MODULO 22 – Dalla scrittura alla sceneggiatura

 
La frase è l’unità elementare della scrittura, perché serve almeno una frase per comunicare nella sua interezza il significato effettivo di ogni mattoncino narrativo.

Estratto dalla “Terza lezione”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Il primo obiettivo è perciò scrivere bene le singole frasi, e i moduli  8, 9, 12, 15B15C15D, 15E15F, 15G ti hanno fornito gli strumenti per costruirle e averne il controllo.
 
Qual è il problema? Lo possiamo battezzare principio di non-additività: scrivere bene le singole frasi non ti assicura che la sequenza formata con quelle frasi – tutte singolarmente corrette – dia luogo a un flusso narrativo ben fatto. I moduli 10 e 11 ti hanno perciò fornito le basi per costruire il flusso narrativo, poi integrate dai moduli 13, 15A16, 18F.
 
Ma il principio di non-additività si ripropone: aver scritto dei buoni flussi narrativi – delle buone pagine – non ti assicura che la scena realizzata con quei flussi sia fatta bene. E intuisci a questo punto il seguito: scrivere scene tutte singolarmente corrette non ti assicura che la storia basata su quelle scene stia in piedi.
 
La somma non fa il totale: via via che ci si sposta su piani più alti – dalla frase, al flusso, alla scena, alla storia – si incontrano problemi sempre nuovi, sempre diversi.
 
Ora serve compiere il primo balzo, dalle singole frasi (e dai flussi) al governo di un’intera scena.

Cos’è una scena?

Lascio la parola a Jack Bickham, al suo Scene&Structure (Elements of Writing Fiction), da cui stralcio l’inizio del capitolo 4.
 
 
Questo passaggio è straordinariamente denso di contenuti, e richiede di essere vivisezionato e ricomposto, affinché tutti i messaggi arrivino con chiarezza.

Una scena – ci dice Bickham – è un segmento della storia, scritto “momento per momento”, senza riassunti, e presentato “qui e ora”. La scena non può essere limitata a quel che accade nella testa di un personaggio (non è un flusso di coscienza né un monologo). La scena è una sequenza fisica: può essere recitata da una compagnia di attori sul palco di un teatro.
 
La scrittura presenta poi un vantaggio rispetto al teatro (e al cinema): la fisicità della scena accoglie anche i pensieri e le percezioni del personaggio “Punto di Vista”, quindi è una fisicità più ricca e articolata; perché se da un lato in scrittura le cose non si vedono e non si sentono, dall’altro si possono ancora simulare, e la simulazione della pagina può estendersi ad aspetti che il teatro e il cinema sono incapaci di restituire proprio perché lì le cose si vedono e si sentono.

Ora capisci la mia insistenza sulla tecnica del mattoncino? Ora che te lo dice Jack Bickham mi credi?

Bene. Meglio tardi che mai.
 
Ma come si conduce una scena? Come si apre, come si sviluppa e come si chiude? Qual è il suo pattern?
 

Il pattern di una scena

Ogni scena deve avere uno scopo (“statement of goal”) e lo scopo ultimo di ogni scena è passare informazioni significative al lettore.

Un’informazione è significativa se precisa le conseguenze di eventi presentati nelle scene precedenti, se è funzionale – alza la palla o fa da sponda – al rilascio di informazioni nelle scene successive, o se consolida il blocco di informazioni disponibile sino a quel momento (“just as cause and effect have a pattern, and stimulus and response form a fundamental unit of construction… Just as causes result in effects and stimuli result in responses”).

Prima di tutto, quindi, ragiona sulle informazioni da trasmettere attraverso la scena. In che senso, una volta arrivato alla fine della scena, il lettore ne saprà di più rispetto a quanto ne sapeva all’inizio? Perché gli stai passando determinate informazioni? Quali sono gli scopi – immediati, intermedi e di lungo termine – che vuoi raggiungere? Se non lo sai, mi spieghi cosa stai scrivendo?
 
Devi dare informazioni significative al lettore – nel senso precisato – e presumo che queste informazioni ti siano chiare, cristalline. Ma in che modo, per quali vie, le farai arrivare a destinazione?

Alla fine di un telegiornale ne so di più – sugli eventi nel mondo – rispetto a quanto ne sapessi all’inizio: il telegiornale mi ha trasferito un flusso di informazioni, sicuramente. Ma è così che le informazioni arrivano in una storia? Per via diretta, in stile telegiornale, col conduttore che si rivolge direttamente ai telespettatori? Ovviamente no (sebbene vi sia ancora gente che scrive così perché… Manzoni scriveva così).

Le informazioni arrivano indirettamente, come conseguenza delle naturali interazioni dei personaggi in scena, di ciò che è massimamente verosimile “vedere” in quella specifica situazione in cui i personaggi si trovano, tenuto conto del loro profilo psicologico.

La scena – ne accennavamo nel modulo 19 – si scrive sì dall’inizio alla fine, ma si progetta al rovescio, muovendo dall’obiettivo finale (le informazioni da far arrivare al lettore) e risalendo alla migliore configurazione che lo realizza (dato che si vogliono far arrivare certe informazioni, qual è la situazione narrativa che meglio si presta a farle sgorgare dall’interno della scena stessa?).

Se invece scrivi una scena perché sì – perché ti sei invaghito di un’ambientazione, perché hai il fetish di certe dinamiche sociali, perché come un novello Narciso sei rimasto abbagliato dalla “bellezza” delle tue suggestioni – registrerai inevitabilmente un difetto di informazioni, una volta arrivato alla fine: non tutto quel che volevi dire lo avrai detto con efficacia e a volte potresti non averlo detto affatto. E la toppa che metterai sarà peggio del buco: l’infodump.

Non puoi martellare informazioni prestabilite dentro una scena anch’essa prestabilita. Se cristallizzi le informazioni, devi cercare la scena migliore per quel set informativo. Se cristallizzi la scena, devi chiederti quali siano le informazioni migliori che puoi cavarne. Se cristallizzi scena e informazioni, e poi incroci le dita sperando in una loro compatibilità, sei un dilettante che non produrrà mai nulla di buono.

Abbiamo così una prima qualificazione sul modo di far arrivare le informazioni: dal di dentro della scena, scegliendo la scena – ambientazionepersonaggi – in funzione delle informazioni da veicolare al lettore.

Serve però un passo ulteriore: il lettore deve percepire il flusso informativo come una sequenza interessante. Lo scopo terra-terra di una scena è “obbligare” il lettore a proseguire nella lettura, ma nessuno andrà avanti a leggere se non ha interesse a farlo. Ovvio, no?

E come si rende interessante una scena? Attraverso il conflitto (“introduction and development of conflict”).

Una scena si basa sul conflitto e vive di conflitto, una scena senza conflitto è merda non è una scena.
 
Non capisco. Mi mi stai dicendo che i miei personaggi si devono azzuffare di continuo? Sei sicuro? Boh, mi sembra così strano…

Se hai avuto questo pensiero, amico mio, possiamo pure chiuderla qui: perché – non ti offendere – artisticamente parlando sei “un po’ autistico”, e questa tua disfunzione percettiva sarà un ostacolo insormontabile alla creazione di una buona scena.
 
