Modulo 24D – Analisi del film “Feel the beat”

 

Istruzioni per l'uso

Devi aver visto il film e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
 
Non puoi pensare di capire le mie spiegazioni, se non ti sei già impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando ora.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver già visto e analizzato il film, altrimenti perdi solo tempo.
 


In linea di principio (e non solo) sei davvero in grado di analizzare il film in autonomia, perché l’arco è cristallino, in tutti i suoi passaggi; avrò quindi un approccio light sugli aspetti macroscopici, per concentrarmi su alcune finezze che possono legittimamente sfuggire; eviterò il riferimento esplicito al minutaggio per non appesantire la lettura, ma la localizzazione delle scene sarà sempre chiara dal contesto.

La storia in un guscio di noce

April è una ballerina brava e determinata, che sogna di arrivare a Broadway; ma la sua carriera sembra finita, dopo un dissidio con una delle figure più potenti dell’ambiente della danza.
 
Il padre le suggerisce di ritornare a casa, nel suo paesino d’origine, per riorganizzare le idee; qui la sua vecchia insegnante la informa che sta preparando una classe di ragazzine per un concorso di ballo, e le chiede di entrare nella squadra come istruttrice; April sulle prime rifiuta, ma poi cambia idea quando capisce che quel concorso può essere il modo per riavviare la sua carriera.
 
Dovrà però insegnare a ballare alle ragazzine, e l’insegnamento non è un’attività nelle sue corde, tanto più che una delle allieve si trascina dietro degli antichi rancori verso di lei.
 
È l’inizio di un’avventura che la porterà a rivoluzionare la sua visione del mondo.
 

Perché "Feel the beat "?

La struttura di Feel the beat è un calco fedele dell’arco, quindi è un ottimo riferimento per vedere all’opera tutti i concetti chiave.

Nella sua semplicità, peraltro, il film mostra pure delle raffinatezze che è bene rilevare, perché istruttive su come ottimizzare le scene e i personaggi; e persino le sbavature – alcune volute – aiutano a capire cosa non fare.
 

L'arco di trasformazione in un guscio di noce

 
Il trailer di Feel the beat.
 
Non si realizza un trailer così… per caso.

Tutto è studiato nei dettagli per restituire in pochi minuti l’intero arco di trasformazione, e ora – con le conoscenze di cui disponi – dovresti essere in grado di vederlo nitidamente.

Se alla fine del trailer non hai riconosciuto l’arco, quanto meno nelle sue linee essenziali, allora abbiamo un problema.

Torna ai moduli 23A, 23B23C e 23D, e studiali di nuovo (o magari studiali davvero).
 
È inutile proseguire, se non intravedi l’arco già dal trailer.
 

Status quo e incidente scatenante

 
Osserva la rapidità con cui è settato lo status quo: la protagonista viene svegliata da un promemoria che annuncia un’audizione e poco dopo la vediamo allenarsi. Nel giro di neanche un minuto sappiamo tutto quel che c’è da sapere – chi è la protagonista e qual è il suo obiettivo – e lo sappiamo dall’interno della storia, grazie a ciò che avviene in scena, sotto i nostri occhi.
 
Potremmo pure non conoscere il titolo del film (che evoca la danza) e non sapere di cosa parla (magari lo ha scelto qualcun altro per noi) ma i secondi iniziali ci rivelano ogni cosa. Questa rapidità comunicativa non è specifica del cinema, e può realizzarsi anche in scrittura, a condizione di ragionare a fondo sui dettagli da veicolare al lettore.

Non è trascorso neppure un minuto e vediamo April ricevere un avviso di sfratto da sotto la porta. Non sappiamo nulla in proposito, ma le persone sfrattate suscitano di regola un sentimento di adesione emotiva, perché lo sfratto – nel sentire comune, anche solo inconsciamente – è considerato una sofferenza ingiusta.
 
L’incipit ha assolto perfettamente il suo compito – catapultare dentro la storia, suscitando empatia per la protagonista – e non c’è quindi motivo di tirare lo status quo ancora in là; si può passare senz’altro all’incidente scatenante.
 
Lincidente scatenante: April ruba il taxi a una “vecchia signora”.
Non può immaginare che quel gesto le cambierà la vita. 
 
Lincidente scatenante è realizzato nel modo più elegante possibile: con un conflitto multivariato.

April è in conflitto contro il tempo (deve sbrigarsi ad arrivare all’audizione) contro il meteo (la pioggia) contro i mezzi di trasporto (non si trovano taxi) e contro una vecchietta (a cui serve uno di quei taxi che non si trovano e che lo aspetta da prima).
 
La dinamica degli eventi la favorisce e s’infila in un taxi che spetterebbe alla vecchietta; e qui già intravediamo il difetto fatale della protagonista (che sarà confermato da lì a poco).
 
Ritroviamo April sul palco, ad assistere con un’aria di superiorità alle prove delle altre ballerine: sente di essere più brava e sa di poterlo dimostrare; e in effetti, quando arriva il suo turno, la selezionatrice sembra più soddisfatta rispetto all’esibizione precedente.
 
La prova si conclude e sul palco arriva… la “vecchietta” a cui April ha rubato il taxi!
 
“Dunque, sei una brava ballerina, vero? Scommetto di sì, l’aspetto ce l’hai.
Passi ore ed ore a lavorare su ogni passo e movimento, per essere perfetta.
Ma i tuoi sogni non si avvereranno, perché finché ci sarò io, e ci sarò ancora per molto tempo,
non ti farò fare nessuno spettacolo a Broadway: la tua carriera è finita, ballerina di fila!”

Qui succede un fatto interessante, sul piano della tecnica di sceneggiatura, perché una scelta molto buona diventa il motivo per cui un’altra stona parecchio.

La “matrona della danza” capisce a colpo d’occhio che April ha tutte le qualità per essere una ballerina eccellente. La battuta di dialogo è chiara, esplicita, e ci conferma l’intuizione che avevamo avuto sin dall’inizio: April è un personaggio altamente competente.

Subito dopo, però, le dice pure che la sua carriera è finita. E perché? Perché le ha rubato il taxi e l’ha fatta inzuppare di pioggia! C’è un’evidente sproporzione tra il gesto di April e la ripicca della “matrona”, che da un lato crea sofferenza ingiusta per la protagonista buona (e quindi rafforza l’empatia) ma dall’altro delinea un personaggio senza troppa capacità di discernimento, che sembra godere nell’abusare del proprio potere (un cattivo perché sì, insomma).

