Modulo 21A – “E allora Manzoni?”: valore e scopo della lettura dei classici

 
Dimmelo se capiti a Roma, che ti porto a visitare il Colosseo. Magari lo hai già visto, anche più volte, ma il Colosseo non lo si vedrà mai abbastanza. Un po’ come leggere Manzoni (e Hugo, Kafka, Poe, …).

Il Colosseo è meraviglioso da visitare, anche più volte, ma nessuno penserebbe di usarlo per finalità pratiche e immediate. Proprio come i testi di Manzoni (e Hugo, Kafka, Poe, …) a cui nessuno approccia con l’idea di ricavarne indicazioni tecniche o stilistiche, e in molti faticano ad approcciare tout-court.
 
È un fatto che il Colosseo si può solo visitare e che la tecnica e lo stile dei “classici” rappresentano un grande ostacolo ad avvicinarli; è un fatto che dobbiamo lottare contro il nostro cervello per intraprendere la lettura di  Manzoni (e Hugo, Kafka, Poe, …).
 
Non li voglio leggere I promessi sposi, cazzo!

Seriamente: cosa penseresti di questa pagina, se non sapessi – dal modulo 0 – che proviene da I miserabili di Hugo?


Le persone possono ancora interessarsi alla letteratura dell’800 – leggere opere scritte nell’800, da autori dell’800, secondo i canoni dell’800 – ma non accetteranno mai di leggere opere scritte oggi, anno 2023, con l’approccio dell’800.
 
Perché a quel punto preferiranno invariabilmente gli originali – che sono pur sempre Manzoni, Hugo, Kafka, Poe, … – agli sconosciuti che oggi li scimmiottano; perché una prosa oggi anacronistica si può ancora digerire, sapendo che era lo standard dell’epoca in cui fu realizzata, ma non la si accetterà mai su opere moderne, verso cui sono maturate tutt’altre aspettative e ben altre sensibilità; perché un lettore tiepido tollera e consente nei “classici” soluzioni tecniche e stilistiche che aborrisce in chi pensa di emularle oggi, sotto la fallace protezione della loro nobile ascendenza.


Estratto da “Insegnare a scrivere: una sfida d’autore”, di Cristina De Santis
(postfazione al volume Per scrivere bene imparate a nuotare, di Giuseppe Pontiggia).
 
Questo stralcio da un testo mainstream – collocato in una dimensione istituzionale, dove i “classici” si difendono per dovere d’ufficio –  dovrebbe farti riflettere.

Le opere classiche – anzitutto – non sono “frutto di spontaneità e divina ispirazione”, come pensano le anime belle, convinte che esista un immaginifico talento per la scrittura, né tantomeno sono “perfette in ogni loro parte”, un modo elegante per dire che sono invecchiate (molto) male sotto molteplici aspetti.

Bisogna perciò avere “un atteggiamento attivo di fronte al testo letterario”, che “va sì collocato nel suo tempo” – contestualizzato – ma poi riconsiderato “nella sua presenza attuale”, con “lo scopo preciso” di “vagliare la tenuta dell’opera”.

E quali sono i profili dell’opera da sottoporre a un vaglio di consistenza, di tenuta?
 
Cos’è che va messo sul banco di prova del test of time?
 
Qual è in definitiva il valore dei “classici”, per chi ambisce oggi a costruirsi un percorso autoriale?
 
Se bisogna scrivere così tanti libri per spiegare “perché leggere i classici”,
forse i motivi per leggerli non sono così intuitivi e immediati.
 
È un fatto rilevante che Umberto Eco, Massimo Cacciari e Pier Ugo Calzolari – non proprio tre scappati di casa – abbiano parlato dei “classici” rispettivamente per 18, 17 e 12 minuti, senza riuscire a fulminare il pubblico con una frase che ne chiarisse all’istante il valore e lo scopo della lettura.

Nei loro interventi sentirai parlare di insiemi astratti, di angoli retti di Euclide, di reincarnazione, di esistenza di Dio, di complesso di Edipo, di un personaggio di Borges – Funes – che ricorda ogni cosa, dei fraintendimenti sulla funzione della scuola, e di tanto altro ancora; ma non troverai l’illuminazione, la rivelazione immediata sul “perché leggere i classici”, il gancio all’idea di fondo, che funzioni da stimolo ad approfondire.

Si tende a divagare (su argomenti peraltro di grande interesse) e a usare un linguaggio forbito ed elegante (con pennellate di umorismo, nel caso di Eco) che attrae l’attenzione su di sé e la distoglie dal messaggio che dovrebbe veicolare.

Rimangono – a ogni modo – tre interventi che val la pena ascoltare.
 
L’intervento di Umberto Eco sui “classici”.

 
 
L’intervento di Massimo Cacciari sui “classici”.
 
 
 
 
L’intervento di Pier Ugo Calzolari sui “classici”.

Io, però, la penso come Ferdinand Kürnberger, citato da Wittgenstein in esergo alla prefazione del suo Tractatus logico-philosophicus: “… e tutto ciò che si sa, che non si sia solo udito ruggire e rombare, può essere detto in tre parole”.