Sinceramente: tu hai la sensazione di essere nel mezzo di una zuffa continua? Non credo. E non ti accorgi, però, di essere sempre coinvolto in qualche conflitto?

I tuoi conflitti sono iniziati nel momento stesso in cui sei uscito dai coglioni di tuo padre: uno spermatozoo circondato da centinaia di migliaia di altri spermatozoi, tutti con lo stesso obiettivo e tutti in conflitto, sia tra loro (c’era posto solo per uno) sia con l’ambiente circostante (che ne ha sterminati la gran parte); e il conflitto è proseguito, in altra forma, una volta arrivato a destinazione, davanti all’ovulo (hai dovuto picchiettare di continuo, qua e là, sopra e sotto, su e giù, per riuscire a entrare).

E poi? Poi, se sei stato fortunato, avrai avuto nove mesi di pace, riconosciamolo, che ti sono serviti a tirare il fiato dopo quella fatica boia. Ma non è detto. Forse sei entrato in conflitto col cordone ombelicale (che ha rischiato di strozzarti) e forse non ti sei girato quando avresti dovuto (e sai che complicazione, allora, venir fuori). Uscire dalla pancia – comunque sia andata – è stato un conflitto. Chiedi pure a mamma, se non lo ricordi. E una volta fuori…

Già, una volta fuori.
 
Una volta fuori è stato un conflitto continuo, perenne.
 
Per lungo tempo hai conosciuto solo il pianto per esprimere il tuo disagio, qualunque esso fosse, e i tuoi genitori lì a tormentarsi su cosa ti affliggeva. Tu volevi qualcosa, e tutto il contesto intorno – la tua incapacità di parlare, l’incapacità dei tuoi genitori di capirti – ti si opponeva.

Da bambino avresti voluto solo giocare, e il tuo desiderio incontrava l’opposizione della scuola: prima studia, fai i compiti, poi eventualmente gioca.
 
Il tuo primo amore – alle elementari – era una bambina bionda e ricciolina, che non riuscivi neppure a guardare, perché se le mettevi gli occhi addosso poi non eri più capace di distoglierli e ti imbambolavi. Eri in conflitto con te stesso, con la tua timidezza, che ti impediva persino di parlarle. E, manco a dirlo, eri in conflitto con gli altri compagni di scuola che l’avevano puntata.

Sei stato in conflitto con l’arbitro che non ha concesso il rigore alla tua squadra, nella finale del campionato di quartiere; ti sei fatto espellere e hai pure fatto a botte con un avversario.

In un modo o nell’altro – in misura variabile da caso a caso, ma sempre con una certa costanza – sei stato in conflitto con i tuoi genitori: nella più semplice delle situazioni per l’orario di rientro dalle uscite serali, quando eri ancora minorenne, e nella peggiore… beh, lo sai tu.

Sei stato in conflitto con le prime ragazze, quando tu volevi farlo e loro no; ma qualche volta, forse, ti sei scoperto in conflitto con te stesso, quando era stata lei a prendere l’iniziativa e la cosa ti aveva imbarazzato.
 
Ti sei ritrovato in conflitto contro il mare, quando spavaldamente avevi fatto un bagno fuori dalla baia, il vento si era alzato, le onde pure, e la corrente contraria ti impediva di tornare a riva.
 
Hai vissuto ripetutamente il peggiore di conflitti: quello contro il tempo.
 
Sei stato in conflitto contro il tempo il giorno del tuo primo appuntamento con una ragazza, alle scuole medie, in un’epoca senza i-Phone e WhatsApp, quando semplicemente il giorno prima ci si accordava per incontrarsi “in quel posto a quell’ora”, e in quel posto e a quell’ora ti ci accompagnava tuo padre, in macchina, che però si era scordato ed era andato chissà dove, lasciandoti solo tra autobus e corse a perdifiato, con un orologio che batteva impietoso i suoi rintocchi; e che dire di quando il calendario ti si squagliava sotto gli occhi, con le elaborazioni al computer per la tesi di laurea che andavano a rilento, interi paragrafi ancora tutti da scrivere, e il giorno della sessione che si avvicinava a una velocità che non riuscivi a pareggiare; e ti ricordi quando sei salito col fiatone su un treno preso all’ultimo istante, (che poi è partito in ritardo) e ti ha fatto temere di perdere la coincidenza con l’aereo (che invece ha ritardato a sua volta) e ti ha lasciato in una città dove sembrava impossibile trovare un taxi che ti portasse in quella  clinica dove a tua madre stavano rimanendo gli ultimi minuti di vita?

Ti sei sentito in conflitto contro il mondo, quando tutti – ad eccezione di tua madre – ti dicevano che il punto a cui miravi era irraggiungibile, che chi lo aveva raggiunto chissà come aveva fatto, e che comunque tu non ci saresti mai arrivato. Hai avvertito tutto il peso del conflitto quando hai visto i numeri in gioco: 2.000 concorrenti, per 5 posti. Ma c’era il sorriso di mamma, appunto: “tu non sei uno qualsiasi di quei 2.000, tu sarai uno dei 5”.

Il tuo posto di lavoro, qualunque sia, è una sorgente inesauribile di conflitti, sebbene – a volte, non sempre – celati o mitigati come si può: perché – nel caso più banale – se una promozione la danno a te, allora non la danno al tuo collega, e viceversa.
 
Sei in conflitto quando ti trovi al supermercato: due file chilometriche alle casse, una commessa ne apre una terza e lascia cadere lì un innocente “prego, in ordine di fila, potete spostarvi qui”; in ordine di fila, già; ma quale delle due e da dov’è che si comincia a contare? 
 
Devo continuare? Sul serio? Possibile che non ti accorgi di essere (sempre stato) nel mezzo di un conflitto, senza necessariamente fare a botte in senso fisico?
 
Il film è disponibile su Netflix, e tu DEVI avere Netflix,
se non per tuo piacere, sicuramente come strumento di lavoro.
come luogo dove allenarti di continuo ad analizzare le sceneggiature.
Quindi, ora, fai una bella cosa: (ri)guarda il film
e censisci tutti – tutti! – i conflitti che ci sono.
Non te ne deve sfuggire neppure uno.
Buon lavoro.
 
Cos’è un conflitto? È un desiderio che incontra un’opposizione ma non si rassegna, non si placa, e lotta per essere appagato. Siamo in conflitto – per dirlo semplice – tutte le volte che non ci fermiamo davanti a un ostacolo.

Cosa sarebbe successo se Renzo avesse rinunciato al matrimonio con Lucia, una volta saputo del parere contrario di Don Rodrigo?

«Ahó Lucì, guarda che Don Rodrigo non vuole, eh; e Don Abbondio, pure, non c’ha voglia di andargli contro; meglio lasciar perdere… prima che si incazzino davvero.»

«Scialla Renzo! Apposto così, e amici come prima.»


Romanzo finito a pagina 8.

Ma cosa sarebbero stati I promessi sposi, d’altra parte, se il desiderio di sposarsi di Renzo e Lucia non avesse incontrato l’opposizione di Don Rodrigo? Centinaia di pagine per descrivere la preparazione di un matrimonio. Wow!

