MODULO 15 – Tecnica e stile


Tecnica e stile sono parole ricorrenti quando si parla di arte (della scrittura).

Ti propongo un campionario di citazioni di Pontiggia, qualificate per area tematica, tutte estratte dalle sue “Lezioni”.

Sul confronto inevitabile con la tecnica
: “non c’è scrittore che non si misuri con problemi di tecnica e che non cerchi di risolverli attraverso la riflessione”.
 
Sul ruolo della tecnica nell’operare artistico di uno scrittore: “non conosco narratore, come non conosco artista in generale, che non sia padrone dei propri strumenti, che non sia cosciente del proprio mestiere”.

Sulla scrematura dei problemi di scrittura realizzata dalla tecnica: “la tecnica non solo aiuta a risolvere problemi veri, ma aiuta a non porsene di immaginari, l’apprendimento della tecnica sgombra il campo da difficoltà presunte per lasciare spazio a quelle reali”.
 
Sulla credenza del cattivo scrittore di dover dare grandi quantità di informazioni su luoghi e personaggi: È solo una scarsa conoscenza della tecnica a farglielo credere. Se avesse padronanza della tecnica non sarebbe vittima di queste costrizioni allucinatorie”. 
 
Sul dominio degli elementi controllabili, per governare anche gli imponderabili: “l’importanza del lavoro, della concentrazione, della continuità. Se vogliamo anche della tecnica. Questo non significa escludere l’ispirazione. Significa spostare l’accento su quella parte dell’operare artistico che può essere avvicinata e programmata. Significa anche predisporre lo spazio più adeguato per l’ispirazione, per i momenti in cui si manifesta”.
 
Sulla necessità di apprendere la tecnica, per oltrepassarla: “la tecnica serve per dimenticarsi della tecnica. Perché io credo che solo chi la possiede può servirsene per qualcosa di più importante. Gli altri ne sono impediti. Coltivano ambizioni, ma non i mezzi per realizzarle. Se pensano che l’ispirazione possa eludere i problemi tecnici andranno incontro ad amare sorprese”.
 
Sulla tecnica che serve per dimenticarsi della tecnica – sulla necessità di possederla per non pensarci – si registra una perfetta coincidenza di vedute con Salvador Dalì, a testimonianza di una matrice comune a tutte le forme d’arte.

Giovane pittore, sì, sì, sì e sì! Devi, soprattutto da giovane, usare la geometria come guida alla simmetria nella composizione delle tue opere. So che i pittori più o meno romantici sostengono che queste impalcature matematiche uccidono l’ispirazione dell’artista, dandogli troppo su cui pensare e riflettere. Non esitare un attimo a rispondere loro prontamente che, al contrario, è proprio per non avere da pensare e riflettere su queste cose, che tu le usi”.
 
E proprio quest’ultimo passaggio – “la tecnica serve per dimenticarsi della tecnica” – permette di conferire precisione al concetto stesso di tecnica di scrittura.
 
Parlo di tecnica di scrittura – di pura e bruta scrittura – senza alcun riferimento alla sceneggiatura. Le due cose a volte si confondono, perché inevitabilmente la scrittura si appunta su una storia, e le tecniche di sceneggiatura sono più interessanti di quelle di scrittura, di sicuro se ne discorre con più gusto, e perciò a volte si finisce col parlare di sceneggiatura convinti che si stia discutendo di scrittura.

Qui – per il momento – parliamo solo di tecnica di scrittura. 

E cos’è questa tecnica di scrittura, che serve a “dimenticarsi della tecnica” per arrivare a “qualcosa di più importante”? Esattamente ciò che è stato presentato nei moduli 8, 9, 10, 11, 12 (già col modulo 13 abbiamo messo un piede nella sceneggiatura).

La (moderna) tecnica di scrittura obbliga a far uso esclusivo dei cinque mattoncini narrativi, da cementare in modo da creare un flusso narrativo simulabile: componiamo testi narrativi con i cinque mattoncini [A], [PS], [P], [D] e [PP] come un musicista compone musica con le sette note, e devo ancora trovarlo un musicista che vede nelle note una costrizione anziché il normale strumento di lavoro.
 
