MODULO 0 – “Ne mancavano di mignotte”

Thailandia

Verso il caffè nel bicchierino col lupetto giallorosso. Sorrido a mio padre e glielo porgo.

Lo sorseggia a testa bassa.
 
«Papà…» Prendo un bel respiro. «Questa estate vado in Thailandia con i miei amici.»

Solleva lo sguardo, senza alzare la testa. «Ne mancavano di mignotte qui a Roma, ve’?»
 
 
 
Un esemplare dei noantri,
di cui andiamo a caccia all’estero.

Ne mancavano di manuali di scrittura! Sentivamo tutti il bisogno di averne un altro. Ma davvero, eh… meno male che è arrivato, meno male…

Qual è il punto?

Vedi, quando leggo Febbre a 90°, di Nick Hornby, ho la sensazione forte, precisa, che tutto quel che volevo dire sulla passione per il gioco del calcio, non solo lo ha già detto Hornby, ma che io non potrei mai dirlo meglio. Inutile quindi scrivere di tifosi di calcio e di ciò che agita la loro anima. Lo ha già fatto Hornby, in modo magistrale, insuperabile.

Non è così con i manuali di scrittura. Ce ne sono un’infinità, molti ottimi e alcuni eccellenti. Sembra ci sia tutto, sembra. Forse però manca ancora l’essenziale e di sicuro non c’è – non c’era, prima di ora – il manuale che io volevo, il manuale che avrei voluto leggere quando ho iniziato a studiare scrittura.

E cos’è che avrei voluto leggere?

Io volevo – prima di tutto – una manuale che fornisse istruzioni su cosa fare in pratica per scrivere bene, per scrivere a regola d’arte.

Perché – mi dicevo – se volessi imparare a suonare la chitarra, verrei messo davanti a un maestro che mi darebbe istruzioni precise su cosa fare per produrre accordi e melodie, e mi obbligherebbe a metterle in pratica sino a farmi sanguinare le dita, sin quando non fosse tutto eseguito alla perfezione.

Questo meccanismo di apprendimento – provare e riprovare a realizzare cose specifiche, per raggiungere l’eccellenza rispetto a uno standard dichiarato – è generale: lo ritroveremmo in qualunque arte volessimo cimentarci – recitazione, pittura, disegno, scultura, danza, canto, … – e deve quindi valere anche per la scrittura, se consideriamo la scrittura come una forma d’arte con la stessa dignità delle altre.
 
Per vederla da un’altra angolazione, io volevo una metrica affidabile per valutare la qualità di un’opera letteraria. Perché mi piace? Perché è scritta a regola d’arte o per mio gusto personale?

Ho adorato I palloni del Signor Kurz, di Michele Mari, e penso che anche qui – come per Hornby con il calcio – non abbia più senso scrivere un racconto per trasmettere ad altri il significato profondo del collezionismo, dell’atto del collezionare.
 
Ma perché quel racconto mi ha entusiasmato? Perché io sono un collezionista, e perciò l’argomento in sé risuona con la mia anima? Oppure perché è scritto in modo tecnicamente eccellente, e quindi è la scrittura in sé a tenermi incollato alla pagina? Come fare a separare i due effetti, il gusto personale (sull’argomento) dal tecnicismo (di scrittura)?

Nessun manuale – proprio nessuno, nemmeno i migliori – mi ha mai dato una risposta.
 
 
In quale altra forma d’arte ce ne si uscirebbe con una stupidaggine simile?
Avete mai sentito un maestro di musica, di canto, di disegno,
di danza, di recitazione, di pittura, di scultura, di ginnastica artistica,
dire con malcelato compiacimento che la sua arte non si può insegnare?
 
In compenso tutti i manuali – da quelli eccellenti sino agli altri che stavano meglio nello stato originario di albero – mi ripetevano la stessa cosa, ossessivamente: leggi, leggi, leggi.

Devi leggere di continuo, devi abbuffarti di letture di ogni genere, perché, insomma, come pensi di poter scrivere se prima non leggi chi ti ha preceduto?
 
Giusto. E così leggevo, di continuo, di tutto e di più. Ma poi, alla fine di ogni lettura – di cento, mille letture – tornava invariabilmente la stessa domanda: in che modo leggere farà di me uno scrittore?
 
Perché alla fine – mi dicevo – leggere un libro equivale a osservare il prodotto finito. E in che modo l’osservazione del prodotto finito mi rivelerà il tecnicismo del processo di produzione?  In che modo, per dire, osservare quadri o ascoltare musica, sino allo sfinimento, farà di me un pittore o un chitarrista, nel momento in cui prenderò in mano un pennello o una chitarra? In che modo abbuffarmi di pizza mi renderà un pizzaiolo?
 
