Modulo 23D – III ATTO

 

 
Il Primo Atto ci ha presentato il protagonista nello status quo, in modo da suscitarne l’empatia (che va peraltro curata lungo l’intero arco); si è poi verificato un evento che ha sì attirato l’attenzione del protagonista, ma non sino al punto da farglielo percepire rilevante per la sua vita di ogni giorno (incidente scatenante); lo sviluppo della storia ne ha però mostrato tutte le conseguenze, che hanno finito per toccare il protagonista sul vivo, obbligandolo a “fare qualcosa” (chiamata all’azione); e lui – anche se ancora non lo sa – è impreparato a fare quel che gli è richiesto, a causa di un suo tratto caratteriale (il difetto fatale) che magari era vincente nello status quo, ma ora è disastroso; e tuttavia deve agire, non può tirarsi indietro, perché in ballo c’è qualcosa a cui tiene molto (la posta in gioco).
 
Lo vediamo così lottare per tutto il Secondo Atto, in modo sicuramente fallimentare nella prima parte, a causa della sua totale inadeguatezza rispetto alle sfide a cui è chiamato, e in modo comunque problematico nella seconda parte (successiva al midpoint, dove si realizza un’inversione di valori) per il permanere di alcune sfumature del difetto fatale; i conflitti che trainano il Secondo Atto – esterni, interni e di relazione – culminano nell’esperienza di morte, un evento così traumatico da indurre il protagonista a credere che tutti i suoi sforzi siano stati vani, e che lo porta “a un passo così” dalla resa, dal consegnare la posta in gioco all’antagonista.
 
Si entra nel Terzo Atto.
 

Secondo punto di svolta

Il secondo punto di svolta non è altro che la ridenominazione dell’esperienza di morte (come il risveglio era la ridenominazione del primo punto di svolta, quando si è transitati dal Primo al Secondo Atto): : è qui che la storia prende la svolta decisiva e si chiarisce definitivamente se l’arco sarà eroico o tragico.
 
L’esperienza di morte è un terremoto narrativo, con epicentro in ciò che è rimasto del difetto fatale del protagonista. Spetta a te, autore, stabilire la magnitudo del terremoto, vale a dire che sei libero di modulare l’esperienza di morte come meglio credi. Spesso si evita di calcare la mano – di far vivere un trauma eccessivo al protagonista – sia perché diventa problematico gestirne le conseguenze a livello narrativo (di sviluppo della storia) sia perché si teme di deludere il lettore (che potrebbe “staccarsi” dalla storia).

La soluzione più elegante è anche la più difficile da realizzare (e da gestire): far accadere un evento che induca il lettore a credere che possa finire tutto in tragedia (perdita della posta in gioco) senza però allontanarlo dalla storia con dinamiche in cui fatica a ritrovarsi.
 
Di là della specifica soluzione che sceglierai, il Terzo Atto si apre sempre con le conseguenze immediate dell’esperienza di morte , in termini di reazioni emotive e comportamentali del protagonista, che devi appunto pensare come a sensazioni e azioni tipiche degli istanti immediatamente successivi a un terremoto emotivo (di cui sta a te stabilire la magnitudo e a cui andranno proporzionate le reazioni).
 

Momento di trasformazione

Il momento di trasformazione (negli archi eroici) è l’evento con cui si completa il processo di cambiamento avviato nel midpoint: è qui che saltano gli ultimi strati del difetto fatale, e il personaggio diventa “perfetto”.

Cosa sia in concreto il momento di trasformazione – quale dinamica conduca il protagonista a rinnovare la sua consapevolezza – dipende ancora una volta dalla storia, dal tono e dai ritmi che hai voluto darle.

Un espediente classico è l’intervento del mentore, una figura che, se presente, bisogna aver già visto accompagnare il percorso del protagonista, anche solo saltuariamente, e che ora si rivela decisiva per ricondurlo alla ragione.

