MODULO 2 – L’arte di persuadere: narrativa vs saggistica


 
Persuadere. Lo facciamo tutti, di continuo: il politico per conquistare il voto, il sindacalista per staccare una tessera, l’uomo per sedurre la donna, la donna per attirare l’uomo, il negoziante per vendere la merce, il cliente per avere uno sconto, i ragazzi per far cedere i genitori, i genitori per educare i figli.
 
Lo facciamo tutti, o almeno ci si prova, con esiti spesso sconfortanti. I nostri argomenti ci sembrano verità auto-evidenti, eppure non sortiscono i risultati sperati, il più delle volte non hanno effetto tout-court, e di tanto in tanto suscitano ribellioni per puro spirito di contrapposizione.
 
Perché?
 
Perché persuadere è un’arte e come ogni arte richiede tecnica e pratica. Ignoriamo la tecnica, perciò manchiamo degli strumenti per l’azione pratica, che viene guidata dall’abitudine, da una sensatezza più o meno acquisita, senza però alcun riferimento sicuro.
 
 Una selezione di testi sull’arte della persuasione.
Non stanno qui per gratuito sfoggio di cultura,
ma perché servono per vivere, ancor prima che per scrivere.
Scegline almeno due (io suggerisco Prezzolini e Cialdini).
 
Gran parte della nostra vita trascorre così, nel tentativo di persuadere gli altri, e a volte addirittura noi stessi, sulla ragionevolezza di un’idea, la correttezza di una tesi, l’appropriatezza di un’azione, l’opportunità di una scelta; e sarà allora opportuno documentarsi un minimo su come agisce la persuasione sull’animo umano, su quali siano le sequenze e i meccanismi del processo persuasivo.

Non rileva se l’idea, la tesi, l’azione, la scelta siano realmente ragionevoli, corrette, appropriate, opportune. La “cosa in sé” – il noumeno dei filosofi – ha smesso di avere significato. Conta solo che noi vogliamo persuadere gli altri, dargli a intendere che, sì, la nostra idea è ragionevole, la tesi è corretta, l’azione appropriata, la scelta opportuna.
 
 
La prima persuasione della storia:
“quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio”.
 
Narrativa e saggistica sono due strumenti di persuasione, hanno lo stesso obiettivo – convincere gli altri – ma usano approcci diversi.

La narrativa parla alla “pancia” del lettore, persuade attraverso le emozioni, con l’arte retorica.

La saggistica parla alla “testa” del lettore, persuade attraverso il ragionamento, con processi logici. 
 
Stesso obiettivo, modalità attuative diverse, quindi diverse sfumature nei risultati.

La persuasione suscitata dalla retorica è immediata, ma labile: si aderisce subito alla tesi, ma si rischia di abbandonarla al primo soffio di vento contrario.

La persuasione suscitata dalla logica è lenta, ma più salda: seguire un ragionamento, comprenderlo e farlo proprio, richiede tempo, ma, a processo ultimato, si rimane ancorati.
 
Estratto dalla “Lezione 12 – La retorica, artificio necessario alla naturalezza” di Giuseppe Pontiggia.

Cosa ne deduciamo?

Anzitutto che mischiare narrativa e saggistica è una pessima idea, perché non esiste un organo ricettivo intermedio tra “pancia” e “testa”.

Non che la retorica non si possa avvalere della logica, o che la logica non si possa colorare con la retorica, ma nell’economia dell’impostazione prescelta – retorica o logica – si tratta di effetti di second’ordine, se non addirittura minori. Fondere o alternare i due strumenti – senza sapere quale si stia usando – non conduce a nulla.

E poi deduciamo – da scrittori – l’importanza di avere un messaggio cristallino da consegnare al lettore attraverso la nostra storia, l’impegno a evitare ambiguità interpretative, perché se da un lato la morale della storia non si può forzare, dall’altro – da scrittori – vogliamo il più alto controllo possibile del processo persuasivo, e non vogliamo che ogni lettore capisca quel che vuole, quasi indipendentemente da ciò che noi abbiamo scritto.
 
Noi – da scrittori – dobbiamo essere chiari, specifici, concreti, affinché passi il messaggio che vogliamo far passare, e solo allora, sì, accada quel che deve accadere nella testa del lettore.

 

L 'eredità

Passo la mano sul viso ghiacciato di mio padre. Gli sposto i capelli bianchi dalla fronte, mi chino su di lui e lo bacio sulla guancia ruvida. Fai buon viaggio papà.

Adele mi fissa, a braccia incrociate. Batte la punta della scarpa manco dovesse piantare un chiodo. «Possiamo spostarci in salotto? Il notaio è arrivato da più di mezz’ora.»

Lancio un’occhiata di traverso a Jacopo, in cerca di un conforto. Dille qualcosa tu, ti prego, che io proprio non ce la faccio.

Fa spallucce, spedisce lo sguardo al soffitto. «Avanti Diego, andiamo.»

Sul mobile del corridoio le foto di papà e mamma sorridenti strappano un sorriso anche a me. Voglio crederli di nuovo insieme, felici, sereni.

Il notaio Boscarino si alza dal divano e mi viene incontro. Ci stringiamo la mano, mi abbraccia.

«Mi spiace doverti rivedere in questa circostanza.»

Adele sbuffa. «Possiamo procedere?» Ruota il polso per controllare l’ora e strabuzza gli occhi. «Dio mio, quasi le cinque! Alle sei devo prendere Giulia a danza, sbrighiamoci per favore.»

«Adele!» Jacopo le fa segno di calmarsi.

Era ora.

Ci sediamo intorno al tavolo ovale, scosto verso il centro una pila di tre carpette azzurre stracolme di fogli.

Il notaio spinge in su gli occhiali, poggia la sua ventiquattrore sul tavolo ed estrae un foglio a quadretti piccoli. Lo piega in due e lo copre con la mano, come per proteggerlo.

«È stata un’operazione piuttosto travagl—»

L’orologio a pendolo batte i suoi rintocchi, il notaio ci sorride.

«Senta notaio, che nostro padre fosse uno squilibrato lo sapevamo già, non può limitarsi a leggere il testamento?»

Jacopo stringe la mano di Adele, la zittisce con un’espressione di rimprovero. «Lasciamo dire al notaio quel che deve dire, d’accordo?» Ritrae la mano e fa segno al notaio di proseguire.