 
Non potete inferire il tecnicismo della scrittura dalla lettura di dieci, cento, mille romanzi,
come non potete capire il trucco del mago dalla semplice osservazione del suo gioco di prestigio.
Non c’è modo di scoprire e imparare alcunché, per quante volte lo vogliate osservare,
se qualcuno non vi dice esattamente dove guardare e a cosa prestare attenzione.
Il trucco lo dovete già conoscere.
Solo allora l’osservazione del mago più esperto
vi darà gli spunti per realizzare la vostra magia. 
 
Le risposte che ricevevo – dai manuali e non solo – erano non-risposte, ammantate di un’esuberanza irrazionale, di un entusiasmo infantile, pretestuosamente nobilitati dalle parole di qualche grande del passato: la scrittura non si può insegnare, ma si può ancora imparare, devi solo tirare fuori la storia che è dentro di te, senza però chiedere istruzioni dall’esterno su come fare, perché non puoi pretendere ciò che non c’è né potrà mai esserci, perché – come diceva Hemingway – “non esiste una regola su come scrivere”, è tutto aleatorio, casuale, “a volte arriva facilmente e perfettamente”, altre invece “è come perforare la roccia e poi farla esplodere con le cariche” e tutto quello che puoi fare “è sederti a una macchina da scrivere e sanguinare”.
 
Forse era colpa mia, del mio carattere gelido, poco incline all’eccitazione, ma tutto questo fuoco d’artificio di parole mi lasciava perplesso.

Cavolo – mi dicevo – un maestro di chitarra potrebbe intuire gli errori di chi ha davanti senza neppure sentirlo suonare, ma solo osservandone la postura o il modo in cui imbraccia la chitarra. Possibile che non esista un analogo in scrittura? Possibile non vi sia un criterio per stabilire – all’istante – se un passaggio come questo è buona o cattiva narrativa, e – prima ancora – se è realmente narrativa o qualcos’altro?


Non farti troppe domande sulla scrittura – continuavano a ripetermi tutti – piuttosto leggi più che puoi, ma non questo o quel manuale di scrittura, perché il manuale è come il semaforo a Napoli – un suggerimento – e le risposte che cerchi, le istruzioni che pretendi, non si possono dichiarare apertamente, e vanno piuttosto estrapolate dai libri già scritti, perciò leggi più che puoi, a iniziare dai classici che hanno fatto la storia della letteratura.

E io leggevo a più non posso, a partire dai grandi classici, perché, insomma, dove pensi di andare se non hai mai letto Swift, Manzoni, Hugo, Joyce, Kafka, Musil, Carver e tutti gli altri?

Io leggevo, e trovavo passi del genere.

 
Davvero questa è narrativa? Davvero questo passaggio si può prendere a riferimento per scrivere buona narrativa moderna?
 
Perché – con tutta l’ammirazione per I Miserabili di Hugo, da cui l’ho ripreso – a me sembra più l’annuncio di un’agenzia immobiliare. Manca solo l’indicazione “50.000 franchi, trattabili”.
 
Devo scrivere anch’io così, oggi, nel XXI secolo, perché Hugo – e Swift, Manzoni, Joyce, Kafka, Musil, Carver – scrivevano così, alla loro epoca?
 
Sarebbe davvero singolare. Perché tutto evolve, tutto cambia, tutto si modifica – il cambiamento è l’unica costante – e sarebbe sbalorditivo se lo stile di scrittura fosse invece immutabile, perché nato già impeccabile (e quindi cosa mai vuoi aggiornare, se sei stato concepito già sulla vetta della perfezione?).
 
 
Non solo lo stile di scrittura evolve di continuo, ma lo fa a una velocità impressionante:
a essere superati – sul piano stilistico – non sono solo libri scritti cento o cinquant’anni fa;
anche molti testi con appena dieci o quindici anni alle spalle mostrano oggi la corda,
rispetto a tutto ciò che abbiamo imparato nel frattempo sull’arte della scrittura.  
 
Dobbiamo liberarci di una educazione fuorviante che abbiamo ereditato dalla scuola e dalla società rispetto ai problemi dello scrivere”.

Ho riflettuto a lungo su queste parole di Giuseppe Pontiggia, scrittore, aforista, critico letterario e curatore editoriale, pioniere della cosiddetta scrittura creativa.

In cosa consiste – esattamente –  questa "educazione fuorviante rispetto ai problemi dello scrivere"? Come si manifesta?
 