È tutto qui: questa è la tecnica di scrittura. 

È allora evidente in che senso “la tecnica serve a dimenticarsi della tecnica”: acquisire la tecnica significa considerare ovvio – naturale, spontaneo, meccanico – costruire il mondo della pagina attraverso l’uso esclusivo di azioni, pensieri, dialoghi e percezioni.
 
Raccontato così può sembrare banale, ma ogni cosa appare scontata quando raggiunge il più alto livello di sintesi e chiarezza, se non si tiene memoria degli immensi e ripetuti sforzi che si sono resi necessari per arrivare sulla vetta.

Banale, no?
 
Il limite è tra i concetti fondamentali dell’Analisi Matematica, alla base di quel calcolo infinitesimale – derivate e integrali – che pervade ogni settore della disciplina.
 
La definizione matematica di limite occupa oggi meno di mezza pagina, ed è perfettamente comprensibile a qualunque liceale (e volendo anche a uno studente di scuola media, purché gliela si presenti adeguatamente).
 
Estratto da Che cos’è la matematica, di Richard Courant e Herbert Robbins.
 
Ma questa definizione – chiara, precisa, asciutta – è il prodotto di un incessante lavoro secolare, trainato da intuizioni geniali da un lato, e ostacolato da ingenuità imbarazzanti e derive metafisiche dall’altro.
 
Ce n’è voluto di tempo e ingegno, per arrivare a quella limpidezza definitoria a cui oggi siamo abituati e che – superficialmente – diamo per scontata.
 
Estratto da Che cos’è la matematica, di Richard Courant e Herbert Robbins.

Anche in scrittura “una difficoltà apparentemente insormontabile ha per lungo tempo ostacolato una chiara comprensione”, e mettere a punto la tecnica del mattoncino è stato “ovvio” come l’esatta formalizzazione matematica del concetto di limite.

Quando leggiamo, mettiamo in scena la storia, la simuliamo come se fosse vera: gli occhi leggono parole e il cervello evoca immagini, suoni, odori, sensazioni corrispondenti a quelle parole.

Quindi la miglior tecnica di scrittura possibile – a rigore l’unica ammissibile – è la tecnica di simulazione, e poiché nel mondo reale non esiste nulla al di fuori di azioni, percezioni, pensieri e dialoghi, null’altro può essere recepito e simulato in fase di lettura (di narrativa). Semplice, no? Come la definizione di limite con ε e δ.

Così come una volta messa in cassaforte la definizione di limite ci si è potuti sbizzarrire col calcolo infinitesimale, allo stesso modo, una volta chiarito che la tecnica di scrittura è una tecnica simulativa, si è potuti andare oltre la tecnica – da considerare acquisita – per dedicarsi allo stile.
 
 
Lo stile era lo strumento scrittorio con cui i latini incidevano le tavolette cerate; ma lo stesso strumento produceva risultati diversi se messo in mani diverse, in ragione della sensibilità d’uso di ognuno, da cui l’espressione avere uno stile, una capacità propria di fare uso di uno specifico mezzo per produrre un determinato risultato.
 
Cos’è dunque lo stile di scrittura?

Il mio lavoro è immaginazione dentro una camicia di forza”. Possiamo mutuare le parole del fisico Richard Feynman: lo stile è immaginazione dentro la tecnica, è la capacità di far uso della tecnica per produrre testi narrativi marchiati con la propria personalità, e la tecnica sta lì a proteggere lo scrittore da sé stesso, lo invoglia a costruirsi e rifinire un proprio stile, ad esaltarlo.
 
Qui è lo stile dello scrittore: nel decidere le proporzioni dei vari mattoncini, nel selezionare i dettagli migliori con cui dargli forma e sostanza, per creare la propria particolare e ineguagliabile sequenza narrativa.
 
Lo stesso soggetto, e persino la stessa trama, potranno avere una resa totalmente diversa, in ragione delle scelte stilistiche. In che misura farai uso di azioni, pensieri, percezioni e dialoghi e come li alternerai? Quali azioni compiranno i tuoi personaggi? Cosa diranno? Quali pensieri gli frulleranno in testa? Quali aspetti del mondo circostante percepiranno con maggiore attenzione? E quali interpretazioni ne daranno?
 
