Modulo 24E – Analisi del film “A civil action”


Istruzioni per l'uso

Devi aver visto il film e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
 
Non puoi pensare di capire la mia analisi, se prima non ti sei impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver visto e analizzato il film, altrimenti perdi solo tempo.


Mi riferirò alla versione del film disponibile su YouTube, per l’indicazione del minutaggio.

Il video ha una durata formale di 1 ora, 55 minuti e 14 secondi. Il film vero e proprio inizia dopo 37 secondi, ma io conterò sempre dall’inizio (tempo 0.00.00) per indicare i passaggi nodali (altrimenti dovrei sottrarre 37 secondi ogni volta, creando una difficoltà inutile a chi volesse ripercorrere i segmenti della storia).

Chiamerò il protagonista e l’antagonista con i nomi degli attori (quindi Jan Schlichtmann sarà John Travolta e Jerome Facher sarà Robert Duvall) e tutti gli altri personaggi li indicherò con delle etichette di per sé evocative (così ci liberiamo di possibili equivoci sulle identità delle figure coinvolte nella spiegazione).

La storia in un guscio di noce

John Travolta è un brillante avvocato specializzato in risarcimenti per danni alla persona; il suo studio legale è piccolo, ma celebre per i ripetuti successi, resi possibili da un’attenta selezione delle cause da patrocinare.
 
Tutto procede alla grande, fin quando John Travolta e i suoi soci  non si ritrovano coinvolti in un caso di bambini deceduti, probabilmente a causa dell’inquinamento dell’acqua corrente provocato da due multinazionali.
 
Sarà una battaglia giudiziaria molto più complessa del previsto, che avrà conseguenze devastanti – sia materiali che spirituali – sulla vita del nostro protagonista.

Perché "A civil action" ?

 
Ci sono varie ragioni che invogliano ad analizzare A civil action.

Il film è basato su un fatto realmente accaduto, ma il riferimento alla realtà rende evidente due passaggi fondamentali alla base della trasposizione artistica.
 
Primo: solo gli eventi a elevato contenuto drammatico possono ambire a essere trasportati su una pellicola o su una pagina; è cioè il potenziale drammatico ed emotivo, e non la bruta realtà in sé, a giustificare lo sforzo di una rappresentazione artistica.
 
Secondo: la realtà dell’arte è per l’appunto una rappresentazione, che non coincide mai con la bruta realtà del mondo reale; adattamenti, rifiniture, e diciamo pure invenzioni ad-hoc, sono la normalità quando si crea un’opera “basata su fatti realmente accaduti” (il 20% di succo di arancia è sufficiente per etichettare una bevanda come “aranciata”, se il paragone può esserti di aiuto a capire il concetto).

Il film mostra inoltre nitidamente il cosiddetto “triplice conflitto”, perciò è un ottimo esempio didattico per illustrare l’essenza del Secondo Atto e più in generale per chiarire un passaggio cruciale di ogni sceneggiatura fatta a regola d’arte.

Vi sono infine delle complessità tecniche sulle conseguenze del difetto fatale, nonché delle interpretazioni sottili sulla natura del finale, che portano in luce la ricchezza concettuale dell’arco di trasformazione, e mettono in guardia contro un suo utilizzo meccanico e stereotipato.

Una (piccola) ineleganza

L’opera ricorre in diversi passaggi nodali – dall’inizio alla fine – a un’espediente narrativo dozzinale: una voce fuori campo che si rivolge direttamente allo spettatore, per dargli informazioni decisive al fine di comprendere correttamente gli eventi.

È ciò che in scrittura si chiama infodump (e per di più nella forma peggiore: la rottura della quarta parete).

Lo possiamo ancora tollerare perché siamo al cinema, quindi “in esterna”, e perché ogni intrusione dura al più una decina di secondi; ma non sarebbe ammissibile neanche per mezzo rigo, in una scrittura finalizzata a immergere il lettore nella realtà del personaggio. 
 

Una (grande) eleganza

 
L’opera racconta una causa legale incentrata sull’inquinamento dell’acqua potabile provocato da due industrie, da cui sarebbero derivati i decessi di alcuni bambini.

L’acqua è quindi al centro della storia, e ti invito a notare quante volte l’elemento “acqua” ritorna nella narrazione, in modo naturale e coerente con le varie scene: lo si vede apparire già all’inizio, quando John Travolta chiede al suo assistito se vuole un bicchiere d’acqua (e lo spettatore non sa ancora di cosa parlerà la storia); lo si rivede sul finale, quando John Travolta mangia un panino da solo, nel suo piccolo appartamento, con un bicchiere d’acqua davanti; e ancora nell’epilogo, in tribunale; e in mezzo viene ripreso più volte, in particolare per creare delle simmetrie narrative, eleganti sul piano stilistico e decisive per lo sviluppo della storia.

È un esempio eccellente di “creazione del clima”, di predisposizione di un ambiente in cui tutto risuona con l’argomento principale, in cui l’elemento al centro della narrazione dà ripetuti segni di sé – con naturalezza e discrezione – per far acclimatare al meglio lo spettatore.

Che personaggio è John Travolta?

“Gli avvocati che trattano i danni alla persona godono di una brutta reputazione:
ci chiamano ‘feccia legale’, ‘bracca-barelle’, ‘avvoltoi che speculano sulle tragedie altrui’…”
 
John Travolta è un avvocato, e la professione di avvocato – lo notavamo nel modulo 23B – è spesso utilizzata per creare personaggi “neutri”, verso cui inizialmente lo spettatore non prova né attrazione né repulsione.

John Travolta è sicuramente un protagonista “neutro”, ma è una categorizzazione che impone ulteriori qualificazioni.

Lui stesso – in un’intervista alla radio, nello status quo – palesa la percezione che i più hanno verso la sua professione: feccia legale e bracca-barelle non sono propriamente attributi positivi.

È quindi un personaggio “neutro”, sì, ma con sfumature negative indotte dal particolare tipo di avvocatura esercitata (e che il suo comportamento rende particolarmente marcate).

Il tratto che va dal minuto 5.12 al minuto 7.16 è interamente dedicato a mostrarci un’ipocrisia di fondo del nostro protagonista.

Con la tecnica del montaggio alternato (inattuabile in scrittura) vediamo un John Travolta felice mentre balla con una biondona in una serata all’aperto, e simultaneamente lo sentiamo dire, nell’intervista alla radio, che lui non dorme la notte perché somatizza i casi dei suoi clienti; e poi lo ritroviamo in un negozio di lusso a scegliere degli accessori di vestiario del tutto superflui. È un contrasto netto tra “il dire” e “il fare” – chiaramente voluto – che non depone a favore del personaggio.

L’ipocrisia di cui è impregnato il suo studio legale viene ribadita – stavolta col montaggio in parallelo, anch’esso inattuabile in scrittura – dal minuto 20.01 al minuto 20.34: vediamo John Travolta, in televisione, affermare che non è il denaro a interessargli, ma solo il render giustizia ai bambini morti; e i suoi soci, riuniti nello studio davanti alla tv, commentano ogni passaggio dell’intervista con dei “sì” e dei “no” che suonano falsi come un serpente zoppo.

John Travolta – in definitiva – è sì un personaggio “neutro”, ma con tinte fosche ben evidenti.

Però lo abbiamo visto – nella scena iniziale – tenere duro per un ragazzo conciato oggettivamente male, non solo su una sedia a rotelle, ma anche con gravi danni al fisico; e lo abbiamo visto strappare un indennizzo che è andato oltre ogni più ottimistica aspettativa.

Sarà pure l’uomo che è, e farà quel che fa per suo tornaconto, però finisce comunque col caricarsi sulle spalle la sofferenza ingiusta di altre persone, e riesce ad alleviarla al meglio nell’unico modo con cui è possibile farlo (il denaro).
 
Alla fine, sebbene per vie trasverse, fa del bene agli altri; perciò noi siamo con lui.
 

Prologo

“In pratica funziona così:
un cliente morto raramente vale più soldi di uno vivo gravemente menomato;
certo, il decesso preceduto da una lunga straziante agonia può far lievitare sensibilmente l’indennizzo;
al contrario di un annegamento o di un incidente;
un adulto morto a vent’anni generalmente vale meno di uno di quaranta;
la morte di una donna vale meno di quella di un uomo,
un single vale meno di una persona sposata, un nero meno di un bianco, un povero meno di un ricco.
La vittima ideale è il professionista bianco di sesso maschile sulla quarantina,
al culmine della sua capacità di guadagno e stroncato all’apice della carriera.
La vittima meno considerata?
Beh, in base ai parametri della legge sui danni contro la persona,
è lampate che morte che vale meno di tutte è quella di un bambino”
 
Il film non inizia nel migliore dei modi, sul piano stilistico.

Vediamo John Travolta spingere il suo assistito in carrozzina lungo il corridoio del tribunale che porta all’aula giudiziaria dove dovrebbe tenersi il processo.

Per tutto il tempo del tragitto, la sua voce fuori campo ci porta a conoscenza del funzionamento del mondo degli indennizzi per i danni alla persona, col passaggio finale che alza la palla a ciò che verrà.

Non si può certo supporre che quella voce sia il suo fraseggio interiore – che la voce fuori campo dia cioè conto dei pensieri che un avvocato avrebbe naturalmente in prossimità di uno scontro in aula – perché John Travolta sa benissimo come gira il suo mondo, e non ha nessun motivo di richiamarne ora i meccanismi di funzionamento, se non appunto per informare lo spettatore.
 
Potremmo qualificare questa scena come una sorta di “prologo”, necessario a inquadrare la vicenda, ma se fossimo nel mondo della pagina, anziché sullo schermo, parleremmo di infodump (ancora una volta tra i più brutti, perché ci si rivolge direttamente al lettore). Al cinema – come già notato – lo tolleriamo più facilmente, ma rimane comunque una soluzione stilisticamente debole.
 