Dopo questo episodio, a ogni modo, la carriera di April sembra davvero finita.
 

Empatia portami via

 
La odiosa, insopportabile, acida April.
 
Questa scena – il primo incontro di April con le ragazzine – si presta bene alla didattica della sceneggiatura: chiarisce l’importanza di un corretto ordine di presentazione delle informazioni, per tenere lo spettatore incollato al protagonista.

Qui vediamo una April odiosa, detestabile, acida oltre misura; sparge cattiveria ovunque; non ha riguardo neppure per la ragazzina sordomuta.

Chi vedesse solo questa scena, senza sapere null’altro, ne prenderebbe immediatamente le distanze e si schiererebbe dalla parte delle ragazzine (che appaiono come personaggi moralmente giusti, sottoposti a una sofferenza ingiusta).

Ma questa scena arriva dopo molte altre scene, tutte finalizzate a far empatizzzare con April.

Nei minuti iniziali abbiamo conosciuto una April competente, ripetutamente sottoposta a sofferenza ingiusta e proattiva: la sua bravura nel ballo è evidente, ed è stata pure confermata dalla “matrona” (che solo per ripicca l’ha scartata); è stata scaricata anche dalla sua agente, perché nessuno nell’ambiente vuole correre il rischio di inimicarsi la “matrona” (altra sofferenza ingiusta per la nostra protagonista); e tuttavia non si perde d’animo e improvvisa un’esibizione davanti a un altro “boss del danza” nel tentativo (fallito) di riscattarsi; e nel viaggio in auto col padre, verso il suo paesino d’origine, intuiamo la problematicità del suo rapporto con la madre (da un veloce ma eloquente scambio di battute).

Ce n’è abbastanza per giustificare la sua insofferenza davanti a delle mocciose che fantasticano di diventare grandi ballerine e le rivolgono delle domande – dal suo punto di vista – tutte piuttosto stupide.

Dobbiamo riconoscere che anche noi ci comporteremmo come lei, al posto suo. Immagina di aver perso ingiustamente una borsa di studio per un dottorato di matematica ad Harvard. Quanta voglia avresti di spiegare l’aritmetica di base a dei bambini delle elementari?

Però è fondamentale che l’insofferenza del personaggio arrivi quando già siamo con lui, quando lo possiamo capire – magari non giustificare, ma capire sì – cioè quando l’empatia si è consolidata.

L’errore del principiante – in scrittura – è l’insensibilità all’ordine di presentazione delle informazioni: si crede che sia sufficiente dire quel che si vuole dire, che non sia poi così importante “dove” e “quando” lo si dice, purché lo si dica, quando in realtà la matematica della sceneggiatura non beneficia della proprietà commutativa, e quindi la sequenza di scene A-B-C può produrre – e spesso produce – effetti emotivi diversi, se non opposti, alla sequenza C-B-A.
 
Nei film si è sempre molto attenti a costruire il flusso informativo in modo che, a ogni momento, lo spettatore sia vicino al protagonista; e le sceneggiature cinematografiche sono perciò un riferimento sicuro – per gli scrittori – per allenarsi a produrre sequenze narrative ottimali.

Il difetto fatale

 
Una manifestazione evidente del difetto fatale di April.

Il difetto fatale di April si intravede già quando ruba il taxi alla “vecchietta” (che da lì a breve scopriremo essere la “matrona della danza”). È il tipico atteggiamento di chi è così concentrato su sé stesso da non preoccuparsi minimamente degli altri. Lo chiamiamo egoismo.

E che il difetto fatale di April sia l’egoismo ci viene confermato dalla battuta dell’assistente della “matrona”,  dopo aver sentito l’episodio del taxi: “quale ragazzina egoista farebbe questo?”.

April è egoista, non ci sono dubbi, ma a prova di scemo – semmai qualche spettatore lo avesse dimenticato, a causa di una fase di discesa tendenzialmente favorevole – si trova modo di ribadirlo in prossimità dell’esperienza di morte, quando una delle allieve le rinfaccia di aver sfruttato il gruppo di ballo a suo esclusivo vantaggio: “sei solo una stronza egoista!”.

April è egoista, d’accordo. Però ora fermiamoci a ragionare.  Perché è egoista? Da dove proviene il suo egoismo? È solo un egoismo perché sì o ci sono delle giustificazioni che lo spettatore può fare proprie?

April ha un obiettivo altamente sfidante: ballare a Broadway. Vogliamo biasimarla per questo? Non credo. Anzi, dovremmo ammirarla. Avercene persone con un sogno e pronte a tutto pur di  realizzarlo.
 
Questa è April e questo è il suo egoismo, e non raccontiamoci palle, per favore: devi essere egoista, se vuoi raggiungere un traguardo personale.
 
Non è prestando volontariato tutti i giorni che conseguirai una laurea in tempo e col massimo dei voti. Al più, forse, potrai dedicare al volontariato i week-end che altri passano nei pub o in discoteca, e sicuramente ti darà onore, sempre che, s’intende, anche i week-end non siano già impegnati con lo studio.
 
L’egoismo è sempre stata una componente del successo personale: se non rimani concentrato su te stesso, per un obiettivo che hai a cuore, chi pensi che lo farà al posto tuo?

L’egoismo di April non è un egoismo gratuito, infantile, cattivo o privo di significati. È l’egoismo di chi sa che certi traguardi impongono di canalizzare le energie, se li si vuole raggiungere. È un egoismo fatto di impegno e determinazione, quindi “socialmente accettabile”.

L’egoismo di April è giustificato dal suo voler ballare a Broadway, e tanto basterebbe, ma c’è di più. Perché April vuole ballare a Broadway?

Il film ce lo svela in tre momenti precisi: nel primo viaggio in macchina col padre verso il paesino; nell’incontro con la ragazzina più problematica, nel prato dove entrambe si stanno allenando; e infine nella seconda telefonata col padre, subito dopo l’esperienza di morte.

Questi tre momenti ci dicono che April è stata abbandonata dalle madre (“schema Cenerentola” in azione, d’accordo, ma fa comunque il suo effetto) e ci rivelano l’immotivato senso di colpa che attanaglia la protagonista: la madre se ne è andata per colpa sua, di April, o almeno questo è ciò che pensa April, di essere stata una delusione per la madre e di poterla riconquistare raggiungendo il successo a Broadway.
 
