Modulo 23E – Cinquanta sfumature di archi


Il destino della posta in gioco dà il tono all’opera: eroico, se portata in salvo; tragico, se viene perduta.

Ma questa distinzione netta, tra arco eroico e arco tragico, corrisponde alla realtà delle cose, o non è forse una semplificazione brutale, che rischia di falsare il senso stesso della storia?
 
Espresso in altro modo: come si realizza un finale perfetto?

Il finale perfetto

Una storia è una sequenza di scene, e una scena è un’unità narrativa fondata sul conflitto, quindi una storia è una sequenza di conflitti – da variare per tipologia e intensità, in accordo con un processo di escalation – che culminerà nel destino della posta in gioco.

Ma per esigenze di realismo, per conformare la storia al senso e all’esperienza comune, una successione di conflitti dovrà anche produrre un precipitato di eventi suscettibili di fare da controcanto al destino della posta in gioco.

Prendiamo Romeo e Giulietta: il finale è tragico, ma da un grande male individuale (la morte di Giulietta e Romeo, il dolore delle due famiglie) è derivato un bene collettivo (ora tutta Verona è un posto migliore); il prezzo da pagare è stato sicuramente eccessivo, spropositato, ma l’immensa sofferenza delle due famiglie non è stata del tutto inutile; qualcosa si è salvato.

Questa miscela di elementi negativi (la morte di Romeo e Giulietta) e positivi (la riappacificazione tra i Montecchi e i Capuleti) solleva a volte il dubbio se l’opera sia una tragedia (arco tragico) o una commedia (arco eroico).
 
Se si va a briglia sciolta – sprovvisti del conforto di uno schema teorico – si potrebbe arrivare a dire che in realtà tutto è andato per il meglio, perché aver sottratto un’intera città a un conflitto atavico è un bene collettivo più grande di qualunque disgrazia individuale.

Peccato però che nessun personaggio, durante la storia, sia minimamente preoccupato delle sorti di Verona, e tutto spinge anzi in direzione contraria. Poco importa – ai fini dell’analisi tecnica – che Verona adesso sia salva, se la salvezza di Verona non era l’obiettivo esplicito o implicito di nessun personaggio.

Potrà pure esser vero – in generale, in astratto – che un bene collettivo perpetuo (Verona riappacificata) vale più di qualsiasi sacrificio individuale limitato (la morte di due giovani innamorati) e che i benefici di una Verona finalmente tranquilla sono incommensurabili a un dolore che per quanto grande rimane comunque circoscritto. Ma l’opera non ci parla dei pericoli di vivere in una Verona incendiaria; solo alla fine, come corollario di una vicenda centrata su tutt’altro, la città finalmente si rasserena dopo una lunga conflittualità.
 
Non puoi “inventarti cose” quando analizzi un’opera; non puoi violentare l’opera per forzarci dentro le tue idee preconcette – il bene collettivo supera sempre il male individuale – se nell’opera non c’è traccia di quelle idee; e d’altra parte, se quelle idee ci fossero, allora dovresti essere in grado di delimitare con precisione le scene in cui sono presenti.

Romeo e Giulietta
è indiscutibilmente una tragedia, che ha però dei risvolti positivi, come ogni tragedia ben fatta.

Il principio è generale: il finale perfetto miscela sempre elementi di segno contrario, qualunque sia stata la sorte della posta in gioco.
 
Un caso di particolare interesse è offerto dal film L’attimo fuggente, di cui abbiamo già ripetutamente parlato (nei moduli 2, 418A18B22, 23B, 23C).

Quest’opera non si può classificare né eroica né tragica, per un preciso motivo tecnico: non c’è un protagonista “reale” che difende la posta in gioco, ma abbiamo un protagonista “teorico” – ideale, astratto – funzionalmente scisso in n coprotagonisti, ognuno portatore di una sfumatura del difetto fatale e ognuno responsabile per la sua quota parte di una sfumatura della posta in gioco. Alcuni ragazzi vincono, altri perdono, altri ancora sembrano fare pari e patta – e sarebbe interessante analizzare nel dettaglio i singoli casi – per cui rimane una strutturale indecidibilità intorno alla natura ultima dell’opera.
 
La morte di un coprotagonista conferisce sicuramente un tono drammatico all’intera vicenda, a cui si aggiunge l’armonica secondaria dell’espulsione dalla scuola di un altro coprotagonista; ma il gesto compiuto da alcuni ragazzi nel finale rimane straordinario, per la forza interiore che presuppone, tanto più che a capitanarlo è il coprotagonista al principio più timido e introverso.

Ritorna l’argomento di fondo, di là della qualificazione dell’opera: il finale perfetto miscela sempre eventi positivi e negativi, e questa miscela non fa altro che recepire la complessità del mondo reale, dove noi vinciamo e perdiamo, ma vittoria e sconfitta sfumano spesso i propri contorni, si sovrappongono, a volte sino al punto da lasciarci nel dubbio se si sia vinto o perso.

Per vincere dobbiamo combattere, e il combattimento lascia segni, traumi, ferite, che non vanno via né si dimenticano, solo perché si è vinto.