Ti ricordi i ragazzi del film L’attimo fuggente? Erano tutti accomunati dal non saper manifestare la propria vocazione, un’incapacità che si declinava poi in modo diverso per ciascuno di loro. E dove sono stati collocati questi ragazzi timorosi e impacciati? In famiglie amorevoli e comprensive, di larghe vedute, disposte a sostenerli sempre e comunque, qualunque fossero state le loro scelte?  E magari pure in una scuola in stile Montessori, popolata da tanti professor Keating? No. Sono stati messi in famiglie che ripongono in loro delle aspettative molto alte e conformistiche (tu sarai avvocato, medico, ingegnere, mica poeta o attore) e in una scuola dura e censoria che li prepara a soddisfare in pieno quelle aspettative. Sono stati messi nel mezzo di un conflitto, con i genitori, con i professori, con le ragazze, con sé stessi e tra di loro.
 
 
No, non è una scuola Montessori. Decisamente no.

 

No, non sembrano esserci margini di discussione.
Decisamente no.
 
 
 
Il conflitto tra il professor Keating e il suo collega,
sui metodi di insegnamento più opportuni ed efficaci.

Tutta la nostra vita è immersa in un campo di tensione, di conflitti – esterni e interni, fisici, verbali, psicologici, morali, etici, contro le persone, l’ambiente, il tempo, spesso intrecciati tra loro – e nulla mette più curiosità del sapere come i conflitti verranno risolti, perché i modi di risoluzione dei conflitti sono rivelatori della parte più autentica di tutti noi.
 
Un esempio magistrale di gestione conflitto (e non solo):
leggilo, goditelo, impara.
Ne parleremo nel modulo 24C.
 


La seconda pagina del romanzo dà già una prospettiva di conflitto,
con quel “Lo scoprirete da voi”, che non lascia presagire nulla di buono.



Il primo dialogo tra il dottor Andrew Manson e Mrs Page è già carico di elettricità.
 
 
 
Il primo conflitto esplicito tra il dottor Manson e Mrs Page:
siamo tre giorni oltre la data di pagamento dello stipendio (entra in gioco il tempo),
Mrs Page è comunque palesemente insofferente verso un atto dovuto,
e prova addirittura a trattenere per sé gli spiccioli,
trovando la ferma opposizione del dottor Manson,
che per colmo d’impostura si becca l’insulto di essere “scozzese”.

 
 
Il primo incontro tra Andrew e Cristina:
il dottore vuol mandare via il bambino dalla classe,
la maestrina si oppone con tutte le sue forze.

Questa carrellata dovrebbe averti chiarito la relazione tra lo scopo della scena (passare informazioni al lettore, nella prospettiva dello scrittore che la crea), lo scopo nella scena (come vissuta dai personaggi, che mirano al conseguimento di un obiettivo) e il ruolo del conflitto (come ostacolo all’obiettivo e forza trainante della narrazione).

Tu, autore, dio creatore, scrivi la scena allo scopo di passare informazioni al lettore (sui personaggi, sulle loro relazioni, sulla storia) e le informazioni arrivano attraverso gli scopi che i personaggi si prefiggono di raggiungere nel mondo della pagina, in contesti variamente conflittuali: questo è il senso dei primi due punti del pattern di una scena – “statement of goal” e “introduction and development of conflict” – citati da Bickam.
 
Dobbiamo smarcare il terzo: “failure of the character to reach his goal, a tactical disaster”.

La traduzione letterale (“il personaggio deve fallire nel raggiungere l’obiettivo”) rischia di essere ingannevole e limitante, senza le opportune qualificazioni.

Sicuramente ci sono casi in cui il personaggio non raggiunge l’obiettivo (ad esempio nell’incontro-scontro di Andrew con Cristina) ma ce ne sono altri dove l’obiettivo è invece centrato (quando Andrew si fa pagare sino all’ultimo penny da Mrs Page).

Il punto dirimente non è quindi nell’esito del conflitto – che può essere sia positivo che negativo – ma nella sua persistenza, quale che sia la sua risoluzione momentanea, proprio come si dice al principio: “Just as cause and effect have a pattern, and stimulus and response form a fundamental unit of construction… Just as causes result in effects and stimuli result in responses”.
 
Sì, è vero, il dottor Mason è riuscito a farsi pagare (obiettivo centrato, conflitto risolto) ma la dinamica della scena – a più forte ragione se teniamo a mente le scene precedenti – lascia intendere che altri e più pesati conflitti si manifesteranno in seguito con la moglie del dottore. Nella scena con Cristina, in modo speculare, il conflitto ha avuto un esito negativo (il bambino non è stato mandato via) ma qualcosa ci dice che la storia non finirà lì, che lo scontro con la maestrina dovrà trovare un accomodamento nel seguito.
 
Si parla di “tactical disaster” – “disastro tattico”, alla lettera – perché le azioni perpetuano il conflitto, di là dei loro esiti immediati: sono “disastrose” proprio perché –  a prescindere dalla situazione contingente o “tattica” –  mettono la storia su una traiettoria di conflitti crescenti.

Scrivere delle scene significa saper immaginare situazioni conflittuali, variarle per tipologia e intensità, alternarle con parti in cui si riprende fiato, ma all’interno di un trend che deve essere rigorosamente crescente: è la cosiddetta escalation del conflitto.
 
Una storia è una sequenza di scene, e una scena si basa sul conflitto:
una storia, quindi, è una sequenza di conflitti.
Scrivere storie significa creare situazioni conflittuali, secondo uno schema preciso:
si parte lenti, con piccoli conflitti, e poi si va a crescere, con conflitti progressivamente più intensi,
intervallandoli con brevi pause per rifiatare tra un conflitto e l’altro.
I momenti di pausa – per quanto brevi – sono cruciali:
un conflitto tenuto costantemente elevato crea un “effetto assuefazione”,
il lettore si abitua e quasi non ci fa più caso.
Per la stessa ragione è fondamentale la varietà:
se hai fatto già litigare marito e moglie una volta, non farli litigare una seconda;
o se litigio deve essere, allora che sia qualitativamente diverso dal precedente
(se il primo è stato “verbale”, il secondo può essere più “piscologico”;
se la prima volta hanno litigato a casa, dicendosi di tutto,
la seconda litigheranno in macchina, magari rischiando un incidente;
oppure in pubblico, magari a una festa, tenendo conto che il luogo è un personaggio,
indirizzando di conseguenza la dinamica della litigata).
Scrivere storie significa progettare e realizzare un escalation del conflitto.
 

Incipit: (l'inizio del)la scena iniziale


Parlare di incipit ci pone di fronte a un’ambiguità formidabile e irrisolvibile: nessuno sa cosa siano.

L’incipit – si dice – è il principio di una storia, la porta di ingresso nel mondo della pagina, l’inizio della prima scena.

D’accordo. Ma cosa vogliono dire queste espressioni, esattamente? Cos’è un incipit, in concreto? Il primo capoverso? La prima pagina? Le prime 400 parole? Le prime 500? O magari è tutta la prima scena?

