MODULO 23 – Progettare una storia

Estratto dalla Prefazione al Trattato Teorico-Pratico Di Lettura E Divisione Musicale, di Giusto Dacci.

Perché non studiamo l’arte sotto i veri rapporti scientifici? Perché non vogliamo essere seri?

Da un lato perché in tanti ce lo impediscono, ma dall’altro, forse, perché siamo tutti inconsciamente lieti dell’impedimento.

Esiste e persiste una classe di sedicenti “esperti” che si sente sotto attacco, che vede minacciata la propria rendita di posizione (creata venti, trenta o addirittura quarant’anni fa, in un mondo che oggi non esiste più) e non ha tempo e voglia di aggiornarsi (o forse, chissà, che non ha mai studiato davvero) e semplicemente sfrutta la propria forza all’interno del sistema per propagandare l’impossibilità di un approccio scientifico alla narratologia.

E forse, chissà, anche gli allievi sono felici della dichiarata, presunta, impossibilità di avvicinarsi alla scrittura di narrativa con un processo oggettivamente verificabile. Perché così si sentono anche solo inconsapevolmente legittimati a non impegnarsi come dovrebbero, a difendere ciò che già conoscono (o credono di conoscere) anche quando ormai superato. Magari nella speranza di potersi un giorno annoverare nella “classe di esperti”, di avere una cattedra, una poltrona, o almeno una sedia.

Siamo seri, per favore.  

La creatività scientifica è immaginazione dentro una camicia di forza”.

Le parole del fisico Richard Feynman si riadattano facilmente al nostro ambito: la creatività artistica è immaginazione dentro un arco di trasformazione del personaggio. Meglio ancora – e in modo più diretto e asciutto – una storia è un arco di trasformazione del personaggio.

È l’arco – e solo l’arco – che permette di coltivare la buona immaginazione; è l’arco – e solo l’arco – a tenerti lontano dalle fantasticherie; è l’arco – e solo l’arco – che puoi (e devi) controllare nella messa a punto della tua storia.

E cos’è l’arco? Qual è la sua definizione?

Non bisogna credere che la definizione di una scienza ne possa dare lidea ai non iniziati” – mette in guardia Denis Diderot, nel programma della Encyclopédie di cui era curatore – “La definizione di una scienza consiste proprio nell’esposizione dettagliata degli oggetti di cui questa scienza si occupa. In base a tale principio ci sembra che la cosiddetta ’definizione’ di ogni scienza figuri meglio al termine piuttosto che all’inizio del libro che ne tratta”.

Piuttosto che discutere in astratto su cosa l’arco è, serve procurarsene un’autentica competenza; per possederlo bisogna dedicarsi all’esame della sua struttura, dei suoi contenuti, del suo significato, e delle loro applicazioni; saprai cos’è l’arco studiandolo e mettendolo all’opera, ne avrai la definizione alla fine dei moduli (teorici e pratici).
 

Progettare una storia:

il futuro ha un cuore antico

Smazziamo via un equivoco, magari banale, ma suscettibile di zavorrare il tuo apprendimento: l’idea – sballata – che è l’arco sia un’americanata, una recente trovata hollywoodiana per un pubblico sempre più stereotipato, sempre meno sensibile ed esigente, da imbarbarire ancor di più con la produzione di film e serie tv “a stampino”.
 
L’espressione “arco di trasformazione del personaggio” si deve a Dara Marks – la migliore story editor americana, come l’ha riconosciuta la rivista Screenwriting ­dopo una lunga inchiesta – ma il merito della Marks, peraltro immenso, è stato di aver messo a sistema tutto ciò che si era accumulato nei millenni – hai letto bene: millenni – in fatto di narrazione delle storie, di aver cioè razionalizzato le infinite possibilità narrative in uno schema generale e al tempo stesso più preciso rispetto a formalizzazioni alternative (come ad esempio il cosiddetto viaggio dell’eroe).

Una storia colpisce ed emoziona nella misura in cui rispetta i nostri canoni normativi della realtà – saremo fatti male, ma siamo fatti così: vogliamo sensatezza – e la Marks ha per l’appunto fornito il canone, sulla scia di tutta la conoscenza accumulata sino a quel momento. 

Così, se nella storia c’è un rabbino morto, noi ci aspettiamo una spiegazione rabbinica della sua morte, e non dei semplici contrattempi di un ladro immaginario.
 