Papà: “Hai sentito tua madre?”
April: “No”
 
 
 
April: “Ma qual è il tuo problema? Sei cambiata tanto, non eri certo così prima”
Ragazzina: “Chissà perché. Te ne sei andata, e mia madre è morta”
April: “Questa non è una giustificazione. Sono cresciuta senza madre come te”
Ragazzina: “Lei è morta?”
April: “No! Mi ha lasciato perché ha scelto di farlo”
 
 
 
April: “Il primo saggio, dopo che mia madre se n’è andata” 
Insegnante: “Sì, tesoro, sì: me lo ricordo, certo”
 
 
 
 “Se una parte di te sta pensando che avere successo a Broadway
farà tornare a casa tua madre, si sta illudendo.
Non sarai tu a farla tornare, April.
Perché non se n’è andata per colpa tua.
Se n’è andata e basta

L’egoismo di April prende tutta un’altra colorazione, se riguardato da questa prospettiva: diventa una tassa da pagare per riconquistare l’amore materno (prima che il padre chiuda ogni discorso, sul finale).
  
Feel the beat sicuramente non passerà alla storia del cinema, ma far capire da dove proviene il difetto fatale, quale sia la sua genesi, rimane un segno distintivo delle opere migliori.
 

Dalla chiamata all'azione all'inversione di valori

L’insegnante infila il volantino della gara di danza nella borsa di April.

April è tornata a casa, e già ti invito a notare il nome del suo paesino (che ricorrerà in più scene): New Hope, nuova speranza, un messaggio neanche troppo subliminale sulle possibilità di cambiamento offerte dalla situazione.

La squadra locale di football è impegnata nel suo campionato,
e incitata con striscioni sparsi per la cittadina,
che diventano indirettamente un messaggio ad April e alla sue ragazze.

April incontra la sua vecchia insegnante di danza, che la invita a passare a scuola per salutare le ragazzine di cui si sta occupando; April non ne ha voglia, ma il padre di fatto la obbliga, e quando April si presenta, ecco che l’insegnante la informa che sta allenando le ragazzine per una gara dove le maestre ballano insieme alle loro allieve, lasciando intendere che gradirebbe la sua collaborazione, anzi che fosse proprio lei a prendere il comando delle operazioni.
 
April rifiuta e si sfoga in macchina con il padre.
 
“Ha chiesto a me di insegnare. Ti sembra normale? Di insegnare!
Io non insegnerò quello che dovrebbe essere il mio mestiere,
con la scritta 'FALLITA' sulla maglietta”

Ma poi vien fuori che questa gara non è affatto stupida, come April l’aveva intesa all’inizio: le finali saranno ad Atlantic City e nella giuria siederà uno dei “grandi boss” della danza (lo stesso che April aveva provato a impressionare, senza successo, improvvisando una danza per strada).

April cambia idea e accetta la chiamata.

Inizia la fase di salita, ed è una salita ripida, perché April sta sì facendo la cosa giusta (allenare un gruppo di ragazzine) ma per il motivo sbagliato (risollevare la sua carriera): “ce ne andiamo ad Atlantic City e sarò un insegnate in scena da urlo” è la battuta che chiarisce la distonia tra gli eventi in superficie e i motivi profondi che li giustificano.

Siamo a un passaggio nodale, nel tecnicismo della sceneggiatura. Fare la cosa giusta, ma per il motivo sbagliato, è ciò che spesso determina l’insorgere di una falsa posta in gioco: il difetto fatale della protagonista ostacola la difesa della posta in gioco in modo subdolo, indirizzandone gli sforzi verso un obiettivo a cui la protagonista stessa – nel profondo, intimamente – non assegna poi così grande valore, e che tuttavia, nella sua confusione emotiva, percepisce di massima importanza.  

I personaggi più memorabili e affascinanti tendono in ogni caso ad avere non soltanto un desiderio conscio, ma anche un desiderio inconscio” – scrive Robert McKee – “Sebbene questi protagonisti complessi siano inconsapevoli del proprio bisogno inconscio, il pubblico lo avverte in quanto percepisce la loro contraddizione interna. I desideri consci e inconsci di un protagonista a più dimensioni si contraddicono tra loro. Ciò che crede di volere è l’antitesi di ciò che realmente, ma inconsapevolmente, vuole”.

Il difetto fatale della protagonista la porta a difendere consciamente la falsa posta in gioco dell’autorealizzazione (materializzata nel ballare a Broadway) anche se ciò che desidera inconsciamente – la vera posta in gioco, la posta in gioco tout-court – è preservare il senso di appartenenza a una famiglia (erroneamente identificato nel legame di sangue con la madre, comunque problematico, quando invece è a portata di mano con le ragazzine di cui ha la responsabilità).  

La distanza emotiva di April dalle sue allieve è emblematicamente segnalata dai nomignoli dispregiativi con cui si rivolge a ognuna di loro – Manine, Quattrocchi, Codini, Mangia-unghie, Spalle-larghe – ignorandone i nomi e non avendo comunque voglia di memorizzarli.

Assistiamo a un conflitto di relazione crescente – tra April nel suo nuovo ruolo di insegnante e le ragazzine abituate ad approcci ben più morbidi – che ha il suo apice in duro faccia a faccia nel mezzo di un allenamento.
 
April: “Sulle gambe, sulle gambe, state sulle gambe!
Devo urlare di più? Fatelo e basta! Ma qual è il vostro problema?”
Ragazzina: “Magari quello che urli non lo capiamo, e stiamo già sulle gambe, mi pare.
Prova a insegnare: sembriamo tutte salsicce appese che dondolano”
April: “Tu sapresti insegnare meglio?”
Ragazzina: “Di sicuro meglio di te, perché non sei capace”
April: “Va fuori, Sara”
Ragazzina: “Costringimi”
April: “Ho detto: va fuori, Sara”
Ragazzina: “E tu vattene dalla mia vista”
 
Cosa impedisce ad April di insegnare danza come dovrebbe?
 
Il suo difetto fatale, l’egoismo, che la porta a vedere il problema negli altri piuttosto che in sé stessa. 
   
