MODULO 14 – Intermezzo: “Ne vuoi sapere più del professore?”

Rifiatiamo un attimo, anche perché – ne sono sicuro – un dubbio ha iniziato a pizzicarti.

Un corso di scrittura – nella forma ormai prevalente di videocorso, con le stesse lezioni disponibili anche in forma scritta – costa tra i 1.000 e i 2.000 euro, in funzione della presenza di corsi ancillari (sul funzionamento dell’editoria, sul processo di marketing, sulla mentalità da scrittori) che peraltro sempre più spesso vi sono associati; i singoli moduli – acquistabili separatamente – sono prezzati tra i 300 e i 500 euro.
 
I corsi in “presenza fisica” sono un’esclusiva dei brand più rinomati, e toccano punte di 3.000 o 4.000 euro, se non ancora più elevate.
 
Sotto i 1.000 euro si trovano solo flussi di bla-bla-bla, variamente concepiti, ma tutti sostanzialmente uguali (bla-bla-bla, appunto).
 

 
Per estrapolazione, quindi, il valore di questo blog è sottozero: pagine e pagine a disvalore aggiunto. Perché se questi moduli avessero un valore formativo, allora il blogger se li farebbe pagare; magari ne offrirebbe gratuitamente un antipasto – com’è prassi – e chi vuole il menù completo si prepari a sganciare tutto quel serve sganciare; oppure produrrebbe dei contenuti gratuiti funzionali alla vendita del corso, o adotterebbe altre simili strategie di marketing. E invece è tutto gratis.

Quindi i casi sono due: o il blogger è un coglione assoluto (che regala quel che potrebbe farsi pagare) oppure tutti i moduli sin qui pubblicati, e i prossimi che arriveranno, non valgono nulla.

La seconda che hai detto”. Se anche tu la pensi come Quelo, il mitico personaggio-santone di Corrado Guzzanti, lasciami almeno dire due parole, prima di salutarci.
 
Estratto da Le armi della persuasione, di Robert Cialdini.
 
Siamo continuamente bombardati da una gran varietà di stimoli provenienti da un mondo sempre più complesso. Nessuno è però in grado di riconoscerli e analizzarli tutti, singolarmente e nelle loro interrelazioni. Non ne abbiamo il tempo e le capacità, quindi ricorriamo giocoforza a regole sommarie, che ci permettono di fronteggiare gran parte delle situazioni senza pensarci troppo su.

I clienti della venditrice – turisti benestanti, senza conoscenze sui turchesi – usavano uno schema fisso di azione, per regolarsi negli acquisti: “buono=costoso”. E siccome volevano articoli “buoni”, percepivano più preziosi i monili con i turchesi, quando in realtà nulla era cambiato negli oggetti se non il loro prezzo. Come a dire che il prezzo, da solo, era diventato un segnale di qualità sufficiente ad attivare lo schema fisso di azione.

Hai poco da ridere. Anche tu – sì, proprio tu che leggi – sei stato educato con la regola “si ha per quel che si paga”, che avrai visto pure convalidata tante volte. Ben presto, però, la regola si è tradotta per tutti – per i clienti della venditrice come per te – nello stereotipo “buono=costoso”, e il desiderio di semplificare ha ribaltato il nesso di causa-effetto: non è più il prodotto buono a costare molto, ma se costa molto – fatto accertabile senza sforzo – allora il prodotto sarà sicuramente buono.

Quando si reagisce in risposta a un unico elemento – nel nostro caso il prezzo – si sta usando una scorciatoia: si scommette che un solo elemento – il prezzo – sia più che sufficiente a informare su tutto quel che c’è da sapere; si punta tutto su una sola carta, anziché accaparrarsene quante più è possibile – il che è faticoso – per valutare correttamente ciò che si fronteggia.

Nel lungo termine e in aggregato – nell’arco di tutte le situazioni analoghe passate, presenti e future – scommettere in automatico su un’unica carta è probabilmente l’approccio più razionale: “la civiltà progredisce estendendo il numero di operazioni che possiamo eseguire senza pensarci”, per dirlo col filosofo Alfred North Whitehead.

Ma a noi – qui – interessa il caso singolo e specifico, il caso delle scuole di scrittura, che vogliamo analizzare andando oltre l’unica carta. Noi – qui – vogliamo vedere quante più carte possibili.
 
 
Se ti svegli la mattina con l’idea che “lo scrittore” sia una professione, e che “scrivere” sia un’attività retribuita con cui vivere dignitosamente, fai una bella cosa: torna a dormire.