«Non ho molto da dire, in verità.» Dà una sistemata veloce al nodo della cravatta, tossisce per schiarirsi la voce. «Semplicemente vostro padre non voleva lasciarvi debiti, e considerato che di debiti ne aveva per milioni—»

«Insomma si può sapere cosa ci ha lasciato?»

«Undici marenghi, signora, undici marenghi d’oro.»

«Cosa?!» Adele scatta in piedi, pianta le mani sul tavolo, le unghie sembrano penetrare nel legno. «Undici marenghi?!»

«D’oro, signora.»

«Mi sta prendendo in giro?» Alterna occhiate infuocate tra me e Jacopo. «E voi? Voi non dite niente?»

Papà si materializza per un istante sotto il grande arco nel mezzo del salone. Chiudo gli occhi: dopo tutto quel che ha fatto per te, per una vita intera…

«Dove sono i conti in banca, le case, le cassette di sicurezza…» Stringe le mani per aria, come se volesse riafferrare ogni cosa. «… e tutto il resto?» Batte i pugni sul tavolo, ansima. «Dov’è tutto?»

Il notaio tira fuori un sacchettino di velluto grigio dalla ventiquattrore. Lo agita e un tintinnio di monete riecheggia nel salone.

«Qui, signora.»

Adele dà una manata alle carpette, salta tutto per aria, i fogli volteggiano e si sparpagliano sul parquet consumato. Mi chino a raccoglierli e li sistemo sul mobile alle mie spalle, accanto a una foto incorniciata della nostra famiglia al mare, sotto l’ombrellone, con Adele in braccio a papà. Che coraggio che hai…

«Dov
’è tutto?»

«Come stavo dicendo, signora, è stata un’operazione travagliata. Vostro padre possedeva molto… in tutti i sensi.» Rivolge in su i palmi delle mani per richiamare i due piatti di una bilancia. «Molte ricchezze…» Spedisce una mano in su e l’altra in giù. «… ma anche molti debiti.» La mano che sta giù si alza, quella in su si abbassa, fanno l’altalena, su e giù, giù e su. «Non voleva lasciarvi debiti, e, credetemi, è stata un piccolo miracolo riuscire a liquidare tutti gli attivi per fare fronte a tutti i passivi.»

Apre il sacchettino e lascia cadere le monete sopra il foglio a quadretti: le facce col profilo di un soldato riccioluto si alternano alle facce opposte con la scritta “20 FRANCS” circondata da una corona di alloro.

Sospira. «E questo è ciò che è rimasto: undici marenghi d’oro dell’epoca napoleonica, i più pregiati.»

Adele guarda l’orologio. «Non ce la farò mai ad arrivare in tempo da Giulia!»

Prende l’iPhone dalla borsa di Gucci, si alza e si apparta nell’angolo tra la specchiera e il divano.

«Rispondi, cazzo!» Strizza la bambolina di pezza sul mobile sotto la specchiera, sbuffa. «Ashley, grazie al cielo ti ho trovata! Sono incasinatissima… ti prego, ti supplico, Giulia esce alle sei, non è che potresti… no, nosì, sì, … certo… grazie… grazie Ashley.»

Si avvicina al notaio, con la mano copre i marenghi per reclamarne il possesso, il diamante sull’anulare luccica più delle monete.

«Facciamola finita. Quanti me ne spettano?»

Il notaio Boscarino le afferra il polso e le solleva la mano, i marenghi tornano a respirare.

«Si sieda, signora, le cose potrebbero non essere così semplici.»

Adele torna al suo posto, davanti al notaio. «Che vuol dire che le cose non sono semplici?» Si fa aria con la mano. «Cielo che caldo!»

Si alza, apre le tende alle sue spalle e spalanca il balcone, una folata di vento mi sferza il viso, lo scorcio di mare intorno all’Isola Bella è un colpo al cuore.

«Dividiamo e finiamola qui,» sbotta rimettendosi a sedere.

Il notaio congiunge i polpastrelli, li stacca e li riattacca, una, due, tre volte. «L’ultima riforma del diritto di successione ha abolito le cosiddette quote di legittima—»

«Non mi frega nulla delle cosiddette quote di legittima, voglio solo i miei marenghi, e andarmene via.»

Il notaio sposta i marenghi dal foglio: forma una pila da sei monete, una seconda da tre, e una terza da due. Si sfila gli occhiali, pizzica il foglio a quadretti tra indice e pollice.

Lo apre. «Io, Gabriele Fubini, perfettamente cosciente e consapevole delle mie azioni, dispongo che ciò che resterà delle mie ricchezze, dopo aver saldato ogni debito, venga così ripartito: la metà a mio figlio maggiore Jacopo, un quarto al secondogenito Diego, e un sesto alla piccola Adele. Taormina, 16 Settembre 2022. In fede.»

Solleva il foglio, lo fa girare a semicerchio intorno al tavolo per mostrarlo a tutti a tre. «Lo ha scritto vostro padre, di suo pugno, in mia presenza.»

«Scusi notaio, ho capito bene?» Jacopo fa una smorfia, conta sulle dita. «La metà, un quarto e un sesto?»

Il notaio corruga la fronte, pare stia scavando nel cervello per trovare qualcosa di intelligente da dire.

«Sì: la metà, un quarto—»

«E un sesto, sì! Il mio sesto.» Adele china la testa sul tavolo e si infila le mani tra i capelli. «Discriminata per una vita intera, dalla culla alla bara, fantastico.»

Bel coraggio che hai! Sei quella che in vita ha avuto più di tutti, perché papà diceva che avevi più bisogno di tutti, e nessuno qui ha mai fiatato…

Rialza la testa di scatto. «Datemi il mio sesto e me ne vado.»

«Non si può,» sussurra Jacopo.

Il notaio annuisce. «In effetti è problematico.» Si rivolge a Jacopo. «La metà a lei…» Sposta lo sguardo su di me. «… un quarto a Diego…» Si rimette gli occhiali e fissa Adele. «… e un sesto a lei, signora.» Gli scappa un lungo e sofferto sospiro, sorride per dissimulare il disagio. «E i marenghi sono undici». Dalla tasca interna della giacca tira fuori il telefono, le dita corrono veloci sullo schermo. «Il calcolo dice che dovremmo dare innanzitutto 5,5 marenghi al signor Jacopo, 2,75 a Diego e 1,83 alla signora Adele.»