È vero: se lo sai, lo sai dire in tre parole; e se non lo sai dire in tre parole, allora non lo sai.

Puoi ricamare quanto vuoi intorno a una teoria, a una dottrina o a una visione sul mondo, puoi rifinirla a piacere, puoi cavarne il sottile dal sottile, ma l’idea di fondo che ne è alla base, se l’ha interiorizzata, se è parte di te sino a non poter più concepire il mondo senza di essa, sarai sempre capace di esprimerla in tre parole o poco più.

E queste tre parole ideali le troviamo nelle pagine iniziali del libro di Calvino, Perché leggere i classici, (che dà anche il titolo al primo capitolo, strutturato per punti).

Un classico” – ci dice Calvino – “è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” (punto 6), è “ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona” (punto 14).

Eccolo qui il motivo per cui leggere i “classici”, a cui Eco arriva dopo essersene andato un bel po’ a spasso, e che Cacciari e Calzolari mancano del tutto.
 
Un’opera si valuta in base a tre parametri: tecnica, stile e messaggio, con i primi due – tecnica e stile – che formano la struttura portante del terzo. L’invito a “vagliare la tenuta dell’opera”, riconsiderandola “nella sua presenza attuale”, equivale ad applicare i criteri di giudizio di ora a ciò che fu creato allora, per verificare se tecnica, stile e messaggio siano ancora di attualità oppure sorpassati.

I “classici” – in questo senso – sono dei sopravvissuti: hanno attraversato il tempo e sono arrivati a noi, zoppicanti, sporchi, malconci e malandati, ma sono comunque arrivati, sono sopravvissuti.

È sopravvissuto il grande messaggio di cui sono portatori, che per la sua universalità riecheggia di continuo nel mondo e non finisce mai di dire quel che ha da dire, che è sempre di attualità, anche quando l’attualità apparentemente se ne discosta.

E la loro dimensione universale va poi raccordata con la realtà individuale. Fuori dagli ambienti scolastici, dove il contatto con i “classici” è invariabilmente mediato dalle analisi accademiche postume, i più consigliano di lanciarsi senza timori in un vero corpo a corpo, per scoprire quale sia “il ‘tuo’ classico, quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui”, citando ancora Calvino.

A volersi esprimere in termini moderni, con il gergo delle tecniche di sceneggiatura, si può dire che il valore e lo scopo dei “classici” – il motivo per cui vale la pena leggerli – è nella qualità del tema e nella tenuta della premessa, i due cardini di ogni storia (a cui sarà dedicato il modulo 23A).

Ma la bontà del tema e della premessa, il fatto che un “classico” non ha mai finito di dire quel che ha da dire, non garantisce anche la tenuta dei modi con cui le cose si dicono (della tecnica e dello stile); sarebbe anzi sorprendente – e per molti versi triste – se pure la struttura espressiva risultasse cristallizzata.
 
I messaggi di fondo potranno essere immortali, ma le loro forme espressive mutano, evolvono, si raffinano: Manzoni non scriveva come Dante, Stephen King non scriveva come Manzoni, e tu non devi scrivere come Stephen King.
 
 
Minuto 1.31:
“Il fatto che un libro abbia un messaggio importante non significa che sia scritto bene.
E tra l’altro il fatto che un libro parli di violenza domestica
non significa che sia trattato bene quel tema”.
Sembra un’ovvietà, e magari lo è, ma ripetiamola lo stesso,
visto che c’è ancora chi pretende apprezzamenti
per il sol fatto di aver scelto un argomento delicato
(guerra, immigrazione, violenza sulle donne, disabilità, …)
senza capire che l’argomento in sé non ha valore artistico,
che è solo la connessione con la tecnica e lo stile a conferirglielo,
e che il giudizio di merito sui contenuti – pur esulando dalla dimensione artistica –
rimane comunque soggetto all’opinione.
 
I “classici” rimangono un giacimento di suggestioni, di stimoli, di conoscenze (e incidentalmente anche di informazioni storiche su un’epoca) a cui attingere per mantenere il cervello in uno stato vigile, fertile, costantemente pronto all’uso; ma non devono suscitarti nessuna soggezione psicologica, perciò non sentirti un blasfemo se ne rilevi debolezze di struttura, di impostazione, di stile.

È di una stupidità imbarazzante ripetere ossessivamente che i grandi del passato hanno comunque creato opere eccezionali senza mai studiare scrittura e narratologia. Il punto di vista andrebbe ribaltato: quali meraviglie avrebbero prodotto i grandi del passato, se avessero saputo tutto quello che sappiamo oggi sui tecnicismi di scrittura e di sceneggiatura?
 
Non si presta un buon servizio alla scrittura, né si rende omaggio ai grandi del passato, se ci ostina a dare attualità a cose che appartengono alla storia, solo per dissimulare la propria svogliatezza nello studio, il rifiuto ad aggiornarsi, a tenere il passo dell’evoluzione delle conoscenze.
 

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