Nessuno – e quando dico nessuno intendo proprio dire nessuno, nemmeno lo scrittore cosiddetto “di professione” – vive di scrittura. E ti prego di non offendere la mia intelligenza, e prima ancora il tuo buon senso, tirando fuori Stephen King o la Rowling. Perché sarebbe come dire “Prendiamo Pier Silvio Berlusconi, ad esempio…”. L’esempio è un esempio perché funziona per tutti da esempio – da standard, da riferimento – perché tutti, o almeno una larga maggioranza, ci si può rivedere e ritrovare. Quindi, per favore, non scambiamo l’1% col 99%, per poi dire “prendiamo King o la Rowling, ad esempio”.  
 
Nessuno vive di scrittura di libri. Nessuno. Il cosiddetto “scrittore professionista” deve prima di tutto avere un lavoro vero, svolgere un’attività che gli permetta di pagare il mutuo e le bollette, l’assicurazione dell’auto e le rate condominiali, fare la spesa e togliersi lo sfizio di una cena al ristorante, di una serata fuori, di una vacanza. Dopodiché, una volta smarcati parecchi gradini della piramide di Maslow, può dedicarsi “professionalmente” alla scrittura.

La scrittura in senso proprio, in senso stretto – la scrittura di narrativa, di storie –
è un’attività che si colloca piuttosto in alto nella piramide di Maslow, intorno alla cima.
E il principio generale della piramide
– che rimane valido anche quando si esibiscono casi contrari,
perché le verità delle scienze sociali sono verità statistiche –
stabilisce che ci si può dedicare a scalare i gradini più alti 
solo dopo aver conquistato e consolidato i gradini più bassi.
Scrivere è un’attività che presume acquisite tutte una serie di sicurezze
che non potranno mai e poi mai provenire dalla scrittura in sé.
Studia bene la piramide di Maslow:
ti tornerà utile quando parleremo della posta in gioco.

Dedicarsi “professionalmente” alla scrittura non vuol dire vivere della vendita dei propri libri, bensì entrare nell’ambiente dell’editoria. Già, e come si fa a “entrare nell’ambiente”? Bella domanda.

La cosa non è difficile: è complessa.
 
Diventare magistrato, notaio o chirurgo, è difficile, perché servono sì tempo, impegno e capacità, ma sono chiari – espliciti, dichiarati – i passi da compiere per arrivare a dama.
 
Diventare astronauta, pilota di Formula 1 o agente dei servizi segreti, è complesso, perché anche qui servono tempo, impegno e capacità, ma rimane oscuro il percorso su cui incanalare le proprie energie per raggiungere l’obiettivo.

Quindi, se la tua domanda è “come si fa a entrare nell’ambiente?”, cosa vuoi che ti dica?
 
 
Poniamo, dunque, che il Signor X sia “entrato nell’ambiente”. Cosa significa, in concreto? Che ha trovato una casa editrice per i suoi libri, e ne ha pubblicati due o tre, o magari quattro, forse addirittura cinque o sei (che comunque è un miracolo se avranno venduto 500 copie l’uno); e vuol dire che forse – ma sì, dai – ha vinto pure dei premi letterari (diciamo pure lo “Strega” o qualcosa di equivalente). Tutto meraviglioso. Peccato che non è così che il nostro Signor X paga le bollette. Per quelle – e per tutto il resto – gli serve sempre il suo lavoro vero.

Però, ora che il Signor X è entrato nell’ambiente, si è accorto della variegata umanità che sta intorno allo “scrivere libri”: correttori di bozze, editor agenti letterari, agenzie editoriali, traduttori, uffici stampa e – last but not least – scuole di scrittura. Con i libri non si mangia, ma con tutto ciò che gli sta intorno – in primis le scuole di scrittura – forse sì.

Per quanto i suoi libri possano vendere, il Signor X non riuscirà mai a trarne un reddito soddisfacente, ma là fuori c’è una folla che ambisce a scrivere per le più svariate ragioni – o forse una sola: la vanità – e cosa c’è di meglio che proporsi come spirito guida per tanti aspiranti scrittori, forte del fatto di “essere uno dell’ambiente e sapere come funziona”?
 
Già qui dovrebbe sorgerti una perplessità. Sì, è vero, il nostro Signor X è “nell’ambiente”, ma nessuno sa dire come ci sia entrato. Perché – ripetiamolo – questo non è uno di quei settori dove esiste un percorso, difficile a piacere, ma cristallino nei passi da compiere.

