Modulo 21D – “E allora Typee?”: il micidiale ‘69’ tra sedicenti scrittori


C’è una sola cosa che si scrive solo per sé stesso, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno”.

Umberto Eco è abrasivo verso la falsa umiltà di chi afferma di scrivere solo per sé stesso, eppure non calca ancora la mano quanto dovrebbe. Perché – a rigore – nemmeno la lista della spesa la si scrive sempre e solo per sé: a volte la si consegna ad altri affinché siano loro a fare la spesa per noi, e servirà quindi esseri chiari, specifici, dettagliati, e anche convincenti, affinché chi la legge non pensi a errori o sviste nella sua compilazione.

Nessuno scrive solo per sé” – conferma Pontiggia – “Lo dice qualche esordiente, mentre ti consegna il manoscritto e aggiunge di averlo scritto solo per sé. Ma si smentisce nel momento stesso in cui parla e ti dà appunto il manoscritto”.

La letteratura presuppone un pubblico, lo ha presupposto sin dalle origini, e per quanto il rapporto tra lo scrittore e il pubblico sia diventato complesso, l’opera scritta ha comunque preservato il suo carattere espressivo, di mezzo di persuasione attraverso le emozioni.

Un pubblico c’è sempre, quando si scrive, persino quando gli scritti restano nel cassetto, tra le carte private dell’autore. Pure in questo caso, peraltro raro, si scrive comunque per qualcun altro, “per quel sé ideale che converge con gli altri”, per “quel sé che si aspetta dal testo non quello che sa, ma qualcosa di più”, ci dice Pontiggia.
 
Si scrive sempre per qualcun altro, d’accordo, ma dove si trovano questi “altri” a cui sottoporre la lettura delle proprie storie?

Dalla Lezione 2 Se leggendo pian piano t’assopisci”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è rovinata”.
 
Le parole del poeta polacco Czeslaw Milosz lasciano intravedere la più classica delle dinamiche tra chi ambisce a scrivere e chi gli sta intorno.
 
Parenti e amici sono “le vittime predestinate”, a cui inoculare i propri scritti. Le loro reazioni sono di regola entusiaste, “per benevolenza o amore di quieto vivere”; e – con buona pace di Pontiggia – è inutile sottolineare che l’indulgenza non serve, anzi è dannosa, e che l’atteggiamento accondiscendente fa solo perdere tempo; le risposte “più aggressive” non si riescono proprio a ottenere.

 Dalla Prima lezione”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Pontiggia si sbagliava: parenti e amici puoi frustarli a sangue, ma non riuscirai mai a portarli alla “distanza giusta”, a sottrarli a “ogni forma di complicità” .
 
Che poi, ammesso pure che un amico capisca quanto sia “impegnativo e gravoso” l’incarico affidatogli, con quali competenze potrà mai condurlo? Come farà a dare un giudizio che oltrepassi il suo gusto, che non sia un semplice “mi piace” o “non mi piace”, se non ha nessuno standard per giudicare l’opera?
 
Ho un collega che adora L’amica geniale, una storia con notevoli punti di forza, sicuramente. Però, quando parli con lui, col mio collega, capisci subito che ciò che gli piace della storia è… Napoli. È tutto un ricordare i luoghi della sua infanzia e quella dei suoi genitori, un discorrere ininterrotto di cosa accadeva nella sua vita e in quella dei suoi genitori, nel quartiere, nel bar, nella viuzza citati nel romanzo. Che va benissimo, per carità, ma… che ne è stato della storia? Se fosse stata ambienta a Bolzano l’avrebbe trovata ancora così spettacolare?

Io non dico – intendiamoci – che i gusti non siano importanti. Dico che non è con i gusti che si può dare un giudizio tecnico sulla tenuta dell’opera.
 
Vi sono in effetti almeno tre livelli di risposta ad un’opera – dell’editor, del beta-lettore, del lettore finale – e dall’ultimo livello non puoi pretendere un responso che rimpiazzi i pareri dei primi due.
 
Ma come si entra in contatto con gli editor e i beta-lettori? I primi, di regola, vogliono essere pagati (e in pochi sono disposti a sborsare denaro per ricevere un parere sulla loro opera) e i secondi, a dirla tutta, in pochi sanno bene cosa siano (e spesso li confondono con chi semplicemente “legge molto”).
 
Quindi? Che fare?
  
Estratto da La scrittura non si insegna, di Vanni Santoni.
 
