MODULO 17 – Chi ha paura dei cliché narrativi?

 
Cos’è un cliché narrativo?

Sgombriamo anzitutto il campo da possibili equivoci terminologici.

Potrai sentir distinguere tra stereotipi, cliché e tropi, di sentir dire che sono tre fattispecie diverse, da non confondere tra loro, da non equiparare.

Sicuramente – vocabolario alla mano – leggerai tre definizioni diverse per stereotipicliché e tropi, ma riconoscerai anche una matrice comune ai tre concetti. Perché le differenze sono appunto solo sfumature, del tutto irrilevanti per la buona scrittura di narrativa. Te lo ripeto per evitare fraintendimenti banali: non sto dicendo che stereotipi, cliché e tropi sono la stessa cosa; sto dicendo che differiscono per sfumature prive di valore rispetto alla finalità che ci proponiamo; e quindi non ha senso – per ciò che dobbiamo fare qui – introdurre distinzioni di cui non faremo mai uso.

Non moltiplichiamo gli enti, non caviamo il sottile dal sottile, se tutta questa sottigliezza è inutile rispetto alla scopo, e può persino rivelarsi dannosa, inducendo problemi inesistenti.

Keep it simple: se la parola cliché è già sufficiente a esprimere tutto ciò che vogliamo dire, se gli stessi concetti li possiamo trasmettere con la stessa precisione utilizzando una sola parola – cliché – perché introdurne altre due?

Non moltiplichiamo gli enti, keep it simple!


E allora: che cos’è un cliché narrativo e perché fa così tanta paura?

Un cliché – tecnicamente parlando – è tutto ciò che ci si aspetta che accada in una determinata situazione, perché lo abbiamo già visto accadere molte altre volte in situazioni simili.

Il protagonista spara un colpo di pistola al cuore dell’antagonista, e l’antagonista muore: cliché.

Il protagonista ordina un piatto di spaghetti alla carbonara e il cameriere glieli porta: cliché.

Il protagonista chiama l’ascensore e l’ascensore arriva al suo piano: cliché.

Sono tre situazioni dove accade esattamente quel che ci si attende: un colpo di pistola al cuore è mortale, un cameriere ha il compito di dar corso alle ordinazioni dei clienti, e se chiami l’ascensore – ohibò – l’ascensore arriva proprio al tuo piano.

Cosa, invece, non è cliché?

Il protagonista spara un colpo al cuore dell’antagonista, e l’antagonista rimane bellamente in piedi, perché è un alieno che ha preso sembianze umane, e su cui le pallottole non hanno effetto.

Il protagonista ordina gli spaghetti, si alza e se ne va, perché in realtà è una spia, e “spaghetti” è la parola in codice da trasmettere all’altra spia nei panni del cameriere.

Il protagonista chiama l’ascensore e quando apre la porta viene risucchiato in un cunicolo spazio-temporale che lo proietta in un’altra dimensione.

Raccontato così, paradossalmente, fa più paura un non-cliché di un cliché: perché – lo abbiamo notato più volte, in particolare nel modulo 16 – tu non vuoi che nella storia vi siano colpi di scena ingenui, sciatti, banali; tu non vuoi che il lettore scopra la natura aliena dell’antagonista all’improvviso, solo quando il protagonista gli spara, senza averne mai avuto sentore fino a quel momento, senza che niente nella storia lo potesse suggerire; e, similmente, non vuoi far apparire una spia del nulla, o trasformare nottetempo un ascensore in un portale dimensionale.

Ogni evento del mondo della pagina va opportunamente preparato, e quindi in un certa misura è sempre atteso; se il lettore lo percepisce come una sorpresa è solo perché lo scrittore è abile nel mimetizzare tutti gli elementi che lo giustificano, lo spiegano e lo sostengono, restituendo così un’impressione di meraviglia immediata, sull’onda emotiva della lettura in tempo reale, senza però far smarrire la sensazione generale di sensatezza (che sarebbe convalidata semmai si riesaminasse l’intera opera con l’obiettivo tecnico di rilevarne le interrelazioni tra le sue parti).
 
La preparazione del “colpo di scena” nel film Il sesto senso.
Se lo riguardi attentamente ti accorgerai che tutta la narrazione 
è disseminata di indizi che conducono al finale e lo rendono “ovvio”
(e i principali sono richiamati nella stessa scena finale).
Il bambino, d’altra parte, glielo aveva detto:
“Vedo la gente morta... vanno in giro come persone normali.
Non si vedono tra loro, vedono solo quello che vogliono vedere.
Non sanno di essere morti”.
Più chiaro di così…  

Non solo. Ci sono situazioni narrative dove il cliché ci deve stare, perché il lettore lo vuole, se lo aspetta, e tu non puoi tradire la sua aspettativa, a volte per semplice senso del realismo.

