cadere sempre negli stessi errori, nonostante la realtà circostante gli dia segnali progressivamente più forti e chiari sulla fallacia del suo atteggiamento; e vedere un personaggio che “non cambia”, sebbene il mondo gli stia franando addosso, è straniante per qualsiasi lettore o spettatore.

Questo – in soldoni – è il dilemma degli archi tragici: come si concilia la partecipazione emotiva alla storia con un personaggio che non cambia, o non cambia come dovrebbe, e comunque mai in misura sufficiente?

American History X
lo risolve attraverso una raffinata reinterpretazione delle indicazioni da manuale, che, senza essere smentite, vengono poste in una nuova luce, suscettibile di rivelarne significati nuovi, inattesi e profondi.

Il personaggio cambia, e possiamo anzi dire che il suo cambiamento è perfetto, e tuttavia la posta in gioco viene comunque persa.

Vedremo come ciò sia possibile, giustificabile, coerente.
 

Una trasformazione perfetta…

La scena iniziale.

Il film ha un inizio cruento: Derek è nel mezzo di una scopata notturna con la fidanzata Stacey; le urla di piacere della ragazza svegliano Danny – il fratello minore di Derek – che ha così modo di accorgersi della presenza di tre ragazzi di colore nel giardino di casa, intenti a rubare l’auto; entra titubante nella stanza del fratello maggiore per informarlo del fattaccio, e la reazione di Derek è estrema; tira fuori una pistola, si precipita fuori casa e spara a freddo a uno dei ragazzi, uccidendolo all’istante; lascia partire un’altra raffica verso il secondo ragazzo, che cade a terra ma rimane vivo; quindi spara in continuazione verso il terzo, che si è dato alla fuga; torna poi dal ragazzo moribondo, lo obbliga a mordere il marciapiede e gli sferra un calcio in testa, che sarà mortale.

Questo è il biglietto da visita di Derek Vinyard, il protagonista del film.

Ora – manuali di sceneggiatura alla mano – si potrebbe rivelare un problema enorme di empatia: Derek è chiaramente un “cattivo”, e della sua cattiveria ci viene immediatamente mostrato il lato peggiore, non solo la violenza, ma anche – e soprattutto – l’incapacità di tenerla a freno, la mancanza del dominio di sé.
 
Sì, c’è sicuramente un problema di empatia: realizzeremo solo verso la fine del film (dal minuto 1.38.25 in poi) come e perché Derek è diventato quel che è diventato; e la prima informazione utile a capire un po’ meglio (il padre pompiere morto in servizio, per mano di un uomo di colore) arriva piuttosto tardi (al minuto 14.27) ed è comunque insufficiente a giustificare tutto ciò che abbiamo visto all’inizio.
 
Qui – a ogni modo – il nostro interesse è sul processo di trasformazione, e non sull’empatia, ma conveniva sfruttare l’occasione per ricordare che non basta dare le informazioni purchessia, che l’ordine di presentazione è fondamentale per creare un solido legame empatico col protagonista.

Derek è dunque un “cattivo” e – paradossalmente – ciò che sconvolge non è né la scena iniziale (col duplice omicidio) né l’assalto al supermercato gestito da persone di colore (dal minuto 34.30).
 
Quel che lascia esterrefatti è vederlo esplodere in una violenza ingiustificata persino con le donne della sua famiglia, la sorella e la madre (dal minuto 40.35): alla prima riempie la bocca di cibo per farla stare zitta, e la seconda viene esasperata al punto da farla vergognare di averlo messo al mondo.
 
“Vieni qui! Così imparerai un po’ di buone maniere, forse.
Chiudi quella bocca del cazzo”
 

 
“Mi vergogno di averti fatto uscire dal mio corpo”
 
Come farà un personaggio così estremo – così polarizzato e radicale – a intraprendere un percorso di cambiamento?
 
Quali eventi potranno mai condurlo a rivedere a sua visione del mondo e di conseguenza i suoi atteggiamenti?
 
Quale verosimiglianza potrà mai avere la sua trasformazione?
  
L’espressione di Derek al momento dell’arresto.
 
Derek viene arrestato la sera stessa dell’omicidio dei due ragazzi di colore, e l’evento in sé, sul momento, non solo non lo sconvolge, ma sembra addirittura gratificarlo, come fosse la coronazione del suo sistema di valori: non prova a scappare ed esegue meccanicamente, con esasperante lentezza, tutte le mosse che i poliziotti gli dicono di compiere (deporre la pistola, alzare le mani, girarsi, …); e nello sguardo che gli rivolge c’è solo orgoglio e fierezza, e nessuna paura.

Finire in carcere – in fondo – è un evento contemplato, da chi conduce un certo tipo di vita.
 
Trovarsi in carcere – però – è un altro paio di maniche: “dopo due giorni, credevo di non sopravvivere una settimana”  racconterà al fratello minore, anche perché “qua dentro sei tu il negro, non io” – come gli dirà Lamont, un personaggio cruciale per il processo di trasformazione –  a voler rimarcare il ribaltamento dei rapporti di forza (e più in generale la relatività delle situazioni).
 
In carcere ci sono molti più neri che bianchi, e i neri conoscono Derek, sanno cosa ha fatto e sicuramente vorranno fargliela pagare. Derek ha dunque un problema da risolvere quanto prima: cercare protezione.