Adele rimane a bocca aperta, Jacopo sospira e allarga le braccia.

Abbasso la testa, schermo il volto con la mano sulla fronte per celare il mio sorrisetto. Diavolo di un papà! Cos’è questo? Il tuo ultimo scherzo?

Mi ricompongo. «A me basta tenere un marengo solo, in ricordo di papà, il resto lo può pure dare ai miei fratelli.»

«Mi spiace Diego, ma le cose non sono così semplici, come dicevo già a tua sorella.» Congiunge un’altra volta i polpastrelli e tamburella. «La riforma del diritto di successione—»

«Notaio!» Adele sbarra gli occhi, apre e chiude la mano per intimargli di sintetizzare.

«D’accordo, rendiamola semplice: se non ci sono debiti, nessuno può più rinunciare a nulla prima della divisione; solo dopo, semmai, potrà alienare o anche regalare ciò che ha ricevuto, ma non prima, perché, diciamo così, violerebbe la volontà del defunto.» Il volto gli si incupisce. «E la volontà di vostro padre è in questa terna di numeri, un mezzo, un quarto, un sesto, a cui non si può derogare per nessuna ragione.»

Ma è serio? «Notaio Boscarino, la supplico…» Unisco le mani a mo’ di preghiera. «Non posso credere che non esista una scappatoia per venirne fuori.» Afferro un marengo dalla colonnina più bassa. «Me ne basta uno, uno soltanto, e quel che resta—»

Il notaio mi blocca per il polso, apro la mano e il marengo cade sul tavolo. Lo rimette al suo posto, per riformare la colonnina da due. I suoi occhi stigmatizzano la mia esuberanza.

«Quel che resterebbe della tua prima quota, Diego, sarebbe 1,75.» Alza un sopracciglio, sul volto gli si stampa un sorriso beffardo. «Vuoi rinunciare a 1,75 marenghi? E poi come li dividi? Lo 0,875 a tuo fratello e l’altro 0,875 a tua sorella?»

«Basta!» Adele batte la mano sul tavolo, ha gli occhi gonfi e lucidi. «Portiamo le monete da un bravo orefice e gliele facciamo frazionare come voleva lo squilibrato.»

Il notaio fa oscillare l’indice in segno di diniego. «Impossibile, signora.» Mostra lo schermo del suo cellulare ad Adele. «Vede, il suo sesto di eredità equivale a 1,83, ma il 3 è periodico.» Sospira. «Come facciamo a gestire l’infinito?»

Il vento invade la sala, il garrito dei gabbiani sembra una risata di papà dall’oltretomba.

«Notaio Boscarino, la prego.» Allungo la mano verso le tre colonnine di marenghi, sino a sfiorarle. «Non posso credere che non ci sia una soluzione.»

Il notaio sorride, massaggiandosi il pizzetto. «Una soluzione, in effetti, potrebbe esserci.» Infila la mano in una tasca dei pantaloni, avvicina il pugno chiuso alla colonnina da due marenghi e lo apre. Un nuovo marengo d’oro rimbalza sul tavolo e mostra la faccia con la scritta “20 FRANCS”.

«La volontà di vostro padre, la ripartizione un mezzo, un quarto, un sesto, non si può assolutamente modificare.» Sistema il dodicesimo marengo accanto alla colonnina da due e osserva compiaciuto quell’ideale triangolo rettangolo di monete. «Però nessuna legge ci vieta di…» Scorre sull’ipotenusa immaginaria con un movimento diagonale del dito, dall’alto verso il basso, e lo poggia sopra l’ultimo marengo. «Nessuna legge ci vieta di allargare l’eredità.»

Adele grugnisce, storce la bocca. «Ci sta forse prestando il suo marengo?» Punta l’indice contro il notaio. «Guardi che io non voglio debiti con nessuno… con nessuno! Ha capito?»

«Me lo restituirete solo se Dio vorrà; altrimenti sarà stato un piccolo dono ai figli del mio più grande amico.» Lo sguardo del notaio fa l’altalena tra Adele a Jacopo, per atterrare su di me. «Siamo d’accordo?»

Ci scambiamo delle occhiate perplesse, Jacopo sorride e alza le spalle, Adele s’incupisce ancora di più. Annuiamo tutti e tre.

«Allora, se nessuno ha obiezioni da muovere, l’eredità da dividere ammonta ora a 12 marenghi.» Tira fuori dalla ventiquattrore un foglio bianco e una stilografica nera con righe dorate. «Diamo pure corso alle ultime volontà di vostro padre.»

Sfila il tappo della stilografica e accosta il foglio bianco al testamento di papà. «La metà al mio figlio maggiore Jacopo.» Sul foglio bianco scrive “1/2×12=6” e sorride a Jacopo. «A lei spettano 6 marenghi.» Allunga la colonnina da 6 verso mio fratello.

«Proseguiamo: un quarto al secondogenito Diego.» Sotto “1/2×12=6” scrive “1/4×12=3”. Spinge la colonnina con i 3 marenghi verso di me. Li chiudo nella mano, li stringo. Papà… dove sei in questo momento?

Rivolge lo sguardo ad Adele. «È rimasta lei, signora, a cui tocca un sesto del tutto.» Scrive “1/6×12=2” e spinge la colonnina da 2 verso Adele.

Il marengo del notaio rimane isolato sul tavolo.

«Ricapitoliamo: il Signor Jacopo ha avuto 6 marenghi, equivalenti a metà eredità allargata; tu, Diego, hai avuto 3 marenghi, cioè un quarto; e a lei, Adele, sono andati i rimanenti 2, che corrispondono a un sesto.» Traccia una lineetta accanto a ciascuna delle tre operazioni eseguite sul foglio e richiude la stilografica. «Un mezzo, un quarto, un sesto: la volontà di Gabriele Fubini si è compiuta, ognuno di voi ha ricevuto in eredità le proporzioni che vostro padre aveva stabilito.»

Un gabbiano plana silenzioso tra le nuvole. Papà sei tu?