Come possiamo essere ragionevolmente sicuri che funzionerà anche per noi quel che ha funzionato per lui? Quanto c’è  di sistematico e replicabile nel suo percorso (che possiamo sfruttare anche noi) e quanto invece di specifico e irriproducibile (e quindi di inutile per noi)? E poi, al di là di tutto, se il suo percorso non è comunque codificabile, come possiamo essere ragionevolmente sicuri delle sue conoscenze e competenze? Cosa avrà mai a che fare l’abilità di scrittura con il “faccio cose, vedo gente”?
 
 
Dobbiamo di necessità procedere per inferenza: dagli elementi che abbiamo – pochi, frammentati – alla migliore ricostruzione possibile del quadro generale.

Conviene muovere dalla prospettiva più sicura, quella che considera la scrittura come una forma d’arte, e quindi le impone degli standard di esecuzione minimi, come avviene in ogni altra forma d’arte.

Il gioco starà quindi nel verificare se certe affermazioni sulla scrittura continuano a reggere, ad avere senso, anche quando riferite ad altre espressioni artistiche: se tengono botta, allora vi possiamo fare affidamento, e dare credibilità a chi le sostiene; se invece crollano miseramente, allora dovremmo farci due domande su “chi vuole insegnarci cosa”, pretendendo del denaro.
 
Iniziamo da qui, a mo’ di riscaldamento.
 
 
Interessante. Proviamo così:

Quella misteriosa disciplina che è il canto.


Quella misteriosa disciplina che è la musica.


Quella misteriosa disciplina che è la danza.


Quella misteriosa disciplina che è la pittura.


Quella misteriosa disciplina che è il disegno.


Quella misteriosa disciplina che è la scultura.

 
Suona ridicolo, vero? Cosa c’è di “misterioso” nel canto, nella musica, nella danza, nella pittura, nel disegno, nella scultura? Nulla.
 
E, d’altra parte, chi si accosterebbe mai alla musica, alla danza, alla pittura, al disegno, alla scultura, se venissero presentate come discipline “misteriose”, declassandole di fatto all’interpretazione dei tarocchi, dei fondi del caffè o delle configurazioni astrali?
 
Cosa c’è di “misterioso” in un’arte? Nulla. C’è – questo sì – tanto da studiare, da insegnare da un lato e da imparare dall’altro.
 
 
 
Ma ora – sinceramente – in quale altra forma d’arte ce ne si uscirebbe con questa stupidaggine colossale?
 

Il canto non si insegna.


La musica non si insegna.


La danza non si insegna.


La pittura non si insegna.


Il disegno non si insegna.


La scultura non si insegna.

Ma ti pare? Dai, su, è ridicolo. Che vuol dire non si insegna? Cosa esiste al mondo – seriamente – che non si possa insegnare? E poi – a stretta logica – come faccio a imparare una cosa che non si può insegnare?
 
D’accordo, diciamo che il titolo è solo una coattata – per dirlo alla romana – o un’espediente di marketing, se vogliamo essere politicamente corretti.
 
Okay, d’accordo – d’accordo un par de palle, ma fa niente – e diamogli pure fiducia, vediamo cosa troviamo dentro questo libriccino.



Veniamo accolti da un esergo in assoluta continuità col titolo, e viene il sospetto che il titolo del libro non sia allora solo una boutade messa lì per fare il poser, ma l’effettiva sintesi del suo contenuto.

Che poi, nel merito, quanto bisogna essere lontani dalla pratica della scrittura, per dire una stupidaggine simile?
 
Eseguiamo il test.

«Se un ragazzo venisse a trovarla e le chiedesse: “Voglio diventare musicista, mi dica cosa devo fare”, lei che risponderebbe?»

«A mo’ dei maestri zen, cercherei di rompergli una sedia sulla testa… gli direi che il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia musicale dimostra la mancanza di una vera vocazione»

E ancora.

«Se un ragazzo venisse a trovarla e le chiedesse: “Voglio diventare pittore, mi dica cosa devo fare”, lei che risponderebbe?»

«A mo’ dei maestri zen, cercherei di rompergli una sedia sulla testa… gli direi che il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia di pittura dimostra la mancanza di una vera vocazione»

Vi sembrerebbe normale se chi volesse imparare a suonare la chitarra o il piano, a dipingere o a disegnare, a cantare o a danzare, si vedesse rompere una sedia in testa, e poi, nel caso il messaggio non fosse chiaro, si sentisse dire che il semplice fatto di voler imparare un’arte segnala la mancanza di una vocazione? Assurdo. E perché mai per la scrittura dovrebbe invece essere lecito?