È assurdo pensare che sia stato tutto inutile, come il protagonista crede dopo l’esperienza di morte: il cambiamento c’è stato – doloroso, problematico, imperfetto, ma c’è stato – ed è stato un cambiamento che nella fase discendente dell’arco ha dato segni di sé con alcune vittorie – autentiche, utili alla difesa della posta in gioco –  e con una migliore capacità di reazione alle sconfitte. Tutto questo è reale. Non può sparire all’improvviso a causa di un singolo evento – l’esperienza di morte – per quanto traumatico e destabilizzante. Sarebbe come credere che non sia servito a nulla aver perso 9 chili su 10, dopo una dieta ferrea, seguita con disciplina e determinazione, solo perché l’ultimo chilo non vuol andare via, e richiede di raddoppiare gli sforzi. Che si raddoppino gli sforzi, accidenti!

Questo è il senso generale del ruolo del mentore: far capire al protagonista che “il più è fatto”, che la realtà delle cose è tutta a suo vantaggio, se solo riuscisse a rimuovere dalla sua visione del mondo gli ultimi strati di nebbia (di difetto fatale) che gli impediscono il corretto apprezzamento di ciò che alla fin fine sta sotto i suoi occhi.

Il momento di trasformazione completa così il cambiamento iniziato nel midpoint, e deve apparire credibile, verosimile, proprio come era apparsa l’originaria inversione di valori.

In una storia ben progettata, e curata nei suoi dettagli attuativi, il momento di trasformazione potrà raccogliere tutti quegli elementi strumentali al cambiamento che si sono disseminati lungo l’arco, con l’idea di sublimarli in una scena precisa, nel momento di trasformazione, appunto. Lo si può pensare come uno shock anafilattico in positivo: il protagonista è stato “sensibilizzato” per l’intera storia, affinché ora, entrando in contatto con uno stimolo anche semplice, reagisca di colpo e si trasformi.

A condizione che tutto sia stato adeguatamente preparato, e al limite che ogni cosa sia stata pensata in funzione del momento di trasformazione, possono bastare due battute di dialogo tra il protagonista e il mentore a smantellare ciò che resta del difetto fatale.

“Perché non sono felice, nonostante abbia fatto tutto alla perfezione?”

“Perché noi non siamo quello che facciamo, ma dobbiamo fare quello che siamo.”


E il protagonista finalmente capisce; e precisamente capisce che per tutta la storia si è “forzato” nel fare cose contrarie alla sua natura, per rispondere a scintillanti sollecitazioni esterne, alla lunga incapaci di sostenere quella felicità di cui andava in cerca. Torna in te, ritrova te stesso, chiediti chi sei. Se sei nato per essere generoso e aiutare gli altri, sii generoso e aiuta gli altri, per quanto il frastuono del mondo ti abbia distratto per così tanto tempo dalla tua natura, trascinandoti in competizioni per la gloria, il successo, il denaro, di cui – at the end of the history – non ti importava nulla.
 
Questa situazione è tipica: capita spesso che un personaggio sia spinto verso una conquista esterna a livello conscio, ma che nel suo subconscio avverta il bisogno di tutt’altro, e tutta la storia venga così trainata dal contrasto tra le due parti della sua anima – consapevole e inconsapevole – tra ciò che si vuole esteriormente (desiderio conscio) e ciò di cui si ha bisogno realmente (desiderio inconscio).

I personaggi più memorabili e affascinanti tendono in ogni caso ad avere non soltanto un desiderio conscio, ma anche un desiderio inconscio” – scrive Robert McKee – “Sebbene questi protagonisti complessi siano inconsapevoli del proprio bisogno inconscio, il pubblico lo avverte in quanto percepisce la loro contraddizione interna. I desideri consci e inconsci di un protagonista a più dimensioni si contraddicono tra loro. Ciò che crede di volere è l’antitesi di ciò che realmente, ma inconsapevolmente, vuole”.
 
E a volte, sì, può bastare una frase a far trasformare definitivamente il protagonista, ma gli effetti di quella frase devono essere stati preparati prima, con gran cura, per rendere plausibile, se non ovvio, che basti una frase a completare il processo di cambiamento.
 
In generale, il momento di trasformazione può essere tanto più rapido (risolversi ad esempio in uno scambio di battute) quanto più lavoro si è fatto in precedenza, lungo l’intero arco, per consentire quell’immediatezza.
 
Quel che rileva – di là del percorso seguito – è la “perfezione” del protagonista, subito dopo il momento di trasformazione: il difetto fatale non c’è più, il protagonista ha vinto su sé stesso; e perciò, ora, può vincere contro chiunque.
 