L'incipit

 
La prima scena (effettiva) del film va dal minuto 1.30 al minuto 4.06: è ciò che in scrittura chiameremmo incipit, ed è perfetto, perché fa tutto ciò che un incipit deve fare.

La scena si apre con uno scambio di battute tra due persone del pubblico in aula, probabilmente altri due avvocati, che commentano esterrefatti il rifiuto di John Travolta di un indennizzo da 1 milione di dollari.

Un socio dello studio sente le loro chiacchiere, si volta e gli intima di zittirsi: in aula è presente anche il direttore della banca che ha sostenuto finanziariamente la causa, e dalla sua espressione trapela una certa apprensione, che non è il caso di accrescere portandolo a conoscenza del temerario rifiuto di John Travolta.

L’ansia aleggia su tutti, in realtà; la si coglie bene anche nelle facce dei soci di John Travolta.

Durante le formalità di apertura del processo, l’avvocato di controparte trova il modo di formulare – scrivendole su dei post-it – ben due controfferte, prima di 1,2 e poi di 1,7 milioni. John Travolta le rifiuta entrambe, senza esitazione.

Si sta per andare al processo, quando arriva l’ultima controfferta: 2 milioni, con tanto di supplica (“Please!”) a piantarla lì. John Travolta accetta, i visi dei soci si distendono, un sorriso si stampa sulla faccia di tutti.

John Travolta ha strappato un indennizzo – a favore di un ragazzo con una grave disabilità – pari al doppio di ciò che a tutti sembrava già un risarcimento enorme. Tutti erano timorosi, ma non lui, non il nostro protagonista, che en passant ha pure rifiutato ben due controfferte intermedie, prima di atterrare su quella finale, che – a sfregio – sembra aver accettato solo per fare un favore all’altro avvocato (“Please!”).

Lui, il nostro personaggio, sa il fatto suo (è competente); tiene le redini del gioco e non si lascia trasportare dall’emotività (è proattivo); e agisce per alleviare il dolore di un ragazzo divenuto disabile (si fa carico della sofferenza ingiusta altrui, nell’unico modo in cui può farlo, col denaro, ma strappando il doppio di ciò che per tutti era già il massimo). Empatia creata.

C’è una finezza da rilevare.
 
Cosa avevamo detto a proposito del difetto fatale? Che lo chiamiamo così – difetto fatale – dopo la chiamata all’azione, quando il personaggio entra nel  “nuovo mondo”. Ma nel vecchio mondo, prima dell’incidente scatenante, quel che ora chiamiamo difetto fatale poteva benissimo essere il punto di forza del sistema di sopravvivenza del protagonista (ed è anzi considerato un tratto di eleganza riuscire a creare questo effetto speculare nel profilo caratteriale del protagonista).

E qui si realizza un bel gioco di specchi.

Tutti si stanno “cagando in mano”, ma non John Travolta. Lui, il nostro protagonista, è sicuro di sé, maledettamente sicuro, perché conosce il suo mondo meglio di chiunque altro, sa molto più di altri su come girano le cose e sin dove ci si può spingere. Quel che per tutti è un azzardo, perché valutato in difetto di informazioni, per lui, per il nostro protagonista, è business as usual, perché lui sa e gli altri no.

Qual è il problema? Che questa stessa sicurezza sarà mantenuta anche nel “nuovo mondo”, laddove sarebbero invece richieste massicce dosi di cautela, anche perché di fronte non ci sono più avvocati che scrivono “Please!” sui post-it, ma gente “con due palle così”, pronta a tener duro sino alla fine, perché molto più preparata e competente di lui, nella situazione caratteristica del “nuovo mondo”.
 
Il punto di forza (nel vecchio mondo) che si trasforma in una sfumatura del difetto fatale (nel nuovo mondo) non è un effetto così difficile da realizzare, ma richiede più d’una accortezza per non apparire banale, e qui la trasmutazione è molto ben fatta.

Ancora una parola sui 2 milioni di dollari, perché questa cifra ha un preciso valore comunicativo.
 
La vita e la salute non hanno ovviamente un prezzo; non c’è nessuna somma di denaro che le può comprare o indennizzare; vita e salute da un lato, e denaro dall’altro, sono grandezze tra loro incommensurabili.
 
E tuttavia noi viviamo in un’economia monetaria, un sistema in cui siamo abituati a convertire ogni valore in moneta, anche i più impalabili ed eterei, al punto che talvolta capiamo il valore di qualcosa – un oggetto, una situazione di vita – solo quando lo vediamo quantificato in una somma di denaro, per quanto la quantificazione possa essere arbitraria.
 
Misurare un danno alla persona in unità monetarie, in denaro, è chiaramente un’operazione convenzionale: pesano la tradizione, gli orientamenti giurisprudenziali, le abilità negoziali delle parti, tutte cose che poco hanno a che fare col dolore fisico e spirituale di chi ha subito il danno.
 
Ma non c’è alternativa, perché viviamo in un’economia che regola tutti i suoi rapporti – nessuno escluso – in moneta corrente, e non conosciamo – ormai non riusciamo più neppure a concepire – modalità alternative per saldare le nostre posizioni (incassare crediti, ripagare debiti).
 
In questo senso, i 2 milioni strappati da John Travolta giocano il ruolo di punto di riferimento a cui commisurare tutto quel che verrà dopo.
 
Quanto vale la vita di un bambino? John Travolta stesso – la sua voce fuori capo, nel prologo – ci dice che è quella che vale meno di tutte, in base alle convenzioni prevalenti.
 
La transazione in tribunale, poi, ci dice chiaramente che un indennizzo di 2 milioni per una disabilità grave è un successo oltre ogni aspettativa (già 1 milione sarebbe stato più che soddisfacente, nel sentire comune).
 
A questo punto, se mettiamo insieme le cose, potremmo ragionevolmente concludere che un indennizzo di 20 milioni (10 volte i 2 milioni della disabilità) potrebbe essere più che ragionevole per chiudere una causa di bambini morti. È tutto molto convenzionale, sia chiaro, ma è appunto di convenzioni che vive il mondo dei risarcimenti per i danni alla persona: se 2 milioni per una disabilità grave sono una notevole sovrastima di un risarcimento ordinario, allora 20 milioni per il decesso di alcuni bambini (le morti che valgono meno) possono sicuramente essere più che sufficienti.
 
Nessuno spettatore si sarà avventurato consapevolmente in questi ragionamenti, ma qualcosa si sarà smossa al livello inconscio, anche solo come sensazione generale.
 
E così, quando sentiremo John Travolta chiedere la bellezza di 320 milioni, capiremo anche solo inconsciamente l’assurdità della richiesta (rispetto ai parametri standard) il cui unico scopo è obbligare la controparte a rifiutare (per poter andare al processo).
 
Ma senza un punto da cui iniziare a misurare – senza quei 2 milioni che funzionano da “0” nella scala valutativa – sarebbe stato difficile capire se la richiesta iniziale di John Travolta (320 milioni) fosse ragionevole, audace o completamente folle, così come sarebbe stato complicato soppesare la plausibilità delle controfferte che riceverà lungo la storia (20 milioni prima, 8 milioni dopo) e il risarcimento finale stabilito dalla sentenza di primo grado (375 mila dollari a famiglia).
 
La relatività delle cose è fondamentale per comunicare i propri messaggi, perché noi capiamo le cose solo per paragoni, per confronti, per rapporti, e qui vediamo una bella applicazione del principio generale.
 

Incidente scatenante

 
L’incidente scatenante è perimetrabile con precisione millimetrica: va dal minuto 6.25 al minuto 7.15.

John Travolta è ospite in una radio, quando arriva una telefonata che gli cambierà la vita, anche se lui non può neanche immaginarlo: una donna, una mamma, vuol sapere perché le sue ripetute richieste di assistenza legale sono rimaste inevase.
 
John Travolta è sinceramente meravigliato: lui, in effetti, non ne sa nulla. E qui viene rimarcata la sua falsità: finge di appuntarsi il nome della donna su un biglietto, ma in realtà sta solo scrivendo una richiesta di aiuto al conduttore della radio (“SAVE ME”) per stoppare la telefonata.

Lo ritroviamo nel suo studio, a chieder conto ai soci di quella strana telefonata. Uno di loro lo informa della situazione, se ne discute un po’ in modo anche piuttosto animato – conflitto! – per poi decidere a maggioranza che il caso sarà rifiutato: se la causa è “orfana”, se sta saltando senza fortuna da uno studio legale all’altro, ci sarà pure una ragione, non ti pare?
 
L’occasione viene qui sfruttata per mostrare il lato cinico di John Travolta: “Posso apprezzare il valore teatrale che deriva da molti bambini morti. Ovviamente questo è un bene. Ed è tutto ciò che questo caso porta avanti. Ma questo non è abbastanza. Dobbiamo sbarazzarcene”.
 
Sarà John Travolta stesso a recarsi dalla signora per comunicarle la decisone, per evitare che il socio dello studio (con cui la mamma aveva preso i primi contatti) si lasci impietosire e ci ripensi.
 
Siamo uno studio legale piccolo, tre avvocati in tutto,
il che significa che possiamo seguire solo tre causa alla volta.
E dobbiamo essere prudenti nella scelta perché francamente non possiamo premetterci di perdere.
I clienti non pagano niente, paghiamo tutto noi, e rientriamo solo in caso di vittoria o transazione.
Lei vuole solo delle scuse, e io sarei strafelice di farle ottenere quelle scuse, ma da chi?
Chi verrà a scusarsi con lei e a pagare me?
Serve un convenuto, e che abbia le tasche profonde:
che la causa costi poco, qui è da escludere
 
John Travolta va a trovare la signora e si ritrova davanti a un comitato di genitori remissivi e privi di ogni forza.
 