April: “Io vorrei aiutarla, ma ha messo un muro” 
Ragazzo: “Questo non mi risulta, però” 
April: “Che cosa?”
Ragazzo: “Che tu voglia aiutare qualcuno”
 
Sono le ragazzine – in particolare una di loro – ad aver alzato un muro, o lei, April, che non vuole realmente aiutarle? La seconda, decisamente.
 
“Sei tu che sei andata via l’altra volta”

 
 
“Siamo bambine: non impariamo velocemente come voi”
 


“E qual era la regola numero due? Impegno”

Dopo l’apice del conflitto di relazione non può che aversi una flessione.
 
April rilascia l’ultima dose di veleno (liquida senza possibilità una ragazzina che ha dichiarato la resa) ma poi osserva di nascosto la sua vecchia insegnante mentre spiega dolcemente alle ragazzine più piccole i modi per tenersi in equilibrio, con l’esempio delle carote e delle banane.
 
È un fatto della più grande rilevanza che la maestra parli invariabilmente bene di April alle due bambine, che ne giustifichi i modi bruschi con la sua voglia di perfezionismo, affinché le piccole possano capirla: l’autorità e l’autorevolezza di April non sono mai messe in discussione, da nessuno.
 
Miss April vuole essere sempre perfetta… 
aveva circa la vostra età quando decise che sarebbe diventata una ballerina bravissima,
così cominciò a impegnarsi sempre di più, e ora si dimentica che gli altri non sono perfetti come lei.
Quindi, noi, con lei dobbiamo avere pazienza. Okay?
 
Assistiamo poi a una coda del confronto con la ragazzina che l’aveva affrontata in palestra (da cui abbiamo conferma dell’ipotesi iniziale: April è stata abbandonata dalla madre) e a seguire vediamo il dialogo con il suo ex ragazzo (che le fa capire che è lei a sbagliare approccio).

Ritroviamo tutto il gruppo in palestra: April da una parte, le ragazzine dall’altra; April propone una tregua, nell’interesse di tutti; le ragazzine si riuniscono in cerchio per decidere se accettare o meno.

“Soltanto lei può farci arrivare lì”

Questa è una scena davvero ben fatta: la maggioranza delle ragazzine dice di voler restare nella competizione, ma di non volere più April come insegnante. Ma la ragazzina bionda – proprio quella che aveva avuto lo scontro a viso aperto con April – fa notare che solo con April al comando c’è la possibilità di arrivare alla finale di Atlantic City. E il gruppo non può che accettare questa verità, per quanto sgradevole.
 
Le ragazzine hanno bisogno di April (per vincere la competizione), ma anche April ha bisogno delle ragazzine (in superficie per rilanciare la sua carriera, nel profondo per proteggere il suo senso di appartenenza).

Da quel momento le cose vanno meglio, il clima rimane teso, ma la tensione viene man mano canalizzata da entrambe le parti sull’obiettivo: arrivare alle finali e giocarcela sino in fondo.
 
“Siamo banane o carote?”
April fa sua l’immagine delle banane e delle carote
usata dalla vecchia insegnante per spiegare alle ragazzine come tenersi in equilibrio.
È un primo evidente segno di avvicinamento.
 



L’inversione di valori: per la prima volta April chiama tutte le ragazzine con il loro nome, 
e ha pure imparato il linguaggio dei segni per rapportarsi direttamente alla ragazzina sordomuta.
 
 
 
“Anche se non te ne rendi conto, stai facendo la differenza per loro”
 
E si procede così, con un conflitto di relazione che si smorza, con conseguenti successi nel conflitto esterno, il superamento di una fase dopo l’altra della competizione, verso Atlantic City.

Lo sport è per tutti, gli alti livelli no

 “E queste? Queste? Braccia mosce! Così potete salutare le nazionali. Dite addio… addio!”
 
Il mondo della danza è ciclicamente sotto accusa per i modi rudi con le insegnanti tratterebbero le allieve.

L’ultimo caso – in Italia – ha riguardato le cosiddette “farfalle azzurre”. I loro racconti impressionano, lasciano il segno, a tratti fanno rabbrividire, ma… vogliamo sentire per una volta la versione dell’allenatrice?
 
Le è stata rivolta l’accusa di usare “metodi di allenamento non conformi ai doveri di correttezza e professionalità, ponendo in essere pressioni psicologiche e provocando in alcune ginnaste l’insorgere di disturbi alimentari e psicologici”.

E lei cosa dice? Come replica?

Se i risultati li otteniamo e si ripetono nel tempo con ginnaste diverse vuol dire che c’è un benessere. Poi ci può stare che una non arrivi alle Olimpiadi. Anna se n’è andata a maggio 2020, ma nessuno si era accorto del suo disagio. Il problema non erano i chili, era la tecnica. Le Olimpiadi si fanno in 5 e lei era la sesta. Le ho detto: ‘Vai a casa, centrati, ci risentiamo’. Ma è sparita. Anna non voleva più la ginnastica e si è portata dietro il conflitto in famiglia. Le serviva un alibi: non essere stata capita”.

E ancora:

Guarda caso le accuse arrivano tutte da ginnaste che non hanno fatto le Olimpiadi. […]. C’è una scuola, c’è un metodo, vinciamo da vent’anni. Non è per niente banale”.

E poi la stoccata finale:
 
Alla Nazionale si arriva con un percorso e rispettando dei canoni: lo sport è per tutti, l’alto livello no”.
 
Accidenti! È lo stesso discorso di April alle ragazzine, appena un po’ più dettagliato.
 
“Concentratevi: non vi è mai stato insegnato.
Impegno: un ballerino non esiste senza tecnica,
quindi al momento non esistete.
Tranne quando andrete a dormire o sarete a scuola,
voi verrete qui, ad allenarvi, ogni santo giorno”
 
 
 
“Ve l’ho detto! Dovete allenarvi anche a casa, capito?”
 
Ma davvero qualcuno pensa di arrivare a ballare davanti al gotha della danza, a colpi di coccole e carezze?

È ovvio che serve saper soffrire, ma ancor più serve reinterpretare la sofferenza fino a stravolgerla, a cambiarne la natura: quel che il resto del mondo chiama sofferenza, dolore, pena, fatica, angoscia, tu lo chiami gioia, piacere, felicità, soddisfazione.

Questo è lo switch mentale che cambia tutto: non c’è mai nessuna sofferenza nel fare ciò che si fa, perché ciò che si fa lo si ama sopra ogni cosa, quindi ogni sforzo, ogni dolore, ogni lacrima sono doni che si è offrono volutamente sull’altare della propria passione.
 