Nessuno sa dirlo, e se pretendi risposte precise ti guardano come se volessi sapere quanti capelli bisogna avere in testa per essere definiti “calvi”. Se non nei hai, sei calvo, sicuramente. Se ne hai uno, sei ancora calvo. Se ne hai due, tre, quattro… calvo. Qual è il numero n di capelli superato il quale non sei più calvo? Nessuno lo sa. Un calvo lo riconosci icto oculis, e allo stesso modo dovresti capire, con la tua sensibilità, dove finiscono “le prime parole” che si offrono al lettore.

L’approccio può andar bene finché non si hanno pretese tecniche; ma quando si deve scrivere un incipit, e serve quindi sapere cosa un incipit deve fare, e come deve farlo, allora è cruciale aver chiaro lo spazio a disposizione per assolvere il compito.

Perché esistono dei limiti strutturali a ciò che una frase o un insieme di frasi può fare; vi sono cioè vincoli di compatibilità tra la lunghezza di un periodo e ciò che quel periodo può veicolare al lettore, e nulla può dirsi su ciò che è realizzabile, senza sapere di quanto spazio si dispone. Se l’incipit è il primo capoverso (il primo blocco di frasi consecutive, prima di andare a capo) le pretese dovranno essere minimali; se l’incipit è delimitato dalle prime 400-500 parole, allora si può caricarlo di compiti ulteriori; se lo si allarga a tutta la prima scena, si può impostare un discorso strutturato sulle sue finalità.

Quindi, qui, intenderemo l’incipit nell’accezione più estesa: l’intera scena iniziale.
 
La definizione – lo ripeto – è arbitraria, e per molti versi unconventional (perché si è abituati a pensarlo di estensione più breve) ma è l’unica che rende compatibile una lunghezza del testo non eccessiva con una discussione minimamente seria.

E per parlare di incipit, per costruire un incipit su basi solide, dobbiamo anzitutto bonificare il terreno.
   
Estratto dalla “Lezione 33 Se non c’è curiosità l’incipit è sbagliato”, di Giuseppe Pontiggia.

Ti mostro questo stralcio di Pontiggia come potrei mostrarti una moneta da 5 grana del Regno di Napoli, o un francobollo da 3 lire del Governo Provvisorio di Toscana: oggetti del passato, che ci parlano del passato, con un immenso valore storico e culturale, ma sprovvisti di qualsiasi funzione pratica.

Ti mostro questo stralcio di Pontiggia – per essere più chiaro – come potrei mostrarti una macchina da scrivere degli anni ’60 accanto alla più raffinata creazione della Apple: per farti capire come eravamo una volta e come siamo ora, come ci siamo evoluti.

Sopravvive solo l’affermazione iniziale: l’importanza dell’incipit è decisiva.
 
Era vero ieri, è vero oggi, probabilmente rimarrà vero per sempre.
 
I primi passi, il primo giorno di scuola, il primo amore, il primo bacio, la prima volta, il primo esame, il primo lavoro, i primi mesi di gravidanza, il primo figlio: “la prima” di ogni cosa è sempre la più delicata, può segnare in modo irreversibile l’intero seguito, e – vada come vada – è un’esperienza che non si dimentica, che rimane dentro più di ogni altra, anche quando se ne sono poi vissute di più intense e coinvolgenti.
 
L’incipit restituisce al lettore la prima impressione del mondo della pagina, e il problema delle prime impressioni è che… non si ha l’opportunità di darne una seconda. Massima attenzione, quindi.
 
Non è invece (più) vero che “nell’incipit letterario lo spazio riservato all’immaginazione è infinitamente maggiore”; non è (più) vero che la teoria delle aperture letterarie “appare più caduca”; e non è (più) vero – come afferma Pontiggia nel seguito della “Lezione” – che “ci sono opere che a un esordio debole fanno seguire uno sviluppo felice”.

Di tutte queste affermazioni – oggi – è vero il contrario: l’incipit è la parte di una storia che beneficia della teoria più e meglio formalizzata (e più in generale è l’intero Primo Atto a seguire un percorso massimamente guidato); oggi sappiamo perfettamente cosa un incipit letterario deve fare, se gli concediamo lo spazio di una intera scena; e abbiamo indicazioni precise anche sul come farglielo fare; oggi l’incipit non si può sbagliare, anche perché, se lo sbagli, il lettore ti abbandona, avendo a disposizione un’infinità di altre opportunità.
 
Ti suggerisco di leggerlo per cultura personale,
più che altro per capire che quasi nessuno degli incipit del passato
sarebbe oggi presentabile in un testo che voglia dirsi ben fatto.
 
La scena iniziale di una storia è particolare perché non ha alle spalle scene precedenti a cui appoggiarsi, da sfruttare: al primo rigo della prima pagina, all’inizio della storia, il lettore non sa nulla, e l’ignoranza assoluta del lettore deve essere il tuo punto fermo in fase di stesura del testo (senza cullarti per esempio delle informazioni eventualmente veicolate dai riferimenti extra-testuali).

Questo dato di fatto si traduce in un primo compito per lo scrittore: far capire quanto più rapidamente possibile, con tutta la precisione consentita dalle frasi iniziali, chi è il personaggio, cosa fa, dove si troverà ad operare e quali saranno i suoi obiettivi.
 
In breve: l’incipit deve restituire il senso dell’intera storia.

Ecchecazzo! Questo è impossibile! Come si fa a riassumere la storia in una scena? Dai, su, stai esagerando, ammettilo.

Non sto esagerando. Si può fare. E si fa come si fanno tutte le altre cose: ragionando.

La linea d’argomentazione è sempre la stessa: se sai di cosa stai scrivendo, e se conosci la tua storia – luoghi e personaggi – allora sarai in grado di proporne una versione su scala ridotta, a livello di singola scena, ragionando su ciò che sai e su come la tua conoscenza deve diventare una storia nel mondo della pagina.
 
L’incipit è la porta di ingresso nella storia, e non c’è ingresso migliore del cogliere da subito il tono e il senso generale della vicenda. Che poi ci si riesca, in tutto o in parte, è un altro discorso, ma questo rimane l’obiettivo: restituire il più velocemente possibile l’ambientazione, i personaggi e la storia, seguendo, ça va sans dire, la tecnica del mattoncino.

E se non ci riesci, i casi sono tre: non sai di cosa stai scrivendo quanto dovresti saperne, non conosci la tua storia a fondo, non hai ragionato abbastanza.
  
Gli oggetti di Madre Natura si possono stilizzare con due caratteristiche:
da un lato sono frammentati, frastagliati, spezzati,
e dall’altro si appoggiano su una “forma base”, che si ripete più volte.
Osserva l’intero ramo di una felce (in verde scuro) alla tua sinistra:
le sue forme richiamano i triangoli, ma non sono triangoli,
e il motivo che guida il ramo principale si ritrova in tutti i rami secondari.
Se osservi il sotto-ramo 1 (in rosso) ritrovi il ramo principale su scala ridotta; 
se osservi il sotto-ramo 2 (in blu) trovi sempre il ramo principale, ma su scala ancora più piccola;
la storia si ripete per il sotto-ramo 3 (in azzurro),
e se nella realtà fattuale a un certo punto ci si ferma,
nella realtà matematica nulla vieta di proseguire all’infinito,
e di ritrovare lo stesso motivo di fondo a ogni scala di osservazione.
Nota la differenza fondamentale con gli oggetti creati dall’uomo: 
se osservi una palla da tennis a una distanza normale, vedi una sfera;
se ti allontani, ti apparirà come un puntino;
se ti avvicini fino a poggiarci sopra il naso, vedrai una superficie piana.
Quello che vedi, quindi, varia al variare della distanza a cui lo osservi.
Gli oggetti frattali, al contrario, non perdono mai di dettaglio,
a guardarli da molto vicino né da molto lontano:
sono creature indomabili, con un forza che dà i brividi.