La trama non è niente, il linguaggio è tutto” è il titolo emblematico di una “Lezione” di Pontiggia (la numero 8) in cui il riferimento è ai modi con cui il linguaggio prende forma, quindi allo stile, a cui segue l’invito ad affinarlo, a lavorare ad ogni frase – a levigare i mattoncini narrativi – “con la stessa precisione di un orefice”.
 
Estratto dalla “Lezione 14 – Aforismi imperfetti ed errori di Omero”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Altro, poi, è se una volta acquisita consapevolezza di cosa siano tecnica e stile, la maggioranza degli autori scelga – più o meno consapevolmente – di adagiarsi sullo stile prevalente, o sul più facile da realizzare, originando un eccesso di stilismo che può trasmettere la sensazione – non del tutto ingiustificata – di una produzione letteraria standardizzata, figlia di un modo di scrivere meccanico e ripetitivo.
 
Ma già ai tempi di Pontiggia, e nell’opinione di Pontiggia stesso, questa situazione era comunque giudicata preferibile, perché manteneva il merito di indirizzare sull’unica strada corretta verso una scrittura di alto livello, dove la “coscienza artigianale” si trova sempre al centro del discorso.
 
 
Estratto da “Insegnare a scrivere: una sfida d’autore”, di Cristina De Santis,
postfazione al volume Per scrivere bene imparate a nuotare.
 
Parlare di tecnica e di stile rimane il modo più veloce e sicuro per distinguere uno scrittore da uno che scrive, che semplicemente schiaccia pulsanti sulla tastiera.

Lo scrittore dispone di tonnellate di dettagli, e il suo problema è scegliere quelli giusti.

Uno che scrive scarseggia di dettagli, e li surrogherà con figure retoriche e cliché.

Lo scrittore usa invariabilmente il discorso diretto, un mezzo potente per valorizzare i dettagli.

Uno che scrive fa largo uso del discorso indiretto, il mezzo più subdolo per dissimulare la mancanza di dettagli.

Lo scrittore sa che la conoscenza è limitata, quindi sceglie un personaggio “Punto di Vista” e racconta la storia da un’unica prospettiva (eventualmente con più sfumature).

Uno che scrive maschera la sua ignoranza con la tecnica anacronistica del narratore onnisciente e con continue invasioni nel mondo della pagina.

Lo scrittore sa sempre qual è la parola giusta da usare, rispetto al personaggio “Punto di Vista” e alla scena in cui è inserito, e non avrà mai timore di essere volgare: dirà pisciare senza problemi, se quella è la parola giusta, dato il personaggio e la scena in cui si trova.

Uno che scrive è sempre tormentato dal dubbio di poter urtare la suscettibilità di qualcuno, di riuscire inopportuno, di essere criticato, e crederà di mettersi al riparo scrivendo orinare.

E si potrebbe proseguire, se il concetto non fosse già chiaro: lo scrittore fa di tutto per manifestare la propria conoscenza, uno che scrive fa di tutto per nascondere la propria ignoranza. 
 
È la conoscenza di ciò di cui si scrive a fornire i dettagli giusti – a permettere la selezione dei dettagli migliori dal proprio magazzino esperienziale – ed è la sensibilità affinata con la pratica a suggerire come presentarli – in che ordine, con quali intrecci – per creare una narrazione che possa far esclamare al lettore io c’ero, io ero lì.

La conoscenza ha un valore profondo, ben oltre le apparenze: serve a costruire l’autorevolezza dello scrittore. 

Mi è stato sottoposto tempo fa – per un editing – l’incipit di una storia con una ragazzina anoressica come protagonista. L’autore sapeva che non avrei letto nulla che non fosse stato scritto con la tecnica del mattoncino, non per cattiveria o snobismo, ma per un motivo spicciolo: se mi interpelli per avere un parere tecnico, e non per conoscere il mio gusto personale, allora il testo deve essere conforme a una tecnica che sia un riferimento sicuro per entrambi, che funzioni da linguaggio comune per l’autore e l’editor; e siccome io edito gratuitamente, e se voglio leggere testi scritti come nell’800 leggo i classici e non chi prova a scimmiottarli… 

Avevo diffidato l’autore dall’inviarmi un testo che – frase per frase – non avesse superato il test del mattoncino, e l’autore si era attenuto alla consegna: tutti le frasi superavano il test, ogni frase corrispondeva a un mattoncino narrativo. Peccato solo che la gran parte dei mattoncini era stata riempita in modo sciatto, banale, stereotipato, incolore.