La trova in un gruppo di carcerati bianchi con le sue stesse idee, con cui si accredita nel modo più diretto possibile: in cortile, durante l’ora d’aria, si toglie la maglietta affinché tutti possano vedere la svastica tatuata sul suo petto.
 
La Fratellanza Ariana: la comunità bianca di carcerati.

Messaggio inviato, messaggio ricevuto: a mensa, i carcerati bianchi gli fanno segno di sedersi vicino a loro, e Derek entra così a far parte della Fratellanza Ariana.

Ti invito a notare l’eleganza narrativa realizzata col più stretto rispetto del realismo: il cambio di ambientazione – per quanto sgradevole – non ha di per sé cambiato il personaggio, il Derek che vediamo subito dopo l’entrata in carcere è in assoluta continuità col Derek che abbiamo visto sino a quel momento, prima del carcere. Perché il cambiamento è un processo lungo e doloroso, e la tendenza naturale è forzare la realtà nei propri schemi precostituiti, per convincersi che in fondo nulla è cambiato, che tutto procedere come sempre, e se possibile anche meglio: “ero dentro da un anno, e sembrava una crociera”, sentiamo dire a Derek al minuto 1.13.23.

Però qualcosa di nuovo accade, anche se sulle prime non sembra così rilevante.

A Derek viene assegnato un lavoro di lavanderia, e qui conosce Lamont, un neretto con “un fisico che non spaventerebbe nemmeno mia nonna” – come lo sfotte Derek – ma con un carattere tosto, spavaldo, senza peraltro mai essere aggressivo.
 
“Non farmi mai arrabbiare, eh!
Io sono l’uomo più pericoloso della prigione.
E sai perché? Perché controllo la biancheria”

Lamont mostra subito un atteggiamento deciso verso Derek (minuto 1.11.50); nel seguito non si fa problemi a rimproverarlo per l’approssimazione con cui svolge il lavoro, e non ha timore di prenderlo in giro per le sue idee razziste (dal minuto 1.17.17).
 
La presa in giro di Lamont a Derek:
“Bene, ragazzi, questo è quello che faremo: odieremo qualche negro.
Questo faremo oggi: odieremo qualche maledetto negro.
È l’ordine: odiare qualche negro per tutto il giorno.
Non so nemmeno come è fatto un negro, ma, sapete, li odieremo”
 
Derek non replica mai a Lamont; comincia anzi a lavorare per bene e ingoia la presa in giro senza un fiato; quel neretto sarà pure un mingherlino, ma merita rispetto.

La delusione – piuttosto – arriva dalla comunità dei bianchi. Derek nota un’anomala vicinanza fisica tra Mitch, il capo della Fratellanza Ariana, e il capo degli ispanici; chiede spiegazioni a un altro bianco, e così vien fuori che Mitch è in affari con l’ispanico per un giro di droga all’interno del carcere; “questa è politica, amico, favori… capisci? Mitch alza un bel po’ di bigliettoni facendo affari con loro gli viene chiarito come se si trattasse della più naturale dinamica sociale tra carcerati.

Derek subisce un doppio shock: il semplice essere “in affari” con altre razze è già un tradimento dell’intera ideologia, e poi l’oggetto stesso degli affari – la droga – è di per sé censurabile (“Buttala via, l’erba è da negri: rispetta te stesso” è il rimprovero che Derek aveva rivolto a uno della sua banda, poco prima dell’assalto al supermercato, al minuto 35.18).
 
Derek non può proprio accettarlo e manifesta tutta la sua disapprovazione.

“Fa dei favori a uno dei quei fottuti ispanici?
Stai scherzando, vero? È una cosa pazzesca!
Qualcuno gli dovrebbe dire due parole.
Che cavolo gli viene in mente?
Mi state proprio stancando:
non sento altro che bei discorsi,
ma in pratica non vi muovete mai”

La replica del suo compare bianco dà i brividi.
 

“Mitch è l’unica ragione per cui non sei ancora un cadavere, ricordalo.
È meglio che la smetti di predicare stronzate.
Ci siamo tutti rotti di ascoltare la tua merda.
Dacci un taglio”
 
Ti invito a notare come l’attacco al sistema dei valori di Derek non arriva dall’esterno, dalla cosiddetta “società civile”, ma dall’interno, dalla stessa Fratellanza Ariana.

A intimarlo di smetterla “di predicare stronzate”, e a paragonare certi discorsi razzisti alla “merda”, non è un nero in giacca e cravatta della buona società, che vuole redimere Derek e insegnargli come si sta al mondo. A rimproverarlo in quei termini aspri – a dirgli “dacci un taglio” – è un membro della Fratellanza Ariana, uno come lui, che in teoria dovrebbe pensare e agire come lui, e invece separa nettamente le parole dalle azioni (dice una cosa e ne fa un’altra) e che risulta addirittura infastidito quando certe parole – che dovrebbero rappresentare il fondamento dell’ideologia – vengono ripetute troppo spesso.

Questa scena rappresenta il midpoint: il protagonista non abbandona il suo sistema di valori, ma sicuramente quel sistema subisce un duro colpo, e il personaggio realizza – anche solo confusamente – che qualcosa non torna, che nelle sue credenze potrebbe esserci qualcosa di sbagliato.

Derek non ha neppure il tempo di riprendersi, di realizzare ciò che ha vissuto, ed ecco arrivare la visita della madre.
 