 
 

Estratto dal manuale di scrittura Into the Woods, di John Yorke:
Immagina di guardare una fotografia della ramificazione di un albero:
togli ogni conoscenza di scala o di contesto
e sarà impossibile dire se stavi guardando un ramoscello, un ramo o un tronco;
ogni unità replica sia la parte più grande che quella più piccola.
E così è con il dramma.
Le storie sono costruite da atti, gli atti sono costruiti da scene
e le scene sono costruite da unità ancora più piccole chiamate ritmi.
Tutte queste unità sono costruite in tre parti: versioni frattali dello stesso schema.
 
Regola numero 1: il lettore deve percepire il mood della storia.

Non basta quindi settare la scena in senso formale – far capire chi è il personaggio, dove si trova e qual è il suo obiettivo – ma serve pure “colorarlo” per restituire, in piccolo, l’intera vicenda.

Si dice – per chiarire e rafforzare il punto – che l’incipit deve essere interessante in sé e lasciare intravedere sviluppi interessanti: il lettore dovrebbe sentirsi soddisfatto anche limitando la sua lettura al solo incipit, ma deciderà senz’altro di proseguire perché ha la sensazione forte che verranno cose ancor più interessanti.

Se il conflitto è la sorgente primaria dell’interesse, e se ogni scena si basa sul conflitto, nell’incipit – nella tua prima scena, nella scena iniziale – il conflitto va usato in modo massimamente strumentale, per raggiungere un obiettivo preciso: suscitare empatia verso il personaggio “Punto di Vista”.

Rifletti: se non entri in empatia con il protagonista, perché mai dovresti continuare a leggere?

Vedremo nel modulo 23B come si costruisce l’empatia (verso vari tipi di personaggi) però intanto abbiamo messo un altro punto fermo.

Regola numero 2: il lettore deve essere predisposto a empatizzare con il protagonista.

Queste due regole sono il minimo sindacale to fill the gap, per colmare lo spazio vuoto che separa la tua opera dal lettore tiepido.

Rispettare le regole 1 e 2 deve essere il tuo obiettivo primario. Sei un fenomeno, se riesci a soddisfarle al 100%. In pratica, nella realtà di ciò che sarai capace di produrre, dovrai scendere a patti. Ma il fatto che il 100% sia virtualmente irraggiungibile, nulla toglie al suo valore paradigmatico, di punto di riferimento.
 
Dopodiché, se riesci davvero ad approssimarle al meglio, e vuoi cimentarti anche in altro, eccoti un ulteriore spunto d’interesse: il cosiddetto gancio narrativo, l’hook.

L’hook – a differenza dell’incipit – è ben definito: è la prima frase della storia, che termina non appena si incontra il punto.
 
L’hook è quindi la prima cosa che si legge tutta d’un fiato, o quasi, per poi fare una pausa.
 
La suggestione sta allora nello sfruttare questa prima frase per “agganciare il lettore” e saldarlo al testo, somministrandogli una scarica di curiosità.

 
 
Capito il giochino? Perché questo tizio si vuole fare una sega a casa di un amico? Fammi leggere ancora, per capire.

Dovresti però intravedere il problema: tutti siamo capaci di agganciare il lettore in questo modo, perché di frasi a effetto, soprattutto se concepite come battute di dialogo, sappiamo tutti produrne a profusione.
 

Come vedi ci riesce il grande Fabio Volo (?) come l’anonimo Andrea Trofino.
 
E se ci riescono tutti, se tutti possono farlo, da Fabio Volo ad Andrea Trofino, il merito dove sta?
 
Tutti siamo capaci a fare tutto, se non dobbiamo rispettare nessun vincolo.

Un personaggio che vuol “segarsi” a casa di un amico non è un esempio di figura empatica. Poi, d’accordo, già al rigo successivo capiamo che “la sega” serve per un esame clinico dello sperma (e lui non vuole farsela al centro medico); ma per altro verso è anche peggio, perché le prime righe – col richiamo alla masturbazione – evocano il sesso, salvo poi rettificare nella riga successiva il vero scopo dell’atto. Tecnicamente, il lettore ha dovuto riconfigurare la scena – aveva immaginato uno stato di cose diverso dalla situazione reale e ha dovuto modificare tutto – e la riconfigurazione di una scena è un errore grave. Dopodiché, d’accordo, la riconfigurazione avviene nel giro due righe, quindi non sarà avvertita come drammatica, ma l’errore concettuale rimane.

La stessa mancanza di empatia la si registra nel testo amatoriale di Andrea Trofino: in che modo, e per quali motivi, dovresti sentirti vicino a un tizio che vuol pagare una donna affinché lo uccida? Lascio a te le considerazioni di merito, come facile esercizio.
 
E già che ci sono ti lascio anche quest’altro testo su cui ragionare.

Ma in fondo è lo stesso problema che avevamo già visto nel racconto L’ultimo caffè (rewriting):

Suono al citofono della troia, lascio il dito premuto sul pulsante.

Acchiappa ’na cifra, ma ci siamo inculati l’empatia.

Se vediamo un personaggio A aggredire un personaggio B, senza sapere nulla né di A né di B, siamo portati a prendere le parti di B, perché l’animo umano vuole una ragione forte, un motivo fondato, per condividere una passione negativa. Peccato, però, che noi volevamo suscitare empatia verso A.

Se non altro, però, quest’ultimo attacco ha il merito di localizzare il personaggio, e quindi anche il lettore, di far sapere dove si trova e di lasciar intendere il suo obiettivo (il personaggio è davanti a un condominio e vuole andare a casa “della troia”, evidentemente con intenzioni bellicose, conflittuali).
 
Che dire invece degli hook di Volo e Trofino? Perché c’è un personaggio che vuol farsi una sega? Perché ce n’è un altro che vuole farsi ammazzare? Se continui a leggere lo capisci, d’accordo, ma qui stiamo analizzando la prima frase – l’hook, il gancio – e ciò che si può capire dalla prima frase. Ovvio che dopo le informazioni arriveranno, ma dopo è dopo, e a noi interessa invece capire cosa stia accadendo adesso.

Se proprio ci tieni ad aprire con un hook, se ti intriga l’idea della giocata di classe al fischio d’inizio, vedi almeno di non auto-sabotarti. Il lettore ti ha concesso un’apertura di credito, nel momento in cui ha preso in mano la tua storia. È già tanto se riesci a preservare la sua fiducia, a non dissiparla. Non hai bisogno di innalzarla all’istante, col rischio di bruciarla.
 
Un buon esempio di hook in un incipit.
La prima frase è un pensiero, che incuriosisce e localizza senza forzature.
Osserva come subito dopo arrivi un flusso molto ricco di azioni e percezioni,
proprio per recuperare all’istante la “fisicità” della scena.
  