Lo stesso accade con le sconfitte, perché anche in un quadro complessivamente devastato c’è sempre qualcosa in grado di giustificare e nobilitare la nostra sofferenza.

I finali del mondo reale sono complessi, e i finali del mondo della pagina devono recepire la stessa complessità, e per di più con molta più eleganza, se vogliono dirsi perfetti. 
 
In ogni bene c’è sempre un po’ di male, in ogni male c’è sempre un po’ di bene, in ogni cosa – qualunque cosa sia – c’è sempre un po’ del suo opposto: questa dualità è la realtà di tutte le cose, l’unica capace di risuonare con noi.

 

La narrativa abbraccia sempre la complessità della vita, e spesso la sovrascrive, la oltrepassa, anche quando dà l’impressione di riprodurla fedelmente.

I finali del mondo della pagina sono inevitabili, dati gli elementi distribuiti lungo la storia.

I Montecchi e i Capuleti si riappacificano, davanti alla morte dei due ragazzi. Ma perché ciò accade? Perché Shakespeare lo ha reso possibile.

I due capi famiglia non si sono odiano affatto; sono i rispettivi nugoli di parenti e servitori a detestarsi, spesso per i più futili motivi, come dimostra inequivocabilmente la scena iniziale, messa lì proprio per far capire quanto sia sciocca, al fondo, la rivalità tra le due famiglie.

ATTO PRIMO, Scena I 

Entrano Sansone e Gregorio con spada e scudo

Sansone: E che! Siam tipi da portar carbone, noialtri?

Gregorio: Ah, certo no! Noi paghiamo a misura di carbone!

Sansone: E se ci salta poi la mosca al naso tiriamo fuori questa.

(Indica la spada al suo fianco)

Gregorio: Che scoperta! È come se dicessi: “Finché vivo tiro fuori il mio collo dal collare”.

Sansone: Io, se mi smuovo, le scarico brutte.

Gregorio: Sì, soltanto che a smuoverti e a menare ci metti qualche tempo.

Sansone: Basta ch’io veda un cane di Montecchi. Mi basta quello per farmi scattare.

Gregorio: Già, ma scattare è muoversi; rimanere ben saldi sulle gambe, quello è coraggio. Se tu scatti, scappi.

Sansone: No, so scattare pure stando fermo: mi basta d'incontrarmi con un cane di quella gente là. Fa’ che l’incontro, sia maschio o femmina, io prendo il muro.

Gregorio: Con questo fai vedere che sei stroppio; perché al muro ci va sempre il più debole.

Sansone: Questo è vero; è per questo che le donne che sono i vasi più deboli e fragili, vanno sempre appoggiate spalle al muro. Perciò io sai che faccio? Caccio dal muro i servi dei Montecchi e ci appoggio le serve.

Gregorio: Qui però ci sarà da vedersela fra uomini, padroni e servi.

Sansone: Per me fa lo stesso. Mi mostrerò tiranno: combattuto che avrò coi loro uomini, sarò gentile con le loro donne
 Taglio loro la testa.

Gregorio: Ma che dici! Vuoi tagliare la testa alle ragazze?

Sansone: La testa
 Insomma far loro la festa. Prendila come vuoi.

Gregorio: Non sono io, sono esse che se la devon prendere nel senso che vuoi tu.

Sansone: E puoi star certo che fintanto che mi sto ritto in piedi, quelle mi sentiranno. Lo san tutte che bel tocco di carne è il sottoscritto.

Gregorio: E buon per te che non sei nato pesce, perché saresti nato stoccafisso
 Piuttosto tira fuori quell'arnese, che arriva gente di Casa Montecchi. Entrano Abramo e Baldassarre

Sansone: Io la mia lama l’ho bell’e snudata. Attacca tu per primo. Io ti spalleggio.

Gregorio: “Spalleggio”… che vuoi dire? Mi rivolgi le spalle e te ne scappi?

Sansone: No, non temere.

Gregorio: Eh, di te ho paura.

Sansone: Restiamo dalla parte della legge, lascia che siano loro a cominciare.

Gregorio: Io gli passo davanti, e gli faccio gli occhiacci del dispetto. E la prendano pure come vogliono.

Sansone: La prenderanno come avranno il fegato. Io gli faccio gli occhiacci, mi mordo il pollice in faccia a loro, e lo faccio schioccare, ch’è un insulto. E se la prendon male, tanto meglio.

(Fa il gesto di mordersi il pollice)


Abramo: Per noi ti mordi il pollice, compare?
 
Sansone: Io sì, mi mordo il pollice.

Abramo: Ti sto chiedendo s'è verso di noi che te lo mordi. Rispondimi a tono.

Sansone (A Gregorio, a parte) : Se rispondo di sì, sto nella legge?

Gregorio (A Sansone, a parte) : No.

Sansone: No, compare. Se mi mordo il pollice, non è per voi. Però mi mordo il pollice. Ma non vorrete mica attaccar briga?

Abramo: Briga, noi? No.