Non so dove abbia preso azioni, pensieri, percezioni e dialoghi, per dare forma ai mattoncini [A], [P], [PS], [PP] e [D], ma di sicuro erano tutti riempitivi che chiunque avrebbe potuto recuperare con una superficiale ricerca in internet. Paroloni, pensieri filosofici, azioni estreme, conversazioni teatrali, percezioni surreali, tutto oltremodo “gonfiato” nel maldestro tentativo di impressionare il lettore. Che ovviamente non si impressiona.

L’autore aveva scritto senza sapere di cosa stava scrivendo. E cosa avrebbe dovuto scrivere, se avesse conosciuto l’argomento? Mah, non so. Così – solo per dirne una – avrebbe collocato la ragazzina a tavola, davanti a un piatto di pennette in bianco; poi gliene avrebbe fatte spostare alcune a destra e altre a sinistra, fino a creare un vuoto al centro del piatto; gliene avrebbe quindi fatta mettere una in mezzo, e gliela avrebbe fatta tagliare in due; gliene avrebbe fatta mangiare una metà e l’avrebbe lasciata in contemplazione dell’altra; e dopo questo flusso di azioni – da scrivere per bene – il pensiero correlato sarebbe venuto da sé, se avesse saputo di cosa stava scrivendo.

Vedi, non serve chissà cosa per riempire i mattoncini: semplicemente devi conoscere ciò di cui scrivi, dare forma e sostanza a ogni mattoncino in modo da apparire autorevole agli occhi di chi ti legge.

E questo, sì, non si può insegnare; lo puoi apprendere solo di tua iniziativa, vivendo quanta più vita possibile, in modo diretto e indiretto, all’occorrenza studiando tutto quel che c’è da studiare, e allenandoti di continuo a riportare la tua conoscenza nel mondo della pagina, col senso di responsabilità del dio creatore, con la consapevolezza di maneggiare un mondo scritto in codice.
 
Estratto da “Insegnare a scrivere: una sfida d’autore”, di Cristina De Santis,
postfazione al volume Per scrivere bene imparate a nuotare.
 
Nessuna scuola o corso di scrittura può creare a tavolino un nuovo Shakespeare, un altro Pirandello o anche semplicemente un Cronin. Ma una scuola o un corso di scrittura – se ben selezionati – possono fornire un ambiente in cui gli autori creativi – o i potenziali  geni, perché no? – siano in condizione di esprimere il meglio di cui sono capaci.
 
Non c’è invece salvezza – non può esserci salvezza – per chi vaneggia di una scrittura senza regole, o assoggettata a regole elastiche, psicologiche, derogabili; per chi crede che a rispettare le regole ci si perda il meglio della scrittura, e forse anche della vita; per chi ha fatto dell’assenza di regole il metro della sua felicità, cullandosi dei complimenti dei lettori caldi.
 
Cambia registro, se anche tu appartieni a questa classe di sedicenti artisti della scrittura: quei complimenti sono un cortisone, lusingano nell’immediato e alla lunga impediscono di migliorare, nascondono l’illeggibilità della prosa come il ritratto evitava a Dorian Gray di invecchiare. Ricordi il finale del romanzo di Wilde, sì?

Scrivere è matematica. Non puoi fare quel che vuoi, non puoi dividere per zero, non puoi scegliere le parole, comporre le frasi e strutturare i periodi a tua totale discrezione. Ci sono ampi margini di scelta, sicuramente, ma anche percorsi obbligati. Ci sono strade a doppio senso di marcia e rotatorie, ma anche sensi unici e divieti di transito. Sei libero entro dei limiti precisi, perché è nella natura della libertà avere dei limiti, perché i limiti (imposti dalle regole) servono a tutelare la libertà, a proteggerla, per consentirti di esprimere le tue abilità in un modo corretto nella forma e quindi efficace nella sostanza.
 