Avvolgere la scrittura in una fitta nebbia di mistero, considerarla una manifestazione artistoide anziché artistica, è tipico di chi la scrittura non l’ha mai studiata, quindi non può insegnarla, e tuttavia sale in cattedra a dare lezioni un po’ della minchiaun bel po’ della minchia, lasciami dire – solo perché, chissà come e per quali vie, è riuscito a “entrare nell’ambiente”.

L’esperienza suggerirebbe di fermarsi qui, di chiudere il libriccino e collocarlo laddove deve stare – nel cestino della raccolta differenziata – ma non sia mai che l’esergo sia solo lo scoppiettio finale del fuoco d’artificio del titolo, e che il contenuto sia invece davvero di altro tenore.
 
Sì, dai, concediamo ancora fiducia, in fondo sfogliare qualche pagina cosa vuoi che sia?

 
Sinceramente, senza esagerazioni: non ho mai letto o sentito così tante stupidaggini condensate in così poche parole. In questo passaggio c’è una densità di idiozie virtualmente insuperabile, che denuncia una imbarazzante mancanza di aggiornamento, l’esser rimasti a idee e conoscenze oggi del tutto superate (ammesso siano mai state valide).

Questo insegnante, dunque, ritiene che “la scrittura non si possa insegnare” a causa della “vastità infinita delle possibilità di un testo narrativo”, che fa si che “infinite cose si possano scrivere in infiniti modi”.

Eseguiamo il test.

La pittura non si può insegnare perché la vastità infinita delle possibilità di una tela, fa sì che infinite cose si possano dipingere in infiniti modi.

La scultura non si può insegnare perché la vastità infinita delle possibilità di un blocco di marmo, fa sì che infinite cose si possano scolpire in infiniti modi.

Devo continuare o hai già capito? Hai capito.

Proseguiamo, e veniamo a sapere che “a poco, davvero a poco, varrà spiegare come si fa un incipit, come si delinea un personaggio, come si scrive un buon dialogo o si imposta una scena, finanche come si imposta un arco narrativo (quanti brutti fantasy sono sgorgati dal Viaggio dell’eroe?)”.

Non posso fare a meno di avvertire, al posto suo, l’imbarazzo che dovrebbe provare lui.

È ovvio che la tecnica non garantisce il risultato, ma il possesso della tecnica rimane condizione necessaria – ancorché largamente insufficiente – per produrre risultati. E poi, scusa tanto, se nemmeno col possesso della tecnica si riesce a cavar fuori nulla di buono, come ci si può illudere di raggiungere dei risultati accettabili addirittura facendone a meno? Siccome con le migliori scarpe da corsa non sono riuscito a conseguire un piazzamento decente alla maratona, la prossima volta correrò scalzo, e allora sì che ve la farò vedere! Capisci l’assurdità? La tecnica è un salvavita: sta lì per impedirti di auto-sabotarti, ovviamente non produce in automatico dei testi narrativi di qualità, ma rimane pur sempre la strada in assoluto più sicura, la guida più affidabile, verso una narrazione di qualità.

Ma è il passaggio finale a lasciare esterrefatti: “quanti brutti fantasy sono sgorgati dal Viaggio dell’eroe?”.

A parte che, di nuovo, l’incapacità di molti autori di andare oltre la tecnica non è un buon motivo per screditare la tecnica, ma, di grazia, mi fate vedere i capolavori scritti da chi invece se ne è sbattuto allegramente della tecnica?

Che poi non è nemmeno questo il punto che dà sgomento. Ciò che lascia davvero a bocca aperta è sentir parlare del “viaggio dell’eroe”.

Santo cielo! Ma da quanto tempo questo insegnante non legge un testo di narratologia? Quando ha smesso di documentarsi sugli sviluppi della materia, ammesso abbia mai iniziato? Perché la scrittura è un’arte e – come ogni arte – si evolve e si raffina. E serve tenere il passo, se la si vuole insegnare, perché – diciamolo, cazzo! – l’arte si può insegnare, la scrittura si può insegnare, certo che si può, ovvio che si può.

Il viaggio dell’eroe non lo cita più nessuno, ormai da decenni. È uno schema che – con le conoscenze e la sensibilità odierne – rivela tutta la sua vaghezza, e se vogliamo la sua goffaggine, per quanto entusiasmo possa ancora suscitare nei principianti. Oggi – anno 2023 – nessuno parla più del viaggio dell’eroe. Oggi – anno 2023 – tutti, ma proprio tutti,  si riferiscono a l’arco di trasformazione di Dara Marks, allieva di Linda Seger, e riconosciuta come la migliore story editor americana. E perdonatemi se cito solo due dei nomi più noti di Hollywood.
 