La discussione è tesa, nervosa – anche perché Derek aveva diffidato tutti i suoi parenti dal venirlo a trovare – e il conflitto tocca l’apice quando si arriva a parlare di Danny, suo fratello minore: la madre è preoccupata perché ha preso la stessa strada di Derek, e teme che possa fare la stessa fine. Derek stacca il telefono dall’orecchio: non vuole sentire, non vuole sapere.
 

Tornato nella comunità dei bianchi, in mezzo ai membri della Fratellanza Ariana, vede ripetersi la stessa scena che lo aveva sconvolto e per lui inconcepibile: Mitch si avvicina di nuovo al portoricano per prendere qualcosa che poi passa ad un altro bianco, che fa una bella faccia soddisfatta.

Mitch si accorge di essere stato notato da Derek e gli lancia un’occhiata di complicità. Derek, per tutta risposta, gli volta le spalle e va via, ignorando il saluto nazista che Mitch gli rivolge in segno di pace.
 
 
C’è tutto un mondo che sta andando in frantumi, nella testa di Derek, anche perché parallelamente i rapporti con Lamont stanno diventando più confidenziali: il neretto della lavanderia gli dà una serie di suggerimenti sul comportamento miglioe da tenere in carcere, riesce a strappargli una risata simulando un orgasmo femminile, e finirà col coinvolgerlo in un’animata discussione sulle squadre di basket.
 
Ma è la sua confessione del motivo per cui si trova in carcere a imprimere un’accelerazione al processo di cambiamento di Derek (dal minuto 1.23.04).

Lamont aveva rubato un televisore, nella fuga gli era scivolato dalle mani ed era finito sul piede del poliziotto che tentava di fermarlo. In tribunale, però, era passata un’altra versione: Lamont si era sentenziato – aveva lanciato volontariamente la tv sul piede del poliziotto, quindi la sua azione criminale non era più un semplice furto, ma un’aggressione a un’esponente delle forze dell’ordine. Risultato: 6 anni di carcere.

E Derek, invece? Derek deve scontare soltanto 3 anni sebbene abbia ucciso volontariamente due persone perché il fratello minore non ha testimoniato al processo, e non è stato quindi possibile ricostruire esattamente gli eventi; di conseguenza la pena è stata proporzionata a quel poco che si è potuto accertare; ma Derek avrebbe avuto l’ergastolo, se Danny avesse testimoniato.
 
Tanto Lamont quando Derk stanno scontando una pena ingiusta, ma il nero per eccesso e il bianco per difetto. Qualcosa non torna, con tutta evidenza.

Da questo momento assistiamo a una chiara inversione di comportamento da parte di Derek: a mensa non si unisce più ai membri della Fratellanza Ariana e preferisce stare solo; e soprattutto lo vediamo mischiarsi apertamente con i neri, nel corso di un’allegra partita di basket in cui riceve gli apprezzamenti di tutti (e qui ti invito a notare come la scena – per quanto breve – sia speculare a ciò che avevamo visto dal minuto 17.21 in poi, prima che Derek finisse in carcere, quando la partita di basket dei bianchi contro i neri aveva lo scopo di stabilire il possesso del territorio ed era impregnata d’odio).

Cambiare non è mai facile, non solo perché ogni sistema di valori, una volta innestato, è inerziale e tende ad auto-perpetuarsi, ma anche perché cambiare significa andare incontro alle conseguenze del cambiamento, nell’immediato sempre parecchio sgradevoli. 

Mangiare da solo e fare comunella con i neri è una dichiarazione di guerra alla comunità dei bianchi, alla Fratellanza Ariana, giacché in questa ambientazione – lo si è capito – la neutralità non è contemplata: se non sei con noi, allora sei contro di noi, e se sei contro di noi, allora te la dobbiamo far pagare.

I bianchi aggrediscono Derek sotto la doccia, con la complicità di una guardia silente; il più muscoloso lo violenta tra le risate e il compiacimento degli altri, e quando ha finito lo sbatte contro il muro, per poi lasciarlo a terra sanguinante. 

Cambiare – è proprio il caso di dire – non è mai stato così doloroso.
 
 
 “Vuoi essere un negro, dolcezza mia?
Adesso ti tratteremo come uno di loro”
 
Nei giorni successivi Derek riceve la visita di Sweeney, il preside della scuola frequentata dal fratello Danny: è venuto a portargli dei libri da leggere, ma soprattutto a informarlo che il fratellino è sulla stessa strada, come gli aveva già anticipato la madre.

Ti invito a notare come queste visite (prima della madre, poi del preside) avvengono sempre dopo un’esperienza traumatica vissuta da Derek (prima la scoperta del giro d’affari tra bianchi e portoricani, poi la violenza sessuale) e osserva pure come i traumi sono ogni volta diversi (prima ideologico, poi fisico).

Il dialogo tra Derek e il preside Sweeney è un piccolo capolavoro, un riferimento eccellente per capire come gestire tutto ciò che orbita attorno al cambiamento definitivo del personaggio, una volta che se ne siano creati i presupposti: vediamo un protagonista in preda alla confusione, ancora aggrappato al suo antico sistema di valori, sebbene ogni punto di presa gli si sgretoli tra le mani, e vediamo il ruolo decisivo del mentore nel mettere ordine nel suo stato d’animo.
 