Non si soffre oggi, in vista della felicità di domani. Si è felici oggi – nel fare quel che si fa – per avere una felicità ancora più grande domani, ma felici lo si è sempre, oggi come domani.

Vedila pure come la versione laica della santità: i santi quasi gareggiavano nel sottoporsi alle sofferenze delle torture, perché ognuna di quelle sofferenze li avvicinava a Dio, e sentirsi vicino a Dio era l’unica cosa che gli importava, rispetto alla quale tutto il resto diventava ben poca cosa.

Quel che April chiede alle ragazze è una riconfigurazione radicale del loro sistema di valori: le arriva a dire “voi non esistete”, e non riesco a immaginare una frase peggiore da rivolgere a una persona, in generale, e a delle ragazzine in particolare.
 
Ma non c’è altro modo, per arrivare ad Atlantic City: o capite che al momento non esistete, che non avete nessuna possibilità, e vivete con gioia quel cambiamento che vi porterà a esistere e a giocarvi le vostre chance, oppure… quella è la porta.

Il film recupera integralmente – e comunica con grande efficacia – la distinzione tra chi lascia cadere il messaggio e chi lo coglie in tutta la sua pienezza.
 
Da un lato vediamo l’auto-esclusione dalla squadra di una ragazzina maltrattata da April, che frigna, si mortifica e si definisce una nullità.
 
E dall’altro vediamo una ragazzina che tiene duro non solo durante gli allenamenti – com’è ovvio – ma contro il mondo intero (svolge dei lavoretti nella scuola per pagarsi le lezioni di danza perché la famiglia non può permettersele; si allena di continuo; trova la forza di opporsi alla madre che non vuole farla partecipare alle gare, e cosa c’è di più difficile, per una ragazzina, del contrastare la volontà di un genitore?).
 
“Siamo nullità”
 
 
 
“Non è elemosina. Io ho trovato un modo: lavoro nella scuola.
Le lezioni mi spettano, e mi spetta anche un posto in questa gara.
Io non mi muovo”

Poi, d’accordo, per non essere politicamente scorretti si trova il modo di reintegrare la ragazzina che si era auto-esclusa: la si fa partecipare come accompagnatrice della squadra, e sul finale la vecchia insegnante le dà pure il compito di rintracciare tutte le altre ragazze che non si sa dove siano finite; e così si ammortizza la brutalità della selezione.

Ma il messaggio di fondo rimane: lo sport è per tutti, gli alti livelli no.
 
Feel the beat non passerà alla storia del cinema, ma riuscire a veicolare un messaggio ancillare alla premessa, con così tanta naturalità, rimane un tratto qualificante delle opere migliori.
 

Nulla succede per caso 

April: “Quante visualizzazione ha? Duecento…” 
Amico: “Più di trentamila!” 
 
Il confronto tra April e la “matrona della danza” culmina in un’incidente fisico: la “matrona” cade dal palco e si frattura una gamba e un polso; qualcuno filma tutta la scena, la posta sui social e il video diventa virale.

È una dinamica altamente verosimile – ci sta che il contatto fisico possa degenerare in un incidente involontario, così come che qualcuno abbia filmato l’episodio, perché ormai tutti filmano tutto – ma che bisogno c’era di calcare così tanto la mano? Di far cadere la matrona dal palco e di ritrovare l’episodio sui social? La “matrona” glielo aveva già detto: “a tua carriera è finita finché ci sarò io, e siccome ci sarò ancora per tanto tempo…

A che serve accentuare il conflitto tra April e la “matrona”, se nei suoi esisti è già ben definito?

L’episodio del video è ciò che in tanti chiamerebbero una “semina”. A me non piace questa espressione, per i motivi spiegati nel modulo 16, ma ora non sottilizziamo e prendiamola per buona. Diciamo allora che all’inizio del film gli sceneggiatori hanno introdotto un elemento utile a pilotare la storia, a creare nel seguito un passaggio a elevato contenuto drammatico.

Buona parte del film viaggia su un equivoco tra i personaggi: tutti sono convinti che April sia una ballerina di Broadway, perché lei, April, glielo ha fatto credere; ma April in realtà è fuori dai giochi, dopo il litigio con la “matrona” (anche perché altrimenti non starebbe certo lì ad allenare delle ragazzine).
 
Si va avanti così fino alle semifinali, quando la verità viene fuori: la squadra di April sta per salire sul palco per l’esibizione corale con l’insegnante in scena, e le ragazze della squadra avversaria sono lì che ridacchiano, con i loro telefonini in mano, e le voci del video incriminato di sottofondo.

“La vostra insegnante di Broadway non è poi coì brava: attente, potrebbe farvi cadere”
 
April accusa il colpo, nel rivedere quel video. È come se avesse realizzato il vero motivo per cui è lì: solo perché è stata fatta fuori dai giri che contano. La magia della competizione sembra svanita, e c’è pure la vergona di aver mentito a tutti e di esser stata ora scoperta.
 
La sua performance con le allieve è sottotono, perde la concentrazione e… cade. Una delle avversarie glielo aveva detto alle ragazzine – “attente, potrebbe farvi cadere”, alludendo alla caduta della “matrona”  – ma a cadere non è nessuna delle ragazzine, bensì April in persona, la sedicente ballerina di Broadway.
 
C’è un’istante di sconforto, ma è giusto un istante: perché una ragazzina allunga il bracco, con la mano spalancata, per invitarla a rialzarsi.
 
È una scena meravigliosa: la grande April è a terra, e a rimetterla in piedi è proprio una di quelle ragazzine che lei trattava peggio delle altre.
 

“Andiamo!”
 
E quel che succede dopo – a esibizione finita, con tutta la squadra in attesa del verdetto – è ancora più spettacolare.
 
Prima ragazzina: La caduta sembrava una parte della coreografia”
Seconda ragazzina: “Ehi! A chi importa di quello stupido video del cavolo?”
 
April avverte tutto il peso del suo errore; sa bene che sarà colpa sua, della sua caduta, se la squadra non passerà il turno; anche le ragazzine sono un po’ sfiduciate, ma nessuno la mortifica o la giudica, anzi.
 
La ragazzina auto-esclusa le arriva a dire che la caduta sembrava voluta, e un’altra – quella che sul palco l’aveva aiutata a rialzarsi – minimizza il contenuto e il significato del video, per farle capire che a nessuno frega nulla se lei non è una ballerina di Broadway, che la cosa davvero importante è averla lì con loro.
 