Aver vinto su te stesso: questa è la vera letizia.
 
La perfezione della vita non è in quegli attimi in cui tutto va alla grande, che vorresti ingenuamente cristallizzare per l’eternità.

La perfezione è affrontare il male senza mormorare; è restare sotto il diluivo con gioia; è nell’essere tormentato dalla fame, bussare a porte che non si apriranno, essere scambiato per un ladro, un farabutto, un impostore, e trovare ancora la forza di trasformare il male in bene.
 
Questa è la perfezione. E nulla può sconfiggerti, quando sei diventato perfetto.
 
Il secondo punto di svolta e il momento di trasformazione in Codice d’onore.
 
Antagonista preparati: stiamo arrivando!
 

Climax

Il climax è lo scontro finale tra il protagonista e l’antagonista.
 
La sua dinamica (la forma esatta da conferire all’ultimo e decisivo conflitto) dipende ancora una volta dalla storia, dal tipo di storia che hai progettato e realizzato, e da tutto ciò che è successo nella tua storia fino a quel punto. Sarà uno “scontro all’ultimo sangue”, nel senso più raffinato del termine: non servono necessariamente particolari  fuochi d’artificio esteriori, però è fondamentale che il protagonista si ritrovi davanti a tutte le sue più grandi paure, che l’evento in superficie simboleggi ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel suo subconscio, che colpisca al cuore la sua identità.
 
E tutti gli archi eroici hanno un punto in comune: ora il protagonista è “perfetto” – nel senso tecnico del termine, all’interno della storia: il suo agire non è più viziato dal difetto fatale – perciò non solo ha tutte le carte in regola per vincere contro l’antagonista, ma deve vincere, in ossequio a quella stretta coerenza che ci aspettiamo nelle storie, al fatto che nel mondo della pagina accade tutto e solo ciò che deve accadere, e perciò, se più nulla ostacola la vittoria del protagonista – giacché alla rimozione integrale del difetto fatale corrisponde la disintegrazione di tutti gli altri ostacoli – allora il protagonista deve vincere.

Vittoria certa non significa però vittoria facile. Il protagonista potrà incontrare difficoltà anche rilevanti, per avere la meglio sull’antagonista, ma il punto è che ora sa come affrontarle, se del caso con l’aiuto degli alleati, e quindi è destinato comunque a vincere, per quanto la vittoria possa essere sofferta  (anche in termini di perdite materiali, che si aggiungono alle perdite cumulatesi durante l’arco).
 
Ma tutto ciò ha un’importanza relativa – ancorché da qualificare, come faremo nel modulo 23E – perché ciò che conta è solo una cosa, e precisamente quella cosa che ci ha tenuto incollati alla storia col fiato sospeso e viene ora sublimata in un urlo di liberazione: la posta in gioco è salva!
 

La messa in salvo della posta in gioco in Coach Carter.
La prima scena è quella decisiva,
la seconda serve a chiosare l’intera vicenda.

Risoluzione

La risoluzione è l’epilogo della storia, una scena che da sola restituisce il senso di tutto ciò che è accaduto: è quel che rimane alla fine di tutto.

Un espediente classico è concepire una scena finale “a specchio” rispetto alla scena iniziale.

La regina degli scacchi: uno dei più bei finali “a specchio” mai realizzati.
Nella scena iniziale vediamo Beth da bambina, sullo sfondo di una macchina distrutta
(per un incidente volontariamente provocato da sua madre,
con l’obiettivo di suicidarsi insieme a lei, ma a cui Beth è sopravvissuta).
Nella scena finale ritroviamo una Beth divenuta donna, sullo sfondo di una macchina di lusso
(il giorno dopo aver sconfitto il campione del mondo di scacchi a casa sua, in Russia).
E il contrasto riassume l’intera storia:
Beth-bambina, col suo umile vestitino bianco, rappresenta il pedone,
il pezzo di minor valore, più di ogni altro destinato a esser catturato dall’avversario;
Beth-donna, nel suo abito elegante, con tanto di cappello munito di pompon,
rappresenta la regina, il pezzo più potente, che può muoversi e colpire come vuole.
E l’evoluzione è una situazione effettivamente realizzabile negli scacchi, per quanto improbabile:
se un pedone attraversa indenne la scacchiera, e raggiunge l’ultima traversa avversaria,
allora si trasforma in regina, nel pezzo più potente, anche se è nato come pezzo più debole.
È la cosiddetta “promozione del pedone”,
che Beth realizza nell’ultima partita contro Borgov, intuendo di avere in mano la partita,
ma è anche la situazione che minaccia di realizzare – ancora bambina –
in una delle sue primissime partite.