 Preside Sweeney: “Dimmi soltanto come ti senti veramente”
Derek: “Non lo so, non so come mi sento, sono… mi sente un po’ confuso.
Io… non lo so… ci sono cose che… che non mi tornano”
 Preside Sweeney: “Sì, succede.
Senti, Derek, tu sei troppo in gamba per buttarti via,
facendo finta di non vedere tutti i buchi di questa misera ideologia”
Derek: “Ehi, aspetta! Ho solo detto di essere confuso. Non ho mai detto che non ci credo”
 Preside Sweeney:“Bene! È per questo che devi aprirti.
In questo momento la rabbia ti sta consumando,
la rabbia che hai sta annebbiando il cervello che il Signore ti ha donato”
Derek: “C’hai mai fatto caso?
Non fai che parlare di quel che mi succede fin da quando ero al liceo.
Come fai a sapere così bene tutto quello che c’è dentro di me?”
Preside Sweeney: “No. So cosa c’è dentro di me.
Questa sensazione la conosco. Conosco bene lo stato in cui ti trovi”
Derek: “Che ne sai tu dello stato un cui mi trovo?”
Preside Sweeney: “C’è stato un momento in cui incolpavo qualsiasi cosa,
chiunque al mondo per tutte le pene, le sofferenze e le viltà orrende
che capitavano a me e vedevo capitare alla mia gente.
Davo la colpa a tutti, davo la colpa ai bianchi, colpa alla società, colpa a Dio.
Non avevo risposte perché mi facevo le domande sbagliate.
Tu devi farti la domanda giusta”
Derek: “E qual è?”
Preside Sweeney: “Tutto quello che hai fatto, ti ha reso la vita migliore?”
Derek: “Ti prego, aiutami… devi aiutarmi: fammi uscire di qui.
Fra quattro mesi il mio caso verrà riesaminato: metti una buona parola per me”
Preside Sweeney: “L’ho già fatto. E quando uscirai che succederà?”
Derek: “Non voglio più incasinare tutta la mia famiglia. Me ne andrò via, il più lontano possibile”
Preside Sweeney: “Non è una soluzione. Se vuoi il mio aiuto, devi fare meglio di così:
il mio non è un aiuto incondizionato, e scappare non è la cosa migliore”
 
Derek accetta le condizioni del preside Sweeney: il suo cambiamento, ora, è completo (per quanto potesse sembrarci impossibile all’inizio).

Osserva come le esperienze vissute da Derek in carcere siano tutte diverse, come nessuna di esse sia di per sé sufficiente a determinare il cambiamento, ma ognuna vi concorra per la sua quota parte e con un contributo autonomo rispetto alle altre, cosicché è il loro insieme – e la loro scansione temporale – a rendere possibile la trasformazione.
 
Che però non è a costo zero.

La Fratellanza Ariana manda un segno di riappacificazione, dopo la violenza sessuale. Mitch, a mensa, fissa Derek e batte la mano su una sedia vuota, per invitarlo a riunirsi a loro. Come a dirgli: dovevamo punirti, siamo stati obbligati a farlo, perché con il tuo comportamento non ci hai dato scelta; ma ora, se hai imparato la lezione, puoi tornare nel gruppo, e saremo felici di riaccoglierti tra noi.

Derek, ancora zoppicante, ignora l’invito, passa oltre e si siede in un posto isolato.

E in questo carcere – come già notato – la neutralità non è contemplata: sei non sei con noi, allora sei contro di noi, e se sei contro di noi, allora non ti dobbiamo più nessuna protezione.

“Fa il superiore, fa il duro:
se lo possono prendere anche i negri, per me”
 
Derek – il nuovo Derek, il Derek arrivato vittorioso alla fine del suo arco di trasformazione – ora è solo, esposto alle ritorsioni che la comunità dei neri avrebbe voluto infliggergli sin dal primo giorno, e che soltanto lo scudo della Fratellanza Ariana aveva impedito.

I neri, in effetti, lo guardano minacciosi ogni volta che l’incrociano, e ogni momento sembra buono per consumare la loro vendetta. Derek ne è consapevole ed è pronto ad accettare quel che deve accadere.
 
Ogni giorno ero sicuro che fosse il mio giorno, ogni volta che uscivo dalla cella, ogni volta che mi facevo la doccia. Credevo che fosse solo questione di tempo, che stessero per muoversi. Speravo solo che fosse veloce
 
Ma i giorni passano e non accade nulla.
 
Non successe mai. Non riuscivo a capire, perché sapevo che alcuni di loro non vedevano l’ora. Ma dopo un po’ seppellii la testa nei libri che Sweeney mi aveva portato e me ne stetti per conto mio”.

Derek arriverà al giorno della scarcerazione senza che nessun nero gli abbia fatto nulla, e solo allora capirà che è stato Lamont a farsi garante per lui con i suoi fratelli di colore, a impedire che subisse altre violenze (e la battuta finale – “Devo soltanto stare in campana con in fratelli, con in fratelli!  lascia intendere che Lamont si è probabilmente preso dei rischi per proteggerlo).
 