E sono proprio le due ragazzine che April ha sempre trattato peggio delle altre a darle ora la forza per vivere serenamente il verdetto: è un ribaltamento di situazioni e di valori, tipico di una grande sceneggiatura.
 
E da dove arriva tutto ciò? Da un conflitto iniziale opportunamente accentuato (la matrona che cade dal palco) e amplificato (il video virale).
  

Verso l'esperienza di morte

 Il confronto tra le due coreografie con l’insegnante in scena
– nel turno preliminare e nell’ultima gara prima di Atlantic City –
restituisce il senso del cambiamento intervento nella protagonista.
 
La cosiddetta fase di caduta (la seconda metà del Secondo Atto) scorre via senza troppi problemi, se osservata dalla prospettiva dei rapporti tra April e le ragazzine.

L’inversione di valori avvenuta al midpoint (una April decisamente meno egoista) ha smorzato enormemente il conflitto di relazione (tra April e le ragazzine) e ciò sta permettendo di vincere nel conflitto esterno (la competizione di danza, in cui la squadra super un turno dopo l’altro).

Tutto va alla grande. Pure troppo, forse. Perché le eccellenti prestazioni della squadra attraggono l’attenzione del “grande boss” della danza, che invita April a entrare nel suo corpo di ballo, e a farlo ora, adesso, subito, perché l’organizzazione della coreografia è già partita e non c’è tempo da perdere. Il che significa lasciare da sole le sue allieve, proprio il giorno della finale ad Atlantic City.

April deve scegliere: rimanere con le ragazzine sino alla fine o aggregarsi alla squadra del “grande boss”. Non può dire “intanto concludiamo la competizione, e poi mi aggrego alla squadra”, perché non c’è uno spazio vuoto tra i due eventi. Il tempo le gioca contro, e il conflitto contro il tempo è sempre uno dei più affascinanti.
 
Cosa farà? Sceglierà il successo delle ragazzine o inseguirà il suo personale?
 
Il fatto è che l’inversione di valori al midpoint, quando avviene, non è mai totale; una sfumatura del difetto fatale rimane sempre, ed è proprio quella sfumatura che viene colpita dall’esperienza di morte e consegna un contenuto drammatico alla scelta.
  
“Ci ha usato come delle stupide solo per tornare a Broadway?
L’ho sempre saputo: sei solo una stronza egoista, pensi solo a te stessa”
 
April viene meno alla promessa fatta alle ragazzine al momento della loro riappacificazione (“sarò con voi fino alla fine”)  e sceglie il suo successo (“questo è il mio sogno da tutta la vita… ce la fate anche da soli”).

Quel meraviglioso gruppo così pazientemente costruito – April, le sue allieve, il suo ragazzo, la sua insegnante, e gli stessi genitori delle ragazzine – quel gruppo che a tutti gli effetti era “famiglia”, ora sembra dissolversi di fronte all’abbandono di April.
 

Il momento di trasformazione

“Finalmente il mio sogno si avvera: è lo spettacolo perfetto, il ruolo perfetto, ma…
… non mi sento felice”
 
Gli istanti successivi all’esperienza di morte sono sempre i più drammatici, e sono tanto più drammatici quanto più forte è la sensazione che tutto ciò che si è fatto – tutto lo sforzo per cambiare, per diventare una persona migliore – non sia servito assolutamente a nulla, e che la posta in gioco – in questo caso “amore e appartenenza” – sia ormai persa.
 
Il “grande boss” presenta April alla squadra di danza come “la nostra whirly girl”, e tutto sembra davvero finito.  Cosa potrà far cambiare idea ad April?

La ritroviamo al telefono col padre, a notte fonda.
 
Il papà è comprensivo: non la giudica, la capisce. “Tesoro, hai lavorato tantissimo proprio per riuscire ad arrivare a questo”.
 
Già. Anche April lo ripete, più a sé stessa che al padre. “Finalmente il mio sogno si avvera, papà: è lo spettacolo perfetto, il ruolo perfetto”. E tuttavia non può evitare la sgradevole conclusione. “Ma… non… non mi sento felice”.
 
Siamo a un passaggio cruciale.
 
 “Ascoltami: se una parte di te sta pensando che avere successo a Broadway
farà tornare a casa tua madre, si sta illudendo.
Non sarai tu a farla tornare, April. Perché non se n’è andata per colpa tua. Se n’è andata e basta.
Quindi, tesoro, devi prendere la decisione che corrisponde al tipo di persona che sei.
E non parlo di cosa sei, ma di chi sei”

Qui abbiamo  la conferma definitiva dell’origine del difetto fatale di April: è egoista perché vuole ballare e Broadway, e vuole ballare a Broadway perché pensa che così la madre tornerà da lei.
 
Forse lo si poteva intuire da alcune scene precedenti – anche se il nesso non è mai esplicito e forse lo si poteva evidenziare maggiormente – ma ora diventa evidente: April non è un’egoista perché sì; è l’abbandono della madre che l’ha portata – suo malgrado – a comportarsi da egoista.

E il papà, ora, la invita a riflettere su chi – e non su cosa – è lei: noi non siamo quello che facciamo, ma dobbiamo fare quello che siamo, perciò è inutile fare qualcosa alla perfezione, se non è il riflesso della nostra natura più intima.
 
Lo spettatore era già stato sensibilizzato sul punto, in un precedente dialogo tra April e la sua insegnante, finalizzato proprio a fare passare l’idea di fare sempre ciò che si è, ciò che corrisponde alla nostra vera vocazione, anche esteriormente possono sembrare cose semplici e modeste, perché comunque sia non ci sarà mai felicità al di fuori di ciò che si è, di ciò che realmente si desidera.

April: “Posso farti una domanda?” 
Insegnante: “Certo”
April: “Sei felice?”
Insegnante: “Amo la mia vita: me la sono scelta, April!
Adoro insegnare e mi piace gestire un’attività,
e mi piace vivere qui perché so che sono giù di morale
qualcuno mi fa trovare lo stufato sul portico”
 
Il papà rappresenta la figura del mentore, quel personaggio che è sempre stato accanto alla protagonista, che magari abbiamo visto solo poche volte durante la storia, ma sempre in passaggi nodali, e che ora raccoglie tutti gli avvenimenti accaduti per compendiarli in poche parole e restituirne il senso più profondo (e completare così il processo di trasformazione della protagonista).
 