Abbozziamo un principio di storia, utile anche per un ripasso.

La tua protagonista è una ragazza mossa da un’idea fissa: per aspera ad astra. Tano ci crede, che la frase se l’è tatuata sulla spalla: una scritta discreta, sobria, con una grafia elegante, ma ben incisa per poterla guardare ogni volta che le aspera della vita sembrano insopportabili, per ricordarsi che in realtà sono una via privilegiata verso astra.

La filosofia di fondo è chiara: la felicità è un traguardo futuro a prezzo di sofferenze nel presente, il dolore di oggi è solo l’altra faccia della felicità di domani, quindi stringi i denti, tieni duro e soffri, perché grande sarà la tua ricompensa.

Questa idea permea la sua vita, e in primis – neanche a dirlo – il suo rapporto con il lavoro.

La vediamo davanti al computer, sommersa dalle carte, indaffaratissima, in un venerdì pomeriggio in cui l’intero ufficio è invece brioso, non solo per la naturale leggerezza del venerdì pomeriggio, ma soprattutto per ciò che si profila: una collega ha appena comprato casa e ha invitato tutti a un aperitivo per festeggiare l’evento.

Anche la tua protagonista è stata invitata, ma ha dovuto declinare: lunedì c’è un meeting con il più importante cliente dell’azienda, per finalizzare un affare di grande rilevanza, di quelli che possono dare una bella accelerata al fatturato, e lei è la responsabile operativa del progetto e vuole che sia tutto perfetto, affinché i suoi capi diretti apprezzino tutta la professionalità che è stata messa per concludere al meglio l’accordo. Per aspera ad astra!

L’ufficio pian piano si svuota, il silenzio la fa da padrona e scende la sera. La tua protagonista è sempre lì, ormai sola in un ufficio buio e deserto, davanti al computer a stropicciarsi gli occhi sempre più forte. Serve il sollecito della guardia giurata per farla andar via.

“Dottoressa, mi scusi… ma io devo chiudere il palazzo”.

Alza una mano in segno di scusa, raccoglie tutte le carte e le infila nella borsa. Continuerà le sue verifiche a casa. Per aspera ad astra!

Si sta dirigendo verso la metro e attraversa la piazzetta dove c’è il locale in cui i suoi colleghi stanno festeggiando: sono all’aperto, nei tavolini fuori, tutti sorridenti, chiassosi e spensierati. Sospira. Le piacerebbe unirsi a loro, ma non può. Il buon esito dell’accordo con il cliente può dipendere da dettagli, e ai dettagli non si presterà mai sufficiente attenzione. Bisogna lavorarci di continuo, anche il sabato e la domenica, se serve. La felicità arriverà, ma ora bisogna stringere i denti e saper soffrire. Per aspera ad astra!

Questo – a grandi linee – è il primo contatto del lettore con la protagonista, e serve abilità per veicolarne l’immagine corretta: devi creare empatia, la devi far apparire competente e proattiva, senza però trasformarla in una “arrivista di merda” disposta a tutto pur di far carriera.

È fondamentale, ad esempio, che la collega inviti anche lei all’aperitivo, e magari che insista affinché si unisca a loro, anche più tardi, a festa iniziata. Perché ci tiene davvero ad averla.

La tua protagonista, per capirci, non deve sembrare – anche solo inconsciamente, per tua incuria – una stronza catatonica tutta presa dal lavoro (di cui almeno un esemplare è presente in qualsiasi ufficio) che non si invita nemmeno alla macchinetta del caffè perché appesterebbe i cinque minuti di pausa con la sua pesantezza (e quindi figurati se la inviti a un aperitivo). Fai attenzione – per esser chiari – al settaggio standard che ogni lettore fa scattare in automatico, quando non gli viene fornita la giusta quantità di informazioni, nel giusto ordine.