Estratto da La morte e la bussola, in Finzioni, di Jorge Luis Borges.

Il mondo reale e la vita vera non sempre seguono traiettorie interessanti, e anzi, a dirla tutta, il più delle volte se ne sbattono della sensatezza: ottimi inizi e pessimi finali; circostanze fortuite che non nascondono nessun tema; eventi straordinari che non portano a nulla; intere storie prive di logica. La realtà, la vita vera – citando Shakespeare – è solo “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.

Ma se la realtà può sottrarsi all’obbligo di essere interessante, le ipotesi (le storie) devono invece soggiacervi senza discussione: le cosiddette buone storie sono buone perché significano qualcosa per tutti (e non solo per chi le ha scritte) e significano qualcosa perché posseggono specifiche caratteristiche tecniche (indipendenti dal genere letterario); e quando una cosiddetta storia vera ci emoziona, e ci rimane dentro, è proprio perché – fatto straordinario – è riuscita a evocare quelle caratteristiche tecniche, a sottrarsi al rumore e al furore di una realtà insensata.
 
Creare buone storie – quel genere di storie che emozionano, restano nel cuore e influiscono sulla nostra visione del mondo – vuol dire principalmente inventare, per scoprire qualcosa di nuovo, che non si conosceva; e l’invenzione impone di mettersi a tavolino per discutere su ciò che si vuole inventare e su come realizzarlo in pratica.

L’idea di progettare e architettare una storia – e non scriverla sull’onda dell’emotività, assecondando una non meglio definita ispirazione pilotata da un altrettanto indefinibile talento – la ritroviamo già in Pontiggia (in forma embrionale).
 

Estratto dalla “Lezione 7 – Ovidio e la scuola delle Muse”, di Giuseppe Pontiggia.

Ciò che nelle parole di Pontiggia sembra un’attività di frontiera – e probabilmente lo era, ai suoi tempi – oggi è uno standard, la prassi, la normalità.

È normale – oggi – discutere e riflettere su un progetto narrativo prima di attuarlo, per evitare di sentirsi dire dopo – a progetto ultimato, quindi immodificabile – che forse era meglio progettare qualcos’altro, per evitare – citando ancora Pontiggia – “errori di impostazione che possono risultare fatali” .
  
Estratto dalla “Lezione 8 – La trama non è niente, il linguaggio è tutto”, di Giuseppe Pontiggia.
 
La discussione ex ante del progetto diventa significativa quando esce dal circolo dell’autoreferenzialità, quando si emancipa dai giudizi estemporanei, dalle impressioni del momento, per acquisire – come dice Pontiggia – “una dimensione teorica” che oltrepassi le opinioni degli attori in gioco – scrittore, editor, sceneggiatore, editore, agente letterario – e rassicuri tutti sul fatto di parlare lo stesso linguaggio artistico.

Estratto dalla “Lezione 7 – Ovidio e la scuola delle Muse”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Poi, chiaro, “un autore può progettare qualsiasi cosa”, senza vincoli, senza riferimenti, senza punti fermi, riversando sulla pagina quel che ha dentro, nei modi secondo più efficaci: “ma non deve allora escludere il fallimento” e – lasciami aggiungere – un fallimento totale e mortificante, di cui nel profondo avverte la possibilità, se non la certezza, e che lo porta inconsciamente “a eludere questa verifica”, perché il contraccolpo psicologico lo ucciderebbe.
 


I: Non avrai altro dio all’infuori dell’arco

Una storia ben progettata sgorga sempre dall’arco, ed è comunque mappabile sull’arco, anche quando si usano rappresentazioni e denominazioni diverse.

Se invece di una rappresentazione ad “arco” ne preferisci una a “circolo”, a “spirale”, a “U”, fai pure; se i punti nodali dell’arco li vuoi ribattezzare con i nomi delle donne che ti sono rimaste nel cuore, fai pure; se ti trovi più a tuo agio con altri schemi e altre nomenclature, fai pure. Non importa né come chiami i concetti né la rappresentazione formale che ne dai. Conta solo che tutto si possa transcodificare nell’arco, perché non c’è altro dio all’infuori dell’arco.