Prima di tutto con la confusione tra i contenuti e lo stile. Perché i contenuti delle opere classiche potranno pure essere immortali, ma il loro stile è totalmente superato, fa parte della storia della letteratura, non dell'attualità del saper scrivere. Chi lo propaganda ancor oggi  – chi si ostina a scrivere oggi con lo stile di cinquanta, cento, duecento anni fa – dimostra solo di non avere la forza necessaria a ribellarsi, perché, insomma, che figura ci faccio se parlo male di una cosa che sin dall’infanzia mi hanno detto essere sublime in ogni suo aspetto? 
 
La grandezza dei grandi del passato sta in tante, tantissime cose – ci sono un’infinità di buoni motivi per leggere I Miserabili e I Promessi Sposi – ma mai nel loro stile. Mai. Ostinarsi a perpetuarlo – solo perché i grandi scrivevano così, uno, due, tre secoli fa – mi fa venir voglia di parafrasare la sconsolata osservazione di John Maynard Keynes, per cui molti individui apparentemente colti e raffinati, che si ritengono liberi da ogni influenza, sono generalmente schiavi di qualche poeta o scrittore defunto.

 

Virgole

La signora Fabiola mi porge un mazzo di fogli rilegati. «È il mio romanzo finito, ma… devo essere sincera.»

Afferro il manoscritto. «Dica pure.»

«Non sono brava con la punteggiatura, potrebbero mancare un po’ di virgole.» Abbozza un sorriso, fa spallucce. «Le metta lei, dove ritiene più opportuno. D’accordo?»

Sfoglio le prime pagine, salto a quelle di mezzo, getto un’occhiata veloce alle ultime. Chiudo e le riconsegno i fogli.
 
«La prossima volta facciamo così: lei mi dia solo le virgole, che il romanzo glielo scrivo io. D’accordo?»
 
 
Mi raccomando la punteggiatura, se volete scrivere bene.
 
C’era un’altra cosa che avrei voluto trovare in un manuale: esempi, esempi, esempi.

Io volevo esempi a più non posso, tonnellate di esempi, di buona e cattiva scrittura, e poi di scrittura buona ma migliorabile, di scrittura da prendere a riferimento, in positivo e in negativo, per vedere all’opera le istruzioni su come scrivere.

Perché io, come diceva Hemingway, posso pure sedermi alla macchina da scrivere – mi raccomando: macchina da scrivere, non computer, perché tutto deve preservarsi ora come allora, dallo stile di scrittura al mezzo per scrivere – e dunque, sì, mi siedo alla macchina da scrivere e sanguino, nel tentativo di produrre qualcosa di valido, proprio come voleva Hemingway.
 
Ma poi come faccio a sapere se il mio sanguinare è utile o è solo una tortura auto-inflitta? Devo avere, prima di tutto, un modello di riferimento, delle istruzioni su cosa fare, e poi una gran varietà di esempi che chiariscano come il modello generale può esser “messo in posa”, per dirlo al modo dei muratori. Non avviene forse così in qualsiasi altra forma d’arte?

E invece – mirabile a dirsi – sembrava che io dovessi semplicemente scrivere con la stessa frequenza e intensità con cui leggevo – non lasciare mai passare un giorno senza scrivere! – come se dedicare tempo e ingegno a fare una cosa fosse di per sé garanzia di miglioramento.
 
E se per avventura stessi sbagliando qualcosa, se stessi solo affastellando errori su errori e imperfezioni su imperfezioni? In che modo dedicare tempo ed energia a fare cose sbagliate renderà giusto il risultato finale? In che modo impiegare tempo ed energia ad ammonticchiare sassi su sassi trasformerà la montagnola in un gelsomino?
 
Fai leggere ad altri ciò che scrivi – mi dicevano – sottoponi i tuoi testi al vaglio dei lettori, e saprai se stai scrivendo bene o male.
 
Ma chi erano questi “altri”, questi fantomatici “lettori” che avrebbero dovuto giudicare i miei scritti?

C’erano le vittime predestinate, i parenti più stretti e gli amici intimi, ma i loro giudizi non avevano granché peso – bello, bellissimo, fantastico, dico davvero, eh… ora però scusa, ma devo proprio andare – perché, sì, avrà pur avuto ragione il poeta polacco Czeslaw Milosz nel dire che “quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita”, ma quella famiglia ha anche il sacrosanto diritto di tirarsi in salvo dalle insistenze petulanti dell’auto-proclamato scrittore, non vi pare?
 