Adesso siediti e fai un bel respiro, anzi più d’uno, e meglio ancora – se riesci – una sessione di training autogeno, perché ciò che sta per arrivare richiede parecchia rilassatezza per non reagire in malo modo.

 
Non ricordo più chi fosse quel comico – forse Enrico Brignano? – che aveva ideato la scenetta del bambino che andava a giocare a pallone e della madre che gli rivolgeva il più buffo dei comandi: “però non sudare”.
 
Gioca a pallone, ma non sudare. Nuota, ma non bagnarti. Lotta nel fango, ma non ti sporcare. Frequenta forum e siti di scrittura, ma niente fellatio e cunnilingus.

Cosa vuol dire – alla lettera – vai su “forum, siti e gruppi Facebook”, però attenzione “a non cadere nella bolla della fellatio vicendevole”?
 
Questo insegnante – che insegna una materia che secondo lui non si può insegnare – c’è mai stato su “forum, siti e gruppi Facebook”, oppure li conosce  come certi eruditi conoscono i ramarri, per averne visto sbucare fuori uno nel canto XXV dell’Inferno di Dante?
 
Ciao!
Siamo dei ramarri.
Ci avevi mai visti?
 
Le dinamiche dei social network sono la degenerazione esponenziale di ciò che una volta era limitato alle mura domestiche: se prima il tutto si risolveva nel circolo familiare tra l’improvvisato scrittore e i suoi n parenti e amici (con n intorno a 5 o 6) adesso abbiamo una festa a sbarco di n auto-proclamati scrittori (con n che tende a crescere indefinitamente) ognuno dei quali giudica ed è giudicato dai restanti n–1 con lo stesso atteggiamento casareccio del circolo familiare, ma ora ammantato da una pseudo-preparazione letteraria.
 
Ovviamente a nessuno piace ricevere giudizi negativi, e il miglior modo per evitarli, la via più rapida e sicura per mettersi al riparo dalle critiche, è non rivolgerne agli altri.

Specularmente, a tutti piace essere apprezzati, e cosa c’è di più facile del creare un debito di riconoscenza nei propri confronti per i complimenti che si sono rivolti ad altri?
 









 
La cosiddetta “reciprocità” è una delle sette armi della persuasione di cui parla Robert Cialdini, e raccontata alla buona si basa su un meccanismo dell’animo umano che crea un obbligo morale pari a un multiplo del favore ricevuto: se mi offro di pagarti il taxi per un tragitto anche minimo, ti potrei far sentire moralmente obbligato a invitarmi a cena in un ristorante stellato. 
 
Estratto da Le armi della persuasione, di Robert Cialdini.
 
Inizia a delinearsi una dinamica tipica dei social network di scrittura.

L’utente 1 (chiamiamoli col loro nome: utenti, non scrittori) dice “bravo” all’utente 2, che a questo punto deve ricambiare l’apprezzamento; non può però replicare con un semplice “bravo”, perché violerebbe il patto implicito nella reciprocità; quindi dirà “bravissimo”; l’utente 1 dovrà a quel punto controbattere con “eccezionale”, e l’utente 2 alzerà ancor più la posta con un “meriteresti la pubblicazione con un grande editore”.

L’utente 3 osserva questo scambio di amorosi sensi tra gli utenti 1 e 2, e pensa che sarebbe bellissimo farne parte. Quindi commenterà anche lui a colpi di “straordinario” e “fenomenale”, equamente divisi tra gli utenti 1 e 2. Che a quel punto dovranno restituire ciò che hanno ricevuto, con la maggiorazione di interessi usurari.
 
Allarga la cerchia, a 4, 5, 6… n utenti, e avrai ottenuto l’ambiente dove i Santoni di turno suggeriscono di andare a cercare i propri feedback: praticamente un mondo dove la gente si dà delle energiche pacche sulle spalle da sola, illudendosi che siano altri a farlo.
 

 
 

 
Tu sai che un dialogo narrativo risponde a precisi requisiti tecnici. Le possibilità di scrivere un buon dialogo senza conoscerne i requisiti – o conoscendoli, ma applicandoli meccanicamente – sono le stesse che una scimmia avrebbe di suonare L’inno alla gioia di Beethoven, sedendosi al pianoforte. O sei consapevole che un dialogo va gestito in modo conflittuale e obliquo, oppure quel che ne verrà fuori sarà una merda sbagliato.
 