Per capirci: le parole “Moon”, “Lune”, “Mond”, “月亮” indicano tutte la stessa cosa, e precisamente quella cosa che noi italiani chiamiamo “Luna” (perché è così che ci esprimiamo nella nostra lingua) e a cui dobbiamo sempre essere in grado di tornare, quando vogliamo capire cosa altri intendano dire quando parlano di quel particolare astro sferico visibile solo di notte.  

Quindi, se l’arco si sviluppa “in tre atti”, e altrove senti invece parlare di un modello “in cinque atti”, dovresti avere la prontezza di capire che il modello in cinque atti non fa altro che ribattezzare “Secondo Atto” quella che per noi sarà la prima metà del Secondo Atto  (la cosiddetta “fase di salita” precedente al midpoint); “Terzo Atto” quella che per noi sarà la fase centrale del Secondo Atto (il midpoint); e “Quarto Atto” quella che per noi sarà la seconda metà del del Secondo Atto (la “fase di discesa” successiva al midpoint); e il “Quinto Atto”, a quel punto, equivarrà al nostro Terzo Atto.
 
L’arco, poi, è sempre presente, anche quando è assente.

Ci possono essere storie in cui il protagonista non ha – di fatto – alcun difetto fatale, e ne registreremo allora la mancanza rispetto allo schema completo; oppure può accadere che la chiamata all’azione e il primo punto di svolta collassino in una stessa scena, e allora noteremo la loro sovrapposizione rispetto allo schema teorico che li vede separati; oppure il momento determinante potrebbe arrivare prima della chiamata all’azione, e – di nuovo – registreremo l’inversione temporale rispetto a quanto stabilito dall’arco.
 
Ma sarà sempre e solo l’arco a fornire il metro campione con cui misurare la storia, perché – appunto – non esiste altro dio all’infuori dell’arco.
   

II: Non banalizzare l’arco

L’arco è un circolo di concetti, anche se la loro presentazione avrà di necessità una disposizione lineare: tema, premessa, status quo, incidente scatenante, chiamata all’azione, momento determinante, difetto fatale, primo punto di svolta, posta in gioco, midpoint, esperienza di morte, momento di trasformazione, climax, epilogo.

Discuteremo l’arco in sequenza, un concetto dopo l’altro, ma la tua accortezza dovrà essere nel mantenere costantemente vivo il senso delle loro interrelazioni, di tenere sempre assieme tutte le cose, perché ogni cosa ha valore – significa qualcosa – nella misura in cui si riflette e riflette tutte le altre, perché la conoscenza non è un elenco di cose, fosse pure lunghissimo, ma un tessuto connettivo tra le cose: meglio poche nozioni tutte perfettamente intrecciate nella propria testa, piuttosto che un’interminabile lista di informazioni sconnesse.

Non banalizzare l’arco, non smarrire mai i collegamenti: se ti chiedono di cosa parla la premessa, tu rispondi “delle conseguenze del superamento del difetto fatale”; se ti chiedono cosa sia il difetto fatale, tu rispondi “quel tratto caratteriale del protagonista che ostacola la difesa della posta in gioco”; se ti chiedono cosa sia la posta in gioco, tu rispondi “ciò su cui si basa la premessa”.

Non temere questa circolarità, anzi ricercala attivamente. Nessun matematico sa dirti cosa sia il punto in sé; ti dirà che, fissati due punti, puoi collegarli con un segmento; e se gli chiedi cosa sia un segmento ti dirà che è la via più breve tra due punti; punti e segmenti si definiscono a vicenda, si puntellano l’un l’altro, è proprio il caso di dire.

L’accortezza a non banalizzare devi averla anche verso i singoli punti nodali.

Diversi concetti arriveremo a riassumerli in una frase, o addirittura in una parola, ma ciò non significa che quel concetto sia una frasetta o una parolina buttata lì: tieni sempre a mente la fisiologia del processo che dall’analisi conduce alla sintesi.

Citando Bruno de Finetti, dalla sua Matematica Logico-Intuitiva:
 
In sé stessa una definizione non costituisce che una convenzione di linguaggio, dettata dall’opportunità di introdurre un’espressione più breve (a parole o in simboli) per sostituire un’espressione più lunga che occorrerebbe ripetere frequentemente. […].

Dal punto di vista psicologico, la definizione ha però il valore di arricchire il patrimonio di immagini e di concetti in quanto induce a portare l’attenzione sull’ente definito e fissarlo nella memoria […].
 