Sansone: Ma se n’aveste l’uzzolo, io sono a vostra piena discrezione. Il mio padrone vale quanto il vostro.

Abramo: Ma non di più.

Sansone: D’accordo.

Gregorio (A Sansone, a parte) : Dì “di più”, sta venendo un parente del padrone.

Sansone: Vale di più, sissignore!

Abramo: Tu menti!

Sansone: Fuori le spade, se siete degli uomini! Gregorio, pronto con il tuo fendente.

(Si battono)

Entra Benvolio


Benvolio: Fermi, insensati, fermi! Giù le spade! Idioti! Non sapete quel che fate!

(S’intromette, e con la propria spada fa abbassare a terra quelle dei contendenti)


Entra Tebaldo e s’accosta a Benvolio, sussurrando.


Tebaldo: Sei bravo, eh?, Benvolio, a trar la spada in mezzo a questi timidi cerbiatti! Vòltati, e guarda in faccia la tua morte.

Benvolio: Sto solo a metter pace tra costoro. Perciò rinfodera, o almeno adoprala a darmi mano a rappacificarli.

Tebaldo: Che! Tu parli di pace spada in pugno? Questa parola “pace” io la odio come l’inferno, i tuoi Montecchi e te! A te, vigliacco, in guardia! Fatti sotto! Si battono. Entrano parecchie persone delle due famiglie e si accende una zuffa generale; poi sopraggiungono dei cittadini armati di mazze.

Cittadini: Mazze ferrate! Picche! Partigiane! Datevi addosso, ammazzatevi tutti! Capuleti, Montecchi, morte a tutti!

Entra il vecchio Capuleti, uscendo di casa, in vestaglia, con Monna Capuleti.


Capuleti: Che diavolo di pandemonio è questo? Qua il mio spadone!

Monna Capuleti: Sì, la tua stampella! Una stampella dategli, piuttosto! Perché chiedi una spada, che vuoi farci?

Capuleti: Il mio spadone! C'è il Montecchi, il vecchio, che viene a provocarmi, spada in pugno!

Entrano il vecchio Montecchi con Monna Montecchi.

Montecchi: Vile d'un Capuleti! (Fa per slanciarsi, spada in pugno, contro il Capuleti, ma la moglie lo trattiene) … E non tenermi! Lasciami andare!

Monna Montecchi: Non farai un passo, per andarti a scontrar con un nemico.
 
Osserva la sapienza artistica nella presentazione degli eventi, l’ordine scelto per mostrarli al lettore-spettatore: prima i servitori entrano in conflitto tra loro, e dopo i due capifamiglia si trovano contrapposti (entrambi peraltro bloccati dalle rispettive mogli). 

È difficile rimanere calmi, quando tutto il mondo intorno impazzisce, e se vedo un mio servitore in lotta contro un servitore della famiglia rivale, il primo istinto è prenderne le parti. Ma sono stati i servitori a far partire la zuffa, per di più per il più sciocco dei motivi (il semplice gusto della provocazione) e a quel punto i capifamiglia – sino a quel momento pacifici – ci si sono ritrovati in mezzo.

L’effetto sarebbe stato opposto se l’ordine fosse stato inverso, se si fosse mostrato un conflitto originato da una controversia esplicita tra il Montecchi e il Capuleto, a cui si fossero poi aggiunti i rispettivi servitori a difesa dei rispettivi padroni. Sarebbe passato – in questo caso – il messaggio contrario: i due capifamiglia si odiano e hanno bisogno di una schiera di servitori pronti a lottare.

L’ordine di presentazione degli eventi è fondamentale, perché nella matematica della scrittura non vale la proprietà commutativa: la sequenza di scene A+B non produce lo stesso effetto (comunicativo, emotivo) della sequenza B+A.


I due capifamiglia non solo non si odiano, ma provano addirittura affetto e stima per alcuni esponenti della famiglia avversaria, come dimostra inequivocabilmente la scena in cui Romeo si presenta alla festa dei Capuleti (che rafforza ciò che era già stato comunicato all’inizio: l’odio tocca i parenti e i servitori, non i capifamiglia).
 

ATTO PRIMO, Scena V

Tebaldo: Alla voce, costui pare un Montecchi. Non mi sbaglio (Ad un servo) Ragazzo, la mia spada! Come! Il furfante ardisce venir qui, coperto da una maschera grottesca, a farsi beffa della nostra festa? Ebbene, per l'amore del mio sangue e per l'onore della mia famiglia, non credo di commettere peccato a stenderlo qui morto, con un colpo.

Capuleto: Che c
è che tagita tanto, nipote?

Tebaldo: Questi è un Montecchi, zio, nostro nemico; un furfante, venuto qui a dispetto, per beffarsi di questa nostra festa.

Capuleto: Il giovane Romeo?

Tebaldo: Sì, proprio lui, quel furfante del giovane Romeo.

Capuleto: Calma, nipote mio. Lascialo stare. Si conduce da vero gentiluomo; e, per vero, Verona vanta in lui un giovane virtuoso e di bei modi; né io permetterei che in casa mia, per tutto l’oro di questa città, gli sia recata alcuna umiliazione. Perciò sta’ calmo. Non te ne occupare. È un ordine, e se tu vuoi rispettarlo, fa
 buona cera, smetti l’aria truce, che non s’addice proprio ad una festa.