Quindi cosa vuol dire “ci sai fare con i dialoghi”? Significa – tecnicamente – che ti sei allenato di continuo a produrre conversazioni conflittuali e oblique, dosando opportunamente le due componenti, in funzione del tipo di scena.

E secondo te – così, a intuito – il destinatario di questo bel complimento lo ha mai fatto questo lavoro di fino oppure neanche conosce il tecnicismo su cui esercitarsi?



Difficile costruire un racconto con i dialoghi? Sul serio? Ma corri – precipitati! – al modulo 12.

 
Che poi questa “normalità” si raggiunga a prezzo di un impegno continuo, è semplicemente un fatto comune ad ogni altra forma d’arte: l’eccezionalità agli occhi di un profano è la normalità dell’artista.

Potrei portarti esempi a tonnellate, oltre ai dialoghi, ma conviene balzare subito alla conclusione, peraltro tautologica: se chiedi il parere di un’incompetente, avrai il parere di un’incompetente (con l’aggravante che in  “forum, siti e gruppi Facebook” diventa un’incompetenza perniciosa, perché ammantata di una falsa cultura, spacciata per finezza di analisi).

Il frequentatore tipo di “forum, siti e gruppi Facebook
ha l’atteggiamento tipico delle madri possessive e altere,
una permalosità aggressiva e ingiustificata,
pronta a esplodere in attacchi gratuiti e scomposti,
non appena gli si fanno notare le pecche dei suoi pargoli.
Qui ne vedi un esempio eclatante:
per difendere il testo dell’amichetta di penna 
si inveisce contro l’utente che ha osato muovergli una critica tecnica,
attribuendo a lui, all’utente, un comportamento misogino
che in realtà l’utente aveva usato per caratterizzare il personaggio di un suo racconto.
Citando Stephen Michael Stirling:
“C’è un termine tecnico
per chi confonde le opinioni di un personaggio con quelle del suo autore.
Quel termine è idiota”.
 
Magari ti iscrivi a un gruppo Facebook, a un forum o a una piattaforma online con la speranza di trovare discussioni sull’evoluzione delle tecniche di scrittura, sulle modalità di progettazione delle storie, sui punti più controversi e delicati nell’uno e nell’altro ambito, sugli sviluppi recenti della materia.

E invece trovi una pletora di invasati spinti dall’urgenza di raggiungere a tutti i costi “il pubblico”, perché è indifferibile e imprescindibile che il pubblico conosca la loro “opera”.
 
Un campione rappresentativo dei frequentatori di “forum, siti e gruppi Facebook”.
 
Ti ho già diffidato dal discutere on-line, e ora – nel tuo interesse – ti dico di lasciar perdere i consigli subdoli dei vari Santoni che campano sulla vanità umana.
 
Tieniti lontano da “forum, siti e gruppi Facebook” , dove i cosiddetti “tuoi pari” sono – nella migliore delle ipotesi – persone col tuo stesso grado di fanatismo e ignoranza, esse stesse causa della distruzione di ogni luogo che ha la sventura di ospitarle.
 
Typee” era la piattaforma di scrittura on-line della Scuola “Belleville”,
un nome mutuato dal titolo del romanzo di Herman Melville,
che si può dire avesse in sé un destino già segnato.
Melville racconta di due viaggiatori fuggiti da una baleniera, 
e approdati su un’isola abitata da una curiosa popolazione indigena: i typee.
I due sono trattati da privilegiati, però non gli è concesso allontanarsi dall’isola,
cosicché le loro sensazioni oscillano tra la gioia dell’ospitalità e il timore di essere prigionieri.
Gli abitanti dell’isola sono in effetti accoglienti ma altrettanto misteriosi,
e resta sospesa la continua allusione alla loro possibile antropofagia.
E questa è davvero la fotografia più nitida della piattaforma Typee”.
La sua esistenza – nella prospettiva della scuola “Belleville” si basava sul solito presupposto:  
 Per dirlo in modo semplice, e con numeri buttati lì giusto per rendere l’idea,
ci si aspettava che per ogni 100 iscritti ve ne fossero 25 pronti a spendere per acquistare i loro corsi:
 quelle 25 anime avrebbero fatto guadagnare “Belleville” e finanziato il divertimento degli altri 75.
 Cos’è successo, invece?
Che fatto 100 il numero di iscritti, almeno la metà non pubblicava o pubblicava saltuariamente
(il cosiddetto “pubblico sporco”, quindi non convertibile)
e l’altra metà era per lo più impegnata in dei meravigliosi “69” letterari
(“ma quanto sei brava a scrivere”, “grazie, ma tu lo sei di di più”,
“no, no… tu di più”, “no, tu di più”, “no, tu…”, “no, tu…”).
“Belleville” aveva pure introdotto la gerarchia “esordiente”-“scrittore”,
una trovata di marketing comunque raffinata, con quella parolina – “scrittore” –
messa lì a titillare la vanità della massa di “esordienti”.
E gli iscritti si scervellavano su come fare per salire di rango,
su quali testi produrre per avere la promozione da “esordiente” a “scrittore”.
Lo avrebbe capito pure un bambino: DEVI COMPRARE UN CORSO!
Ma va là! Erano già tutti bravissimi, o almeno così si ritenevano.
Perché mai avrebbero dovuto spendere del denaro?
se non la medaglietta di “scrittore” da esibire sulla piattaforma,
col privilegio di produrre mostruosità da 13.000 battute anziché solo da 5.000.
Restava però il fatto che nessuno comprava nulla, ormai da tempo,
quindi “Belleville” non aveva più alcun guadagno e sosteneva solo costi.
Neanche un ente di beneficienza sarebbe potuto andare avanti così.
 