Lo dici tu, borbotteranno i polemici a ogni costo. No. Lo dice Flaubert.
 
 
Quel che ci resta da fare è fornire un prontuario sul cesellamento dei mattoncini narrativi, un disciplinare d’uso di avverbi e aggettivi, verbi di percezione e di pensiero, gerundi, figure retoriche e riferimenti extra-testuali.
 
Cosa?! Non posso più usare avverbi e aggettivi? E perché devo fare attenzione ai gerundi? E poi cos’è questa storia dei verbi di percezione e di pensiero? Cosa c’è di male nelle figure retoriche e nei riferimenti extra-testuali? A darti retta, diventerà impossibile scrivere!
 
Hai ragione: diventerà impossibile scrivere… pasticciacci brutti. Sarà invece possibile inoltrarsi nella buona scrittura moderna, con la rinuncia alla scorciatoia, alla filosofia sterile sul bello scrivere, alla prima idea che è venuta in testa, e pure alla seconda, alla terza e alla quarta…

 

Vita da editor

Matteo allungò il foglio sulla scrivania come fosse un candelotto di dinamite, sino a portarlo sotto lo sguardo di Alessandro. Ritirò il braccio e indietreggiò di pochi centimetri con tutta la sedia. 

Gli avverbi, cazzo! Non ho ricontrollato gli avverbi di tempo! 

Si lanciò sulla scrivania per riappropriarsi del foglio, Alessandro gli immobilizzò la mano come si fa con i bari.

“Torna al tuo posto, e non strisciare più la sedia. Mi rovini il parquet.”

Uno dei persiani bianchi entrò dal giardino, con la coda dritta e l’aria di essere il padrone della sala. 

“Byron!” Alessandro accolse il gatto tra le braccia; gli accarezzò la testolina e gli grattò il dorso, tenendo lo sguardo fisso sulla pagina; il miagolio accompagnò la sua lettura silenziosa.

“Questa pagina è una merda.”

Byron ruggì come se volesse confermare il giudizio dell
’editor: accidenti, era un gatto o una tigre?

Balzò via e si andò ad acciambellare sopra la penisola del divano. Una brezza portò nella sala il profumo dei gelsomini, che Matteo inspiro a fondo per farsi coraggio. 

“Una merda, addirittura. Ho scritto una pagina di merda…”

“Sì, di merda.”

Matteo incrociò le braccia e s’impose di reggere lo sguardo del suo editor. “E perché sarebbe una pagina di merda?”

“Il tuo corpo parla, e dice che in questo momento non sei ricettivo.”

Matteo abbandonò le braccia lungo i fianchi, aprì le gambe il più possibile e scivolò un po’ sulla sedia. “Così va meglio? Sono abbastanza ricettivo, adesso?”

“Pure troppo”. Alessandro 
prese la sua montblanc nera dal portapenne d’argento e tracciò due lineette oblique sul margine della pagina, accanto alla frase iniziale. “Conosci il professor Barbero, sì?”

“Colleziono francobolli del Regno delle Due Sicilie, non mi serve Barbero per sapere la storia
 d’Italia.”

“Francobolli antichi!” Alessandro simulò una risatina di scherno e scosse la testa. “Siete rimasti tu e mio nonno a raccogliere quegli inutili ritagli di carta colorata.”

“Io non raccolgo. Io colleziono. Sono parole diverse, che indicano azioni diverse. Dovresti saperlo
” Prese fiato e lo butto via. “… prima di correggere e poi pentirti.”

Alessandro disegnò un cerchietto accanto all’ultima frase. “Cosa dicono tutti del professor Barbero? Che lo ascolterebbero pure se parlasse degli orari dei treni, vero?” Tracciò tre X a metà pagina e sotto mise un segno +. 
Chissà cosa significavano tutti quei simboli

Posò la penna vicino alla pagina e piantò gli occhi in quelli dello scrittore. 

“Il Risorgimento affascina, l’orario dei treni annoia, ma se a parlare è Barbero, allora vanno bene anche gli orari dei treni, giusto?”