«Se la matematica non è un’opinione…» Il notaio alza le dita in sequenza, dal pollice al mignolo, di una mano e dell’altra. «… 6 più 3 più 2 fa proprio 11, esattamente 11.» Poggia l’indice sul marengo isolato e ci esamina uno a uno con uno sguardo veloce. «Col vostro permesso, se non avete nulla in contrario…» Abbozza un sorriso, si stringe nelle spalle quasi a scusarsi. «… io mi riprenderei il mio marengo.»

Lo fa sparire nella mano e lo rimette in tasca, infila le sue cose nella ventiquattrore, si alza e scrolla la giacca.

Libera un sospiro di soddisfazione. «Non incomodatevi, conosco l’uscita.»

Restiamo a fissarci l’un l’altro, in silenzio, a bocca aperta, ognuno con i suoi marenghi d’oro davanti, come se fossimo stati testimoni di un miracolo.

 
Il racconto L’eredità è la riproposizione letteraria del problema matematico degli 11 cammelli.

Di cosa ci parla, di cosa vuole persuaderci?
 
Potremmo metterla così: il dodicesimo marengo ha un ruolo cruciale nel dare corso alle ultime volontà del padre, perché senza il dodicesimo marengo non sarebbe stata possibile nessuna suddivisione, e i tre fratelli avrebbero finito con l’azzuffarsi, per come ci sono mostrati i loro rapporti nel racconto; ma il dodicesimo marengo è un dono del notaio…

Questa storia, quindi, ci vuol convincere – ci vuole persuadere – che le leggi  non bastano, da sole, ad assicurare l’equità. Appellarsi ciecamente al rispetto del “diritto di successione” avrebbe solo esasperato gli animi. “Non può esserci giustizia senza la capacità di donare”, tanto più che il dono troverà sempre una via per ritornare nelle disponibilità del donatore, arricchito dell’infinita gratitudine di chi ne ha beneficiato (nel racconto, i tre fratelli hanno addirittura la sensazione di aver assistito a un miracolo).
 
Ma siamo sicuri che sia questo il messaggio? Ragioniamo. Se il dodicesimo marengo non viene diviso tra i fratelli, e torna nelle disponibilità del notaio, allora, razionalmente, ciò significa una sola cosa: che quel marengo è inessenziale per la ripartizione dell’eredità.

Il dodicesimo marengo serve solo a rendere immediata un’operazione che si poteva realizzare anche senza (e che di per sé non è neppure così difficile).

Le quote definite dal padre (1/2, 1/4, 1/6) non sommano a 1:

1/2+1/4+1/6 = 11/12 < 1

Rimane quindi fuori 1/12 di eredità, che deve però esser distribuito secondo le stesse quote (1/2, 1/4, 1/6) fino a esaurimento.
 
I matematici vi diranno che il problema conduce a una “serie geometrica” – una somma di infiniti termini in progressione geometrica – e siccome la “ragione della serie” è in modulo minore di 1, la serie converge e restituisce esattamente la ripartizione (6, 3, 2). Tutto piuttosto misterioso, per chi non abbia almeno un’infarinatura di calcolo infinitesimale, ma allo stesso risultato si può arrivare anche con un’algebra elementare.

Indichiamo con x il numero di marenghi da consegnare ad Adele.

Le ultime volontà del padre dicono che a Jacopo spetta 1/2 dell’eredità e ad Adele invece 1/6. Siccome 1/2 è il triplo di 1/6, i marenghi y da consegnare a Jacopo sono il triplo di quelli di Adele: y=3x.

Le ultime volontà dicono poi che a Diego deve andare 1/4 dell’eredità, e siccome 1/4 equivale a 3/2 di 1/6, i marenghi z di Diego sono z=(3/2)x

Gli 11 marenghi devono essere interamente divisi fra i tre fratelli, perciò resta stabilità “l’equazione dell’eredità”:
 
x+3x+(3/2)x = 11
 
che – a parole – dice semplicemente che gli x marenghi di Adele, i 3x marenghi di Jacopo e i (3/2)x marenghi di Diego devono totalizzare gli 11 marenghi disponibili.

L’equazione è soddisfatta per x=2, dunque alla “piccola Adele” vanno x=2 marenghi; i marenghi di Jacopo sono di conseguenza y=3x=3×2=6; e i marenghi di Diego, z=(3/2)x=(3/2)×2=3.

Et voilà: abbiamo diviso gli 11 marenghi – 6 a Jacopo, 3 a Diego, 2 ad Adele – secondo la volontà del padre, senza bisogno della stampella del dodicesimo marengo.

La storia, quindi, dimostra la rilevanza sociale della matematica, ci parla – ci convince, ci persuade – degli sfracelli sociali a cui si rischia di andare incontro senza il rigore e la pulizia di ragionamento propri della matematica (che non servono solo ai matematici di professione, o a chi lavora con la matematica – una frazione minimale della popolazione – ma a tutti noi, indistintamente, se vogliamo essere persone consapevoli). Cosa sarebbe successo se il notaio non avesse messo sul tavolo quell’inutile marengo? Che i fratelli si sarebbero azzuffati per la mancanza di qualcosa che non serviva. “La giustizia ha bisogno di conoscenze (tecniche)”.

Ma, insomma, di cosa ci parla questo racconto, di cosa ci vuol persuadere?
 
La morale è che non c’è una morale, o meglio, che la morale non si può forzare: ognuno capirà quel che vuole capire, in base alla sua cultura, alla sua sensibilità, alla sua personalità.
 
La morale non si può forzare – i tuoi lettori non sono bambini di cinque anni, a cui stai raccontando una favoletta coi buoni da una parte, i cattivi dall’altra, e l’immancabile “… e vissero per sempre felici e contenti” – ma tu, da scrittore, devi sforzarti di concepire storie in cui il messaggio non sia esposto a una molteplicità di interpretazioni.
 
Tu scrivi per persuadere di un’idea, di una tesi, di un punto di vista: congegna la storia in modo da persuadere il lettore di ciò di cui vuoi che si persuada.


Due nastri e quattro spilli

Infilo l’ago nell’orlo del pantalone, per la prima imbastitura. Passo le dita sulla stoffa: è ruvida. Mah… il duca d’Orléans ne poteva scegliere una migliore: più sono ricchi, e meno vogliono spend—

La porta del retrobottega si spalanca, sbatte sul muro, Alexandra ha gli occhi di fuori.