Nella definizione, insomma, l’introduzione di una parola vale come suggello di un percorso costruttivo della mente e tale processo è necessario esaminare e assimilare più ancora di quanto importi fissare nella memoria la definizione che lo conclude”.
 
Sforzati di comprendere l’intero “percorso costruttivo” dell’arco, perché è questo percorso in tutta la sua interezza che “è necessario esaminare e assimilare”, di là del “fissare nella memoria la definizione che lo conclude”.
 
Non non scindere l’arco, non lo ridurre a un “elenco di cose”, non banalizzare i singoli pezzi di cui si compone.
 

III: Non giudicare l’arco

L’arco è darwiniano: “non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”, per dirlo con le parole attribuite a Charles Darwin.

Cambiamento (del contesto) e adattamento (del protagonista) sono le parole che ti accompagneranno lungo tutto l’arco: adattamenti sostanzialmente riusciti, altri clamorosamente falliti, altri ancora parziali, a volte comunque sufficienti e altre invece insufficienti per un pelo, e poi adattamenti morti sul nascere e altri portati trionfalmente a conclusione, e in ogni caso – qualunque sia l’esito – adattamenti sofferti, perché adattarsi al cambiamento – uscire dalla propria zona di conforto, anche quando diviene asfissiante – non è mai facile per nessuno.
 
Ma adattarsi rimane necessario, se si vuol vincere – qualunque cosa voglia dire vincere, in funzione della storia in cui ci si trova –  ed è così che l’arco dona un significato preciso all’espressione vaga “nessuno è perfetto”.

Tutti siamo “perfetti”, fintanto che ci troviamo nello status quo. Ma gli status quo sono destinati a esser spezzati, perché la vita funziona così, per rotture continue di status quo. E allora, dopo la chiamata all’azione, e per tutto il Secondo Atto, ti scoprirai “imperfetto”, e pagherai il prezzo della tua imperfezione fintantoché il tuo cambiamento non si realizzerà, fino a quando non avrai superato il tuo difetto fatale: solo allora potrai dire di aver vinto ed essere tornato “perfetto”. Fino al prossimo incidente scatenante, s’intende.

Cambiare per vincere
, dunque, qualunque cosa voglia dire vincere: se per vincere devi diventare un egoista, cinico e spietato, e se poi lo diventi, allora hai vinto.

Il giudizio etico o morale sull’arco – su come ti sei trasformato lungo l’arco, per vincere – potrà pure avere rilevanza in sé, ma non riguarda il tecnicismo dell’arco, che in sé non ha solo un valore utilitaristico. 

Quindi non giudicare l’arco, o se proprio vuoi giudicarlo, abbi l’accortezza di tenere il tuo giudizio sull’arco nettamente separato dallo sviluppo tecnico.

Non confondere l’eleganza tecnica dell’arco – oggettiva, verificabile – col tuo sistema di valori preesistente all’arco.

Piuttosto, vedi se non possa essere l’arco ad ampliare le tue prospettive, a mettere un minimo in discussione le tue convinzioni più radicate, e magari a scalfire qualche pregiudizio.
 

IV: Non forzare l’arco

Ti innamorerai dell’arco, quando lo capirai. E allora finirai col vederlo ovunque, col volerlo vedere ovunque, com’è tipico di chi si innamora e vede dappertutto l’oggetto del proprio amore.

Ti dispiacerà constatare che un’opera ti è piaciuta sebbene non ci fosse alcun arco (o contesse un arco debole o fatto male) e allora vorrai imporgli un arco con la forza, in stile taglialo grosso, infilalo a calci.

Non farlo, non forzare l’arco.

Se l’arco c’è, è chiaramente sotto i tuoi occhi, e tutti i punti nodali dell’arco li puoi delimitare con precisione chirurgica: nella scena del film che va dal minuto 6.50 al minuto 7.35 si verifica l’incidente scatenante; a pagina 16 del libro vediamo la chiamata all’azione; nelle scene a pagina 38, 67 e 121 (o dai minuti da 14.20 a 15.40, da 28.10 a a 29.55, da 40.05 a 41.15) vediamo tre sfumature diverse del difetto fatale; il midpoint lo troviamo tra pagina 151 e 155 (o dal minuto 55.00 al minuto 59.20).