E qui veniamo a conoscenza del modus operandi del suo studio legale: è uno studio piccolo che non può gestire simultaneamente molte cause, perciò ogni causa deve essere vagliata con la massima prudenza, anche perché lo studio anticipa tutte le spese e rientra solo in caso di successo. Come a dire: noi assumiamo solo cause vincenti in partenza, vincenti 99 volte su 100; questo sappiamo fare e questo facciamo – e pure molto bene, ben oltre le aspettative, come abbiamo visto nella scena iniziale – ma qualunque rischio superiore all’1% è fuori dai nostri parametri assuntivi.
 
A poco valgono le insistenze, peraltro flebili, dei genitori.
 
John Travolta augura alle famiglie di “trovare assistenza” e se ne ritorna a casa.
 

Chiamata all'azione: nulla succede per caso

La multa nel viaggio di andata.
 
 
 
La multa nel viaggio di ritorno.
 
Dal minuto 9.15 al minuto 9.35 vediamo sfrecciare il macchinone di lusso di John Travolta sulla strada verso la casa della signora che lo ha chiamato in radio.

Il nostro protagonista viene fermato da un poliziotto e multato per eccesso di velocità.

Già qui si possono fare delle considerazioni interessanti.

Rispettare i limiti di velocità non costa nessuno sforzo. Superarli è una manifestazione evidente di una certa spocchia. E così – con un’azione precisa, osservabile – ci viene comunicata una ulteriore sfumatura del difetto fatale. E non finisce qui.

Cosa succede nel viaggio di ritorno? John Travolta supera di nuovo i limiti di velocità e si becca un’altra multa, sullo stesso ponte dove l’aveva presa all’andata.
 
Ma ora – in quei due minuti abbondanti di silenzio che seguono alla seconda multa – si capisce che nella testa gli frullano i racconti dei genitori, stimolati dalla visione dell’acqua del fiume. Visto che è lì, e che si è dovuto comunque fermare, decide di scendere a dare un’occhiata, come gli aveva suggerito una delle mamme durante l’incontro. E quello che vede – camion, gru, betoniere e operai che maneggiano sostanze inquinati in tutta tranquillità, all’occorrenza scaricandole nel fiume – gli fa cambiare idea. Soprattutto perché su quei camion e quelle gru può ora leggere i nomi di aziende precise: eccoli qui i “convenuti dalle tasche profonde”, necessari per avviare un’azione legale. La causa non è poi così aleatoria come sembrava all’inizio, anzi, può rivelarsi un pozzo di denaro e un mezzo di ineguagliabile visibilità mediatica.

Fermiamoci a ragionare: la multa sulla strada del ritorno è decisiva per convincere John Travolta ad accettare la chiamata, ma sarebbe apparsa un elemento casuale, fortuito, se non fosse stata preparata con la multa all’andata.
 
John Travolta ha fretta di andare e tornare, e poco gli importa – sia all’andata che al ritorno – se gli tocca prendere una multa. “Prendere multe” è implicito nel suo profilo caratteriale. O, se preferisci, “prendere multe” non è un evento che lo sorprende (e infatti la sua reazione è invariabilmente pacata, sia all’andata che al ritorno) perché è coerente col suo profilo psicologico, vista la situazione in cui si trova.

Sarebbe stato ben strano se John Travolta avesse preso la multa solo al ritorno: sarebbe stato un evento casuale per reindirizzare la storia – in termini tecnici: una porcheria –  e tanto valeva, a quel punto, farlo commuovere davanti ai genitori, così almeno si rafforzava l’empatia. E invece tutto accade per una ragione.

Gli sceneggiatori si sono poi concessi una sciccheria.

Quando John Travolta torna allo studio, e comunica ai soci di voler accettare la causa, attribuisce al  destino l’aver preso una multa sulla via del ritorno: “era destino: dovevo prendere quella multa, in quel momento, in quel punto esatto della strada”. E ci sta tutto che lui – il personaggio – lo viva come un segno del destino, proprio come accade a noi di imputare alcuni eventi della nostra vita al fato, al caso, alla (s)fortuna o al karma. Ma noi – spettatori – sappiamo che non è così: lo abbiamo visto prendere “quella multa, in quel momento, in quel punto esatto della strada” anche all’andata, e perciò non ci sorprendiamo di rivedere la stessa scena al ritorno.
 
Ma c’è di più: un socio gli mostra una multa e gli chiede spiegazioni; John Travolta gli ribadisce che l’ha presa sulla vita del ritorno, e il socio fa presente che, no, lui sta parlando di un’altra multa; e John Travolta a quel punto precisa che in realtà ne ha prese due, una all’andata e un’altra al ritorno, e quindi implicitamente ammette che non si tratta di un caso; e poi – a prova di scemo – arriva la battuta della segretaria: “ah, certo, andata e ritorno: come l’altra volta”, a dirci che la stessa situazione si è già verificata in passato, a confermare definitivamente che John Travolta è un collezionista di multe per eccesso di velocità (e perciò tutto quel che abbiamo visto accadere è perfettamente spiegabile in base al carattere del personaggio).
 

L'antagonista

“Se veramente cerca la verità, la cerchi dove si trova: al fondo di un pozzo senza fondo” 
 
Il piccolo studio legale di John Travolta inizia la sua lotta contro due studi legali prestigiosi, uno che difende la società “Grace”, con un avvocatucolo, e un altro che difende la “Beatrice”, con Robert Duvall.

Questi sono i due antagonisti, e c’è subito da rilevare la loro “ortogonalità”, la massima differenziazione operata dagli sceneggiatori nel caratterizzarli (a costo di perdere un filo di realismo).

L’avvocato della “Grace” è… un avvocatucolo, appunto: giovane, timido e inesperto (vorrebbe stoppare John Travolta appellandosi a un cavillo legale a cui nessuno dà più valore), buono solo a combinare casini una volta entranti nel vivo del contenzioso (dal minuto 47.19 al minuto 48.06) e con un nome (Cheeseman) storpiato da tutti (minuti 19.40 e 22.32).
 
E dall’altro lato, a difendere la “Grace”, c’è… Robert Duvall! È un personaggio straordinario, e non a caso la sua interpretazione gli è valsa la nomination all’Oscar 1999, come miglior attore non protagonista.
 
È uno di quegli antagonisti che ti entrano nel cuore, per quanto possano esser stronzi e figli di puttana.

Robert Duvall sfoga il suo disappunto verso l’avvocatucolo
(che sta conducendo una difesa perdente contro John Travolta)
disegnandolo impiccato a una trave.
 
Lo incontriamo la prima volta al minuto 16.23, nella penombra di un ufficio sotterraneo, durante la pausa pranzo, ad ascoltare la partita dei Red Sox di cui è un gran tifoso.
 
Un collega lo viene a disturbare per consegnargli l’atto di citazione di John Travolta, e la sua replica – dal tono oltremodo pacato, ma non uniforme – è già tutto un programma del personaggio che vedremo.
 
“Se io fossi in lei, reclamerei il diritto di trascorrere un’ora
lontano dal chiasso e dalla frenesia di questo ufficio.
Mi troverei un angoletto nel quale rifugiarmi in santa pace tutti i giorni,
a mangiare un tramezzino, a leggere, magari ad ascoltare la partita alla radio, quando c’è.
E farei capire a tutti di non voler essere disturbato in quell’ora di solitudine assoluta,
perché sarebbe uno spazio mio, un momento di privacy,
che nessuno dotato quanto meno di istinto di auto-conservazione oserebbe interrompere.
Se io fossi in lei…”

Questo è Robert Duvall: dice cose tremende, con tanta più gentilezza quanto più sono tremende.

Lo vediamo giocherellare con una palla da baseball, mentre è al telefono con l’avvocatucolo che l’ha contattato per stabilire una strategia comune (minuto 18.40).
 
Il giudice, all’udienza preliminare, sbaglia a pronunciare il cognome dell’avvocatucolo, e mostra invece parecchia confidenza con lui, con Robert Duvall, sino a imbastire una breve discussione sul campionato dei Red Sox (minuto 21.15).

Arriva in ritardo all’incontro decisivo con lo studio legale di John Travolta, perché l’Università di Harvard – dove insegna diritto penale – gli ha intitolato una poltrona e non poteva proprio mancare (minuto 52.08).

E il suo stile affilato si coglie chiaramente nella dichiarazione di apertura del processo, contrapposta a quella dell’avvocatucolo, ma anche a quella di John Travolta (dal minuto 58.00 in poi).

E infine – con un tocco di classe – gli viene consegnato un tratto di consapevole trasandatezza che lo scolpisce nella memoria di ogni spettatore: aggiusta la sua borsa alla bell’e meglio passando dello scotch sul manico (minuto 22.48); trafuga una brioche durante l’incontro decisivo per la transazione, quando ha capito che nessun accordo sarà possibile (minuto 54.43); e quando John Travolta gli chiede se abbia mai pensato di comprarsi una borsa nuova, gli risponde “no, no, non ci si cambia le calze durante la finale del campionato” (minuto 52.43).
 
Lascio a te il compito – e più che altro il piacere – di apprezzare a 360 gradi lo straordinario personaggio di Robert Duvall, in tutti i suoi numerosi e ben studiati particolari.
 

Il difetto fatale

 Robert Duvall: “Lei è convinto che porterà quella gente a testimoniare.
Che madri e padri racconteranno le loro storie e che la giuria si commuoverà fino alle lacrime.
Crede davvero che glielo permetterò?”
John Travolta: “Non vedo come possa impedirmelo”
Robert Duvall: “È evidente che non lo vede”
 
Qual è il difetto fatale di John Travolta?

Ricordiamo prima di tutto cosa non fare, quando si vuole identificare il difetto fatale del protagonista di un’opera compiuta, già realizzata: non si deve – assolutamente no – fruire l’opera e poi assecondare le intuizioni del momento, in un malinteso senso di spontaneità.
 