Se stai scrivendo una storia di universitari fuori sede, che condividono lo stesso appartamento, allora lo sbarellato convinto di trovarsi a Disneyland a spese dei genitori, che fa le due di notte e si alza a mezzogiorno, che si presenta in facoltà solo per vedere “che aria tira”, scroccare caffè e dare appuntamenti alla ragazze, e che in prossimità degli esami cade nel panico e all’esame tenta di impietosire il professore come se fosse una maestra delle elementari, un tipo fatto grosso modo così – dicevo – ci deve stare: perché ci aspettiamo che ci sia, perché è una costante di tutte le realtà di universitari fuori sede, perché qualunque universitario fuori sede ne ha incontrato almeno uno, e si aspetta di ritrovarlo anche nel mondo dalla pagina; perché altrimenti non è una storia di universitari fuori sede.

Il cliché non fa più così paura, se inquadrato formalmente, se riportato alla sua dimensione tecnica: in ogni storia ci saranno centinaia di cliché, perché sono proprio i cliché a prolungare la maggior parte dei segmenti della narrazione.

Ma allora perché i cliché sono così temuti dagli scrittori? Quando il cliché diventa pericoloso?
 

Il cliché diventa un problema – a livello sia macroscopico che di dettaglio – semplicemente quando se ne perde il controllo.


A livello macroscopico il cliché è un problema se rappresenta il fondamento della storia, se la storia si basa sul cliché o se il cliché è comunque uno snodo cruciale della narrazione.
 
Riprendiamo la storia degli universitari fuori sede.

Questa storia – esattamente – di cosa parla, quale messaggio ci restituisce, di cosa ci vuole persuadere? Stai per caso raccontando – di nuovo, ancora una volta, solo con una facciata diversa – la storia di Lucignolo e Pinocchio o addirittura della cicala e della formica? Ci stai dicendo che nella vita serve impegnarsi per raggiungere dei risultati duraturi, a costo di sacrificare qualche immediato piacere fatuo? Tutta la storia si fonda sull’idea che se uno studente mangia a mezzogiorno per essere puntale e lucido alla lezione delle due del pomeriggio, e un altro invece si sveglia a mezzogiorno e trasforma il pranzo del coinquilino nella sua colazione – no, non sto inventando nulla – il primo farà due metri di strada nella vita e il secondo invece si affloscerà? È di questo che parla la tua storia? Dimmi di no, ti prego.

Vuoi un altro esempio? Eccolo.

L’accoppiata cinquantenne (maschio) con trentenne (femmina) è ormai uno standard, un cliché. E magari – per dipingere un bel quadretto pulito – facciamo pure che il cinquantenne ha lasciato moglie, figli, cane e piante sul terrazzo, pur di stare con la meravigliosa trentenne. È un problema avere una coppia così, nel mondo della pagina? Dipende dal significato attribuito all’accoppiata cinquantenne-trentenne all’interno della storia.

La tua storia – esattamente – di cosa parla, quale messaggio ci restituisce, di cosa ci vuole persuadere? Dei disastri a cui si va incontro quando ci si illude di riportare indietro il tempo, di poter vivere ora (a cinquant’anni) la vita che non si è vissuta allora (a venti, a trenta), di essere davvero amato per quello che sei da una donna che potrebbe magari avere tutti gli uomini che desidera, e invece, guarda un po’, ha scelto proprio te? È di questo che parla la tua storia? Dimmi di no, ti prego.

Serve ancora un esempio? Ma sì, dai, così vediamo una variante.

Immagina che il tuo protagonista sia una donna, che vedremo sprofondare pian piano nella merda. Ovvio, perché tutte le storie – come vedrai nel modulo 23 – presuppongono una fase in cui il protagonista  maschile, femminile o gender fluid che sia  sprofondi nella merda. Non preoccuparti se ora non metti a fuoco tutto. Ti basta semplicemente questo, per il momento: il personaggio (femminile) è nella merda, e deve venirne fuori. E tu, scrittore, dio creatore, come lo tirerai fuori? Mandando in soccorso l’equivalente di un principe azzurro? Femmina nei casini, salvata da uomo bello e coraggioso, come passaggio nodale del cosiddetto midpoint? Quante migliaia di volte lo abbiamo già visto, da Biancaneve in poi? E quanto suona stonato, anacronistico e fuori tempo, rispetto alla sensibilità odierna?

Chiaro, adesso, in che senso un cliché diventa un problema a livello macroscopico?
 
Lo diventa quando una situazione prevedibile, scontata, e quindi narrativamente debole, viene messa al centro della storia per attirare l’attenzione del lettore. Ogni volta che ciò succede è come se – a tutti gli effetti – si stesse scrivendo di personaggi che ordinano spaghetti e chiamano ascensori, di un personaggio che ha ordinato gli spaghetti e si è visto portare degli spaghetti, o di un altro che ha chiamato l’ascensore e ha visto l’ascensore arrivare al piano.