«Madame Joly, deve venire subito in negozio: è urgente!»

Mi alzo e ripiego il pantalone. Lo stiro con la mano. «Nella vita c’è ben poco di urgente, mia cara.»

Lascia cadere le braccia lungo i fianchi, sconsolata. «C’è la contessa Blanchard!» Il viso le si rabbuia. «Insiste per parlare con lei, le ho detto che era molto impegnata e non poteva venire e…» Sospira, le scappa un singhiozzo. «… ha ricoperto tutte noi di insulti.»

Le asciugo un principio di lacrima e la prendo sotto braccio. «Vieni cara, andiamo.»

Percorriamo insieme il corridoio che porta al negozio, le urla della Blanchard crescono d’intensità. Vediamo quale diavolo tormenta la matta, a questo giro.

«Rimani qui,» sussurro ad Alexandra.

Scosto le tende di velluto rosso, con lo sguardo faccio segno a Valentine e Amelie di sparire, sorrido alla pazza e le vado incontro a braccia aperte.

«Madame Blanchard!» La prendo sotto braccio, per portarla vicino al bancone principale. «È sempre una gioia vederla. Ha cambiato pettinatura, vedo: questa cascata di boccoli biondi è una vera delizia.» Giro dal mio lato, il mio sorriso si estende da est a ovest. «Allora, come posso servirla?»

Dalla borsetta nera estrae un cartoncino giallognolo e lo sbatte sul bancone. «Guardi!»

Uno stemma con tre gigli bianchi dentro uno scudo blu si ripete lungo tutto il bordo. Sollevo la testa.

«Presumo sia un invito della marchesa Gaillard.»

«Legga!»

Lo giro dal mio verso.
 

Voglia onorarmi della Sua nobile presenza, il 10 febbraio p.v. …


Risollevo la testa. «Sì, è proprio un invito. Qual è il problema?»

«Qual è il problema?!» ringhia agitando le mani.

Con l’unghia laccata di violetto lascia un solco sotto 10 febbraio p.v.

«Dieci febbraio,
dieci febbraio,» mormora a cantilena.

Sollevo il biglietto e con la punta mi gratto il mento. «Il dieci febbraio è oggi.»

«Già, oggi! Quella putt—» Manda gli occhi un su e si morde la mano tesa. «Quella… marchesa… l’ha fatto apposta.» Le guance le si gonfiano, sbuffa. «Un invito recapitato la mattina… per la sera stessa: che gran putt—»

«Qual è il problema, contessa Blanchard?» Alzo un sopracciglio più che posso.

«Il problema, madame Joly…» Le sfugge un gemito d’insofferenza. «... è che non ho nessun cappello nuovo da mettermi.» Si appoggia al bancone, china la testa e i boccoli le coprono il viso. «Ecco qual è il problema!»

Mi sventolo un po col biglietto di invito, lo poso sul bancone e ci tamburello sopra con dito alla volta. Già, davvero un gran problema. Chissà perché, poi: lo sanno tutti che alle feste della marchesa Gaillard si arriva sempre ben vestiti e poi…

La pazza mi afferra le mani, le stringe. «Madame Joly!» Gli occhi le diventano lucidi. «Deve salvarmi: ho bisogno di un cappello nuovo, di un cappello meraviglioso, mai visto prima, e ne ho bisogno…» Frigna e mi stritola le mani. «… adesso!»

Mi libero dalla presa e apro un cassetto sotto il bancone. Tiro fuori due nastri spessi, uno blu e l’altro bianco. Frugo nella cesta vicino alla lampada, alla ricerca degli spilli: eccoli!

Piego il nastro blu a semicerchio, gli faccio passare di sotto il nastro bianco e infilo uno spillo, giro il nastro bianco intorno a blu, infilzo altri due spilli, tiro il nastro blu per creare una conca, pianto l’ultimo spillo, e ruoto il tutto.

Consegno il mio capolavoro alla pazza. «A lei, contessa.»

«È… è…» Sgrana gli occhioni verdi contornati dal mascara blu. «È meraviglioso! Semplicemente, me-ra-vi-glio-so.» Allunga le mani tremanti verso l’opera d’arte, la prende e la fissa estasiata. «Non ho mai visto nulla di simile in vita mia.»

«Sono mille ducati, contessa.»

Mi guarda esterrefatta. «Cosa?! Mille ducati?!» I suoi occhi vanno sul mio capolavoro e tornano a piantarsi nei miei. «Mi-mille ducati per…» Rivolge un’occhiata malinconica al capolavoro. «… due nastri e quattro spilli

Pizzico appena l’opera d’arte per togliergliela dalle mani e l’appoggio sul bancone. Sfilo il primo spillo. Il secondo. I due nastri si afflosciano. Sfilo anche il terzo e il quarto. Apro il cassetto sotto il banco e prendo un sacchettino azzurro trasparente. Gli infilo dentro gli spilli, uno a uno. Piego il nastro blu in due, in quattro. Ripeto l’operazione col nastro bianco. Li avvolgo in una carta velina rosa. Da sotto il bancone prendo un busta fucsia con la "J" dorata al centro e le maniglie in corda satinata. Metto dentro la carta velina con i due nastri e il sacchettino con i quattro spilli.

Porgo la busta alla matta, col più amabile dei sorrisi di cui sono capace. «Quel che mi faccio pagare, madame, è la manodopera: il materiale lo regalo.»
 
 
Qui non ci sono dubbi, il racconto restituisce un messaggio preciso: “non confondere il piccolo sforzo di un momento con lo sforzo di una vita intera, per arrivare a rendere piccolo lo sforzo del momento.
 
La morale della storia non si può mai forzare, ma tu non vuoi che ogni lettore capisca quel che vuole, in un malinteso senso di libertà interpretativa, di partecipazione al testo.
 
Le sequenze narrative devono battere tutte sullo stesso punto, la persuasione deve operare in un senso e nel suo opposto, mostrando le cose belle che accadono quando la tua idea – l’idea di cui vuoi persuadere – trova applicazione, e le cose brutte che succedono quando  viene invece disattesa.

 

Scacco alla vita

Lascio scattare l’indice sul pollice, il re bianco cade sulla scacchiera e abbatte anche il cavallo, il tonfo riecheggia nella stanza silenziosa.