Quindi, per esser chiari, non puoi guardare A civil action e poi uscirtene con giudizi del tipo “il difetto fatale di John Travolta è la presunzione, perché… perché sì, perché è ovvio che è così”.
 
Il difetto fatale – se c’è – lo devi poter rilevare in scene precise, in segmenti della storia ben delimitati, e sarà la giustapposizione di tutte queste scene, di questi segmenti, a dare indicazioni su come risalire da ciò che si osserva nell’opera alla sua teorizzazione, per sintetizzare il difetto fatale in una parola.
 
Riavvolgiamo il nastro, dopo aver visto il film la prima volta, e riguardiamolo di nuovo – e se necessario ancora, ancora e ancora – con l’obiettivo di pizzicare tutte le scene dove il difetto fatale potrebbe dare segni di sé.
 
Riportiamo il cursore al minuto 0.00.00 e partiamo.

La scena iniziale – lo abbiamo notato – ci mostra un John Travolta oltremodo sicuro di sé, che rifiuta sistematicamente le offerte della controparte, fino a farsi supplicare, quando già l’offerta iniziale era giudicata da tutti più che soddisfacente.

Ma John Travolta è convinto di poter spuntare molto di più, è sicuro del fatto suo. Essere sicuri di sé è un difetto? Dipende. L’esito della transazione – nell’incipit – ha dato ragione a John Travolta. La sua sicurezza “ha pagato”, è proprio il caso di dire.

Essere sicuri di sé è un pregio, non un difetto, purché si abbia l’intelligenza di discriminare le situazioni: in alcuni casi – familiari, ben conosciuti – va benissimo non indietreggiare e tenere il punto, ma in altri – meno consueti, più incerti – sarebbe meglio recuperare un minimo di prudenza.

Essere sempre e comunque sicuri di sé – senza riguardo alla situazione in cui ci si trova, pensando assurdamente che tutte le situazioni si equivalgano – è sicuramente un difetto.

Abbiamo anche osservato una una certa spocchia di John Travolta, quando si trova alla guida: colleziona multe allegramente, tanto può pagarle senza problemi, e perciò se vuol correre lo fa. La spocchia, in effetti, è una delle manifestazioni dell’eccessiva sicurezza di sé: se si è certi di aver ragione, se si è convinti di sopraffare l’altro, spesso si cade in atteggiamenti di sufficienza e superiorità, non si presta riguardo neanche a quel minimo di accortezze richieste da una convivenza civile.
 
Questo è il John Travolta che vediamo sino alla chiamata all’azione, e a prova di scemo – al minuto 15.43 – ecco arrivare la solita voce fuori campo che blinda le sensazioni dello spettatore.
  
“Quando il vostro studio legale è piccolo, e loro sono importanti,
con un gran passato e pieni di soldi, come quasi sempre sono,
con i loro tappeti persiani, le lauree ad Harvard incorniciate e appesi alle pareti,
è facile farsi intimidire.
Non ci cadete. È quello che vogliono, quello che si aspettano.
Come qualunque bullo prepotente, ed è così che vincono le cause.
Ma io non mi spavento davanti ai bulli” 
 
John Travolta non si spaventa dei bulli, ci mancherebbe. Lui è sicuro di sé, fino alla spocchia.

Ma le cose cambiano, una volta entrati nel “nuovo mondo”.

Cominciamo a vedere le conseguenze del difetto fatale già nell’udienza preliminare, dal minuto 20.55 al minuto 23.56.
 
L’avvocatucolo vuol stoppare sul nascere l’iniziativa di John Travolta appellandosi a un antico codicillo ideato per inibire azioni legali temerarie.
 
Robert Duvall lo aveva diffidato dal farlo – “se vuole stendere qualcuno, lo faccia in modo che non si rialzi” (minuto 19.51) – e se ne era chiamato fuori, proprio perché intravedeva tutta la debolezza della strategia.
 
E il giudice, in effetti, respinge l’istanza dell’avvocatucolo, “perché è un articolo così vecchio ed ambiguo, che pochi avvocati ci sprecano il loro tempo… o il mio” (minuto 23.20).
 
La conclusione della scena è paradigmatica di quanto John Travolta abbia capito poco di quel che è successo, di quanto il suo difetto fatale gli impedisca di vedere la pericolosità dell’antagonista.
 
John Travolta: “Mi scusi… volevo ringraziarla:
è stato nobile da parte sua non associarsi a questo attacco ridicolo”
Robert Duvall: “Prego”
 
Non è certo per nobiltà d’animo che Robert Duvall si è chiamato fuori dall’iniziativa dell’avvocatucolo, ma perché sapeva che non era in quel modo che John Travolta sarebbe stato mandato al tappeto. Ma lui, John Travolta, non l’ha capito. A causa del suo difetto fatale.

Dopo le difficoltà iniziali, dovute alla reticenza dei vari testimoni, le cose sembrano mettersi bene: un testimone si sbottona e così anche gli altri acquistano coraggio, sulla scia del primo.
 
Lo studio legale di John Travolta si trova ora in una posizione di forza. 
 
Siamo al minuto 48.08 e ancora una volta la voce fuori capo lascia intravedere – o meglio: anticipa – alcune conseguenze del difetto fatale.
 
“Avete più probabilità di sopravvivere alla roulette russa che di vincere una causa in dibattimento.
Ne avete dodici volte di più. E allora perché tutti lo fanno? Non lo fanno: si accordano.
Delle 780.000 cause promosse ogni anno, solo 12.000, cioè l’1,5% giungono a sentenza.
L’epilogo logico di ogni azione legale è la transazione, obbligare la parte avversa a trattare.
I dibattimenti sono uno stravolgimento dell’intero apparato
e solo gli sciocchi con qualcosa da dimostrare vi rimangono intrappolati.
E quando dico qualcosa da dimostrare non intendo riguardo al caso in oggetto.
Intendo a sé stessi”
 
Quindi, sebbene a prezzo di una certa ineleganza stilistica, veniamo a conoscenza di un’informazione dirimente: transare è l’unica scelta razionale, andare a processo è una follia.
 
Veniamo pure a sapere che chi va a processo lo fa solo per dimostrare qualcosa a sé stesso. Già. E siccome è proprio lì che John Travolta si ritroverà – a sostenere un processo giudiziario – c’è da chiedersi cos’è che debba dimostrare a sé stesso. Siamo sul crinale tra il difetto fatale e la posta in gioco, e conviene sicuramente rinviare il punto al paragrafo successivo, ma era utile rilevarlo sin d’ora.
 
Proseguiamo, e arriviamo al segmento della narrazione che va dal minuto 57.38 al minuto 1.04.33: l’inizio e lo sviluppo del processo.

John Travolta è alle prese con un testimone ostico, che dà la sensazione di sapere molte cose ma di non volerle dire, o peggio, di essere reticente, di dire solo ciò che vuole lui e occultare il resto.
 
La micro-scena nei bagni del tribunale – in una pausa dell’interrogatorio – è densa di contenuti sul difetto fatale di John Travolta.
 
John Travolta: “Gli faccio dire no-no-no-no, e poi se dice sì anche una sola volta, crolla”
Socio: “Non è così stupido”
Altro socio: “Stai attento: se lo tieni lì abbastanza a lungo, quello trova il modo di inchiodare te”
John Travolta: “Non sono così stupido”
 
Osserva l’eleganza nella simmetria delle battute: da un lato il “non è così stupido”, detto dal socio di John Travolta per metterlo in guardia dal testimone, dall’altro il “non sono coì stupido”, detto da John Travolta di sé stesso.

John Travolta continua a sentirsi sicuro di sé, ma non si rende conto che la sua sicurezza – e non da ora – è tracimata in una sicumera che non sta producendo nulla di buono (e che lascia intravedere cose anche peggiori).

E infatti il presagio dei soci si realizza: John Travolta finisce con l’esser messo all’angolo dal testimone reticente, perché l’eccessiva sicurezza con cui lo ha interrogato ha indirizzato la testimonianza in una direzione opposta a quella desiderata.

Ma – insomma – qual è il difetto fatale di John Travolta?
 
Vengono sparsi degli indizi, si dà qualche indicazione, da cui rimane però complicato risalire a una esatta caratterizzazione.
 
Così ci si è tolti d’impaccio ideando un montaggio in parallelo che culmina con la dichiarazione esplicita del difetto fatale in una battuta di dialogo.

Dal minuto 1.00.12 al minuto 1.04.33 la telecamera oscilla tra l’aula del processo, dove è in corso il dibattimento, e un’aula universitaria dove Robert Duvall sta tenendo una lezione di vita, più che di diritto.

Vediamo Robert Duvall istruire i suoi studenti sulle scaltrezze da avere in un processo, e poi, spostandoci in tribunale, vediamo come lui stesso le attua; lo vediamo mettere in guardia gli studenti da alcune ingenuità comportamentali, e, tornando in aula, vediamo John Travolta cadere passo dopo passo in quelle ingenuità; siamo al passaggio del film in cui le conseguenze del difetto fatale diventano cristalline, e l’inadeguatezza di John Travolta al “nuovo mondo” è massimamente evidente.

E proprio in una delle lezioni di Robert Duvall si palesa il difetto fatale di John Travolta.
 
“Ora, il punto più debole di ogni avvocato è l’orgoglio.
L’orgoglio, signori…
L’orgoglio ha fatto perdere più cause delle prove scadenti,
testimoni idioti e dei giudici forcaioli messi assieme.
Non c’è assolutamente posto per l’orgoglio, in un’aula di giustizia

Il difetto fatale di John Travolta è l’orgoglio, e tutti i suoi comportamenti a cui abbiamo visto finora – e che vedremo in seguito – altro non sono che particolari manifestazioni dell’orgoglio, di quel “sentimento unilaterale ed eccessivo della propria personalità, che isola lindividuo o ne altera i rapporti sociali o affettivi: fiero, smisurato, vano, fatuo orgoglio”, per riprendere la definizione della Treccani.
 