Tebaldo: S’addice, invece, eccome, quando tra gli ospiti c’è un tal furfante! Non lo sopporto.

Capuleto: E devi sopportarlo, invece, giovanotto! Devi, ho detto! Chi è il padrone, qui, sei tu o io? Non lo sopporta, lui! … Ti guardi Iddio dal creare una rissa tra i miei ospiti! Vuole alzare la cresta, come il gallo! Vuol far, come si dice, la bravata!

Tebaldo: Ma, zio, è una vergogna!

Capuleto: Ovvia! Ovvia! Ragazzo prepotente! E che! Scherziamo? È uno scherzo che può costarti caro. So quel che dico: tu vuoi contrariarmi. Hai scelto proprio il momento, perdio! (Ai danzatori) Bene, bravi figlioli! (A Tebaldo) Un insolente, ecco che cosa sei. Va’ e sta’ buono, altrimenti… (Ai servi) Più luce, fate luce… (A Tebaldo) E vergognati: e se non fai giudizio, bada che son qua io… (Ai danzatori) Su, su, ragazzi, qui ci vuole un po’ più d'animazione!

 
Ti invito a osservare la fermezza del Capuleto nel tenere il punto contro il nipote Tebaldo, a confermare che – in una situazione di normalità, non sviata da un conflitto già in corso – l’animo del capofamiglia è sereno, disteso, per nulla bellicoso verso l’altra famiglia, e anzi molto ben disposto ad accoglierla.
 
L’unica colpa degli esponenti delle due famiglie è nell’esser circondati da idioti che rimuginano su un odio atavico, di cui i due finiscono col subire inevitabilmente l’influenza nefasta. È una situazione straordinariamente realistica, in cui è facile rivedere tanti episodi di vita reale, di vita vissuta in diversi luoghi e in diversi tempi, e che perciò dona un’eleganza particolare all’intera vicenda narrativa.

Ora, però, di fronte alla morte dei due ragazzi, davanti una disgrazia così grande, ecco che il loro buon senso – sino a quel punto latente – trova finalmente la forza di manifestarsi con tutta la forza necessaria: basta odio, basta violenza, basta rabbia, basta minacce, basta, basta, basta!

Abbiamo così un’altra indicazione precisa sulla realizzazione di un finale perfetto: il finale perfetto non tradisce mai la natura dei personaggi.

Se i personaggi si riappacificano, è solo perché nel corso della storia sono state gettate le basi – esplicite o implicite – della loro riappacificazione, seppur in un generale contesto di conflittualità. 

Ci vuole coerenza – una stretta coerenza, lasciami dire – tra il profilo psicologico dei personaggi, le azioni che compiono durante la storia e il finale che li vede coinvolti.

Pensa ancora – per confronto e per conferma – a L’attimo fuggente.

L’atto di ribellione finale è stato sapientemente preparato durante l’intero film. Il primo a ribellarsi – a dare il là ai compagni – è proprio quel ragazzo che al principio era il più timido di tutti, che aveva seri problemi a parlare in pubblico, che non voleva aggregarsi alla “Setta dei Poeti Estinti”, e che però vediamo cambiare pian piano nel corso della vicenda, sino a diventare capace di un gesto impensabile all’inizio del film, ma assolutamente coerente con la sua nuova natura, venuta fuori nel corso della storia, in conseguenza del modo con cui il personaggio ha agito di fronte alle prove che ha dovuto affrontare.
 
Possiamo essere lettori diversi per età, sesso, ceto sociale, titoli di studio, cultura e sensibilità artistica, ma per quel poco che abbiamo vissuto, per il minimo di esperienze che abbiamo fatto nei contesti più disparati, un finale logico, con un sapiente dosaggio di eventi positivi e negativi, risuona con noi perché parla di noi e riecheggia le nostre vite, qualunque esse siano.

Cosa accade invece nei finali estremi?

Cosa accade se la vittoria cancella del tutto la sofferenza necessaria a raggiungerla? Accade che ci ritroviamo in mano le classiche favole per bambini: storie in cui tutti vissero per sempre felici e contenti; storie in cui si sommerge quel granello di fastidio momentaneo – che ha offerto lo spunto narrativo – in un oceano di gioia perenne; storie pensate per un pubblico semplice, abituato a classificare ogni cosa in poche categorie ben distinte – bene-male, giusto-sbagliato, buono-cattivo – e che si aspetta di veder prevalere sempre la categoria positiva. Storie per bambini, appunto.
 
Cosa accade – all’estremo opposto – se la sconfitta genera solo sofferenza e null’altro? Accade che ci ritroviamo in mano Re Lear, un’opera che polarizza il pubblico, lo spacca in due, tra chi la ama e chi la odia, e quando il giudizio su un’opera si riduce a uno scontro tra due fazioni di ultrà – in stile Curva Sud contro Curva Nord – è segno inequivocabile che qualcosa è andata storta (tant’è che il finale è stato poi riscritto e per secoli è stata propagandata la versione alternativa, oggettivamente migliore dell’originale, perché in grado di risuonare con un maggior numero di lettori).
 