Temo che tu non abbia capito niente di ciò che ti ho detto.

Ti vedo fare “sì, sì” con la testa, e ti sento dire “ho capito, ho capito”, il tipico atteggiamento di chi – appunto – non ha capito nulla.

Perciò ricominciamo.
 
 
“Mr. F” e “signor F” sono la stessa persona, e quella persona sono io.

L’utente Wilson Milton ha stimato opportuno scrivere una nota auto-biografica, e parlare di me.

Ora, io sono io, nel senso che io ho una buona consapevolezza delle mie conoscenze e competenze in fatto di scrittura e sceneggiatura, e conoscenze e competenze sono un fattore stabilizzante, calmierano le emozioni, ne inibiscono manifestazioni scomposte.

Se io so di sapere e saper fare – se ho una presa forte sulle mie conoscenze e competenze, e quindi, per complemento, ho anche chiari i miei limiti e gli spazi di miglioramento – non saranno certo gli insulti immotivati del primo scemo di passaggio a togliermi la serenità, figurarsi.

Ma poniamo invece che io sia te.

Tu eri una persona sprovvista delle pur minime basi sull’arte di scrivere e sceneggiare, prima di seguire il blog; la tua conoscenza – prima del blog – era vaga, incerta, destrutturata, malamente inferita da una certa quantità di letture “obbligate” o selezionate in base a gusti personali, e comunque viziata da molteplici bias cognitivi, a cominciare dall’illusione che amare leggere si traduca automaticamente in saper scrivere.

Ora, sperabilmente, sei migliorato, ti sei evoluto. Ma probabilmente non ancora a sufficienza per evitare un rigurgito del “te stesso di una volta”, per impedirgli di prendere il sopravvento di fronte alle aggressioni di un Wilson Milton di passaggio.

Perché – vedi – bisogna saperne davvero tanto, e aver interiorizzato a fondo tutto, per restare impassibili davanti al Wilson Milton di turno. L’istinto ti spinge a rispondere a tono, a render pan per focaccia, per fargliela vedere per bene a questo sbruffoncello. Solo chi ha il pieno dominio di sé – e tu ancora non lo hai, perché ti manca ancora la necessaria sicurezza – può ripetere, con Dante, “non ragioniam di loro, ma guarda e passa”.

Il tuo istinto è ancora quello di replicare, e siccome io sono te, ho replicato; e l’ho fatto io – sia chiaro – affinché tu capisca che non devi farlo, perché nel mio caso è solo una simulazione controllata, per mostrarti certe dinamiche da social network, nel tuo significherebbe invece ritrovarsi in una spirale di negatività che ti distoglierebbe dal tuo interesse primario (imparare a scrivere e sceneggiare, imparare a leggere libri e ad analizzare film e serie tv).

Dunque, io ho (tu hai) risposto a Wilson Milton, ma siccome io sono (tu sei) una personcina a modo, i toni della risposta sono stati sì duri, ma educati e soprattutto pertinenti e ben argomentati.

Ed ecco qui il risultato della mia (tua) replica.
 