 
Gli autori avevano d’altra parte allertato gli spettatori già al minuto 49.10, quando la situazione sembrava ancora favorevole a John Travolta, e Robert Duvall lo era andato a trovare sul luogo incriminato, per proporgli un patteggiamento.

Robert Duvall: “Si liberi di me: mi dica cosa ha in mano,
io staccherò un assegno, e ognuno se ne andrà per la sua strada”
John Travolta: “Le mie spese. Lei si offre di coprire le mie spese…”
Robert Duvall: “Le sue spese e il suo orgoglio”
 
Il difetto fatale di John Travolta è l’orgoglio, e al riguardo ti propongo l’analisi dell’uomo orgoglioso di Adam Smith, nella Teoria dei Sentimenti Morali.
 
 
Certo, il John Travolta che vediamo nei primi minuti del film non è propriamente un esempio di uomo sincero – anzi, tutt’altro – ma il suo tratto ipocrita è circoscritto al solo inizio e non tornerà più in seguito.
 
Per il resto, il ritratto di Smith della persona orgogliosa è un calco pressoché perfetto della personalità di John Travolta, come diventerà chiaro con l’analisi della posta in gioco.

La posta in gioco: per cosa si lotta?

John Travolta: “Diranno la verità”
Robert Duvall: “La verità? Oh! Credevo stessimo parlando del processo. Andiamo!
Esercita da abbastanza tempo per sapere che in tribunale non c’è posto per la verità.
Uno può già dirsi fortunato se qui trova qualcosa che somiglia alla verità.
Non è d’accordo? Beh, e da quando?”
John Travolta: “Otto ragazzini morti”
Robert Duvall: “Quel vestito le si addice molto di più del sentimentalismo, molto di più.
Non è col cuore che ha fatto i soldi in questi anni, dico bene?
Sa quando questo caso ha smesso di riguardare bambini morti?
Quando ha presentato denuncia, nell’istante in cui è entrato nel sistema giudiziario. Eh, sì! 
Si, lo so, a lei piace il gioco d’azzardo, è uno che punta forte, è un professionista.
Facciamo così: misuriamo la sua ritrovata fiducia nell’equità dei tribunali civili
con un grossa puntata, qua ecco” [Mette una banconota da 20 dollari sulla panca]
John Travolta: “Se è un offerta di transazione, non bastano”
Robert Duvall: “Va bene, allora… e se io aggiungessi sei zeri a questa cifra? Sarebbero… quanti? Venti milioni di dollari. Allora, riesce adesso a guardare le cose da un punto di vista più concreto e lasciar perdere verità, giustizia e bambini sfortunati?”
 
Parlare della posta in gioco è qui un esercizio di una certa complessità.

Non c’è dubbio che – at the end of the story – John Travolta abbia lottato per la verità, la cui affermazione era strumentale alla sua auto-realizzazione.
 
Le scene sono chiarissime nel comunicarlo. Accettare una transazione significherebbe rinunciare a sapere come sono  andate realmente le cose, rinunciare alla verità e a quel che la verità significa per John Travolta. E questo è esattamente ciò che vuole l’antagonista Robert Duvall: “se veramente cerca la verità, la cerchi dove si trova: al fondo di un pozzo senza fondo” è la battuta spettacolare che rivolge a John Travolta – dopo averlo sollecitato a essere più pragmatico, con un’offerta da 20 milioni di dollari – che toglie ogni incertezza.

John Travolta vuol portare in luce la verità per un puro senso di giustizia, Robert Duvall vuole invece occultarla in linea con i tipici compromessi di un accordo negoziale.

Ovvio, sì, ma serve arrivare alla fine del film per capirlo.

Quando John Travolta accetta la chiamata, nel momento in cui entra nel “nuovo mondo”, nessuno spettatore ha questa sensazione. Fino a quel momento abbiamo visto un John Travolta preoccupato esclusivamente di trarre il massimo profitto dalle cause in cui è coinvolto. Non c’è nulla – nelle scene del film viste sino a quel momento – che possa anche solo lontanamente far pensare a un John Travolta paladino della verità in nome della propria auto-realizzazione.
 
Per l’ennesima volta – a prova di scemo – ecco arrivare la solita voce fuori campo a comunicarci l’interiorità di John Travolta, al minuto 20.34.
 
“Sì, lo so, non abbiamo sentimenti, né compassione,
nessuna condivisione delle sofferenze con il cliente, ma posso dirle una cosa?
Dove sta scritto che dovremmo averle?
Anzi, l’avvocato che partecipa alle pene del cliente, secondo me,
gli procura un grosso danno: andrebbe interdetto, radiato dall’ordine,
in quanto ormai privo di discernimento.
Uno così è utile al suo cliente quanto per un ferito lo è il dottore che inorridisce alla vista del sangue”

Non sembra proprio l’atteggiamento di chi è preoccupato della verità, di ciò che l’affermazione della verità rappresenta per la propria autorealizzazione.

E allora? Come la mettiamo? La posta in gioco non dovrebbe diventare chiara intorno al primo 25% dell’opera?

A civil action ha sicuramente le sue complessità, e c’è un punto di teoria da registrare, per capire come stiano le cose.

Nella versione standard dell’arco, il protagonista è perfettamente consapevole della posta in gioco e inconsapevole (o vagamente consapevole) di avere un difetto fatale che non gli permette di difenderla come dovrebbe.

Se un uomo sta lottando per non perdere l’amore della sua donna, beh, lo saprà bene che ciò che vuole è l’amore della donna, ti pare? Solo che il suo difetto fatale (che non sa di avere) lo sta allontanando dall’obiettivo.

E dove lo sta portando? Magari da nessuna parte. Semplicemente gli impedisce di difendere la posta in gioco, e la cosa finisce lì, col difetto fatale che fa quel che deve fare: minacciare direttamente la posta in gioco.

Oppure – e siamo al punto – il difetto fatale può indirizzare il personaggio verso la difesa di una falsa posta in gioco: il personaggio lotta per difendere qualcosa a cui non è realmente interessato, ma da cui viene attratto dal suo difetto fatale

Ritornarono le parole di Robert McKee sui travagli che agitano il protagonista – già citate nella spiegazione del Terzo Atto – che ora possiamo qualificare in senso tecnico.

I personaggi più memorabili e affascinanti tendono in ogni caso ad avere non soltanto un desiderio conscio, ma anche un desiderio inconscio. Sebbene questi protagonisti complessi siano inconsapevoli del proprio bisogno inconscio, il pubblico lo avverte in quanto percepisce la loro contraddizione interna. I desideri consci e inconsci di un protagonista a più dimensioni si contraddicono tra loro. Ciò che crede di volere è l’antitesi di ciò che realmente, ma inconsapevolmente, vuole”.
 
Il difetto fatale – per dirlo in breve – spinge verso un desiderio conscio (la falsa posta in gioco) a danno di un bisogno inconscio (la posta in gioco). 

Il difetto fatale di John Travolta è l’orgoglio. E quali sono le conseguenze dell’orgoglio? Cosa sei portato a difendere, quando sei orgoglioso?

Al solito, non dobbiamo inventarci nulla, tutto ciò che cerchiamo deve essere presente nell’opera; e se non si trova nell’opera, in modo chiaro e inequivocabile, allora non è legittima nessuna inferenza per estrapolazione di idee precostituite.

Calma e gesso
, come dicono i giocatori di biliardo.

Nello status quo abbiamo visto un John Travolta chiaramente interessato al denaro, perché il denaro è al centro del suo lavoro e la sua bravura la dimostra denaro: denaro, denaro, e ancora più denaro, per indennizzare i suoi clienti.
 
Però osserva: l’ultima volta che vediamo John Travolta in fibrillazione per il denaro è al minuto 15.05, nel suo studio, appena ritornato dal colloquio con i genitori, quando con i suoi soci fa le pulci ai bilanci delle due aziende e immagina delle straordinarie possibilità  di risarcimento. Stop. La prospettiva del denaro, da quel momento in poi, forse non si ecclissa del tutto nell’animo di John Travolta, ma sicuramente scompare dai radar dello spettatore: non solo non vediamo più John Travolta interessato al denaro, ma lo vediamo sempre più disinteressato.

Puoi verificarlo in autonomia (anzi, è un esercizio che ti suggerisco di svolgere). Io ti segnalo solo il passaggio nodale (minuto 1.20.58, quando il disinteresse per il denaro diventa chiaro) e il momento finale (minuto 1.27.36 in cui il disinteresse viene esplicitamente dichiarato).
 
Socio: “Ogni dollaro che spendiamo è un dollaro che non abbiamo.
Ci teniamo a galla grazie al credito e senza salvagente”
John Travolta: “Non mi serve il salvagente: vendi casa mia, non mi interessa”
Socio: “Già fatto”
 
 
 
John Travolta: “Fammi un favore, ti dispiace? Sta zitto”
Socio: “Cosa?”
 John Travolta: “Sono stanco di sentirti lamentare continuamente per i soldi.
Non è più una faccenda di soldi, ormai”
 
Togliti quindi dalla testa – semmai lo avessi pensato – che John Travolta sia interessato al denaro, a ciò che il denaro rappresenta nella nostra società, e ai significati reconditi che il denaro può avere, qualunque essi siano.

Non è il denaro che interessa a John Travolta, proprio no.

E quindi? Cos’è che gli interessa? Dove lo sta portando l’orgoglio? Cosa sta difendendo a causa del suo difetto fatale? Qual è la falsa posta in gioco?

Ce lo dicono le scene del film: minuto 16.00, minuto 21.49, minuto 1.22.43.
 