Fai attenzione. Rispetta le gerarchie, almeno all’inizio: il settaggio della scena, l’empatia verso il personaggio e la dimensione frattale, rimangono dirimenti e prioritari.
 
Produrre un fuoco d’artificio iniziale, e fottersi il resto dell’incipit, è intelligente quanto sfanculare il grande amore della vita per la scopata di una notte. Fai un po’ tu.

Incipit

Papà già russa, disteso a pancia in su nel lettone. L’odoraccio dei suoi piedi mi fa tossire. Stringo la bambola di pezza tra le mani e lancio un’occhiata di supplica a mamma: almeno stanotte fai dormire me dal tuo lato, ti prego.

Si toglie la vestaglia, sistema Sergio sul lettone e mi sorride. «Dai Adriana, al tuo posto.»

Non ha capito. Vabbè, fa niente.

Appoggio la bambola all
’angolo della stanza e mi sistemo sulla mia striscia di materasso. Stasera puzzano più del solito, non riuscirò mai ad addormentarmi. Li spingo indietro con la schiena per farmi un po’ di spazio, ma un calcio mi riporta sul bordo.

Dallo sgabuzzino proviene un bagliore. Mamma sbuffa.

«Antonietta, Cristina, astutamo ’sta luce!»
 

 
 
Incipit è il mio abbozzo di riscrittura di un brano pubblicato su una piattaforma on-line (ora dismessa).

Mi spiace non aver salvato la versione originale, perché già il semplice accostamento tra il testo concepito dall’autore e la mia rielaborazione sarebbe stato auto-esplicativo di tante cose.
 
Ti dico solo – ripescando tra i miei appunti – che nella versione originale il “Punto di Vista (la bambina) parlava di “afrore” e di “odorose pendici paterne” per indicare la puzza dei piedi del padre (il concetto di registro comunicativo non doveva esser granché presente all’autore); dava poi le misure esatte della casa (48 mq, manco fosse un geometra al lavoro); e stilava infine l’elenco di tutta la gente che ci viveva (come se stesse leggendo lo stato di famiglia).

Gli ho dato una sistemata alla bell’e meglio, e quel piccolo esercizio torna ora utile per vedere all’opera le accortezze da avere nella scrittura di un incipit.
 
La prima frase non sarà il più fascinoso degli agganci, ma ha un pregio: setta la scena con una percezione visiva del personaggio “Punto di Vista (che è sicuramente “un figlio”, anche se ancora non ne conosciamo il sesso e l’età).

La seconda frase è una percezione olfattiva (la puzza di piedi) che sarà ripreso in seguito.

La terza frase completa il settaggio: il dettaglio della bambola ci dice che il “Punto di Vista è una bambina, e trasmette anche una prima localizzazione temporale (una bambola di pezza non sembra un giocattolo moderno) che dovrà poi trovare conferma.

La quarta frase è un pensiero che va in continuità con le percezioni precedenti.

Con la quinta frase (una battuta di dialogo) si viene a conoscenza del nome del “Punto di Vista.

La sesta frase è un pensiero che chiude la dinamica iniziale.

Il capoverso successivo mostra il “Punto di Vista che si mette a letto; riprende e accentua elementi già introdotti (la puzza di piedi) e introduce un minimo di dinamicità (il “Punto di Vista che si fa spazio, il padre che scalcia).

Il passaggio finale introduce altri due personaggi, attraverso la combinazione di una percezione visiva del  “Punto di Vista e di una battuta di dialogo della madre.

Voglio portare la tua attenzione su alcuni punti in particolare:
  • si parte con un conflitto (la bambina vuole dormire accanto alla madre, non ha il coraggio di dirglielo, prova a farglielo intendere, ma non ci riesce); si prosegue con un conflitto (la bambina vuole guadagnare spazio sul lettone, ma il padre la scalcia); e si finisce con un confitto (le due sorelle che dormono nello sgabuzzino tengono ancora la luce accesa, contro la volontà della madre); perché una scena si basa sul conflitto, vive di conflitto e si sviluppa sul conflitto;
  • abbiamo una bambina (un personaggio che il settaggio standard ci porta a percepire “buono”) che viene sottoposta a una serie di piccole sofferenze ingiuste (la madre che non la fa dormire dal suo lato e il padre che la scalcia, per di più con piedi puzzolenti) e che comunque nel complesso non si lamenta (semplicemente pensa – come è naturale che sia – alla fatica di addormentarsi a causa della puzza di piedi);
  • nelle prime due frasi sono presenti percezioni sia sonore (il russare del padre) che olfattive (la puzza di piedi), oltre alla naturale percezione visiva (sempre presente, per definizione) per creare una varietà di stimoli sensoriali;
  • qualunque lettore normodotato capisce da sé – senza bisogno che lo scrittore lo dica – che Sergio è più piccolo di Adriana, e che Sergio e Adriana sono bambini (altrimenti non potrebbero starci nel lettone); così come capisce – senza bisogno che lo scrittore lo dica – che la casa è piccola (nel lettone ci dormono in quattro), la famiglia è numerosa (ci sono altre due bambine che dormono in un locale percepito dal “Punto di Vista come “sgabuzzino”) e non è che se la scialano. Passare queste stesse informazioni dall’esterno in modo asettico (dire che la casa misurava 48 mq) e per di più col registro comunicativo dell’autore anziché della bambina (scrivere “afrore” invece di “puzza”, e “pendici paterne” invece di “piedi”) non solo è un errore pacchiano, ma soprattutto equivale a dare del cretino al lettore (oh, stupido lettore che non sei altro: se non ti spiego tutto, non capisci nulla!); e quando tu pensi che il lettore sia un cretino, e scrivi come se lo fosse, lui, il lettore, penserà che il cretino sei tu;
  • l’uso del dialetto (“astutamo ’sta luce!”) arricchisce il settaggio (in molti avranno capito che siamo in Sicilia, o comunque nel sud Italia) senza richiedere riferimenti extra-testuali (come le abominevoli note a piè di pagina, per indicare la traduzione) perché è tutto il contesto a comunicare il significato della frase (i personaggi stanno andando a dormire, quindi bisogna “astutare” – spegnere – la luce).
Ma soprattutto ti prego di notare la rigida applicazione della “regola delle regole”: non ci sono frasi inutili, ogni frase ha un ruolo e uno scopo, ogni parola conta.
 

Tempus fugit: far passare il tempo dentro una scena

 
Cos’è una scena? Rileggiamo quel che dice zio Bickham.
 
 
Come si deve intendere quel “written moment-by-moment”? C’è da rimanere perplessi, se traduciamo letteralmente: “scritto momento-per-momento”. Siamo sicuri?

Il tuo personaggio è un cinquantenne appena divorziato, e dalla sua bella casa in centro – lasciata a moglie e figli – si è trasferito in un monolocale in periferia. Tu vuoi rendere il senso di solitudine, di depressione, di scoramento, tipico di un momento così. Non serve chissà cosa. Devi solo conoscere la situazione, per via diretta o indiretta, anche parecchio indiretta, se vogliamo: non serve essere davvero un cinquantenne neo-divorziato, basta solo aver vissuto un senso di solitudine, di depressione, di scoramento, che possa riadattarsi a questa ambientazione narrativa.