La tua protagonista deve essere empatica: competente, proattiva, sottoposta a sofferenza ingiusta.

Di cosa ci parlerà la storia? Del suo cambiamento, perché è del cambiamento del personaggio che parlano tutte le storie, perché nulla persuade di più del vedere un cambiamento di idee, tradotto in cambiamento di comportamenti, a seguito di eventi drammatici.

La tua protagonista dovrà capire (a prezzi di sbagli, errori e sofferenze) che non c’è nessuna astra da raggiungere attraverso aspera; che la felicità è tutta qui e ora, sempre a portata di mano, per chi desidera davvero essere felice; che si può scegliere di essere felici con la stessa libertà e immediatezza con cui si sceglie un calice di vino bianco anziché rosso.

La ritroveremo, nella scena finale, laddove ci sarebbe piaciuto vederla all’inizio: al centro di una lunga tavolata all’aperto, nel locale in piazzetta vicino all’ufficio, nel mezzo di un brindisi con colleghi ed amici che scandiscono il suo nome, durante i festeggiamenti per il suo compleanno.

L’avevamo conosciuta al buio di un ufficio, da sola, in silenzio, sommersa da una quantità di lavoro che alla fin fine si era autoinflitta, e la riscopriamo in mezzo al chiasso di tutti coloro che le vogliono bene e le hanno organizzato una festa a sorpresa. Per aspera ad astra non esiste più. La felicità è tutta qui e ora.

La simmetria tra scena iniziale e scena finale – un finale speculare all’inizio – è una soluzione standard, perché la mente del lettore registra il cambiamento e ne viene colpito in maniera profonda, anche solo inconsciamente.

Il pericolo – come sempre – è l’esagerazione: se la fine è perfettamente speculare all’inizio, se davvero il finale non è altro che l’inizio messo davanti allo specchio, c’è il rischio di risultare meccanici, forzati, artefatti, di trasmettere la sensazione che “lo si è fatto apposta”.

Ovvio che “lo si è fatto apposta”, perché tutto viene “fatto apposta” e nulla è lasciato al caso, in una storia ben fatta. Ma il punto è che se da un lato “tutto è fatto a posta”, dall’altro “nulla deve sembrare fatto apposta”, proprio come la miglior recitazione è quella che non sembra una recitazione, che appare naturale, spontanea, anche se per raggiungere naturalezza e spontaneità servono parecchi artifici.

Attenzione quindi a non mostrare il backstage della sceneggiatura, a non portare il lettore dietro le quinte, rivelandogli così che non c’era nulla di vero in ciò che ha letto sino a quel momento, che era tutta una tua invenzione (e, al solito, non sarà l’infantile precisazione “tratto da uno storia vera” a conferire un valore di verità alla narrazione: la storia è vera perché sembra vera, non perché lo è realmente).

Lo stesso effetto, se non addirittura migliore, potresti ottenerlo con un finale esteriormente asimmetrico rispetto all’inizio, ma sostanzialmente speculare nei contenuti.

È venerdì sera, e noi vediamo la protagonista a casa sua, sul divano, davanti alla tv, accucciolata sul suo fidanzato. Perché, sì, la storia l’ha condotta – tra le altre cose – ad avere un amore, una situazione impensabile nello status quo, governato da per aspera ad astra (un impegno sentimentale? Ma stiamo scherzando? Sarebbe un imperdonabile distrazione nella strada verso la mia astra! Prima sarò felice, e dopo penserò ai legami sentimentali). 

Questa visione del mondo – un sistema di valori per cui prima si raggiunge la felicità, e solo dopo ci si preoccupa di tutto il resto – ora non esiste più. La felicità è tutto il resto! La felicità è nello stare accucciolate sulla spalla del proprio amore, con gli occhi che si chiudono, il sonno che prende il sopravvento e il rumore della tv che va ad affievolirsi.
 
Un brivido ridesta la ragazza: la canottiera che indossa è troppo leggera. Il ragazzo allunga una mano verso l’angolo del divano e prende il plaid blu con le stelle bianche; le riporta la testa sulla spalla e la copre; il tatuaggio Per aspera ad astra scompare sotto un manto di stelle.


Il test del finale

Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico, eccetera.
 