 … con i loro tappeti persiani, le lauree ad Harvard incorniciate e appese alle pareti
Come qualunque bullo prepotente… ma io non mi spavento davanti ai bulli”

 
 
John Travolta: “Lo scopo vero di questa istanza
è quello di volermi fare apparire ai suoi occhi non all’altezza della situazione,
e questo sin dal principio”.
Giudice: “Ah, si?”
John Travolta: “Certo: con quella istanza si vuole dimostrare che loro conoscono la legge, e io no;
che loro sono dei veri avvocati, e io no; cercano solo di screditarmi”
 
 
 
John Travolta: “Non ero mai stato qui, quindi—”
Avvocato: “Come non è mai stato qui?! E che uomo di Harvard è?”
John Travolta: “Uomo della Cornell”
Avvocato: “Della Cornell… credevo avesse studiato ad Harvard”
John Travolta: “Uhm…”
Avvocato: “Eppure qualcuno me l’ha detto, sì… che lei si era laureato ad Harvard”
John Travolta: “Uhm…”
Avvocato: “Alla Cornell…”
John Travolta: “Eh, già!”
Avvocato: “Vabbè, senta… la Cornell è comunque un’ottima università, molto buona”
 
È chiaro, ora, per cosa sta combattendo consciamente John Travolta?

Riesci a vedere dove lo sta portando il suo difetto fatale?

Hai capito qual è la falsa posta in gioco che lo sta sviando dall’uniuca, autentica, posta in gioco della storia?

John Travolta è orgoglioso, e come ogni persona orgogliosa cerca il rispetto dei suoi pari, degli altri avvocati, a cui non si sente inferiore solo perché loro hanno studiato ad Harvard e lui alla Cornell (un’università nata nel 1865 con l’obiettivo di offrire un alto livello d'istruzione senza discriminare gli studenti in base a razza, religione o idee politiche) o perché gli altri hanno studi legali molto grandi e il suo invece è piccolo.

L’orgoglio di John Travolte vuole – pretende – il rispetto di Robert Duvall, del giudice, degli altri avvocati di Harvard, e sin anche dell’avvocatucolo: perché lui, John Travolta, non si sente inferiore  a nessuno di loro e vuol esser riconosciuto come un loro pari.

La posta in gioco è l’auto-realizzazione che proviene dall’affermare la verità – uno stato d’animo che basta a a sé stesso e non chiede altro – ma l’orgoglio distrae il protagonista e lo spinge a inseguire il rispetto, che è la falsa posta in gioco
 
Si può dire – in generale – che si crea una falsa posta in gioco tutte le volte che il protagonista fa la cosa giusta (in questo caso ricercare la verità) per il motivo sbagliato (avere il rispetto dei proprio pari) anziché per quello corretto (sentirsi intimamente appagato).
 
Se ci pensi, è la stessa situazione vissuta da April in Feel the beat: anche in quel caso la protagonista stava facendo la cosa giusta (insegnare a ballare a delle ragazzine, per condurle alla vittoria nella competizione) per il motivo sbagliato (la propria auto-realizzazione come ballerina, che peraltro si scoprirà funzionale alla difesa dell’amore materno) anziché per quello giusto (la difesa del senso di appartenenza, il sentirsi parte di una famiglia insieme alle ragazzine, alla sua insegnante e al fidanzato).

John Travolta dovrà quindi liberarsi dalla soggezione verso i vari “Mr. Harvard” sparsi nella storia, se vorrà raggiungere la verità e, con essa, portare il salvo la sua auto-realizzazione.

La complessità con cui il difetto fatale agisce nel pilotare le azioni di John Travolta giustifica la comprensione graduale della posta in gioco, e dona una notevole eleganza all’intera vicenda.
 

L'inversione di valori

Socio: “Che significa?”
John Travolta: “Che non vogliono raggiungere un accordo, direi”
Socio: “Che NON vogliono. Dicevi che non saremmo arrivati al processo,
ora ti sei procurato la certezza che si sarà, e senza consultarci, potrei aggiungere”
John Travolta: “Ostentano superiorità, ci considerano ricattatori. E ci vogliono comprare”
Altro socio: “E allora?”
Socio: “Non abbiamo i mezzi per sostenere un processo lungo”
John Travolta: “Davvero? Trova il modo di procurarteli, Gordon”
Socio: “Tu che suggerisci?”
John Travolta: “Non sono io il consulente finanziario, mi pare”
 
Minuto 50.36: John Travolta è in macchina, su un ponte, sotto la pioggia, e riceve la telefonata entusiasta di un socio che lo informa della volontà dei due studi legali di sedersi al tavolo a negoziare, a transare; esattamente ciò che John Travolta sa fare meglio, in cui è specializzato, con esisti eccellenti come abbiamo visto nella scena iniziale; è fatta, bisogna solo andare a dama.
 
John Travolta rimane fermo in auto, sotto la pioggia, e rivive mentalmente la testimonianza più drammatica resa da uno dei genitori durante le deposizioni iniziale, a cui non ha caso il film dedica parecchio tempo (dal minuto 32.10 al 35.44): i tentativi inutili del padre di salvare il figlio durante la corsa in ospedale, la disperazione della madre, il bambino che muore sotto gli occhi ei genitori, il dolore che li devasta.

Lo ritroviamo seduto al tavolo con le controparti, ad avanzare le sue richieste: 25 milioni di dollari in contanti (e la telecamera si sposta altri avvocati, che sembrano trovare la richiesta ragionevole) a cui però si devono aggiungere altri 25 milioni per istituire una fondazione per la ricerca sui rapporti tra malattie e rifiuti tossici (e le facce dei soci di John Travolta mostrano tutta la sorpresa per questa richiesta aggiuntiva) più 1,5 milioni di dollari l’anno per famiglia, per i prossimi trent’anni (e le facce di tutti, ora, esprimono sgomento).

Totale: 320 milioni di dollari, una richiesta formulata al solo scopo di farsi dire di no (e ti invito a notare come la faccia dell’avvocatucolo esprima condivisione alla richiesta iniziale di 25 milioni e sembra ancora possibilista, per quanto dubbiosa, quando ne vengono aggiunti ulteriori 25; ma la coda finale – una rendita trentennale da 1,5 milioni l’anno per ogni famiglia – rende la transazione oggettivamente inaccettabile).
 

Robert Duvall si alza e va via, non senza un colpo di teatro (minuto 55.04: riguardalo, è fenomenale) seguito dall’avvocatucolo.

Transare, d’altra parte, significherebbe rinunciare alla verità. Qual è il prezzo monetario della verità? Non c’è, ovvio. La verità è irriducibile a una somma di denaro, non importa quanto elevata.

Quindi la sola cosa sensata da fare è piazzare la richiesta così in alto da non poter essere accettata, per poter continuare a inseguire l’unica cosa che conta – la verità – e in nome della quale si è disposti ad accettare tutti i sacrifici che la situazione imporrà, perché la verità trasporta la posta in gioco, e nulla è importante come la posta in gioco, perché la posta in gioco è come il Re negli scacchi: se lo perdi il gioco finisce.
 

Il triplice conflitto

A civil action è un esempio eccellente di cosa sia l’unitarietà del triplice conflitto che caratterizza il Secondo Atto.

Abbiamo sotto i nostri occhi un chiaro conflitto esterno (lo studio di John Travolta contro gli altri due studi legali) che tra alti e bassi non sta comunque andando come John Travolta sperava.

Perché? Solo per sfortuna? Perché gli altri avvocati sono più bravi? Perché la vita è ingiusta e il mondo è cattivo?

No. Il conflitto esterno si sta rivelando perdente perché le azioni del protagonista sono distorte da un conflitto interno irrisolto, dal suo difetto fatale, dal comportarsi nel “nuovo mondo” come se si trovasse ancora in una realtà, dove gli altri avvocati lo implorano di accettare le loro offerte, scrivendo “Please!” su un post-it.

Il conflitto interno irrisolto (la presenza del difetto fatale) impatta direttamente sul buon esito del conflitto esterno (la causa legale); ma il fatto che le cose non stiano andando come previsto (che nel conflitto esterno si incassano più sconfitte che vittorie) compromette i rapporti con i soci dello studio, crea cioè un conflitto di relazione, che per altra via viene alimentato autonomamente dal difetto fatale del protagonista.

Si crea una spirale di negatività in cui ogni elemento è causa ed effetto di altri elementi, un micidiale gioco di specchi in cui ogni cosa amplifica le altre e dalle altre viene amplificata, cosicché il meccanismo si avvita su sé stesso, procede da solo, apparentemente fuori controllo, sino al disastro.
 
Dal minuto 1.07.34 al minuto 1.11.16:
Robert Duvall infligge un colpo mortale a John Travolta.
Con un’argomentazione pulita, raffinata, di pura logica, 
convince il giudice a far subordinare le testimonianze della famiglie
agli esiti di un questionario da sottoporre alla giuria:
se la giuria riterrà che l’inquinamento delle acque non è evidente,
allora le famiglie non testimonieranno, per evitare di rinnovare inutilmente un dolore.
La giuria scagionerà la “Beatrice”, difesa da Robert Duvall,
e terrà dentro il processo solo la “Grace”, difesa dall’avvocatucolo.
 
  

Minuto 40.26:
il consulente finanziario dello studio legale di John Travolta realizza quanto sta costando la causa.
È la prima manifestazione del conflitto di relazione.



Minuto 1.05.04.
Dopo una breve e lieve flessione del conflitto di relazione, tutto va di male in peggio:
vediamo il consulente finanziario passare l’aspirapolvere perché ha licenziato le signore delle pulizie;
lo vediamo tentare la fortuna con i biglietti della lotteria;
e poi donare un centinaio di dollari a un predicatore
che aveva assicurato che “donando si riceve”.
E infine lo troviamo di fronte al banchiere di fiducia, a chiedere un nuovo prestito,
offrendo come garanzia le monete d’oro della sua collezione
e gli atti di proprietà delle case di tutti i soci dello studio.
 
 
 
Minuto 1.26.40: l’apice del conflitto di relazione, prima della rottura definitiva.