 
Certi fenomeni di casa nostra preferiscono invece giocare sul fatto che l’insegnamento non può garantire l’apprendimento, per creare l’equivoco che l’insegnamento stesso non è possibile, e propagandare il solito, usurato e anacronistico luogo comune che l’unica via per imparare è la lettura pedissequa di chi ha scritto prima di noi.

Chiunque abbia un minimo di conoscenza e sensibilità artistica – oggi, anno 2023 – rimane esterrefatto nel leggere che i modelli narrativi sono utili “se c’è da analizzare un testo a posteriori”, perché è vero esattamente il contrario.

Il modello è utile – imprescindibile – “a priori”, prima di iniziare a scrivere, come guida sicura alla progettazione.
 

Estratto dalla “Lezione 7 – Ovidio e la scuola delle Muse”, di Giuseppe Pontiggia.

“A posteriori” non si può mai sapere cosa sia successo realmente, perché su una qualsiasi sceneggiatura – realizzata come libro, film o fumetto – finisce col metterci bocca una pletora di persone – il produttore, il regista, l’agente dell’attore, o l’attore stesso, se si tratta di film; la casa editrice, gli editor, il servizio marketing se parliamo di libri – spesso per soddisfare obiettivi che nulla hanno a che fare con un’esecuzione tecnica a regola d’arte.
 
Per cui è davvero complicato – dopo, a posteriori – leggere l’opera attraverso il filtro del modello teorico, per la difficolta a separare ciò che era stato inserito volutamente – eventualmente sbagliando, perciò criticabile – da ciò che è invece un’aggiunta posticcia – e che per avventura può pure funzionare – messa lì per acquietare chi stava al tavolo negoziale sull’opera.

Il rischio più grande è forzare l’opera compiuta all’interno del modello teorico – presupponendo che il modello sia stato sempre rispettato alla lettera, anche se spesso non lo è – e quindi accusare il modello di eventuali sbavature o imperfezioni, o anche di errori gravi, che hanno invece tutt’altra origine, oppure attribuire alle prescrizioni del modello delle scelte stilistiche che nulla hanno a che fare con la teoria narratologica.
 
A ogni buon conto – a un livello più terra-terra – discutere un progetto sulla base del testo che lo ha realizzato significa, il più delle volte, andare incontro a un muro contro muro, perché l’autore – a cose ormai concluse – tenderà a difendere l’indifendibile, a giustificare l’ingiustificabile, a proteggere la sua creatura come una madre col figlio, assecondando un’inclinazione che sarà pure umanamente comprensibile, ma è quanto di più distante vi possa essere dalla mentalità di un’artista.
 
Estratto dalla “Lezione 7 – La trama non è niente, il linguaggio è tutto”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Progettare buone storie, e scriverle al meglio, è un’arte, che come ogni arte può essere insegnata, e quindi appresa, fermo restando che la qualità del prodotto finito dipenderà sempre dalle capacità individuali dell’allievo, dalla sua voglia di mettersi in gioco, di provare e riprovare, di saltare da un insuccesso a un altro, senza mai perdere l’entusiasmo.
 
E invece questo complesso processo di azioni, reazioni e interazioni – tra maestro e allievo, mediato dal punto fermo della tecnica – viene banalizzato nell’invito a “nutrirsi al meglio”.


 
Si dimentica un piccolo dettaglio: non conta quel che mangi, conta solo quel che assimili.
 
L’ho già detto – e non a caso – nel modulo 0, perché volevo fosse chiaro sin dal principio, ma il punto non sarà mai abbastanza ripetuto: non c’è verso di scoprire alcunché dalla lettura di dieci, cento, mille libri – in termini di tecniche di scrittura e sceneggiatura – se qualcuno, prima, non vi dice esattamente dove guardare e cosa notare.

Rifletti! Lo scrittore è un mago, e la sua magia consiste nel persuadere di una tesi, emozionando. Ma sarebbe un mago da due soldi, se il suo trucco si potesse cogliere semplicemente osservando ripetutamente il gioco di magia, non trovi?
 
Che poi, di nuovo, in quale altra arte l’osservazione ripetuta del prodotto finito – perché leggere è questo: osservare, dall’esterno, l’opera di qualcun altro – può automaticamente trasformarsi in capacità creativa?
 
 
Assurdità chiama assurdità, in una spirale senza fine e con effetti devastanti su ciò che un allievo può capire, e quindi produrre, se ha la sventura di trovarcisi dentro.