E ora chiediamoci: era proprio necessario far morire Romeo e Giulietta? Non si poteva ottenere lo stesso risultato – una Verona riappacificata – per una via anch’essa tragica, ma giusto un filo meno estrema? Certo che si poteva. Ma non sarebbe stato un finale perfetto.
 
Ti dice niente il nome di Rosalina? Perché – in effetti – dovrebbe dirti molto.

Rosalina è un personaggio chiave di Romeo e Giulietta, per quanto marginale: ha l’obiettivo di rivelare la natura di bimbominkia di Romeo. Come definire altrimenti uno che l’istante prima è innamorato alla follia di una ragazza e l’istante dopo – letteralmente l’istante dopo: un-secondo-uno-di-orologio – si innamora alla follia di un’altra ragazza? Bimbominkia, appunto.
 
Basterebbe questo fatto sotto gli occhi di tutti a rivelarci la natura di Romeo, ma Shakespeare vuol essere proprio a prova di scemo, e quindi mette in bocca al frate una battuta che volendo si può riassumere così: “Romeo, sei proprio un bimbominkia!”.
 

ATTO SECONDO, Scena III

Romeo: Allora, in chiaro, sappi che il mio cuore ha riposto l’amore suo più tenero nella figlia del ricco Capuleto; e come il mio in lei è il suo in me; e tutto è combinato tra noi due, manca soltanto quanto spetta a te nell’unirci in un santo matrimonio. Quando, e dove, ed in quali circostanze noi ci siamo incontrati e dichiarati, e ci siamo scambiati i nostri voti, te lo dirò più tardi; ora mi preme d’ottener subito da te una cosa: che tu acconsenta a sposarci oggi stesso.

Frate Lorenzo: San Francesco! Che voltafaccia è questo? E Rosalina, l’hai bell’e scordata? Sembrava che per lei volessi struggerti. Com’è vero che non nel cuore ha sede l’amor dei giovani, ma sol negli occhi! Gesummaria, che mare d’acqua salsa ha bagnato le pallide tue guance per Rosalina! Quanta salamoia sprecata a saporire una passione che non devi nemmeno più assaggiare! Ancora non ha dissipato il sole nell’aria l’alito dei tuoi sospiri; ancor risuonano i tuoi vecchi gemiti dentro le stagionate orecchie mie… Guarda, qui sulla gota t’è rimasta la traccia d'un'antica lagrimuccia che non s'è ancora asciugata del tutto: se tu eri te stesso, e quelle pene erano tue, tu stesso e quelle pene eravate per Rosalina. E adesso? Tutto cambiato? Allora veramente puoi ripeter con me quel certo adagio: “Possono ben cader le donne in fallo, se nell’uomo è sì debole il cervello.
 
Il lettore, ora, non può più avere dubbi: Romeo è un bimbominkia, per dichiarazione esplicita dell’autore dell’opera.

Anche Giulietta è una bimbaminkia, per ragioni che lascio a te individuare, come semplice esercizio (quel “possono ben cader le donne in fallo, se nell’uomo è sì debole il cervello” indica chiaramente la linea di argomentazione).

E ora, dimmi, cosa possono mai combinare due bimbiminkia lasciati liberi di agire? Minchiate una appresso all’altra, mi sembra ovvio. Dobbiamo fermarli prima di subito. Lasciare vivo Romeo, concedergli ancora due o tre pagine, significa vederlo passare da Giulietta a Guendalina – e poi da Guendalina a Rosmunda, da Rosmunda a Gisella, da Gisella a un’altra ragazza ancora e poi a un’altra e a un’altra ancora – con la stessa facilità con cui ha compiuto il primo salto da Rosalina a Giulietta. Rosalina sta lì per un motivo preciso: far capire che Romeo è un bimbominkia che passa da una ragazza all’altra con estrema facilità.

Quindi Romeo deve morire, e con lui deve morire anche quell’altra bimbaminkia di Giulietta, per ragioni tecniche molto precise.

Anzitutto per impedire a entrambi di rendere imbarazzante la loro condizione di bimbiminkia, perché puoi pure essere un bimbominkia, d’accordo, ma fin quando il tuo essere bimbominkia non si palesa in tutta la sua drammaticità, io, lettore, posso ancora affezionarmi a te.

Poi perché la loro morte muta la percezione del loro essere bimbiminkia: erano bimbiminkia, d’accordo, ma in fondo lo sono un po’ tutti i ragazzi della loro età, e non per ciò devono subire tutta questa sofferenza, e sicuramente non meritano una fine così tragica, a causa dell’odio delle rispettive famiglie. Sofferenza ingiusta per due personaggi un po’ bimbiminkia, sì, ma alla fine buoni, senza nessuna colpa particolare. Empatia, in una parola.