Socio: “Voglio sapere per che cosa ho dovuto rinunciare a casa mia, ai miei soldi, alla mia vita…
Sono stufo di starti a sentire, ho perso abbastanza per colpa tua… Io non ho più niente…
Difendi pure i principi della legalità, affonda pure tra le fiamme, tanto non me ne frega un cazzo!
Ma la prossima volta – la prossima volta… sì… mi viene da ridere –
chiedicelo se vogliamo affondare insieme a te!”
 
 
 
Dal minuto 1.25.49 al minuto 1.26.37: il fuoco amico.
Uno splendido montaggio alternato
 mostra come i soci di John Travolta stiano di fatto dalla parte dell’antagonista:
parlano e ragionano esattamente come il nemico.
John Travolta è rimasto solo.

Ma è il difetto fatale la causa ultima di tutto: ogni conflitto esterno altro non è che la manifestazione del conflitto interno, che impedisce la corretta visione del nuovo mondo, e quindi compromette la qualità delle azioni che si intraprendono.

Certo, rimuovere il difetto fatale non basta – serve poi riconfigurare la propria mentalità e farsi trovare pronti all’azione – ma nulla può sortire effetti positivi, e quindi ha senso, finché il difetto fatale continua a inquinare i comportamenti del protagonista.
 
Dipende solo da lui, da John Travolta, invertire la direzione della spirale. Nessuno dice che sia facile, ma il punto rimane: gli esiti dipendono sostanzialmente dalle scelte del protagonista, che sono sempre sotto il suo sostanziale controllo, per quanto sia complicato fare la scelta giusta.
 

L'esperienza di morte

Socio: “Signora Anderson, lei ha davanti quattro persone sul lastrico:
abbiamo perso tutto, patrocinando questa causa”.
Signora Anderson: “Con che coraggio si permette di paragonare
quello che avete perso voi con quello che abbiamo perso noi?”
 
L’esperienza di morte arriva al minuto 1.30.35: la voce fuori campo del giudice annuncia la chiusura del processo, a seguito di una raggiunta transazione tra le parti.
 
Nella scena immediatamente successiva vediamo i quattro soci dello studio seduti davanti alle famiglie.
 
Al centro – con diritto di parola – non c’è più John Travolta, ma il socio col ruolo di consulente finanziario (con cui John Travolta ha vissuto i più accentuati conflitti di relazione) a segnalare la mutata gerarchia.
 
Il socio spiega i termini dell’accordo, fa presente che lo studio legale è sul lastrico, ma tutti – su proposta di John Travolta – hanno comunque accettato di ridursi gli onorari, a favore dell’indennizzo alle famiglie. Ciò che rimane, alla fine dei conti, sono 375 mila dollari per ogni famiglia.
 
Se il denaro è il modo con cui certa gente chiede scusa – e le famiglie volevano solo delle scuse – allora bisogna riconoscere che queste scuse sono assai poco significative.
 
John Travolta: “Eppure qualcuno deve aver visto qualcosa…
quello che hanno fatto non lo fai senza che nessuno veda niente!”
Socio: “Ci stai ancora pensando… il caso è chiuso”
John Travolta: “Ora capisco: quando hai detto ‘è chiuso’ intendevi ‘è finita’.
Devo imboccare anch’io una strada separata”
Socio: “Hai sempre fatto una strada separata”

La posta in gioco sembra definitivamente persa: la transazione ha messo fine al processo, il caso è chiuso e passato agli archivi, la verità è stata ecclissata e non ci sarà mai giustizia per le famiglie, John Travolta sembra davvero aver fallito nell’obiettivo di dare un senso alla propria esistenza.
 
E tuttavia, nella scena che conclude i momenti successivi all’esperienza di morte, vediamo un John Travolta che ancora non si rassegna: “Eppure qualcuno deve aver visto qualcosa… quello che hanno fatto non lo fai senza che nessuno veda niente!”.
 
Lo abbandona anche il socio con cui era in rapporti migliori, non prima di avergli rinfacciato che lui, John Travolta, ha sempre fatto di testa sua, ha sempre percorso una strada a parte, com’è tipico degli orgogliosi, e come in fondo gli avevamo visto fare sin dal principio, quando, di testa sua, aveva rifiutato di transare a 1 milione di dollari (ma averne poi guadagnato il doppio aveva fatto dimenticare ogni cosa, come se il successo purificasse tutto).
  

Il momento di trasformazione e il climax

“Se anche voi calcolate il fallimento e il successo come io ho sempre fatto,
in dollari e centesimi divisi equamente per la sofferenza umana,
l’aritmetica mi dice che ho fallito completamente.
Quello che non vi dice è che se potessi in qualche modo tornare indietro con quello che ora so,
conoscendo già la fine che farei, lasciandomi coinvolgere completamente in questa avventura,
conoscendone la posta in gioco, tutti i rischi e le varie sfumature… lo rifarei!”

Il tratto che va dall’esperienza di morte al momento di trasformazione è forse il più problematico di ogni opera, soprattutto se si è deciso di alzare il voltaggio.
 
Perché un protagonista ormai stroncato, deluso, demoralizzato, fiaccato in tutte le sue forze, decide di provarci ancora? Cos’è che lo rimette in piedi, quando ormai è steso e privo di energie? Dove trova le motivazioni necessarie per rialzarsi e tornare e a combattere, se ormai è nell’ordine di idee di consegnare la posta in gioco all’antagonista?

A civil action si propone ancora come caso di scuola.

Ricapitoliamo. John Travolta vuole sì la verità, ma la vuole per il motivo sbagliato: non per affermare un reale senso di giustizia con cui auto-realizzarsi, ma solo per mostrare al mondo che lui non vale meno degli avvocati di Harvard, che il suo piccolo studio legale ha lo stesso prestigio dei grandi studi contro cui sta lottando. Lui crede di inseguire un ideale, ma in realtà sta solo difendendo quel rispetto che sente di dover avere, e che verrebbe meno se accettasse una qualsiasi transazione (che lo farebbe apparire come il solito bracca-barelle, solo un po' più esoso)

Nella scena più drammatica del conflitto di relazione (dal minuto 1.26.40 al minuto 1.29.34) assistiamo a uno scambio di battute con un socio (il consulente finanziario) di per sé auto-esplicativo.

John Travolta e i suoi soci hanno fissato il punto di rottura a 8 milioni di dollari: se la “Grace” offre almeno 8 milioni, allora si transa e il processo si chiude. E quanto offre la “Grace”? Esattamente 8 milioni! Potrebbero pagare di più senza problemi – spiega il loro avvocato di Harvard – ma pagare di più significherebbe ammettere la colpa e incentivare le azioni legali di tanti altri avvocati-avvoltoi convinti di poter spremere denaro a piacimento dalla multinazionale. E questo non è ammissibile. A 8 milioni si chiude.
 
E John Travolta cosa fa? Rifiuta senza consultare i soci con cui aveva concordato gli 8 milioni come soglia per accettare l’offerta della controparte.
 
Socio: “Accetteresti, ora come ora, un’offerta da dieci milioni di dollari?”
John Travolta: “Sì”
Socio: “Otto invece no”
John Travolta: “No”
Socio: “No. Quindi a dieci milioni di dollari è una sorta di mitico scontro,
ma ad otto è l’ennesima causa per danni”
John Travolta: “Se sono disposti a pagarne otto, vuol dire che sono pochi”
Socio: “Una deduzione geniale”
John Travolta: “Un ragionamento che fila”
Socio: “Quindi l’unica offerta che accetterai è quella che non sono disposti a farci.
Non ne cogli l’assurdità?”
 
Sembra assurdo, ma non lo è, se adottiamo il punto di vista di John Travolta.
 
Transare significa perdere tutto ciò per cui si sta lottando; vuol dire rinunciare alla verità e con essa alla propria auto-realizzazione (se pensiamo alla vera posta in gioco) e comunque vedersi negato il rispetto degli altri avvocati (se guardiamo alla falsa posta in gioco) per essere percepito come un semplice bracca-barelle: significa in ogni caso gettare la spugna dopo aver mostrato a tutti che, pur prendendo botte, si è saputi rimanere in piedi contro gli avvocati di Harvard.
 
Ma alla fine – dopo tanto girovagare – è esattamente lì che si è finiti: a transare (per di più con un indennizzo ridicolo, appena 375.000 dollari per famiglia).

La posta in gioco è persa, almeno in apparenza.

Ma in realtà la transazione ha smazzato via soltanto la falsa posta in gioco.

Ora, a transazione conclusa, è svanito quel minimo di rispetto degli avvocati di Harvard potevano avere per John Travolta, e di sicuro non può più essere recuperato: John Travolta è e rimarrà un perdente ai loro occhi, e per di più un perdente stupido, che ha ripetutamente rinunciato a offerte economiche vantaggiose, per ritrovarsi in mano con poco più di niente.

E ora che il difetto fatale (l’orgoglio) non ha più il suo attrattore (il rispetto) non ha più neanche ragione di esistere: arrivati a questo punto non ha più senso mantenere un atteggiamento orgoglioso (verso chi, d’altra parte?). Il difetto fatale si affloscia su sé stesso, una volta che vengono meno le circostanze esterne che a vario titolo lo giustificavano. E tutto si riconfigura all’istante.
 
Dal minuto 37.30 al minuto 39.46 – nel corso della fase di salita del Secondo Atto – abbiamo assistito a un confronto piuttosto aspro tra John Travolta e un testimone poco collaborativo, dall’atteggiamento sprezzante e provocatorio.
 
John Travolta gli rivolge una domanda, lui rimane in silenzio e, sollecitato a rispondere, prende un bicchiere d’acqua e lo versa sul tavolo.
 