Mi alzo in piedi, sospiro. Come ho fatto a cascare in un tranello così stupido, dopo neanche venti minuti di gioco? Scuoto la testa, una smorfia mi storpia il viso.

Il maestro si alza e mi tende la mano. Gliela stringo, a occhi bassi.

Con un dito sotto il mento mi riporta lo in sguardo in su. «Non fare così, Fabiani.» Incrocia le braccia e mi sorride. «La prima lezione l’hai capita, a quanto vedo.»

Mugugno. «E cos’è che avrei capito?»

«Che è perfettamente inutile prolungare un’agonia, quando la partita è ormai persa.»

Chino la testa, mi mordo il labbro e sbuffo. Guarda quanti pezzi c’erano ancora sulla scacchiera, giocavo con i bianchi e non erano passati nemmeno venti min—

«Non importa.»

Rialzo la testa di scatto. «Non importa… cosa?!»

Il maestro si sfila gli occhiali, li chiude e li posa accanto al bordo alla scacchiera, tra la torre e due pedoni bianchi.

Allarga le braccia come per accogliere l’inevitabile. «Non importa quanto tempo fosse passato, o quanti pezzi avevi ancora a disposizione.» Fa spallucce, socchiude gli occhi. «Ormai eri entrato in un gioco perdente.»

Cazzo, ma mi legge nel pensiero?

Esplode in una risata e mi dà una pacca sulla spalla. «No, non ti leggo nel pensiero.» Gli occhi diventano due fessure, le labbra sottili sembrano una lama affilata. «Te l’ho letto in faccia.»

«Ma se avevo la testa abbassata?»

«Appunto.»

Vabbè, questa presa per il culo è durata abbastanza.

Raccolgo il mio zainetto ai piedi del tavolino e lo metto in spalla; alzo la mano in segno di saluto e abbozzo un sorriso di circostanza.

«Sabato mattina vado a correre, ma nel primo pomeriggio sono di nuovo qui al circolo» La scacchiera pressoché immacolata mi strappa un altro sbuffo. «Se ci sei anche tu, magari mi dai la rivincita.»

Mi fissa in silenzio, accarezzandosi una guancia. Rinforca gli occhiali, afferra la torre bianca tra pollice e indice e l’accarezza lungo il bordo.

«Sai qual è la cosa più bella degli scacchi?»

Dalla parete il ritratto del faccione di Kaspary mi suggerisce di restare in silenzio. Rispondo di no con la testa.

Il maestro gira intorno al tavolo, si ferma alle mie spalle e sistema la torre sulla scacchiera, in A2; rimette in piedi il re e il cavallo.

«Il bello degli scacchi… è che non sono la vita.»

Mi volto e alzo lo sguardo verso di lui, ne ricevo in cambio una stretta energica sul braccio.

Torna a sedersi al suo posto e dispone tutti i pezzi sulla scacchiera nella loro posizione iniziale.

«La vita non è come gli scacchi, grazie al cielo. Assomiglia piuttosto a una partita del calcio: non è mai finita, finché non è veramente finita.» Lascia ciondolare la testa, con lo sguardo fisso sulla scacchiera. «Se prendi goal, rimetti la palla al centro, recuperi lo schema iniziale e riparti.» Sposta un pedone in avanti di due case. «E non importa quanto male si sia messa la faccenda.» Fa saltare il cavallo. «Nel calcio, come nella vita, si gioca sino alla fine, sino al novantesimo e anche oltre, sino quando l’arbitro non fischia, e solo allora è davvero finita, ma prima di allora, per quanto male stiano andando le cose, tutto è ancora possibile.»

Cazzo, quanto è vero! Nel 1999, al novantesimo, il Bayern Monaco era campione d’Europa, e al novantaduesimo i campioni erano quelli del Manchester United…
 
Con un gesto della mano mi invita a risedermi. Agita l’indice a uno sputo dal mio naso. «La vita non sono gli scacchi, viva Iddio: nella vita non è finita, finché non è finita.»

 
Il racconto Scacco alla vita soffre di un difetto grave: spiattella la morale della storia nella pagina, la mette in bocca a uno dei personaggi (“nella vita, non è mai finita, finché non è veramente finita”) e gliela fa addirittura ripetere nel finale affinché rimanga impressa (“nella vita non è finita, finché non è finita”) col corredo di un eccesso di spiegazioni (il parallelo col gioco del calcio, peraltro fuori contesto) non sia mai che al lettore possa sfuggire il messaggio.

Questo approccio alla persuasione è giudicato – sul piano stilistico – goffo, grossolano e dozzinale.
 
Il tuo lettore non è un bambino, a cui rifilare biscottini Plasmon imbevuti nel latte caldo, per fargli andare giù le cose senza fatica, senza neppure il fastidio di masticare. Forniscigli sì i migliori elementi utili a persuaderlo della tua tesi, presentaglieli nel giusto ordine, affinché si convinca di ciò di cui vuoi convincerlo, fa sì che la tua tesi aleggi su tutta la storia e nei permei i contenuti, ma lascia poi a lui, al lettore, il piacere di compire l’ultimo passo, di fare 2+2=4: te ne sarà grato in eterno.

 
L’arte narrativa è una declinazione dell’arte della persuasione: convincere il lettore di una tesi, di un’opinione, di un punto di vista – di una verità soggettiva – attraverso una storia creata appositamente per il mondo della pagina, avendo piena consapevolezza dei (pochi) punti di forza dello strumento utilizzato – la scrittura – per sfruttarlo così al meglio delle sue potenzialità, e prestando grande attenzione ai (numerosi) punti di debolezza, per evitare errori grossolani.

Il meccanismo persuasivo va calibrato in ogni suo passaggio, dalla scelta dell’argomento, alla posizione presa su quell’argomento, sino alla storia che mostrerà ciò che causerà la persuasione, e in ogni caso richiede grande consapevolezza della natura umana, dei nostri sentimenti morali.

Così – a intuito, a buon senso – non sembra occorrano particolari abilità tecniche, e non sembra esservi grande merito artistico, nel persuadere di un punto di vista già ben consolidato nel sentire comune, nell’affermare una tesi già prevalente nella percezione diffusa.