E se infine il loro ultimo gesto da bimbiminkia si trasforma – seppur involontariamente – nell’estremo sacrificio sull’altare dell’amore, capace di spegnere persino un odio atavico, ecco che i due bimbiminkia finiscono con l’apparirci sotto una luce nobile, come due martiri.

Vedi come tutto è perfetto in questo finale? O, per dir meglio, vedi come tutta la storia è costruita in funzione del finale perfetto? Vedi come non sia possibile cambiare una sola virgola del finale senza essere obbligati a cambiare qualcosa anche nella storia, se si vuole preservare la perfezione? Vedi come cambiare qualcosa nella storia obbliga a cambiare il finale per renderlo nuovamente perfetto rispetto alla storia modificata?

Perché il mondo della pagina è la riproduzione elegante del mondo reale, e l’eleganza narrativa sta proprio nell’unicità del finale perfetto (laddove la realtà rimane aperta a una molteplicità di possibili sbocchi, per l’effetto preponderante del demone del caso, che in narrativa ha invece un ruolo marginale).

Romeo e Giulietta è un capolavoro non perché lo ha scritto Shakespeare, ma perché realizza il finale perfetto, in cui si rispecchia e si sintetizza la perfezione (tecnica) della storia.

La tragedia degli archi tragici

 
Lo scopo della vostra trama sarà quello di mettere alla prova, spezzare e infine mettere nuovamente alla prova un personaggio imperfetto” – scrive Will Storr – “Come reazione all’evento scatenante potrebbe riconoscere e correggere il proprio difetto, dunque elevarsi e diventare una persona migliore, oppure potrà decidere di non farlo”.
 
L’indicazione è cristallina, nella sua enunciazione generale: in un arco eroico, il personaggio cambia (rimuove il difetto fatale) e il suo cambiamento mette in salvo la posta in gioco; in un arco tragico, il personaggio non cambia (rimane attaccato al suo difetto fatale) e il suo mancato cambiamento conduce alla perdita della posta in gioco.

Abbiamo due situazioni speculari, sul piano teorico, ma la loro attuazione pratica rivela la mostruosa sproporzione tra le abilità tecniche richieste nell’uno e nell’altro caso.

L’arco eroico è oggettivamente più semplice da realizzare, perché risponde in pieno ai nostri canoni di razionalità: se non vinco (e il personaggio in effetti non vince, lungo tutta la fase ascendente dell’arco) allora imparo (e in effetti il personaggio impara sempre qualcosa da ogni sconfitta) e tutto ciò che imparo servirà, cumulativamente, a conseguire delle vittorie parziali – seguito di un primo cambiamento (al midpoint) e di secondo cambiamento (al momento di trasformazione) – che condurranno alla vittoria decisiva (la messa in salvo della posta in gioco). È tutto molto logico, e quindi pienamente accettabile dal nostro cervello e dalla nostra anima.

Cosa avviene invece negli archi tragici?
 
Fermiamoci un attimo, abbandoniamo il mondo della pagina e torniamo al mondo reale, alla vita vera.

Ti sarà capitato di avere avuto un amico, un parente, un collega, una fidanzata, o anche un semplice conoscente, che nel mezzo della sua vita si è ritrovato in una situazione complicata, e per tutta risposta ha iniziato a inanellare una serie di cazzate una più grande dell’altra, a tenere atteggiamenti manifestamente disfunzionali, col solo effetto di aggravare lo stato delle cose, senza che nulla lo inducesse a un riesame critico del suo agire, ma anzi incentivandolo a tenere duro nelle sue convinzioni assurde e nelle associate azioni scellerate, con la conseguenza fatale di farlo sprofondare ancor più nella merda, in una spirale distruttiva chiara a tutti, tranne a lui che la viveva. 

È una situazione straniante, per chi la osserva da fuori, ma anche per chi, vivendola da dentro, avendo empatizzato con lui all’inizio, ora sente il bisogno prepotente di chiamarsene fuori.

Come fa a non capire? Com’è possibile che non se ne accorga? Come fa a non vedere i casini che sta combinando e il disastro a cui sta andando incontro? È tutto scemo o che altro?


È come vedere un gatto che, dopo essersi scottato una volta con una stufa domestica, torna ripetutamente vicino alla stufa, procurandosi ogni volta bruciature sempre più gravi, sino a ustionarsi, senza che nulla possa fargli comprendere che deve stare lontano da quella cazzo di stufa.

Non è un bello spettacolo, e sicuramente non ha nulla di artistico.
 
Che bel calduccio! Fammi avvicinare un altro po’…

Prendiamo il film Don’t look up: carino, divertente, a tratti esilarante e per alcuni versi capace di indurre a riflessioni amare. Ma alla fine cosa vediamo? Una frazione intelligente di umanità che tenta disperatamente di informare una maggioranza stupida e desiderosa solo di rimanere nella propria ignoranza, al punto da rifiutarsi persino di guardare il cielo. Sarebbe uno spettacolo di per sé straniante, se di quando in quando non fosse reso gradevole da sketch particolarmente brillanti.