 
Lamont: “Allora è fatta, stai uscendo.
Avanti, sbrigati, che stai aspettando?
Vattene via da questa merda”
Derek: “È solo che mi sembra un po’ strano”
Lamont: “Ah, sì? E perché?” 
Derek: “Pensavo che forse l’unico motivo per cui esco da qui con le mie gambe, sei tu”
Lamont: “Dai, vattene, levati dalle palle.
Pensi che metterei la mia testa in pericolo per un pappamolla pazzo come te?” 
Derek: “Sì, giusto: è stupido. Ma è quello che penso. Ti devo un favore”
Lamont: “No, tu non mi devi niente. Okay?”
Derek: “E invece sì. Sarai fuori di qui presto”
Lamont: “Non preoccuparti. Qui è una passeggiata.
Devo soltanto stare in campana con in fratelli, con in fratelli!”
 
Derek era entrato in carcere convinto della superiorità dei bianchi sui neri, e ora ne esce dovendo constatare che i neri hanno mostrato una correttezza, una lealtà e un’umanità incommensurabili a quella dei bianchi: tutta la contrapposizione tra bianchi e neri, tra bianchi e altre minoranze etniche, è pura follia.
 
Il Derek che vediamo fuori dal carcere è una persona completamente diversa da quella che abbiamo conosciuto all’inizio, sia fisicamente (niente più testa rasata, anzi, i capelli sono anche un po’ lunghi) che caratterialmente (è affettuoso con la madre, non vuole che dorma sul divano, e le offre il suo letto; e ci tiene – addirittura pretende – che la sorella non abbandoni gli studi a causa di altre incombenze, di cui penserà lui a farsi carico).

Ma l’uscita dal carcere, se chiude un capitolo travagliato, ne apre un altro per molti versi più problematico: là fuori c’è una comunità neonazista che vede in Derek un eroe di guerra, un martire, un simbolo, e ovviamente si aspetta che riprenda il suo attivismo con una foga ancora maggiore, che diventi una guida per tutti. Cosa accadrà quando capiranno che quel Derek non esiste più?  
 
“Derek, attento, molto attento. Ricordati dove sei.
Il nostro non è un Country Club in cui puoi entrare e uscire quando ti pare”

Cameron – la grande mente dietro tutta l’organizzazione neonazista – ha pianificato un raduno, una festa, un momento di incontro per celebrare i progressi realizzati in tutti questi anni.

Derek proibisce al fratello minore Dany di andarci, ma si becca una risposta acida: “non sono più un bambino di quattordici anni, lo sai?”; Danny va al raduno, com’era prevedibile, e alla fine va anche Derek.

Viene accolto in pompa magna, e Cameron lo invita ad appartarsi con lui, per comunicargli tutte “le belle cose” fatte in sua assenza, ma Derek rimane ovviamente insensibile; la discussione si inasprisce quando si arriva a parlare del futuro di Danny, sino a sfociare in uno scontro fisico in cui Cameron ha la peggio (finiesce a terra, sanguinante, col naso rotto).

Subito dopo Derek confessa il suo cambiamento alla fidanzata Stacey, le propone di abbandonare dall’organizzazione, di seguirlo nella sua nuova vita, magari in un altro posto, di ricominciare tutto daccapo. La ragazza è incredula, sconvolta: lo allontana, fugge da lui, gli mostra tutto il suo disprezzo.

La notizia del tradimento si sparge nel gruppo e Derek si ritrova circondato.
 
Seth – il fraterno amico di un tempo, una presenza fissa a casa di Derek durante la sua detenzione – arriva a puntargli una pistola contro, e tutti lì intorno, in primis la sua ormai ex fidanzata, lo incentivano a sparare.
 
 
 
Derek riesce a sottrarsi al bersaglio approfittando di un momento di distrazione di Seth, recupera il fratello Danny e insieme scappano via dal raduno neonazista.

Una volta al sicuro, Derek racconta a Danny tutto ciò che gli è accaduto in carcere, e lo persuade ad abbandonare quell’ideologia malata e le compagnie in cui prende forma, se non vuol buttar via la sua vita per niente.

Li vedremo – ancora insieme – impegnati a smontare quell’arsenale di simboli nazisti che da sempre ornava la loro stanza, come a voler mettere il sigillo ufficiale sul loro cambiamento, a dare la manifestazione visiva più evidente della loro trasformazione perfetta.
 


Che inevitabilmente – dati i presupposti – si rivelerà inutile.
 

… e inutile

 
La gente guarda me e vede mio fratello

Inizia così la tesina di Danny sul fratello Derek, che il preside Sweeney gli ha ordinato di scrivere in sostituzione di quella che il ragazzo aveva elaborato sul Main kampf di Hitler.

La frase non esprime solo la percezione immediata di ogni spettatore – il fratello minore che ripercorre i passi del maggiore – ma rappresenta la dichiarazione di una scelta tecnica ben precisa: Danny e Derek sono lo stesso personaggio, o se preferisci, sono due personaggi fotocopia, a meno della diversa età, irrilevante sul piano tecnico e strumentale a distinguerli in superficie.

È una scelta irrituale, che può lasciare perplessi, perché un precetto standard di sceneggiatura è proprio la chiara differenziazione dei personaggi: non devono esistere – di regola – personaggi sostanzialmente identici, o con profili caratteriali e comportamentali altamente correlati; ogni personaggio deve essere ben distinguibile dagli altri (avere “una sua voce”, come si dice in gergo) e offrire un contributo autonomo allo sviluppo della storia; la ridondanza è dannosa, e se due personaggi appartengono a uno stesso ceppo allora vanno comunque introdotte delle sfumature che permettano di coglierne le rispettive particolarità e specificità.