“Io devo tornare a quella gara, mi dispiace moltissimo,
e se questo significa che perderò la parte che mi ha affidato, lo capisco.
Spero che non succeda, perché… le serve qualcuno che onori gli impegni presi,
ed è per questo che devo andare, perché… ci sono nove bambini con i quali ho preso un impegno.
Una città intera conta su di me, quindi… quindi vado da loro!”

Il giorno dopo, alle prove, April sfoglia il copione, e in mezzo ci trova le foglie che le ricordano le sue allieve: è il segnale che deve tornare ad Atlantic City.
 

Climax

“Mi odiate, e lo capisco benissimo.
Ma vi siete guadagnati il diritto di essere qui.
E, vi prego, non sprecatelo solo per una ripicca verso di me.
Quando vi ho conosciuto, vedevo solo difetti.
E poi ho capito che sono proprio quelli che vi rendono spettacolari:
sono bellissime le vostre imperfezioni.
Vi chiedo scusa per essermene andata.
Mi serviva ancora un po’, per capire che… siamo diventati una famiglia.
Voglio che sappiate quanto sono orgogliosa di ognuno di voi:
siete diventati tutti dei bellissimi ballerini”
 
Il ritorno alla gara ha il suo batticuore: le ragazzine sono sparite, non si trovano, forse vogliono rinunciare alla competizione, dopo esser state abbandonate da April.
 
La ragazzina “accompagnatrice” le riporta tutte alla base, ma quando vedono April si irrigidiscono. La aggrediscono, le rinfacciano di essere solo una approfittatrice, ironizzano su quale sia il vero scopo per cui si è ripresentata da loro. E intanto è iniziato il countdown: la squadra sarà squalificata, se non si presenterà sul palco entro pochi minuti.
 
April accoglie senza un fiato lo sfogo della sua squadra, e il suo discorso è il suggello di tutta la storia. 
 
Ti invito a notare il passaggio “mi serviva ancora un po’, per capire che siamo diventati una famiglia”, che tradotto in termini tecnici equivale a dire “mi serviva ancora un po’, per superare il mio difetto fatale” (perché, appunto, una parte del difetto fatale viene rimossa al midpoint e la parte restante all’esperienza di morte).
 
Levatevi: la grinta sta per entrare in scena!
 
E ora le ragazzine sono pronte ad affrontare la sfida finale – che le vedrà vincitrici – facendosi largo proprio tra le avversarie che nelle semifinali avevano smascherato April, mostrando il famigerato video della caduta della matrona.
  

L'(in)utilità della sotto-trama romantica


L’amore, che cosa meravigliosa!

Non importa quanto successo tu possa avere, quanto denaro possa guadagnare, quanta invidia possa suscitare negli altri, e quanto rumorose siano le acclamazioni del mondo, se poi non hai qualcuno pronto a usciere la sera per te, per comprare tutti gli ingredienti per un bel brodino caldo, quando stai male.

Una vita senza amore – diciamolo – non merita di essere vissuta, e tutto prende una colorazione diversa, più sgargiante, quando c’è in ballo (anche) l’amore.

E quindi la storia d’amore – la cosiddetta sotto-trama romantica – ce la si infila quasi sempre nelle storie, anche quando tecnicamente inutile.

Cosa vuol dire “tecnicamente inutile”? Dovresti dirmelo tu, arrivati a questo punto.
 
Per lo stesso motivo per cui un disegno non deve contenere linee inutili, né un macchinario parti superflue, una storia non dovrebbe contenere sotto-trame ininfluenti rispetto al processo di cambiamento del personaggio.

In che modo la turbolenta storia d’amore di April concorre alla risoluzione del conflitto interno (rimozione del difetto fatale) con conseguente risoluzione del conflitto di relazione (il rapporto tra April e le ragazzine) e vittoria nel conflitto esterno (la competizione)? Cosa cambierebbe – nella storia, nell’evoluzione del personaggio – se la eliminassimo? Praticamente nulla. Quindi la sotto-trama romantica è tecnicamente inutile.

Poi – come pure ho visto fare – uno può pure ingegnarsi a trovarle un significato, a forzarne lo scopo, ma è un atteggiamento da cui ti ho diffidato – IV Comandamento: “non forzare l’arco” – perché se cominciamo a vedere significati dove non ci sono, solo per giustificare la scelta a ogni costo, allora tutta l’analisi perde di significato.
 
Però il punto rimane: tutto sembra avere un significato più profondo, quando c’è in ballo anche l’amore, con buona pace dei tecnicismi dell’arco. E questa è la ragione per cui spesso trovi la sotto-trama romantica, anche quando tecnicamente inutile: perché le opere non vivono di sola tecnica.

Citando April, durante una delle sue lezioni di danza, “devi essere più convincente, non basta eseguire i passi”, e la sotto-trama romantica – checché se ne dica, per quanto se ne possa parlar male – aiuta spesso a essere più convincenti, a prescindere dal suo significato oggettivo all’interno della storia.

Se però si fa in modo che abbia anche un ruolo nel processo di cambiamento del personaggio, è sicuramente meglio.
  

Status quo vs Epilogo

La scena iniziale e la scena finale di Feel the beat.

L’epilogo è “a specchio” rispetto allo status quo: abbiamo conosciuto April mentre ballava da sola nel suo appartamentino, e la ritroviamo ancora a ballare, ma per strada e insieme a tutti i personaggi che l’hanno accompagnata lungo il suo percorso di cambiamento.
 
Nel contrasto tra le due scene c’è il senso dell’intera storia,  nel finale ci sono diverse sciccherie che esaltano le differenze tra il prima e il dopo.

Anzitutto vediamo una April che – pur ballerina a Broadway – non ha rinunciato a insegnare danza alle sue ragazze (via Skype durante la settimana e in presenza  ogni domenica); e pretende di farlo anche quando la sua vecchia insegnante la informa che sia la palestra che il fienile sono inagibili (“non mi importa se si ritroveranno a nuotare sul pavimento: faremo lezione”); quell’attività – insegnare danza – che all’inizio reputava un ripiego destinato ai falliti (“Io non insegnerò quello che dovrebbe essere il mio mestiere, con la scritta 'FALLITA' sulla maglietta”) è diventato un punto di orgoglio.