L’indicazione per cui “in un arco tragico il personaggio non cambia” non può essere presa alla lettera, perché significherebbe vedere un personaggio che ripete ciecamente gli stessi errori, del tutto insensibile al dolore, alla sofferenza, al male che si sta procurando da solo, a causa della reiterazione pedissequa di comportamenti sbagliati.

Non importa quanto tu sia stato bravo a creare l’empatia dallo status quo fino alla chiamata all’azione, se poi, per tutto il Secondo Atto, vediamo un personaggio che non vince né impara, ma semplicemente sprofonda nella merda, e più sprofonda più si impegna a sprofondare. Prima o poi – e più prima che poi – finiremo con lo staccarci da lui, con l’abbandonarlo, se non proprio in senso fisico (di smettere di leggere la sua storia) sicuramente in senso emotivo (di non capirlo più, di aver perso  l’empatia nei suoi riguardi) e potremmo arrivare a desiderare che gli accada il peggio (affinché, sperabilmente, impari qualcosa).

Non cambiare – negli archi tragici – ha un significato tecnico che è altamente complesso da tradurre in pratica: significa non cambiare a sufficienza, non imparare quanto basta, oppure può voler dire ritrovarsi di fronte a situazioni che amplificano il difetto fatale e non riuscire a tirar fuori la forza necessaria per affrontarle; ma in ogni caso – qualunque cosa avvenga, se questo o altro – noi dobbiamo vedere il personaggio provare a cambiare, e tuttavia fallire, in tutto o in parte, sino al fallimento finale.

Le parole in corsivo segnalano la difficoltà tecnica e l’impossibilità di dare indicazioni teoriche più precise. Cosa vogliano esattamente dire le espressioni a sufficienza, quanto basta, provare a cambiare, o anche amplificare il difetto fatale, lo può sapere solo l’autore, in relazione alla specifica storia che sta scrivendo, al suo personaggio e alle situazioni in cui si trova coinvolto.

La tragedia (la difficoltà, la complicazione) degli archi tragici è proprio questa: condurre il personaggio a perdere la posta in gioco, senza far mai venir meno l’empatia nei suoi confronti, lungo l’arco fallimentare.

Ci riescono in pochi, e io ti sconsiglio di provarci, quanto meno all’inizio.

Puoi al più cimentarti in un arco eroico con forti perdite, se proprio vuoi dare una venatura tragica alla tua storia, immaginare cioè un’avventura in cui la posta in gioco è sì messa in salvo, ma a prezzo di sacrifici enormi (di valore cumulato comunque inferiore alla posta in gioco, visto che nulla – per definizione – è più importante della posta in gioco).

Ma le tragedie autentiche, le storie dove la posta in gioco viene persa a causa del “mancato cambiamento” del protagonista, almeno all’inizio, è meglio lasciarle stare.

La brutte tragedie del mondo reale

Gran parte della vita della più parte di noi – nel mondo reale – è una brutta tragedia.

Brutta non già perché le cose finiscono male (è nella definizione di tragedia l’aver un finale… tragico) ma per il nostro atteggiamento lungo l’arco che ci vede coinvolti, che spesso richiama quello del gatto tonto verso la stufa.

La vita vera, nel mondo reale, è spesso un orrendo arco tragico – artisticamente parlando – perché non abbozziamo nessun tentativo di cambiamento, perché neppure ci proviamo a essere diversi, perché ci ostiniamo a riproporre meccanicamente i nostri usuali sistemi di sopravvivenza, incapaci di vedere la serie di fallimenti a cui ci stanno conducendo.

L’atteggiamento in sé ha una spiegazione.
 
Nel momento in cui le strutture interne [del cervello] si assestano, notiamo un capovolgimento nel rapporto tra interno ed esterno” – osserva il neurobiologo Bruce Wexler – “Non saranno più le strutture interne a venire plasmate dall’ambiente: da questo momento in poi l’individuo agirà al fine di preservare le proprie strutture endogene, a dispetto di ogni dato ambientale potenzialmente in grado di smentirle, e vivrà come difficoltosa e dolorosa qualsivoglia modifica strutturale”.

Esiste cioè una fase della vita in cui il nostro cervello è duttile, plasmabile, fluido, e si conforma agli input che riceve dall’esterno; ma nello stesso momento in cui si adatta, pian piano si solidifica, si cristallizza, sino a formare delle strutture rigide, non certo immodificabili in senso assoluto, ma a cui è sicuramente più comodo ed economico ricondurre ogni altra sollecitazione esterna, anziché provare a mutarle in funzione del nuovo input ricevuto.

Per dirlo in modo semplice: esiste una fase della vita in cui il cervello si adatta alla realtà, e una fase successiva in cui è la realtà a doversi adattare alle strutture che il cervello si è formato nella fase iniziale.

Questa è la normalità, e si si spiegano così i brutti archi tragici della vita vera, del mondo reale, la nostra diabolica capacità di difendere una struttura perdente trincerandoci dietro le più scaltre faziosità.

Il cervello non ama faticare, e sceglierà sempre la via più economica e indolore, tanto più che quella via, quella struttura, è convalidata da una lunga esperienza (ha consentito di vivere e sopravvivere fino a ora, e non può certo essere sbagliata, proprio no).