Io sono io, e so benissimo come sto costruendo il blog: esiste una vasta bibliografia di riferimento, solida e sperimentata, come in tutte le cose serie della vita, che non siano nate ieri; su questa materia prima, comune a tutti, ognuno lavora poi a modo suo, ne fornisce una versione che non è la semplice somma di singoli contributi o una loro ragionata giustapposizione; l’assemblaggio e la rimodulazione delle fonti è a tutti gli effetti un’opera creativa, come lo è scrivere un romanzo; tutti muovono dalla stessa base – la bibliografia disponibile per un formatore di scrittura, il vocabolario della lingua italiana per un romanziere – ma poi ognuno ne tira fuori ciò di cui è capace.

Non serve avere un Q.I. di 228 per capire la differenza tra questo processo formale, comune a tutte le discipline, e il trascrivere “tre regolette” scovate su “qualche libricino del cazzo”; ma sotto una certa soglia di Q.I., forse la differenza non si coglie più.
 
Il punto rilevante è un altro, a ogni modo.
 
Io posso (tu puoi) pure non rispondere più a Wilson Milton, ma la prima replica ha comunque avviato una spirale che quindi si auto-perpetua e mi (ti) trascinerà all’inferno.

È lo stesso meccanismo del debito pubblico. Magari sei riuscito a chiudere sempre in pareggio, tutti gli anni, ma per una volta, per un anno soltanto, sei stato obbligato a contrarre un debito per 100, per poi tornare in pareggio in tutti gli anni successivi. E ti sei fottuto. Perché quei 100 devi rimborsarli con gli interessi, quindi, per dire, a un certo punto dovrai pagare 105. Ma come farai senza un surplus di bilancio, se le entrate e le uscite ordinarie sono sempre in pareggio, di anno in anno? Contrarrai un nuovo debito di 105, che userai per pagare il debito in scadenza di 105; e quando il debito di 105 arriverà a scadenza, e dovrai rimborsarlo con gli interessi per 110, contrarrai un terzo debito di 110 per guadagnare ancora del tempo; e via così fino all’eternità, con un virtuoso bilancio pubblico invariabilmente in pareggio, e un debito che cresce senza fine. Un solo errore, un solo deficit, ti ha condannato in eterno.

Perché, sì, io posso (tu puoi) pure non rispondere più, ma Wilson Milton continuerà a rispondere facendo base sulla prima replica, che equivale al debito iniziale di 100 da cui prende il via il circolo diabolico.
 
E – attenzione! – non si accontenterà di rispondere sulla piattaforma su cui è nata la diatriba – o meglio: di appoggiarsi all’unica risposta, per perpetuarla – ma addirittura mi (ti) verrà a cercare a casa: sbarcherà sul blog, lascerà il suo schizzo di piscio, e poi tornerà sulla piattaforma originaria per rintuzzare i suoi insulti e denunciare di esser stato censurato.
 

Essere accusati di censura non è mai piacevole, non lo è mai stato per nessuno, meno che mai in quest’epoca massimamente liberista, non solo in termini di mentalità, ma soprattutto di mezzi a disposizione per esprimersi.

Che blogger sei, se cancelli i commenti che non ti piacciono?

Uno dei commenti “censurati” sul blog.
  
Serve sul serio giustificare la collocazione nello “Spam” del commento di Wilson Milton? 
 
Serve davvero ripetere che un commento ha diritto di cittadinanza se e solo se integra, estende o emenda il contenuto del modulo, altrimenti è disfunzionale, dannoso peggio che inutile, e quindi da eliminare?

Serve spiegarlo un’altra volta?

No, non serve.

Occorre invece metterti in guardia da tutti i Wilson Milton sparsi su “forum, siti e gruppi Facebook”, che ti obbligheranno a discutere con loro, ti avveleneranno l’anima, tireranno fuori  il peggio di te, e in definitiva assorbiranno quelle energie che dovresti invece dedicare alla scrittura.

E questo blog, allora? Devo tenermi lontano anche da qui?
 
Questo blog – nel caso non te ne fossi accorto – è sorvegliato 24h24, 7 giorni su 7.
 
E questi sono gli unici ambienti virtuali a cui ti puoi accostare: luoghi disciplinati, governati, amministrati, dove tutti possono parlare, sì, purché ognuno si senta responsabilizzato, e nessuno stia lì a reclamare quelle attenzioni che la vita si ostina a negargli altrove.
 

Commenti

Post popolari in questo blog

L’ARTE DI EMOZIONARE

MODULO 19 – Infodump e rottura della quarta parete: il marchio dei dilettanti

Modulo 18F – Il luogo è un personaggio