Durante il ballo collettivo in strada vediamo poi la “matrona della danza” passare dentro un taxi, quando all’inizio era rimasta fuori sotto la pioggia.

E voglio chiudere con un’accoppiata particolarmente significativa.

“Questo… non faceva schifo
 
 
 
“Qualche appunto ce l’ho, un paio di ritocchi, ma… non faceva schifo”
 
Il primo complimento che April rivolge alle ragazzine è “questo non faceva schifo”; e il primo complimento che si sente rivolgere dal grande boss è “non faceva schifo”.

Tanto le ragazzine quanto April rispondono con entusiasmo a un giudizio di per sé minimalista: è la conferma di un mondo dove gli apprezzamenti sono centellinati, misurati, di sicuro mai iperbolici.
 
Perché, qui come altrove, non contano le cose in sé, ma i significati che i personaggi gli caricano sopra.

Esercizio per casa: di cosa parla la storia?

Di cosa parla Feel the beat?

Voglio sperare – arrivati a questo punto del manuale – che tu non mi dica ciò che mi direbbe l’ultimo degli scappati di casa: parla di una ragazza che insegna a ballare a delle bambine.

No, ti prego, non dirmi così. Altrimenti fai una bella cosa: torna al modulo 23, e ricomincia tutto daccapo.

Una storia – una buona storia, che meriti di essere fruita – è sempre trainata da un messaggio di fondo sotto gli eventi in superficie, e la storia parla del suo messaggio, non degli eventi strumentali a veicolarlo.

Per dirlo in termini tecnici: quali sono tema e premessa di Feel the beat?

Lascio a te la risposta “come semplice esercizio” (come si legge nei migliori testi di matematica, che chiamano lo studente a risolvere da solo dei problemi che spesso così semplici non sono).

Ti ricordo solo alcuni concetti di base: la premessa parla delle conseguenze del superamento del difetto fatale, e il difetto fatale è quel lato caratteriale del protagonista che ostacola la difesa della posta in gioco, quindi – a rigore – nella premessa dovrebbe riecheggiare tanto il difetto fatale quanto la posta in gioco.

Non essere affrettato, nel rispondere. Ragiona. Molte informazioni le hai già a disposizione.

Sai qual è il difetto fatale di April: l’egoismo.
 
Sai qual è la posta in gioco: amore e appartenenza, secondo la piramide di Maslow.
 
Quindi l’egoismo di April è d’ostacolo alla difesa del senso di appartenenza.
 
L’ex ragazzo di April la prende in giro, quando la rivede per la prima volta al paesino,
ponendosi da solo quelle domande che per pura cortesia avrebbe dovuto fargli April,
e dandosi al tempo stesso anche le risposte:
 “- Tu come stai, Nick?
- Sto bene.
- Che hai fatto?
- Molte cose. Mia nonna non si ricorda niente, e io… io penso alle mie sorelle,
poi il lavoro, le lezioni, insomma le cose da grandi…
e comunque tuo padre conta su di me per sistemare il fienile”
 
 
 
Ragazzina: “Non ci hai nemmeno detto addio, April”
April: “Sara, le persone scelgono come vivere: devi accettarlo.
E poi, senti, non ero certo fidanzata con te”
Ragazzina: “Giusto. In quel caso avrei ricevuto un messaggio, ma non ti importava niente di me”
 
April non realizza che il suo egoismo, spingendola verso l’autorealizzazione, ostacola quel senso di appartenenza di cui inconsciamente ha bisogno.
 
Anche perché il senso di appartenenza lo sta cercando nel posto sbagliato, nell’amore della madre che l’ha sì abbandonata, ma che April sente ancora con sé, e vuole riportare a sé, diventando una grande ballerina di Broadway.
 
April – in definitiva – è convinta di poter rinsaldare un legame di sangue che si è indebolito (con la madre) attraverso lo splendore di un grande successo individuale (la fama di ballare a Broadway) che ha tutte le apparenze di una auto-realizzazione (secondo la piramide di Maslow).
 
Dovrà imparare che “essere una famiglia” non è primariamente un fatto di sangue, di parentela, di legame biologico, ma di… di cosa? Dai, dimmelo tu.
 
 
Rifletti su quante volte – nel film – viene richiamato il rispetto degli impegni, anche quando vorremmo sottrarcene perché divenuti gravosi.
 
Pensa a quanta enfasi viene messa nel restare al proprio posto per fare la cosa giusta, anche quando l’egoismo ci spingerebbe a far valere le nostre ragioni o quando prospettive apparentemente meravigliose ci attraggono altrove.
 
“E qual era la regola numero due? Impegno”
 
 
 
“Voi promettete di ascoltarmi.
Fatemi lavorare con voi, e onorerò l’impegno che ho preso.
Sarò con voi fino alla fine”
 
 
 
April: “Io ti ammiro molto: hai mollato tutto per crescere le tue sorelle”
Ragazzo“Io… io non ho mollato tutto: ho fatto il mio dovere, era la cosa giusta”
April: “No, lo so: tu sei fatto così”
 
 
 
“Sai, April, dopo il messaggio… sono venuto lì, e ti ho vista: sulla 46-esima, dopo le prove.
Eri felice come non mai, così ho capito che era giusto così”
 
 
 
April: “Dopo che siamo rimasti soli, tu hai fatto molto di più, per noi.
E non ti ho mai detto che ha fatto la differenza, per me”
Insegnante: “Beh, tu stai facendo la differenza per loro, anche se non te ne rendi conto”
 
 
 
“Ci stai lasciando così?
Hai preso un impegno, April! Ti prego, non andare via…”

 
 
“Io devo tornare a quella gara. Mi dispiace moltissimo,
e se questo significa che perderò la parte che mi ha affidato, lo capisco.
Spero che non succeda, perché le serve qualcuno che onori gli impegni presi.
Ed è per questo che devo andare: perché ci sono nove bambini con i quali ho preso un impegno.
Una città intera conta su di me, quindi… quindi vado da loro!”
 
Dovevi svolgere l’esercizio da solo, e invece l’ho praticamente fatto io al posto tuo.
 
A te non rimane – a questo punto – che inchiodare ogni cosa in una frase asciutta e precisa, che restituisca all’istante il senso della storia. Non ti rimane che formulare tema e premessa della storia. Avanti, ce la puoi fare.
 
Buon lavoro.

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