Qui abbiamo invece due personaggi – Derek e Danny – identici: lo spettatore guarda Derek e vede Danny, guarda Danny e vede Derek.

Come si spiega una così smaccata deviazione da una regola standard? È un errore?

Il punto – ne parlavamo nel modulo 15A – è che nessuna scelta è di per sé “giusta” o “sbagliata” così come nessuna nota musicale è in sé intonata o stonata: ogni scelta è giusta o sbagliata in rapporto alle altre scelte a cui si lega, con cui va a connettersi, e che determinano l’opera nel suo complesso, così come una nota è intonata o stonata rispetto allo spartito su cui è collocata.

Serve indietreggiare di un passo, mettere in stand-by il film e tornare a esaminare la vita vera nel mondo reale, se si vuol capire il senso – e lasciami dire la necessità – di una scelta stilistica altrimenti indecifrabile.
 
 
Tu sei totalmente libero riguardo al presente: sei tu che decidi – in piena libertà – se perdonare o vendicarti, se dare uno schiaffo o una carezza, se avere una parola dolce o acida, se far cadere una moneta nel cappello del mendicante che la implora o lasciarla custodita nel tuo portafoglio, se tradire perché l’occasione è troppo ghiotta e l’attrazione troppo forte o rimanere fedele perché così comanda il tuo animo intransigente.

Sei libero di agire, parlare e pensare come vuoi, come meglio ritieni, riguardo al tuo presente. Ma non sei libero – nessuno lo è – dal passato.

Tutte le tue azioni passate – ma anche le parole e persino i pensieri – hanno prodotto una o più conseguenze dirette; e le conseguenze dirette si sono intrecciate tra loro, originando conseguenze indirette, che a loro volta hanno interagito sia tra loro sia con le conseguenze dirette, e hanno determinato effetti di terz’ordine sui quali si è messo all’opera un nuovo meccanismo di interazione, all’interno un processo ad alta complessità, che a ogni momento restituisce uno stato preciso, lo stato in cui ti trovi.

A ogni momento, in ogni istante, tu fronteggi quel “mondo di cose” che tu stesso hai generato col tuo flusso di azioni, parole e pensieri. La tua prossima azione o parola è di per sé libera – sei tu che decidi cosa fare o cosa dire – ma andrà poi a interferire con quel “mondo di cose” ereditato dal passato, che si rimodulerà di conseguenza con tutto il suo complesso gioco di reciproche influenze.

Ogni azione produce conseguenze (dirette, indirette, di terz’ordine e così via) ma non sempre il complesso delle conseguenze viene interamente notato o riceve la giusta considerazione, e alcune sue parti possono essere volutamente trascurate, cosicché a volte si continuano a compiere azioni sbagliate senza sosta, fin quando le loro conseguenze – cumulandone gli effetti – assumono una dimensione e un’estensione tali da non poter essere più ignorate.
 
Questo passato di sbagli, di errori, non lo si può in alcun modo revocare; però si può contrastarlo, con esiti che rimangono comunque incerti.

A una serie di azioni di un certo segno – di cui hai finalmente realizzato la fallacia – puoi ora opporre altrettante azioni di segno contrario, e magari di intensità maggiore, finendo addirittura in overshooting: non solo poni rimedio agli sbagli, ma riesci addirittura a creare una situazione migliore di quella iniziale (precedente cioè alla sequenza di azioni sbagliate). È un caso raro, ma quando si verifica si è quasi felici di aver commesso quegli errori, perché hanno rappresentato un passaggio – per quanto doloroso – verso una situazione di vita superiore, oggettivamente migliore. Certo, sarebbe stato meglio raggiungerla per una via più lineare, senza tutto quel trambusto di azioni e reazioni, senza commettere errori (che comunque rimarranno scolpiti nel passato, apparterranno al tuo curriculum) ma bisogna pure sempre fare i conti con l’imperfezione della natura umana, e c’è solo da rallegrarsi se il punto di arrivo è superiore al punto di partenza, qualunque sia stato il percorso seguito.

Ma il più delle volte è già una gran bella cosa se si fa pari e patta, se si riesce a ripristinare una situazione sostanzialmente analoga a quella iniziale (prima che fosse guastata da una serie di azioni sbagliate).

Il caso prevalente è però un altro ancora: le azioni sbagliate producono di regola una quota di conseguenze irrimediabili, pur in quadro rimesso complessivamente in ordine dalle appropriate azioni di contrasto; non tutto torna esattamente come prima, dopo aver commesso una serie di errori; qualcosa – poco o molto, a seconda dei casi – è perso per sempre.

È la situazione tipica degli archi eroici, se ci rifletti: il protagonista rimuove il suo difetto fatale e mette in salvo la posta in gioco – quel che di più importante vi sia – ma ciò non significa che non si ritrovi a fare i conti con delle perdite, anche gravi. Guarda John Travolta in A civil action: la posta in gioco è salva, ma tutto il suo mondo esteriore è andato in frantumi.
 
Ti è stato anzi raccomandato – in generale – di evitare i finali fiabeschi in stile “e tutti vissero per sempre felici e contenti”, perché sono infantili e irrealistici, laddove un finale ben fatto miscela sempre aspetti positivi e negativi, qualunque sia il destino della posta in gioco.