Ma gli uomini non sono così.
 
Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, più spesso energico che apatico, e viceversa: ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente, e di un altro che è cattivo, o stupido.
 
E invece è sempre così che distinguiamo le persone. Ed è sbagliato.
 
Gli uomini sono come i fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini.
 
Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre sé stesso”.
 
Le parole di Tolstoj – da Resurrezione – sono un modo potente ed elegante per restituire il senso profondo dell’arco di trasformazione.

Il mondo della pagina chiama il personaggio a un cambiamento, così come la vita reale chiama tutti noi a cambiare, a rimodulare noi stessi per adattarci a circostanze sempre nuove.

Non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente, e di un altro che è cattivo, o stupido”, perché “ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane”, perciò tutti noi abbiamo il potere di cambiare – almeno in linea di principio – e ciò che la storia impone, che la vita richiede, è trovare la forza di trasformare la potenzialità in realtà, di maturare la consapevolezza per manifestare la parte migliore di noi rispetto alla situazione in cui ci si trova.

Una storia sarà tanto più emozionante –  rimarrà tanto più nel cuore e condizionerà tanto più il nostro modo di pensare e agire – quanto più marcata sarà stata la trasformazione del personaggio, quanto più “arcuato” si sarà rivelato il suo arco: il personaggio – alla fine della storia – deve essere in grado di fare qualcosa che – all’inizio, quando l’abbiamo conosciuto – non ci saremmo mai aspettati. È il test del finale, il confronto tra il prima e il dopo, tra lo status quo e l’epilogo, a dirci quanto il personaggio è cambiato, e a misurare la qualità artistica dell’opera.

Pensa a Il discorso del re, oppure a Stand by me, se vuoi avere un metro di paragone efficace, per dare concretezza al principio per cui “il personaggio, alla fine, deve essere in grado di fare qualcosa che, all’inizio, non ci saremmo mai aspettati”.
 

Chi l’avrebbe mai detto che il Principe Albert, Duca di York, un semplice “cadetto”
che ha imbarazzato l’intero stadio di Wembley con le sue balbuzie al British Empire Exhibition, 
diventerà poi Re Giorgio IV e terrà un discorso alla nazione intera,
per annunciare l’ingresso in guerra, riscuotendo un successo enorme?
E chi l’avrebbe mai detto che quattro semplici ragazzini, uno più sfigato dell’altro,
si sarebbero ritrovati, pistola alla mano, a difendere il possesso di un cadavere,
contro dei bulli molto più grandi e aggressivi di loro?

Ma ovviamente c’è un contrappeso: la credibilità.

Quanto più il personaggio è cambiato – quanto più alla fine riesce a compiere azioni sorprendenti rispetto all’inizio – tanto più sarà difficile sul piano tecnico renderne credibile il cambiamento; e la credibilità è un requisito irrinunciabile, perché il lettore-spettatore si aspetta e vuole – prima di tutto, sopra a tutto – sensatezza.

Esiste quindi un trade-off: quanto più l’arco viene “incurvato” (quanto più pronunciato è il cambiamento) tanto più la storia rimarrà nel cuore; ma quanto più si incurva l’arco, tanto più complicato diventa essere credibili (e senza una credibilità sufficiente viene seriamente pregiudicato l’impatto emotivo). 

In senso inverso: quanto più l’arco viene “appiattito” (quando meno pronunciato è il cambiamento) tanto più facile sarà gestire la credibilità della vicenda (e la credibilità è fondamentale per far restare la storia nel cuore); ma quanto più l’arco si appiattisce tanto meno il cambiamento del personaggio impressionerà il lettore-spettatore (e la storia scivolerà via, senza grandi impatti emotivi).

Nessuno può insegnarti – in teoria, a priori – come regolare il trade-off (e chi dice di poterlo fare è un impostore); lo devi imparare da te, con letture ripetute, con esperienze di vita, e – last but not least – con esercizio continuo nel riportare sulla pagina tutto ciò che sai (per via diretta, indiretta o teorica) giacché vi è sempre un vuoto d’aria, un calo fisiologico, tra ciò che si sa del mondo reale e ciò che si riesce a rendere nel mondo della pagina, e solo pratica sistematica può ridurre la distanza.

Buon lavoro!

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