Puoi ad esempio fargli preparare un piatto di pasta nel silenzio di un cucinino spartanamente arredato (e magari creare il contrasto col ricordo di ciò che erano le cene del sabato sera, a base di pizza fatta in casa, quando ancora apparteneva a una famiglia felice); puoi fargli dimenticare di mettere il sale nell’acqua, e fargli accorgere solo dopo un po’ che la pasta è sciapa, per sottolineare quanto poco ci stia con la testa; e puoi fargli versare direttamente sulla pasta ciò che resta di una bottiglia di salsa in frigo, senza neppure scaldarla, per rimarcare la sua perdita di sensibilità verso le cose. Non servono chissà quali invenzioni. Semplicemente devi sapere cosa stai scrivendo.
 
D’accordo, ma questo benedetto piatto di pasta andrà pur preparato, giusto? E quanto ci vuole – nel mondo reale – a preparare un piatto di pasta? Diciamo tra i 10 e i 15 minuti, tra il mettere l’acqua sui fornelli e lo scolare la pasta. Quindi? Come lo dobbiamo intendere quel “moment-by-moment” di zio Bickham? Dobbiamo davvero mostrare i 15 minuti di preparazione della pasta momento-per-momento? Se al personaggio – nel mondo della pagina – servono 15 minuti per prepararsi il suo piatto di pasta, tu lettore – nel mondo reale – dovrai leggere per 15 minuti le vicende della preparazione del piatto di pasta, perché la storia – dice zio Beckham – va mostrata “moment-by-moment”?

Qualcosa non torna. Cosa vuol dire davvero “moment-by-moment”?
  

 
Moment-by-moment: il trascorrere del tempo in una scena, all’interno del mondo della pagina, deve essere allineato al tempo di lettura della scena, nel mondo reale; il lettore deve avere la sensazione che il tempo che gli occorre per leggere la scena sia commensurabile al tempo che occorre ai personaggi per compiere le loro azioni in scena.
  
Le parole in corsivo sono cruciali: non ho detto che il tempo della scena deve coincidere col tempo di lettura; ho detto che deve essere allineato, che si deve avere la sensazione che coincida, che bisogna creare un’illusione di simultaneità, che il tempo di lettura e il tempo della pagina devono essere commensurabili.
 
Non è così immediato da capire – lo ammetto – perché qui la spiegazione teorica trova un limite invalicabile.
 
Mettiamola così: alcune parole corrono più veloci della realtà (quindi è come se accelerassero il tempo) altre vanno più lente (non riescono a tenere il passo delle dinamiche reali) e altre ancora sono grossomodo allineate.
 
Non esiste però una schematizzazione generale, e bisogna perciò verificarle di volta in volta, in un’analisi case-by-case che rivela le capacità più artigianali nella messa all’opera della scrittura dei mattoncini.

Vediamo degli esempi, giusto per capirci.

Nella versione iniziale del racconto L’eredità compariva questa frase.

L’orologio a pendolo batte cinque rintocchi, il notaio ci sorride.

È una frase sfasata: per leggerla può bastare un secondo, ma al pendolo ne occorrono almeno cinque per battere i suoi rintocchi.
 
Le parole, qui, stanno correndo più veloci della realtà, e in alcuni casi può essere un vantaggio, ma non qui, non in questa specifica frase, dove il rapporto di 5 a 1 tra tempo reale e tempo di lettura crea uno stacco fastidioso.

Questa è la riformulazione corretta.

L’orologio a pendolo batte i suoi rintocchi, il notaio ci sorride.  

Ora sì che funziona: lasciamo pure che il pendolo batta i suoi rintocchi, senza precisare quanti. Il lettore dovrebbe sapere che sono cinque (qualche riga prima un personaggio dice proprio che tra poco saranno le cinque) e magari sentirà l’eco dei rintocchi man mano che legge; e se invece ha già dimenticato che mancavano pochi minuti alle cinque (ma non credo: la battuta del personaggio è piuttosto ravvicinata) sentirà i rintocchi e basta, e va comunque benissimo.

Ora leggi qui:

Maria ci passa accanto con il moccio, che schizza qualche goccia d’acqua. Il direttore si guarda le scarpe nere lucidate a specchio e fa un saltello di lato.
 
Siamo nella situazione opposta. Abbiamo una dinamica rapida, a cui le parole non riescono a stare dietro: tutto si svolge in pochi istanti, ma serve un tempo di gran lunga maggiore per leggere l’intero passaggio.

Nel momento in cui il moccio schizza qualche goccia d’acqua, il direttore avrà fatto un saltello pressoché in simultanea. Prova a visualizzare la dinamica, e ti renderai conto che è proprio così: arrivano gli schizzi, e il direttore istintivamente saltella. Quel “si guarda le scarpe nere lucidate a specchio” rallenta artificiosamente il flusso, allo scopo di passare informazioni sul vestiario del personaggio, e quindi caratterizzarlo. Ma se la scena è veloce, la scrittura deve esserlo altrettanto.
 
Anche la correzione:
 
Maria ci passa accanto con il moccio, che schizza qualche goccia d’acqua. Il direttore fa un saltello di lato.
 
rimarrebbe subottimale, perché le frasi sarebbero separate dal punto, che introduce un stacco forte nel flusso, laddove la rapidità della scena richiederebbe l’uso della virgola (che però qui mal si concilia con un cambio continuo di soggetto).
 
Ti mostro un altro esempio con uno sfasamento ancora più evidente:

Faccio un ultimo esame del ciocco, lo rigiro tra le mani e lo lancio sui faggi medi.

Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo. Il pezzo di legno rimbalza contro un altro, un colpo sordo e finisce sull’erba. 


Il ciocco è probabilmente già atterrato sui faggi medi, nella testa della maggioranza dei lettori, quando leggono la frase “lo lancio sui faggi medi” (perché l’atto del lanciare giunge ai suoi esiti piuttosto in fretta).
 
Poi, però, arriva un “Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo”. Suona parecchio strano. È come se il ciocco (sulla pagina) stesse andando a rallentatore rispetto alla dinamica naturale (nella realtà) solo per dar mondo a Rambaldi di osservarlo. E le precisazioni successive – “Il pezzo di legno rimbalza contro un altro, un colpo sordo e finisce sull’erba” – rafforzano la sensazione di una moviola in campo.
 
Lo si potrebbe sistemare così.

Faccio un ultimo esame del ciocco, lo rigiro tra le mani e lo lancio sui faggi medi: il pezzo di legno rimbalza contro un altro, un colpo sordo e finisce sull’erba.
 
E poi servirebbe trovare un modo per far capire che Rambaldi ha seguito tutta la traiettoria con lo sguardo, ad esempio mettendogli in bocca una battuta di dialogo appositamente scelta (e possibilmente venata di conflitto).

Osserviamo – visto che ne abbiamo occasione – che quel “faccio un ultimo esame del ciocco” è parecchio borderline (formatori meno tolleranti lo qualificherebbero come un errore, punto e basta) e sicuramente non è un esempio di eleganza stilistica: “fare un ultimo esame” significa osservare il ciocco, e se il personaggio sta osservando il ciocco, allora vedrà e percepirà qualcosa, e sulla pagina va riportato quel che il personaggio vive nella sua realtà, e nel modo in cui lo vive, senza riassumere gli eventi con espressioni del tipo “faccio un ultimo esame”.