“Preferisco gli orari dei treni, se penso a quel pirata di Garibaldi e a quelle minchie bollite dei Savoia”.

“Li preferivi anche a scuola, quando le lezioni sull’unità d’Italia trascorrevano tra gli sbadigli della classe”. Alessandro infilò l’astuccio nella montblanc e la ripose accanto alle altre. “È così difficile far scintille come Barbero? Basta vincere la pigrizia, in fondo”.

“Alessandro, perdonami, ma

“Ma se non si vuol vincere la pigrizia, se ci si adagia sempre sulla soluzione stilistica più semplice, se la tecnica messa in campo è sempre la più elementare, se si cede sempre al fascino della scorciatoia
” Fece spallucce, sul viso gli si dipinse una smorfia di rassegnazione. “Come si può pensare di produrre qualcosa di valido? Solo perché si parla del Risorgimento e non dell’orario dei treni?”

Matteo alzò le mani, per dimostrare di essere disarmato. “Non voglio contraddirti, però esageri. I lettori non conoscono le tecniche di scrittura, non ragionano come te.”

Alessandro si alzò e si diresse verso la libreria. Prese un piatto di argento da uno degli scaffali e si mise nella posizione di un discobolo, con lo sguardo rivolto verso Byron. “Su bello, sei pronto ad afferrare il frisbee?” Tornò in posizione normale. “Ah, già, sei un gatto, non un cane”. Rimise il piatto a posto e tornò alla scrivania. “Hai capito?”

“No”.

“Sei laureato in matematica e non hai capito?”.

A Matteo scappò uno sbuffò. “Non ho capito.”

“Un cane risolve un problema matematico, quando afferra un frisbee.” Alzò il braccio per aria e finse di scrivere su una lavagna immaginaria: una prima riga, una seconda e una terza, e una paretesi graffa per tenerle assieme. Aprì la mano, come per lasciar cadere il gesso. “Rincorrere il frisbee, stabilire quando saltare e a quale altezza, sono azioni che un matematico descriverebbe con un sistema di equazioni differenziali”. Con la mano indicò a Matteo le immaginifiche equazioni sospese per aria. “Afferrare il frisbee è la soluzione del sistema”. Sgranò gli occhi come un bambino davanti a un gioco di prestigio. “Il cane non sa neppure contare, però ha risolto un problema di matematica avanzata. Hai capito ora?”.

Matteo si schiacciò il naso per soffocare uno sbadiglio, Alessandro lo richiamò all’ordine battendo il pugno due volte sulla scrivania.

“Il lettore ignora il tecnicismo di scrittura, però capisce, esattamente come il cane afferra il frisbee senza sapere nulla di matematica”. Batté ancora il pugno sulla scrivania. “Il lettore dice solo il libro è un mattone, è noioso, è lento, perché gli manca il vocabolario tecnico. Ma se lo avesse direbbe: troppi aggettivi, troppi avverbi, infodump a pioggia, e gerundi ridicoli”. Tamburellò sulla pagina come per bombardarla. “I lettori capiscono sempre cosa stai facendo. Perciò devi fare sempre la cosa giusta.”

“Hai ragione.” Matteo stirò il collo: l
’orologio a pendolo alle spalle di Alessandro segnava le quattro passate. “Hai qualcosa da dirmi anche sulla mia pagina, per caso? Alle cinque ho un appuntamento al Caffè Greco, e da qui mi ci vogliono due autobus e sei fermate di metro, per arrivare a Piazza di Spagna”.

“Dove l’hai conosciuta? Su Tinder, immagino.
 

Alessandro prese il foglio e lo strappò in due, in quattro, in otto, in sedici, in trentadue parti. Sistemò quel cumulo di carta sulla scrivania e lo osservò come fosse un escremento di Byron. Soffiò sulla montagnola e i pezzettini di carta si sparpagliarono sulla scrivania. Iniziò a giocarci come fossero i tasselli di un puzzle, fino a ricomporre la pagina: trentadue rettangolini adiacenti, disposti in otto righe e quattro colonne. Sulla faccia gli si delineò un sorriso mite.

La puttanella aspetterà: perché, sì, ho parecchie cose da dirti sulla tua pagina.”
 

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