Non rimanevano che gli altri sedicenti scrittori, da incontrare per lo più virtualmente sulle piattaforme on-line. Le loro opinioni e il loro modo di agire mi lasciavano peraltro interdetto, quando li vedevo commentare i miei testi. La loro educazione scolastica alla scrittura, il loro intuito grezzo e le loro estrapolazioni ingenue, li portavano più che altro a rimescolare le parole, a cambiare o a spostare una frase, e più audaci – che poi avrei imparato a chiamare col loro nome: incompetenti – si premuravano addirittura di riscrivere interi periodi, di aggiungerne di loro, di toglierne dei miei.

Ma in base a cosa operavano? Quale standard avevano in testa? Quali metriche di valutazione usavano? Perché alcune frasi gli andavano bene e altre no? Quali erano le regole del gioco? Come potevo essere sicuro che stessimo parlando il medesimo linguaggio artistico? E se i loro commenti, pretestuosamente “tecnici”, fossero stati invece solo espressione del loro “gusto personale”?
 
E sorvoliamo su fellatio vicendevoli e vendette trasversali, sulla propensione – umanamente comprensibile, ma un po’ comica – a ricambiare i complimenti e le critiche con la stessa moneta, con altri complimenti e altre critiche, da maggiorare sempre con gli interessi, nell’uno e nell’altro caso, senza alcuna obiettività né in un senso né nell’altro.
 
Ma – accidenti! – io volevo proprio un modo per separare con precisione chirurgica l’esattezza tecnica dal gusto personale e dai rapporti interpersonali, io non volevo né frasi scritte male ma promosse perché “piacevano”, e neppure frasi scritte bene ma incolpate di non incontrare le fisime del lettore, e men che meno frasi promosse o bocciate per simpatie o antipatie individuali.

 

Il maestro

Afferro il gesso e disegno un rettangolo sulla lavagna. Lo indico alla classe giocosa e distratta. «Questo è per dimostrarvi che, a parte la tecnica, anch’io so disegnare come Giotto.»

All’istante i ragazzi smettono di ridere. Solo Pippo ha una faccia a forma di punto interrogativo. Alza la mano.

«I-io
 non ho capito.»

Sospiro, gli sorrido. «Certo Pippo, ora te lo rispiego.»

Tiro fuori la chitarra dall'armadio, la imbraccio e lascio cadere la mano sulle corde: un suono sgraziato si propaga per l’aula, ognuno fa una smorfia a modo suo, tutti si portano le mani sulle orecchie.

«Questo è per farti capire, Pippo, che a parte la tecnica anch’io so suonare come Jimi Hendrix.» Poso la chitarra sulla cattedra. «Ora hai capito?»
 
Mi fissa con gli occhi dello sdegno.
 
 
Una mia opera artistica.
Trova le differenze rispetto a Giotto.
 
Tutti, intorno a me, dicevano di amare la scrittura, che la scrittura era la loro più grande passione, ma poi, di là di ciò che raccontavano a parole, quel che mostravano nei fatti era un atteggiamento che rivelava una considerazione della scrittura scarsa o nulla.
 
La scrittura – per loro –  era la cuginetta tonta delle altre arti, un ambiente dove “le regole vere e proprie sono solo quelle grammaticali, logiche, sintattiche, ortografiche e di interpunzione. Le altre sono come il codice dei pirati: più che altro un’indicazione. Presentarle e proporle come valori assoluti è una sciocchezza o, peggio, un imbonimento da bottegai strillato all'esclusivo proposito di creare polemica per ottenere attenzione o, magari, indurre qualche ingenuo a credere di avere di fronte chissà quale maestro cui versare oboli”.


Se anche tu la pensi così, smetti subito di frequentare questo blog.
 
Qui nessuno ti chiederà mai di “versare oboli”.
 
Qui è tutto gratis e lo sarà sempre (e chissà se questo non sia un errore, perché la massa brama per avere le cose gratuitamente, ma poi, quando le ha così, gratuitamente, non riesce più a dargli valore, perché… non le ha pagate).
 
Qui sarà sempre tutto gratis, ma se pensi che le regole tecniche di buona scrittura “sono come il codice dei pirati”, allora smetti subito di leggere, perché quel che perderai non sarà il denaro, ma qualcosa di molto più importante, che nessuno potrà mai restituirti: perderai il tempo, sfilaccerai la stoffa della vita. 

Dico sul serio. Hai già perso fin troppo tempo a leggere sin qui. Fermati all’istante, nel tuo stesso, primario interesse.

Perché qui si ragiona in tutt’altro modo, con altri paradigmi, con altri schemi.
 