Se non prendete il controllo della vostra vita, ci sono altre forze pronte a farlo per voi” sembra un messaggio standard, una posizione non particolarmente originale o profonda – ovvio: la vita è come l’acqua, va sempre da qualche parte, e se non la indirizzate voi, allora si sottometterà ad altre forze – eppure stiamo parlando del messaggio del film L’attimo fuggente, un autentico “cult”, un caso di scuola di eccellente sceneggiatura (ne parleremo qua e là, nei moduli 4, 18A, 18B, 23B23C23E).

Nulla può obbligare l’artista a scadere in qualità, nel suo processo creativo: la pretesa, presunta, semplicità del messaggio, non solo non impedisce di congegnare storie ad alto impatto emotivo, ma per molti versi deve spingere a immaginare e realizzare storie tanto più raffinate quanto più semplice è il messaggio sottostante, proprio per non banalizzarlo, per mostrarne le sfumature che sono comunque sempre presenti, e quindi bisogna avere la più nitida visione possibile di ciò che può colpire e suggestionare l’animo umano.

E in senso inverso, quando si vogliono sostenere tesi eterodosse, estranee alla morale comune, si deve avere la più profonda e vasta conoscenza dell’animo umano, per sapere esattamente quali corde andare a pizzicare, per selezionare con grande accortezza i dettagli da mostrare e, soprattutto, per decidere l’ordine in cui mostrarli, per immergere da subito il lettore nella storia e mantenerlo lungo la sequenza narrativa, senza che il suo “buon senso” latente possa prendere il sopravvento, a causa di cattive scelte stilistiche.

Il lettore – ne parleremo a più riprese – ti accorda il credito dalla sospensione dell’incredulità, nel momento in cui si accosta al testo, ma è un credito che può revocare in qualunque momento, per i motivi più vari, a iniziare dalla stravaganza del punto di vista sostenuto, non appena si inizi a delineare con discreta chiarezza.

Se propagandi la tesi per cui le cose si possono fare, ma non si devono dire, che “può esistere una giustizia priva di legalità”, ad esempio un duplice livello di legittimità e verità nel cuore di uno Stato, perché se non si fa così allora i “cattivi” saranno destinati a prevalere – e allora sì, sdoganiamo il fascino della scorciatoia, l’attitudine a formulare disposizioni ambigue da applicare con ordini appena sussurrati – se è questo è ciò che vuoi sostenere, allora a più forte ragione devi sapere come funziona l’animo umano.
 

“Scrivi solo di ciò che conosci” è un mantra della buona scrittura
.
In ogni caso, ti servirà un inquadramento sulla natura umana, sui sentimenti morali:
i classici testi di Hume e Smith sono un riferimento eccellente.
La loro lettura – ancora una volta – ti serve per vivere meglio, per capire di più della vita,
 e ti tornerà utile – diciamo pure si rivelerà fondamentale – per una buona scrittura.
Non essere presuntuoso, non credere che la tua esperienza ti sia sufficiente. Perché non lo è.
Sai spiegare perché istintivamente ritiriamo la nostra gamba, 
quando vediamo che la gamba di un’altra persona sta per ricevere un colpo?
E perché, quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi? 
 Perché arrossiamo per la sfrontatezza e la rozzezza di un altro,
nonostante egli stesso non colga l’inappropriatezza del suo comportamento?
Perché l’imbarazzo sorge in noi dalla pura immaginazione,
nonostante non sorga in lui dalla realtà effettiva?
Sai dire perché siamo inclini a simpatizzare con le piccole gioie e le grandi sofferenze? 
Se non sai rispondere all’istante a queste semplici domande
– e la verità è che non sai rispondere
e se non sai produrre all’istante almeno altre cinque situazioni elementari
– e la verità è che non sai produrle
mi spieghi esattamente cosa pensi di poter scrivere di interessante?
Testa bassa e studia, per capire come gira la vita nel mondo reale, 
per ripotare sulla pagina la versione elegante della vita reale.
 
Lo schema narrativo è standard, nelle sue macro-fasi: si sceglie un argomento, si prende posizione su quell’argomento, si congegna una storia che sostenga e “dimostri” la validità di quella posizione.

Di cosa vuoi parlare? Amore, odio, vendetta, rivalsa, perdono, vita, morte, orgoglio, pregiudizio, ambizione, generosità, tolleranza? Scegline uno. E poi decidi quale tesi sostenere su ciò che hai scelto.

Vuoi parlare d’amore? Bene. E cosa vuoi dimostrare? Che l’amore non sarà tutto, ma senza l’amore tutto il resto non ha senso, e una vita senza amore non merita di esser vissuta? Oppure che l’amore è un’illusione, perché l’essere umano è per natura egoista, incapace di spendersi per gli altri senza avere un tornaconto, e ogni violazione di questa sua natura alla lunga produrrà solo disastri? Tu sei lo scrittore, tu sei l’artista, il dio creatore: scegli e crea di conseguenza.

Non avere mai timore di scegliere un argomento già trattato in abbondanza (di cosa, in fondo, non si è già parlato tanto?) né di sostenere una tesi mainstream (purché non sia banale). Se è ciò in cui credi, e ciò di cui vuoi scrivere, allora devi ribaltare la prospettiva: nessuno, finora, ne ha mai parlato nel modo in cui intendi farlo tu.

Estratto dalla “Lezione 3 Ma è possibile scrivere qualcosa di nuovo?” di Giuseppe Pontiggia. 

Non avere timore di scegliere argomenti apparentemente inflazionati, ma… se riesci a discostartene forse è meglio.
 
Spesso può bastare un minimo di riflessione, per avere una visione speculare delle cose e indirizzarsi su storie e punti di vista che non siano già stati visti molte volte.
 
Tutti parlano della vita, del senso della vita, dello scopo della vita, della sacralità della vita, di una vita che va vissuta sino in fondo perché ce n’è una sola e dopo chissà?
 
Bene. Tu allora parla della morte, se hai i mezzi per farlo. E parlarne, magari, come riferimento costante per vivere alla grande: “ciò che ha importanza in vita è tutto e solo ciò che ha importanza davanti alla morte”, una versione attualizzata e letteraria del memento mori, capace di oscurare l’ormai classico “sì, sì… mo' me lo segno” di Troisi, che avrà pure fatto ridere tutti, ma non è mai riuscito a portare nessuno oltre questa risata iniziale.
 