Individuare e riconoscere le nostre imperfezioni, e di conseguenza cambiare ciò che siamo, richiede di demolire la struttura stessa della nostra realtà per poterla ricostruire in una forma nuova e migliorata” – scrive Will Storr – “Non è facile. Anzi. È doloroso e disturbante. Spesso combatteremo con tutte le nostre forze per opporci a un cambiamento così radicale. Ecco perché definiamo un ‘eroe’ chi ci riesce”.
 
L’annuncio di chiusura della piattaforma di scrittura Typee.
 
Typee – la sua storia – è un arco tragico: il protagonista (scisso funzionalmente in n coprotagonisti) perde la posta in gioco, perché incapace di superare il suo difetto fatale.

I typee (gli utenti) vivono felici sull’isola (la piattaforma) pubblicando storie la cui banalità è inferiore solo alla fantasia riversata nei complimenti da scambiarsi l’un l’altro.

Le correnti del mare – “le correnti del mare”, e non “un bel giorno” o “a un certo punto”, perché anche al caso dobbiamo dare una veste formale dentro la storia – le correnti del mare, dunque, portano un tal Signor Fabiani a sbarcare sull’isola: è l’incidente scatenante.

Nessun typee capisce bene cosa sia successo, perché è nella definizione stessa di incidente scatenante il non esser compreso dal protagonista in tutta la sua portata.

Ma quell’evento ne provoca un altro, e un altro e un altro ancora, e i typee capiscono di essere sotto attacco: è la chiamata all’azione.

Fabiani non è più solo un fastidio: è diventato una minaccia, e precisamente sta minacciando la posta in gioco, il “senso di appartenenza” alla comunità dei typee (è “lo stare insieme” che conta e ha valore, non certo la qualità dei testi).

Si entra così nel Secondo Atto, nel vivo della storia: i typee incassano sconfitte una dietro l’altra, una più pesante dell’altra; eppure, accidenti, ce la stanno mettendo tutta; perché allora falliscono sempre?

Perché non capiscono che per vincere nel conflitto esterno contro Fabiani devono prima risolvere il loro conflitto interno, il difetto fatale. È la presenza del difetto fatale, di un conflitto interno irrisolto, che li sta conducendo alla sconfitta esterna.

Fabiani, esteriormente, sta massacrando i loro testi; ma in realtà Fabiani sta facendo qualcosa di più devastante: sta pigiando sul loro difetto fatale, sulla vanità.

Nessuna vittoria conto Fabiani sarà possibile, finché i typee non smetteranno di essere vanitosi.

Nulla da fare, proprio non lo capiscono: arrivati al midpoint non avviene nessuna inversione di valori; i typee restano agganciati al loro difetto fatale, e anzi lo esasperano, allacciando alleanze tossiche: si vengono così a creare conflitti di relazione che sono benzina sul fuoco sui conflitti interno ed esterno.

Si scende verso l’esperienza di morte  totalmente impreparati, e se ne viene travolti. Nessun mentore può salvare i typee, in quello che dovrebbe essere il loro momento di trasformazione.

L’antagonista è lì ad attenderli, nel climax. E li annienta. È l’epilogo tragico: i typee continueranno a dare la colpa a Fabiani per la chiusura della piattaforma, senza capire che, se non fosse stato Fabiani, sarebbe stato qualcos’altro, perché sempre arriverà un incidente scatenante a spezzare la normalità, e a obbligarti a cambiare, se vuoi sopravvivere.

Eppure sarebbe bastato poco. Bastava che alcuni – non tutti, anche pochi di quegli n coprotagonisti – avessero abbandonato il loro difetto fatale, rinunciato alla vanità e realizzato di non saper né scrivere né progettare storie; dovevano capire, per dirlo semplice, che il talento non esiste, ma esistono solo l’impegno nello studio della teoria e lo sforzo continuo nella sua rigorosa applicazione.

E questa loro ritrovata consapevolezza li avrebbe condotti ad acquistare corsi e manuali della Scuola Belleville (il gestore della piattaforma); e Belleville avrebbe così tenuto in piedi la piattaforma, perché la piattaforma portava denaro; e tutti sarebbero stati felici; qualcuno, forse, avrebbe addirittura imparato a scrivere (senza neppure immaginare di essere un salvatore dell’isola), Belleville avrebbe guadagnato, (com’era nel suo intento originario) e tutti gli altri avrebbero continuato a scrivere i loro racconti (e a scambiarsi i loro complimenti).

La storia aveva in sé una premessa fenomenale: la consapevolezza di pochi conduce alla salvezza di tutti.

E invece non è avvenuto nulla di tutto ciò: Typee è stato solo un brutto arco tragico, artisticamente pessimo, perché i protagonisti hanno sì imparato dai loro errori, ma solo nel senso di ripeterli ogni volta sempre meglio, fino al disastro.

Commenti

Post popolari in questo blog

L’ARTE DI EMOZIONARE

MODULO 19 – Infodump e rottura della quarta parete: il marchio dei dilettanti

Modulo 18F – Il luogo è un personaggio