Il mio discorso – qui – è puramente didattico. Un testo ti viene presentato come “uno scrigno di tesori, … tutti da scavar fuori con tanto lavoro”, senza lasciarti scoraggiare dal “non aver capito minimamente cosa è successo nelle ultime densissime trenta pagine”, al punto che “devi rileggerle da capo”.

Ma ora – dimmi – quale idea di scrittura può formarsi nella testa di un allievo, davanti a un simile delirio? Penserà che la scrittura sia tutto un gioco di enigmistica, una sciarada, un rebus, e che vi sia grande merito artistico nel non far capire nulla al lettore, sino al punto di obbligarlo a rileggere tutto daccapo, anche più volte. Bravo! Bel risultato, complimenti davvero. È proprio questo che intendevano Flaubert&Co., quando invitavano lo scrittore a essere come Dio nella creazione.

In una scena memorabile delle serie I Soprano, il mafioso Silvio Dante è al ristorante con l’altro mafioso Gerry Torciano, che vuol dire qualcosa a Silvio, ma lo fa con circospezione, dice e non dice, perché teme la sua reazione. Silvio, esasperato, lo blocca: “Vuoi dire qualcosa? E allora dilla, Walt-fottuto-Whitman!”. Silvio Dante ha ragione: i poeti possono essere ermetici, complicati, oscuri, ma chi scrive narrativa deve essere cristallino, limpido, terso, e questa regola non conosce eccezioni.


Ci viene poi detto –  semmai qualcuno si fosse salvato dalla ossessiva ripetizione di questa idiozia – che “Faulkner, sublime maestro della struttura, può trasmettere qualcosa in tal senso in modo più immediato di altri autori”.

No, no, no, e ancora no. Il libro può trasmetterti una convinzione attraverso un caleidoscopio di emozioni, ma nessun autore può trasmetterti nessun tecnicismo – di scrittura e sceneggiatura – semplicemente attraverso la lettura del suo libro.
 
E ora tieniti forte, che arriva il botto finale.
 
 
La scrittura non si insegna è una di quelle pubblicazioni che stava meglio nel suo stato originario di albero (io, per sollevarmi la coscienza, ho trovato il modo di procurarmene una copia in formato e-pub).

Un buon 80% del testo si riduce a due parole – leggete e scrivete – che sono ovviamente consigli giusti a un livello astratto e generale, ma producono solo confusione ed equivoci, e quindi errori su errori, senza le necessarie e innumerevoli qualificazioni per renderli davvero fruttuosi.
 
Ma il restante 20% – se possibile – è ancora peggio, proprio perché pretende di dare consigli pratici: non ce n’è uno giusto, nemmeno per sbaglio.
 
E così ci sentiamo dire che “non è mai il caso di usare verbi diversi da ‘disse’ nei dialoghi”.

Ma cos’è, uno scherzo? Ma sì, per forza, non può che essere uno scherzo. Nel mondo reale mi aspetterei di veder comparire – da un momento all’altro, nel punto dove meno me lo aspetto – un grande striscione giallo che rivela tutto: “Sorridi, sei su Scherzi a parte!”. Ma siccome siamo nel mondo della pagina, forse comparirà un pop-up, con la stessa indicazione: “Sorridi, sei su Scherzi a parte!”. E nella versione e-pub sarà presente un link che, se cliccato, farà comparire lo stesso messaggio sullo schermo: “Sorridi, sei su Scherzi a parte!”.
 
Non è mai il caso di usare verbi diversi da ‘disse’ nei dialoghi”: torna al modulo 12, per ripassare le modalità d’uso dei dialogue-tag, e capire da solo l’assurdità di un simile suggerimento (l’assurdo si colora poi di aspetti grotteschi, paradossali, perché si finisce col dire una cosa giusta – mai usare dialogue-tag del tipo asserì, chiosò o ribadì – anche se la si giustifica con ragioni completamente sballate).
 
Vedremo nell’appendice come questo insegnante di scrittura gestisce i dialoghi nei suoi romanzi, e allora ci sarà da divertirsi, perché certe cose farebbero piangere d’orrore, se non facessero crepar dal ridere.
 

Ho incontrato più di uno scettico sull’utilità delle scuole di scrittura, tenuto anche conto dei prezzi medi di mercato. Ti senti di dargli torto? Io no.
 
Se gli stessi maestri, con fare ammiccante e denso di sottointesi, affermano che la scrittura non si può insegnare, perché mai – a buon senso, a rigore, a logica – se ne dovrebbe frequentare una?
 