Quindi – in generale – il protagonista potrà pure cambiare, e rimuovere il suo difetto fatale, ma sarà sempre gravato dalla sua quota di perdite, in proporzione a tutti gli sbagli irrimediabili compiuti durante l’arco di trasformazione.

Tutto piuttosto ovvio, sin qui.

Non rimane che spingere il ragionamento al punto limite, l’ideale punto di incontro di due rette parallele, per usare un’immagine geometrica sempre carica di fascino.

E cosa accade al punto limite? Accade che la sequenza di errori è così lunga, e i singoli errori così gravi, da rendere irrilevante ogni pentimento e ogni azione di rimedio. Proprio perché – appunto – siamo tutti liberi riguardo al presente e al futuro, ma nessuno – scrive Oscar Wilde – è così ricco da potersi comprare il proprio passato. 
 
Immagina di aver intrapreso un’attività imprenditoriale dai devastanti impatti ambientali – di aver inquinato la terra, avvelenato le acque e intossicato l’aria – attratto dagli enormi guadagni che ne derivavano; e immagina che in tanti ti abbiano emulato, vedendo quanto ti eri arricchito e quale gran bella vita conducevi; e ora immagina di essere rinsavito, a seguito di una sequenza di eventi progressivamente più drammatici; sei sinceramente pentito di ciò che hai fatto, così dismetti l’attività e usi tutto il ricavato per bonificare terra, acqua e aria, per quanto è possibile fare. Bravo, complimenti, buon per te. Ma il resto del mondo sta procedendo ostinatamente per la direzione che tu – sbagliando – gli avevi indicato all’inizio; tutti gli altri continuano a devastare l’ambiente, attratti dal guadagno, seguendo il tuo esempio iniziale. tu sarai pure cambiato, e avrai pure smesso di inanellare cazzate, ma nulla di ciò che puoi fare ora, niente di ciò su cui è in tuo potere agire, ti potrà impedire di respirare aria intossicata, di bere acqua avvelenata, di mangiare cibo coltivato su una terra inquinata. 
 
Non ce ne rendiamo mai ben conto, ma ognuno di noi – col suo flusso di pensieri, parole e azioni – è un creatore di mondi; e quei mondi – una volta creati – procedono da soli, funzionano da sé, indipendentemente dalla volontà del loro dio creatore; potremmo pure pentirci di ciò che abbiamo creato, e fare tutto ciò che è in nostro potere per distruggerlo, ma a seconda di ciò che abbiamo creato – di quanto vasta, solida e pervasiva sia la nostra creazione – non è detto che ci si riesca; il male non scompare solo perché ci siamo pentiti di averlo commesso, e a volte neppure quando ci sforziamo di annullarlo; se è diventato troppo grande, se si è diffuso, allora nessuno sforzo individuale sortirà effetti.

Questo è esattamente ciò che accade in American History X e per farlo accadere serviva replicare tale e quale il personaggio di Derek nel personaggio di Danny.

Noi vediamo un “Derek adulto” in carcere, impegnato in un travagliato processo di trasformazione; ma contemporaneamente vediamo anche un “Derek ragazzino” (personificato in Danny) che ne rappresenta un alter ego (“la gente guarda me e vede mio fratello”) ancora impegnato a propagandare attivamente l’ideologia neonazista.

Il “Derek ragazzino” altro non è che la personificazione delle conseguenze del comportamento del “Derek adulto”, quelle conseguenze che – per quanto sono pesanti, numerose ed estese – procedono ormai da sole nel creare altre conseguenze, e da qui nuove conseguenze ancora, secondo un meccanismo di interazioni divenuto indipendente da ciò che può accadere al “Derek adulto” (cioè sganciato dalla sorgente da cui tutto proviene).

Quando Derek – in carcere – dice prima alla madre e poi al preside di non avere colpe per le scelte di Danny, sta di fatto ignorando le conseguenze delle sue azioni; e quando – uscito dal carcere – vuole proibire a Danny di andare al raduno neonazista, e il fratello gli risponde a brutto muso (“non sono più un bambino di quattordici anni, lo sai?”) ecco che viene messo di fronte a conseguenze ormai fuori dal suo controllo.
 
Il male non scompare, solo perché ci si è pentiti di averlo compiuto.

La provocazione di “Derek ragazzino” (Danny) che fuma in faccia ai ragazzini di colore nei bagni della scuola (minuto 11.02), successivamente rinforzata dal presentarsi sul loro territorio senza neppure temere i ragazzi neri più grandi (minuto 16.03), è solo l’ultima conseguenza di un complesso meccanismo di cause ed effetti messo in piedi da “Derek adulto”, e che ora gira da sé e produce conseguenze su cui la trasformazione di “Derek adulto” non può più influire.
 
I neri non sanno nulla della trasformazione di Derek e Danny (o se preferiscu dei due Derek, “adulto” e “ragazzino”) e, se pure ne fossero a conoscenza, non è detto vi darebbero importanza: il male ha percorso così tanta strada, ha dilatato così tanto i suoi confini, che ora è in condizioni di autoperpetuarsi, anche se la sorgente da cui è sgorgato non è più attiva.
 
E così le azioni di “Derek adulto” (Derek) corrono come cause lungo migliaia di fili invisibili e tornano al “Derek ragazzino” (Danny) come i risultati finali di un processo su cui più nessuno ha ormai presa.