Quindi, sì, metti pure uno sbarellato in una combriccola di universitari fuori sede, e crea pure una bella coppia cinquantenne-trentenne, se lo desideri, ma non centrare la tua storia sul fatto che lo sbarellato mollerà l’università al quarto anno di fuori corso, e la coppia finirà con lo scoppiare quando la differenza di età, e non solo di età, si manifesterà in tutta la sua violenza.
 

Poi ci sono i cliché microscopici, di dettaglio, collegati alle scelte stilistiche, contro cui – arrivato a questo punto del manuale – dovresti essere in larga misura immunizzato.
 
Il più classico dei cliché microscopici è l’accoppiata inflazionata tra sostantivo e aggettivo: velocità folle, intervalli regolari, odore acre, ampio salone, bellezza arcana, attesa snervante, labbra carnose, lamiere contorte, lunghissimi secondi, lungo brivido, maestosa cupola, macerie fumanti, magro bottino, massiccio tavolo, modesto pasto, paesaggio surreale, pasto frugale, silenzio irreale…

Non potrai mai incappare in uno di questi cliché – e degli infiniti altri dello stesso ceppo – se hai interiorizzato il disciplinare d’uso degli aggettivi nell’ambito della scrittura dei mattoncini.

Se la bellezza è così particolare da essere arcana, e se è rilevante mostrarla, allora semplicemente la mostrerai, scriverai i dettagli concreti di questa bellezza, con cui trasmettere il senso di arcano, senza mai scrivere bellezza arcana.

Se il personaggio sta viaggiando a velocità folle, allora gli farai provare tutte le percezioni sensoriali e psicologiche tipiche di chi viaggia a velocità folle, e così il lettore capirà che sta viaggiando a velocità folle, senza che tu, scrittore, debba mai dire velocità folle.

Se l’attesa è snervante, allora farai compiere al tuo personaggio tutte le azioni tipiche di chi sta attendendo con impazienza, e gli metterai in testa dei pensieri congruenti, senza mai scrivere attesa snervante.

Tutto piuttosto ovvio, direi.

Un’altra classe di micro-cliché è nelle espressioni che, oltre a essere inflazionate, non corrispondono a nulla di fisico, di simulabile, e tuttavia ci si illude – per pigrizia, per abitudine – che possano suscitare chissà quali sconvolgimenti emotivi nel lettore.

Ne cito solo una, a rappresentarle tutte: ho il cuore in gola. Il primo che l’ha detto sarà forse stato un genio, ma il secondo è stato certamente un cretino. Cosa vuol dire avere il cuore in gola? Cosa devo immaginare? Quale sensazione fisica dovrei evocare? Nessuno lo sa, nessuno può dirlo, perché nessuno si è mai ritrovato  – nessuno si può materialmente ritrovare – con il cuore in gola. E non ti venga in mente di giustificare la scelta con le figure retoriche, perché significherebbe solo una cosa: che non hai studiato come dovevi – e quindi non hai studiato affatto – il modulo 15E. Torna indietro e rileggilo più volte.

Tra i micro-cliché si annoverano anche le brutte scene riprese dai film medi, che lo scrittore vomita sulla pagina in mancanza di informazioni più specifiche.

E così, ad esempio, vediamo il nuovo arrivato in un carcere sommerso dagli sberleffi degli altri carcerati rinchiusi nelle loro celle, mentre percorre il corridoio insieme ai secondini. Oppure mettiamo in bocca al commissario la più classica delle espressioni formulari associata a un arresto – “hai il diritto di rimanere in silenzio, se rinunci a questo diritto, tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te” – o facciamo dire a un giudice “giura di dire tutta la verità, nient’altro che la verità, dica lo giuro”, prima di ascoltare la deposizione di un testimone; o magari ci ritroviamo nel mezzo di un parto di emergenza, con l’immancabile richiesta di “un asciugamano e una bacinella di acqua calda” – che nessuno ha mai capito a cosa servono – per poi vedere il bimbo uscir fuori lindo e sereno, quasi già svezzato. 

Anche queste eventualità dovrebbero essere scongiurate, dopo il modulo 4: tu scrivi solo ed esclusivamente di ciò che conosci, e in proporzione a ciò che conosci, per costruirti un’autorità nei confronti del lettore, per apparire autorevole ai suoi occhi.
 

Cadere nei tranelli dei cliché narrativi quando si scrive è come cadere in un tombino quando si passeggia: impossibile o inevitabile, a seconda di quel minimo di attenzione che si mette o non si mette nel passeggiare, di quanto si è presenti a sé stessi quando si passeggia.

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