Se tutto si riduce – a prestar fede a certe indicazioni – a leggere il più possibile e poi scrivere di continuo – attività realizzabili in autonomia – quale mai sarebbe il valore aggiunto della scuola? Forse, chissà, quello di rappresentare un punto di ingresso nell’ambiente dell’editoria, una declinazione – particolarmente costosa – del principio per cui bisogna “fare cose e vedere gente”, se ci si vuole ritagliare un proprio spazio in questo mondo.

Tutto qui, quindi? No, c’è dell’altro, qualcosa di più sottile e infido.

Molti autoproclamati maestri mantengono la scrittura avvolta in una nebbia di impenetrabile mistero, non tanto o non solo perché loro non sono in grado di insegnarla – ripetiamolo: loro non sono in grado di insegnarla, e non è che la scrittura di per sé non si possa insegnare – ma soprattutto perché è esattamente questo che vogliono sentirsi dire i loro clienti.

Perché il cliente tipo di una scuola di scrittura, in cuor suo, è già convinto di saper scrivere – il che è una distorsione mostruosa, perché non si può imparare nulla che si è già convinti di conoscere – e pensa gli manchi solo il contatto con chi, al solito, “è già nell’ambiente”.
 
Il cliente-tipo di una scuola di scrittura vuole rimanere libero di scrivere come desidera, vuole scrivere come scriveva già prima di frequentare la scuola, e siccome il cliente ha sempre ragione, non saremo certo noi della scuola a dargli torto, soprattutto se è disposto a staccarci un assegno da migliaia di euro.
 
Il cliente-tipo di una scuola di scrittura vuole sentirsi dire che in fondo, per scrivere bene, serve solo leggere molto e scrivere ancor di più; perché lui, il cliente, ha già letto molto, moltissimo, o almeno così ritiene, e non si sa quanto scrive, per cui ha la sensazione che il più sia fatto; e noi della scuola gli confermiamo che, sì, il più è fatto, perché non sia mai che si contraddica chi è disposto a pagarci per sentirsi dare ragione.

So cosa stai pensando: perché pagare, solo per sentirsi dire cose (sbagliate) di cui si è già convinti? Solo perché attraverso una scuola si può “entrare nel giro”? Sì e no, e più no che sì, a dirla tutta. Perché “nel giro”, alla fine, il più delle volte non ci entri, e perché il punto rilevante è un altro, ben più profondo.

Noi – per ragioni che sarebbe pure interessante indagare – siamo incapaci di attribuire valore a qualcosa, a qualunque cosa, fosse pure una nostra convinzione, se non la paghiamo, se non ci mettiamo sopra del denaro. Suona paradossale, perché il sogno di tutti – in astratto – è avere gratuitamente quante più cose possibili, ma poi – all’atto pratico – quando qualcosa arriva davvero gratuitamente, ci scopriamo impossibilitati a riconoscerne il valore intrinseco. Quando non c’è una posta in gioco, quando l’equivalente in denaro non ha convalidato ciò che ci ritroviamo tra le mani, tutto sembra perdere d’importanza, di significato. Io vorrei sì tutto gratis, ma so pure che se è gratis allora non vale nulla, per dirlo con uno slogan.

Non è forse questo lo spirito con cui – magari inconsciamente – stai seguendo questo blog?

Se hai studiato davvero i moduli che ti ho proposto sin qui, e hai provato a metterli in pratica, aiutandoti con gli esempi, sei già anni luce avanti a chi ha sborsato migliaia di euro per sentirsi dire che la scrittura non si insegna, ché in fondo basta solo ingozzarsi di libri e poi cagare i propri scritti di conseguenza; e a corso ultimato – ti assicuro – ne saprai ∞n di più del 95% degli autori pubblicati.

Ma questo blog è gratuito, e di conseguenza non vale nulla. Se ti avessi chiesto 50 euro a modulo, per un totale di 50×27=1.350 euro sull’unghia, a quest’ora staresti a testa bassa a studiare, a prendere sul serio ogni singola parola, a sforzarti al meglio delle tue capacità per realizzare dei testi a regola d’arte. E invece è tutto gratis, e quindi mah, , boh, forse, chissà
 
Ci sono molti modi di ingannare il nostro cervello, per obbligarlo a compiere operazioni e attività che spontaneamente non eseguirebbe mai; ma dargli a intendere che qualcosa abbia valore, anche se non la si è pagata, temo che oltrepassi qualsiasi possibilità.
 