“Oddio… che ho fatto?” è la frase di Derek che conclude il film, 
la presa di consapevolezza che è stato lui – di fatto – a uccidere suo fratello,
dandogli esempi sbagliati, di cui ora si trova a raccogliere tutte le drammatiche conseguenze.
La morte fisica di Danny è lo specchio della morte spirituale di Derek,
in cui si materializza la perdita della posta in gioco.
 

Il personaggio, prima di tutto

American History X è al 42º posto nella classifica dei migliori 250 film di Internet Movie Database (un sito web, di proprietà di Amazon, che cataloga film, attori, registi, personale di produzione, programmi televisivi e videogiochi); è stato (è ancora) un successo di critica e di pubblico; negli Stati Uniti è spesso usato nell’ambito dei programma educativi e non solo.
 
Si può essere tentanti di banalizzare, e attribuire il successo dell’opera all’argomento prescelto, o almeno di pensare che sia da lì – dal tema, il razzismo – che provenga la marcia in più.
 
Dovresti capire da solo l’assurdità di una simile idea, arrivato a questo punto.
 
Un altro problema frequente” – ammonisce Will Storr –  “è che alcuni narratori sono restii a concentrarsi sul personaggio perché la loro ispirazione, il loro entusiasmo per il progetto, deriva da qualcos’altro”, ad esempio da un “tema scottante” col quale ambirebbero ad “attirare l’attenzione su quella che considerano una piaga della società”, e che dunque viene trasformato nel motore stesso dell dell’idea narrativa, sino a scalzare personaggi.
 
Ma non funziona così, non hai mai funzionato così né potrà mai funzionare.
 
Ipotizziamo che, indignati dal sistema sanitario americano, decidiate di scrivere una versione del film Wall Street di Oliver Stone declinata in chiave medica. La vicenda ruota intorno a un tipo alla Gordon Gekko che specula ignobilmente su un farmaco essenziale. Benissimo. Ma se non fate un lavoro come si deve sul personaggio quella che vi ritroverete tra le mani sarà soltanto una versione del film Wall Street di Oliver Stone declinata in chiave medica”. 
 
Nessun tema può essere in sé garanzia di successo. Sono la premessa che vi si associa e soprattutto la linea dimostrativa impostata sulle vicende dei personaggi a rivelarsi decisive per la buona riuscita dell’opera.
 
È la specifica storia ad avere valore, non il quadro macroscopico su cui si colloca.
 
È la specifica storia – se ben progettata e realizzata – a portare il lettore-spettatore oltre la storia, a suscitargli riflessioni generali a partire da un caso particolare.
 
Funziona così: dalla chiara percezione di una situazione di vita impostata su eventi e personaggi specifici – quindi ben riconoscibile – al principio generale che vi sta dietro.
 
Chi vuol esibire direttamente il principio – chi vuole impressioanare con il tema in sé – è destinato a fallire, e in questo senso la contrapposizione tra storie character driven e storie plot driven è ingannevole e fuorviante.
 
Un gran bel discorso astratto contro il razzismo – impregnato di valori sublimi, ricco di parole forbite, frasi a effetto e metafore audaci – non avrebbe mai avuto lo stesso effetto di American History X; sarebbe piaciuto (forse) a chi ama baloccarsi col linguaggio, a chi si illude che basta scegliere temi altisonanti e parole raffinate per catturare l’animo umano, quando in realtà riesce solo salire momentaneamente su un’infantile giostra di luci e suoni; ma qui – con American History X – la situazione è completamente diversa.
 
American History X è stato (è) un successo perché ha applicato un insegnamento basilare della buona narrativa: se vuoi parlare dell’umanità, parla di una persona sola.
 
American History X piace e appassiona, coinvolge e fa riflettere, non perché parla di razzismo in generale, ma perché l’evento giusto va a toccare la persona giusta al momento giusto.
 
Chi è Derek? Come reagirà a ciò che gli accade? E cosa diventerà? Ecco gli interrogativi che il film pone di continuo, ogni volta che il protagonista è costretto a compiere una scelta, e grazie ai quali lo spettatore è tenuto incollato all’opera.
 
Citando ancora Will Storr: “vogliamo scoprire come quella particolare persona, con quella particolare storia, e con quei punti di forza e quei punti deboli riuscirà a cavarsela. Di solito ci riuscirà solo forzando la propria natura, tentando qualcosa di nuovo, compiendo uno sforzo senza precedenti. Insomma, cambiando.

i protagonisti della storia non sono in guerra soltanto con il mondo esterno. Ma anche con se stessi. Devono affrontare battaglie che avranno luogo soprattutto nei sotterranei oscuri del loro subconscio. In gioco c’è la risposta all’interrogativo cruciale di ogni dramma: chi sono io?

Dovunque, nella trama, si porrà tale interrogativo, il lettore o lo spettatore si sentiranno coinvolti. Quando questo dilemma non si presenta, e gli eventi procedono al di fuori del suo fascio di luce narrativo rischieranno di provocare un senso di distacco, o persino di noia.
 
Se esiste un segreto nello storytelling credo proprio che sia questo. Chi è questa persona? O, dal punto di vista del personaggio: Chi sono io? Ecco l’essenza del dramma. La sua elettricità, il suo battito, il suo fuoco”.

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