La morte non più come fine della vita, ma posta al centro della vita – come metro con cui misurare ogni cosa della vita, come bilancia per fare la tara a ogni evento della vita per scoprire cosa ha davvero senso nella vita, attraverso i travagli del personaggio della tua storia.
 

Padre Guidalberto Bormolini e Lama Michel Rinpoche:
nessuno, come certi mistici, ti potrà dare spunti interessanti per la tua scrittura,
perché nessuno, come certi mistici, ha riflettuto così a lungo e intensamente sulla vita,
arrivando a considerazioni, magari ancora provvisorie, ma straordinariamente profonde,
rese con semplicità e immediatezza di linguaggio, affinché siano accessibili a tutti.
Perché ti deve esser chiaro che tu scrivi e scriverai sempre di cose che riguardano la vita,
di esperienze di vita che possano risuonare con l’animo di chi leggerà le tue storie.
Per dirlo in negativo, tu non scrivi di medici in sala operatoria, di soldati in trincea,
di donne tradite, di teenager pazzerelli, di astronauti nello spazio, di pirati su un vascello,
di rivoluzionari garibaldini o di legittimisti borbonici, di epidemie o di guerre.
Queste cose – il medico, il soldato, il teenager, l’astronauta, il pirata –
sono solo la facciata della tua storia, che tu hai scelto in base ai tuoi gusti, ai tuoi interessi,
alle tue preferenze, a ciò che conosci meglio e di cui sai scrivere.
Ma dietro quella facciata c’è – ci deve essere – un messaggio profondo che riguarda la vita
e tu non puoi ragionevolmente credere che la tua vita, da sola,
sia un serbatoio di esperienze sufficiente a trasmettere ad altri qualcosa.
   
Possedere una verità soggettiva – di cui persuadere il lettore – rimane il presupposto, il passaggio preliminare alla scrittura.
 
Quale che sia il testo – un racconto, intorno alle 8.000-12.000 parole; un romanzo breve, circa 25.000 parole; un romanzo, dalle 35.000 parole in su – nel testo ci deve essere un messaggio da far passere, un significato da comunicare, uno scopo da raggiungere, qualcosa di rilevante proporzionata della lunghezza, di cui vuoi persuadere il lettore.
  
Molti autori si lagnano della mancata risposta emotiva ai loro testi da parte dei lettori, ma quando quei testi vengono passati allo spettroscopio, o quando si ha la possibilità di confrontarsi direttamente con gli autori, si scopre che nel testo non c’era nessun messaggio implicito, nessuna persuasione da realizzare, e il tutto si riduceva a una semplice manifestazione spontanea di ciò che si aveva dentro e si sentiva il bisogno di tirar fuori, illudendosi – chissà perché – che “l’emozione della scena” raggiungesse pure un lettore tiepido.
 
 Messaggio WhatsApp di una scrittrice,
da cui prendere esempio per autodisciplinarsi.
Avete dato da mangiare a un toro pericolosissimo? E chi se ne frega!
Per voi – e più che alto per i vostri genitori – sarà pur stata un esperienza sconvolgente,
ma al resto del mondo esattamente cosa gli importa, cosa c’è da imparare da questa storia?
O trovate il modo di orchestrare una narrazione dell’episodio che sia portatrice di un messaggio
(qualcosa del tipo “la dolcezza placa la furia”)
oppure astenetevi signorilmente dal raccontare cose di cui non importa niente a nessuno.
E orchestrare una narrazione significa… orchestrare una narrazione:
costruire luoghi, convocare personaggi e creare ambientazioni
che concorrano a sostenere il messaggio che volete mandare.
La scrittura di narrativa non è la trascrizione di ciò che vi è accaduto,
pretestuosamente nobilitato da un linguaggio barocco, sovrabbondante, aulico, finto-poetico.
E non ci si può illudere che altri colgano un messaggio nella semplice trascrizione della vicenda,
se noi, consapevolmente, non l’abbiamo rimodellata per conferirgliene uno:
non possiamo sperare che altri capiscano e apprezzino
ciò che non è prima di tutto cristallino a noi stessi.
Quel che conta, quindi, non è ricordare, ma immaginare.
Che poi l’immaginazione elabori anche ricordi,
o addirittura non faccia che unire micro-ricordi come tessere di un mosaico,
non sposta il centro della questione, lo scopo della scrittura:
che è appunto il mosaico – il messaggio da mandare con la storia –
e la consapevolezza del ruolo delle varie tessere nel formarlo.
 
Scrivere un testo – fosse anche solo una scena, di 500-700 parole – senza che vi sia un messaggio sottostante equivale a fare della pornografia.

La pornografia, tecnicamente parlando, è una creazione – sotto forma di film, foto, fumetto – che dichiara apertamente di non avere messaggi da mandare, e che tuttavia suscita piacere in chi la osserva, per quell’immaginario scambio di situazioni tipico del contatto con tutte le forme espressive.

Se ora togliamo il riferimento al sesso, che è solo la superficie della pornografia, ciò che rimane è la sua struttura: una creazione priva di un messaggio, ma suscettibile di indurre un piacere immediato.

Tutto ciò che crei a livello narrativo solo perché ti piace, o perché pensi possa piacere ad altri – se per gusto o perversione non fa differenza, perché artisticamente gusti e perversioni sono indistinguibili – tutto ciò che crei così, senza curarti del messaggio sottostante, è – tecnicamente parlando – pornografia.
 

Trova le differenze rispetto a storie o frasi 
scritte solo per il proprio piacere o per il piacere degli altri.
Soluzione: non ce ne sono.
 
Quindi, a meno che non vuoi fare della pornografia, prima trovi una verità soggettiva di cui persuadere il lettore, e dopo inizi a scriverne.

 
Evita di scrivere, se già sai di non aver nulla da dire
– nessun messaggio da mandare, nessuna tesi di cui persuadere – 
nella speranza che il lettore capisca al tuo posto
ciò che tu non sapevi come comunicare.
Non saranno centinaia di visualizzazioni e decine di voti
– provenienti tutti e solo da lettori caldi
a poter donare un senso a ciò che non ne ha.
E tu non vuoi, proprio no, assolutamente no,
che qualcuno possa “ondulare nella tua storia”,
per “abbandonarsi e seguire il proprio verso”.
Tu vuoi esattamente l’opposto.

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