Qui si è convinti che l’amore si basa sul rispetto, che il rispetto non esaurisce l’amore, ma che senza rispetto non possa esserci amore.

E non si ama la scrittura perché si dice di amarla. Si ama la scrittura perché se ne rispettano i principî e le regole, perché ci sforza di mettere all’opera principî e regole con le tecniche migliori.

Amare la scrittura vuol dire elevarla a una forma d’arte, e imporle pertanto gli stessi standard di qualità richiesti da qualunque forma d’arte.

Amare la scrittura significa vivere quegli standard non come gli estremismi di un nazista, ma come prescrizioni ovvie e giuste: 2+2=4 è un’affermazione perentoria, ma non riesco proprio a smussarla.

Non si presta un buon servizio alla scrittura, se si afferma che ognuno può scrivere come vuole, perché in fondo regole vere non ce ne sono, perché c’è sempre la possibilità di uno “scrivere alternativo”.

Imparare a scrivere è tra le cose più difficili al mondo, per una ragione precisa.

Se seguo un corso di scacchi, di pianoforte o di danza, io so di non sapere e mantengo un atteggiamento umile, votato all’apprendimento. Pure, non sapendo nulla di scacchi, di pianoforte o di danza, il mio animo è un terreno vergine, non contaminato, su cui poter piantare direttamente i semi dell’arte.

Con la scrittura va tutto alla rovescia. Tutti credono di saper scrivere, perché i loro temi facevano venire i lucciconi alla professoressa di italiano, perché sono usciti col massimo dei voti da un liceo classico o dalla facoltà di lettere, perché mamma e papà hanno sempre pensato di avere in famiglia l’astro nascente della letteratura moderna, o perché il loro salone è perimetrato con una libreria stracolma di volumi di ogni genere, o per chissà quale altro motivo strampalato. Nessuno gli ha mai insegnato a scrivere  – ah, già, scrivere non si insegna (sic!) –  eppure credono di saperlo fare. Questa è la vera arroganza, la vera presunzione.
 
Quando piove, grandina. Non solo non si sa scrivere, e ci si illude di saperlo fare, ma per colmo d’impostura quel poco che si sa è totalmente sbagliato. E così, se un maestro di scacchi, di pianoforte o di danza può partire da zero, agendo su spiriti umili, un maestro di scrittura si trova invece a lavorare con spiriti presuntuosi e arroganti, che per di più partono da sottozero.

La conferma è nel fatto che quando il maestro segnala un errore, non solo l’allievo non lo corregge nel testo successivo, ma va addirittura a cercare qualcun altro che lo ha commesso, per poterlo giustificare, per negare che si tratti di un errore, e se quel “qualcun altro”, per avventura, è un grande del passato, allora pensa di aver tacitato il maestro per sempre.
 
Perché, curiosamente, in tutte le altre forme d’arte, e nell’apprendimento in generale, si dubita sempre della propria comprensione o delle capacità didattiche del maestro, ma nessuno mette mai in dubbio la verità e la correttezza di ciò che viene insegnato. Solo in scrittura germogliano ovunque allievi fenomeni, che sentono di poter questionare le regole in sé, che a parole dicono di voler imparare, ma a cui nel subconscio non riconoscono  evidentemente alcun valore.
 
Per tutto ciò, i primi passi di un corso (serio) di scrittura vanno nel senso della demolizione. Ci sono da demolire equivoci secolari, che impediscono di impostare e sviluppare il testo in conformità ai principî e alle regole di una buona scrittura, come viene intesa oggi. Ci sono da demolire la presunzione e l’arroganza dell’allievo. C’è da demolire tutto, e le demolizioni non sono mai operazioni piacevoli.

Amare la scrittura significa accettare il dolore di questa demolizione, e avere voglia, tempo e capacità di ricostruire.

Non c’è altro. È tutto qui.
  
Principî, regole e tecniche stanno alla scrittura di un testo narrativo
come le leggi della fisica stanno a una costruzione edile.
Ognuno può costruire quel che vuole, in base al proprio gusto e alle proprie capacità
- casette al mare, chalet in montagna, villette bifamiliari, condomini, palazzi, castelli, regge -
e ognuno avrà grande libertà nella scelta dell'arredamento della propria costruzione, 
ma le leggi della fisica che fanno stare in piedi la costruzione rimangono le stesse per tutti.
Funziona allo stesso modo – allo stesso identico modo – con i testi narrativi:
nessuno vi potrà mai dire cosa scrivere, ma come scrivere, questo sì, si può insegnare,
allo stesso modo con cui si insegnano le leggi della fisica a ingegneri e architetti.

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