Se l’arco non c’è, allora semplicemente devi accettare la sua assenza, senza volerlo vedere a ogni costo. Non devi mai dire “eh, ma questo evento lo si potrebbe pure interpretare come un incidente scatenante”, “eh, ma questo tratto caratteriale assomiglia un po’ al difetto fatale”, solo perché l’opera ti è piaciuta, ma ti spiace che non sia sostenuta da un arco.

L’arco è una procedura generativa: la storia sgorga dall’arco in fase di creazione, e all’arco ritorna in fase di interpretazione, e tu non puoi – non devi – martellare dentro l’arco una storia creata chissà come.

Poi, d’accordo, uno sceneggiatore può pure ideare un arco perfetto, e dover in seguito scendere a patti con le altre figure sedute al tavolo negoziale – produttore, regista, attori, nel caso dei film; editore, agente letterario, servizio marketing, nel caso di un libro – ognuna con le sue istanze verso i contenuti e la struttura dell’opera, che magari nulla hanno a che fare con considerazioni tecniche (pensa alla sotto-trama romantica – per citare il caso classico – che spesso è un corpo estraneo alla narrazione, e tuttavia ci deve stare perché il pubblico se l’aspetta, ci rimane male se non la trova, e allora gliela si mette anche se non c’entra nulla).

L’arco teorico potrà pure incontrare sfarfallamenti o sbavature, nella misura in cui si è obbligati a piegarlo a esigenze terze al momento di metterlo a terra, ma un buon arco, un arco ben progettato, rimane comunque solido e ben riconoscibile, anche se alcuni passaggi appariranno spuri rispetto alla pulizia stilistica del modello teorico.

Ma se invece l’arco non c’è, o se ci sono brandelli di arco finiti nella storia per puro caso, non devi ricostruire a ritroso una realtà che non esiste (che non è mai esistita nella testa di chi ha progettato la storia) solo perché la storia ti è piaciuta comunque, nonostante l’assenza dell’arco

Un’opera può piacerti per le più svariate ragioni, collegate al tuo gusto, al tuo stile, ai tuoi interessi, alla tua cultura, alla tua sensibilità, e quindi tutte assolutamente legittime e insindacabili.

L’arco serve semplicemente a isolare – tra le infinite ragioni ammissibili – l’unica che non è solo tua, cioè quel motivo che può far piacere la storia a te come a chiunque altro, anche molto diverso da te.
 

V: L’arco è la miglior vita possibile

Nel saggio L’arte del romanzo – di Henry James, anno 1884 – troviamo scritto che “la sola ragione dell’esistenza di un romanzo è che esso tenta di rappresentare la vita”.

Ma di quale vita stiamo parlando?

Ognuno di noi – citando Shakespeare – “non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora” e la nostra vita, nel mondo reale, è solo “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.

È forse questa la vita che vogliamo rappresentare sulla pagina?

No, ovviamente.
 
La nostra rappresentazione va intesa come uno sforzo di scavo ed enucleazione, perché la vita è tutta inclusione e confusione, laddove l’arte è tutta discriminazione e scelta, alla ricerca di valori latenti e duraturi.

Quando Proust scrive – nel suo Il tempo ritrovato – che “la vita vera, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura” sembra evocare la capacità del mondo della pagina di restituire una ricchezza e una densità di significati che il mondo reale non riesce a rendere.

È come se il mondo della pagina fosse la versione elegante del mondo reale, se non addirittura la migliore versione possibile, il mondo e la vita così come dovrebbero essere, non certo perché tutto va banalmente a meraviglia, ma nel senso più profondo e rilevante che tutto ha un significato e una giustificazione.

E qui l’arco rivela il suo immenso valore pedagogico: devi realizzare ora, adesso, in questo istante, che ogni ciclo vincente della tua vita, nel mondo reale, ha seguito sempre, se non altro qualitativamente, la scansione logica dell’arco; e che perciò l’arco non è un giocattolino per creare storie nel mondo della pagina, ma rappresenta il protocollo più nobile per condurre la tua esistenza nel mondo reale.

Fin quando non scorgerai il tuo arco nella tua vita, fin quando non realizzerai che ti trovi sempre in qualche punto di un qualche arco, non potrai mai cogliere e sfruttare la potenza dell’arco, e le storie che produrrai saranno invariabilmente mosce e paludate, per quanto bene tu possa aver assimilato i tecnicismi di costruzione.

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