Io continuerò a portare avanti il blog, per la più ovvia delle ragioni – perché mi appassiona – e tu sarai qui, magari a seguirlo pure con interesse, ma senza nessuna possibilità di apprendere davvero, perché costantemente morso dal dubbio che non sia proprio possibile avere gratis ciò che il resto del mondo si fa pagare, che un anonimo blogger non ne potrà mai sapere di più del professore.

 

Ne vuoi sapere più del professore?

Agito il braccio, la flebo oscilla. L’infermierona si precipita ai piedi del mio letto.

«Fabiani sei impazzito? Stai fermo!»

«Guarda…» Con gli occhi le indico la flebo vuota. «… non c’è più niente e l’ago mi dà prurito.»

«E allora mi chiami, che sistemo tutto io.»

Strappa il cerotto e sfila l’ago con un colpo deciso, serro le labbra ma un gemito esce comunque. Poggia il cerotto sul comodino, prende la bottiglia di disinfettante, la apre col pollice e mi innaffia l’avambraccio. Una smorfia mi storpia il viso.

«Che c’è Fabiani, ti fa male la bua?» Con un panno mi tampona il braccio per asciugarlo. «Vuoi che chiami la mammina?»

Minchia, c’hai tanta simpatia quanti centimetri d’altezza…

Dal letto accanto Raffaele mi spedisce un’occhiata di solidarietà. Lo ringrazio accennando un sorriso, lui strizza l’occhio, sospira e torna a fissare il soffitto. Fortuna che 
 c’è lui con cui farsi coraggio, sennò questo reparto sarebbe un cimitero.

Miss Simpaticona rimette a posto il disinfettante e getta il cerotto nel cestino. Fa un passo indietro, piazza le mani sui fianchi a ciambella e spara in fuori il petto prepotente. Lo sguardo le si assottiglia, gli occhi diventano due fessure da cui potrebbe uscire un fulmine da un momento all’altro.

«Oggi verrà il professor Santone—»

«No!» Raffaele si copre il viso col lenzuolo, agita i piedi come un bambino.

Anna abbassa il lenzuolo e gli punta contro l’indice. «Sei impazzito pure tu? Rimettiti subito composto!» Sposta quel wurstel di dito verso di me. «E dico anche a te, sai?» Il suo sguardo fa la spola tra me e Raffaele. «Oggi verrà il professor Santone per le visite, e non voglio casini.»

Già, ti piacerebbe fossimo anche noi mezzi morti come tutti gli altri qui intorno.

Mi passo la mano sulla fronte per scostare i capelli. «Ma…» Deglutisco, la saliva scende giù come un ago. «Ci saranno anche i dottorini?»

«Fabiani!» Butta in fuori il petto. «Non ti permettere, sai?» Il faccione gli si gonfia ancora di più. «Gli specializzandi sono il futuro del nostro ospedale, non ti azzardare mai più a mancargli di rispetto.»

Dal corridoio arriva un brusio crescente, la porta si apre e sullo sfondo compare il Santone attorniato da un nugolo di dottorini in camice azzurro. L
’omina Michelen sgrana gli occhi e spalanca le mani per intimarci di stare buoni, si precipita ad accoglierli e gli fa cenno di venire avanti: si dirigono proprio verso i nostri letti.

Lascio andare un mugolio prolungato, Raffaele si stringe nelle spalle e mi sorride. No, no… non ce la posso fare: io a questo giro 
mi fingo morto… e tanti saluti.

Chiudo gli occhi, mi irrigidisco e trattengo il respiro. Forza! Devo resistere soltanto per una manciata di secondi: ce la posso fare.

Il vociare aumenta, frasi incomprensibili si accavallano l’una sull’altra: questi fenomeni riescono a dilatare il più piccolo dei concetti nella massima quantità di parole… dai, su, ancora pochi sec—

Due dita mi premono sul collo come se dovessero infilzarlo, una mano mi solleva il pigiama e un metallo ghiacciato si abbatte in mezzo al petto. Il vociare cessa di colpo. Che cazzo succede?

«Niente da fare, il paziente è morto.» Un 
“oh” di meraviglia tocca il picco e si affloscia.

Cosa?! Morto? Ehi, ragazzi, stavo fingendo!

Sbarro gli occhi e faccio ancora in tempo ad afferrare il lembo del camice dell’ultimo dottorino rimasto indietro nello sciame azzurrino in movimento.

«Oh, oh
 non sono morto!»

Si libera della presa e mi lancia uno sguardo sdegnato. «Zitto tu! Che ne vuoi sapere più del professore?»
 

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