John Travolta: “Le ho fatto una domanda, insisto”
[Il testimone versa un bicchiere d’acqua sulla scrivania] 
John Travolta: “Sia messo a verbale che il teste ha versato di proposito
un bicchiere d’acqua sul mio tavolo.
Perché ha fatto questo gesto?
Perché ha bagnato di proposito il mio tavolo da riunioni?”
Testimone: “Per dire che è così che il silicone viene applicato al cuoio per impermeabilizzarlo.
Ho risposto alla sua domanda”
John Travolta: “Viene versato come… come lei ha versato l’acqua sul mio tavolo?”
Testimone: “Sì, esatto”
John Travolta: “Perciò, una parte cola dal cuoio fino a terra,
come l’acqua che è colata sul mio tavolo, finendo sul mio tappeto”
 
John Travolta si alza e con un panno toglie l’acqua dal tavolo: siamo al minuto 38.57 e il nostro protagonista ha a portata di mano la soluzione del caso; sotto i suoi occhi, e nel suo stesso gesto, c’è il modo per inchiodare gli antagonisti; ma lui non lo vede, non lo coglie, perché ancora prigioniero del suo difetto fatale (che gli impedisce una visione nitida di una situazione di per sé chiarissima).

Ti invito a notare la ricorrenza dell’aggettivo possessivo mio nello spazio di poche battute: il mio tavolo, il mio tavolo, il mio tavolo, il mio tappetto. Questa insistenza non è casuale. Mio è la naturale estensione di io, e io è il centro di ogni persona orgogliosa. È una finezza notevole, per far capire quanto possa essere devastante il potere del difetto fatale: John Travolta è cieco, in senso quasi letterale; è troppo concentrato su sé stesso – un sé stesso che qui prende la forma di un tavolo e di un tappeto – per accorgersi che lui stesso sta compiendo un’azione cruciale per indirizzare il conflitto esterno a suo favore.

Solo quando il difetto fatale va in frantumi, e solo allora, John Travolta capisce.
 
È in un fast-food – un luogo che da solo restituisce il mutato stile di vita – e la sua attenzione è attratta da un ragazzino che ha versato dell’acqua sul tavolo. Rielabora l’episodio a casa, mentre sta mangiando: rivede l’acqua cadere sul tavolo e la cameriera che arriva a pulire; gli torna in mente l’episodio accaduto nel suo studio con il testimone ostile, e il cerchio si chiude.
 
Minuto 1.35.54: la scena del fast-food,
dove John Travolta finalmente vede ciò che il difetto fatale gli aveva occultato.
 
“Togliere l’acqua dal tavolo” fa scopa con “togliere le sostanze inquinanti dall’acqua”: non bisognava cercare chi aveva versato l’acqua sul tavolo (chi aveva inquinato le acque) ma chi lo aveva pulito (chi aveva tentato di porre rimedio al disastro ambientale).

E John Travolta sa bene da chi andare, per farsi raccontare tutto: un operaio che – a dispetto di un tentennamento iniziale – non vedeva l’ora di vuotare il sacco, come testimoniamo i ritagli di giornale sul “caso Woburn” che tiene appesi allo sportello del frigo.
 
“Le è mai successo di essere vicinissimo alla cosa che cercava e di non riuscirla a vedere?
Io ho continuato a cercare qualcuno che avesse visto vuotare quei fusti di veleni,
quando invece avrei dovuto cercare quelli che… avevano aiutato a pulire”

Ho le prove, ma non più le risorse, o la temerarietà necessaria per impugnare in appella la sentenza” sentiamo dire dal nostro protagonista al minuto 1.43.27.

Ma non ha più neppure il difetto fatale, non ha più l’orgoglio. E quindi, sì, non può più fare nulla, in prima persona, ma può ancora affidare ad altri – all’Ente per la Protezione Ambientale – “l’ingombrante documentazione” sul processo.
 
Per quanto le probabilità siano sfavorevoli – 10 contro 1, “quasi non esiste gioco d’azzardo o casinò in qualsiasi parte del mondo che offra una puntata altrettanto svantaggiosa” – bisogna comunque tentare, perché la posta in gioco si difende sempre sino alla fine, non importa quanto male si siano messe le cose, e perché si perde solo se e quando si decide di arrendersi, mai prima.
 
Non importa – non ha davvero più nessuna importanza – se saranno altri a godere e beneficiare delle luci della ribalta e dei vantaggi materiali di un’eventuale vittoria in appello.

Conta solo salvare la posta in gioco, affermare la verità in un’aula giudiziaria, senza riguardo verso chi ci riesca.

Solo chi ha rinunciato al suo orgoglio può ragionare così e agire di conseguenza.
   

Epilogo

Giudice: “Quello che lei pretende di far credere ai suoi creditori, con questa istanza,
francamente è difficile da accettare”
John Travolta: “Lo so”
Giudice: “Dopo diciassette anni di esercizio della professione forense,
lei possiederebbe soltanto 14 dollari in un conto corrente e una radio portatile?”
John Travolta: “Esatto”
Giudice: “E dove sono finiti?”
John Travolta: “I soldi?”
Giudice: “I soldi, i beni immobili, gli effetti personali…
le cose che uno acquisisce nel corso di una vita,
le cose in base alle quali uno misura la propria vita.
Che cosa ha combinato?
 
L’epilogo è costruito “a specchio” rispetto all’incipit, e con notevole raffinatezza, per evitare che una simmetria eccessiva finisse col rivelarne la struttura.

Avevamo conosciuto John Travolta in un’aula di tribunale, e lo ritroviamo in un’aula di tribunale.

Lo avevamo apprezzato nella veste di un avvocato battagliero, lo ritroviamo nella veste di un imputato.

Lo avevamo visto strappare un risarcimento di 2 milioni di dollari, lo ritroviamo a dover spiegare come mai non abbia più nulla.
 
Le due situazioni speculari restituiscono – e riassumono – il senso del cambiamento intervenuto nel personaggio lungo la storia, il suo arco di trasformazione.
 
 L’immagine finale del film:
la faccia soddisfatta di John Travolta alla domanda del giudice
su dove siano finiti tutti i beni materiali che danno significato alla vita.
Sono finiti laddove era giusto che finissero:
nella ricerca della verità, per la propria auto-realizzazione. 

Arco eroico o tragico?

 
Tutte le storie parlano di uova che si rompono.

La causa della rottura può essere una forza interna, un moto interiore del personaggio che frantuma il difetto fatale di cui è prigioniero, e lo fa risorgere a nuova vita. Oppure può essere una una forza esterna, a cui il personaggio si oppone senza cambiare, o non cambiando abbastanza o nel modo giusto, e che finisce quindi per distruggerlo.

L’uovo deve rompersi, in un modo o nell’altro. Storie di uova che rimangono intatte, magari senza esser mai state davvero esposte al rischio di rottura, semplicemente non sono storie.

ROTTURA DALL’INTERNO

Difetto fatale superato = Posta in gioco salva = Arco eroico



ROTTURA DALL’ESTERNO

Difetto fatale non superato = Posta in gioco persa = Arco tragico

L’arco di John Travolta è eroico – seppur all’interno di una narrazione che mantiene un tono invariabilmente tragico, in quadro esteriore sempre più desolante – perché la posta in gioco viene salvata in extremis, grazie al cambiamento radicale successivo all’esperienza di morte.


Il midpoint merita qui un approfondimento, perché l’inversione di valori è debolissima, contrariamente alle apparenze, e ci si può spingere a dire che lambisce appena il difetto fatale: ciò che accade al midpoint è il minimo sindacale per far andare avanti la storia.

John Travolta ha rielaborato tutto ciò che è successo fino a quel momento, lo ha condensato nella rievocazione personale di una testimonianza particolarmente toccante di un padre a cui è morto il figlio (a cui è dedicato un minutaggio significativo: da 32.10 a 35.44) e così è scattata l’inversione di valori, dal guadagnare quanto più denaro possibile alla ricerca della verità.

Ma del denaro – come abbiamo notato – non si preoccupava già da un po’. Dal minuto 23.57 lo vediamo ad esempio discutere con un tecnico che gli prospetta la necessità di “una squadra di geologi ed ingegneri, e numerosa anche” per eseguire tutti i controlli del caso; e lui, il nostro protagonista, si limita a un mezzo sospiro, nessuna lamentela, nessuna lagna, nessun pensiero esplicito su quanto costerà arruolare tutti quei professionisti.

Al midpoint viene quindi scardinata solo l’attrattiva per il guadagno, un passaggio necessario per non barattare la verità col denaro, ma il difetto fatale – l’orgoglio, il voler dimostrare a sé stesso di non essere inferiore agli avvocati di Harvard – rimane sostanzialmente intatto. E infatti vediamo John Travolta andare incontro a una sconfitta dietro l’altra –  da tutti i conflitti esce invariabilmente perdente –  perché sostanzialmente il suo difetto fatale è ancora tutto lì.

La trasformazione non è graduale, e di fatto avviene interamente alla fine, quindi è ovvio che – guardandosi alle spalle – si vedono solo macerie. La posta in gioco è salva, sì, ma a quale prezzo? Altissimo, secondo i canoni tradizionali: “non ho soldi né soci e almeno per il momento nemmeno clienti”, dice la voce fuori campo nel comunicare i contenti della la lettera che John Travolta sta scrivendo all’Ente per la Protezione Ambientale (minuto 1.43.36).

Esteriormente è una tragedia, perché tutto è stato perso, in nome della posta in gioco (sono rimasti solo “14 dollari in un conto corrente e una radio portatile”).

Ma questa stessa sproporzione – che conduce a volte a parlare di “arco eroico con forti perdite” – può anche reinterpretarsi come l’esaltazione massima della posta in gioco, perché a ogni perdita materiale fa da contrappeso un guadagno spirituale pari a un multiplo, e forse viene addirittura meno la commensurabilità stessa tra le due cose.

Nulla è stato realmente perso, se non ciò che era un’illusione.

L’arco di trasformazione nella realtà:
il cambiamento del protagonista è stato così profondo e interiorizzato,
da diventare uno stile di vita, lo scopo del proprio stare al mondo.

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