Ti mostro ora, per concludere, un caso in cui lo sfasamento temporale diventa conclamato:

Rovescia all’indietro le iridi inquietanti e con un braccio mi fa cenno di seguirlo.

«Vieni con me.»

Imbocchiamo un sentiero che sale ripido dietro la baita di Rambaldi. La luce del giorno va affievolendo.

«Siamo arrivati.»
 
 
E qui, se sei entrato nel meccanismo, dovresti essere tu a indicarmi il vuoto temporale oggettivamente insostenibile.
 
Il tempo di lettura dalla battuta di dialogo “Vieni con me” all’altra battuta “Siamo arrivati” sarà intorno ai cinque secondi: ma quanto è breve questo tratto di strada, per poter essere percorso dai personaggi in cinque secondi?
 
Le situazioni – come vedi – sono numerose, variegate e di fatto non classificabili: le parole possono volare, correre, camminare o zoppicare, ma non c’è modo di censirle a priori in base alla loro velocità, perché molto dipende dallo specifico contesto in cui vanno a inserirsi.
 
Ogni frase fa quindi storia a sé, e non c’è altro da fare che che esercitarsi di continuo, per affinare la propria sensibilità. Devi esercitarti fin quando non ti riesce bene.
 
 
Bisogna provare, provare, provare…
 
Gli stralci esaminati ci danno modo di introdurre un “trucco” per trasmettere la sensazione di un tempo accelerato o rallentato all’interno del mondo della pagina, in modo da fasarlo meglio con il tempo di lettura.
 
Tu – arrivato a questo punto del manuale – non scriveresti mai una frase del tipo:
 
Guardo il dipinto attentamente.
 
Non la scriveresti mai perché hai imparato – voglio sperare – a non usare né verbi percettiviavverbi modali, per rappresentare le esperienze sensoriali vissute dal personaggio “Punto di Vista”.

Se il personaggio sta osservando un dipinto, allora vedrà qualcosa, se poco o molto dipende da quanta attenzione sta mettendo nell’osservare, e il lettore capirà quanta attenzione il personaggio sta rivolgendo al dipinto dalla quantità di dettagli che riporterai sulla pagina: molti dettagli percepiti, molta attenzione; pochi dettagli, poca attenzione; l’attenzione è proporzionata ai dettagli comunicati.

Succede però che la quantità di dettagli è pure correlata con la percezione del tempo: più dettagli inserisci, più il tempo sembrerà rallentare; meno ne metti, più sembrerà andar veloce.
 
È ciò che l’autore ha provato a fare nell’ultimo stralcio che abbiamo visto, quando ha scritto “la luce del giorno va affievolendo”: ha riportato sulla pagina una sensazione sommaria del “Punto di Vista” nel tentativo di imprimere un’accelerazione all’ordinario trascorrere del tempo. Buona l’idea, ma non adeguatamente sviluppata.
 
Anche qui – di nuovo – è questione di sensibilità, che si acquisisce solo con un allenamento continuo.
 
Tu potresti scrivere ad esempio una frase così:
 
Busso alla porta del capo e la apro.
 
È una frase che dà luogo a una simulazione molto veloce: il “Punto di Vista” deve evidentemente dire qualcosa di importante al suo capo, e devo dirgliela con un’urgenza tale da giustificare l’apertura della porta senza aspettare di sentire “avanti”, come di regola imporrebbe la distanza gerarchica.

Ma ora immagina una situazione diversa.
 
Il tuo personaggio è uno stagista, arrivato alla fine del periodo di prova in azienda, insieme ad altri dieci stagisti. L’azienda era stata chiara, al momento del loro ingaggio: soltanto tre di loro sarebbero stati assunti a tempo indeterminato, a conclusione dello stage. E oggi è il giorno del giudizio: il capo del personale li sta chiamando a uno ad uno nel suo ufficio per comunicargli la decisione. Sono momenti piuttosto convulsi. Non tutti quelli che tornano dal colloquio hanno voglia di parlare, e alcuni sembrano proprio spariti, non si sono più visti. Il “Punto di Vista” sa solo che lui è il settimo, e delle voci che girano – ma vatti a fidare – pare che due posti utili siano già stati assegnati. Ne rimarrebbe quindi solo uno, e potresti aver preparato tutto in modo da innalzare il livello di drammaticità della scena (a esempio avendo chiarito inequivocabilmente quanto sia importante per il “Punto di Vista” ottenere quel lavoro).
 
Tocca ora al tuo personaggio andare a colloquio con il responsabile delle risorse umane. La segretaria lo annuncia al telefono, e ricevuto l’assenso gli indica la porta dicendogli che può entrare.
 
Impugno la maniglia dorata: è fredda. La giro e il cigolio mi graffia l’anima; il cuore accelera, un rivolo di sudore mi scende sulla fronte.
 
Ecco come il semplice e veloce atto di “aprire una porta” si dilata nel tempo attraverso una sequenza di percezioni – visiva (“maniglia dorata”), tattile (“è fredda”), uditiva (“cigola”) e psicologica (“mi graffia l’anima”) – seguita da sensazioni fisiche: è come se tutto stesse andando a rallentatore.
 
In senso inverso, se costruisci una sequenza non troppo breve (qualcosa in più di un semplice “la luce del giorno va affievolendo”) in cui il personaggio “Punto di Vista” non presta grande attenzione a ciò che gli sta intorno, o meglio ancora, se dosi picchi e cali di attenzione, sfruttando opportunamente il mattoncino [P] del pensiero, ecco che riuscirai a rendere verosimile e credibile il trascorrere di un tempo piuttosto lungo nel mondo pagina, anche se al lettore, nel mondo reale, sono bastati pochi minuti per arrivare alla fine della scena.
 
Ne vedremo un esempio nell’analisi della scena 4 della storia presentata nel modulo 22A, ma intanto tu fai l’unica cosa che ha senso fare: provare, provare, provare
  

Il taglio di scena: far passare il tempo tra una scena e l'altra


Se far passare il tempo dentro la scena è un’arte difficile da trasmettere, il balzo temporale tra una scena e l’altra è oggettivamente più semplice da realizzare (sempre a condizione di non trasformare la tecnica in un automatismo, di non essere pigri, altrimenti il lettore si accorgerà di un meccanismo che deve invece rimanere nascosto).
  

Spaghetti o maccheroni, miele o marmellata?

Apro l’anta della credenza, con un mano afferro un pacco di spaghetti, con l’altra uno di maccheroni. Li mostro a Fabio.

«Secondo te cos’è meglio per la carbonara?»

Si appoggia sullo stipite della porta e incrocia braccia e gambe. «Rimango a cena soltanto se sarò qui anche a colazione.» 

Lascio cadere i due pacchi di pasta. «I pancake li preferisci col miele o con la marmellata?»

Presumiamo vi sia tutta una storia alle spalle di questa scena. Non conosciamo la situazione nei dettagli, ma la intuiamo: lui e lei, lei e lui, un flirt complicato; lui si fa avanti, lei va in retromarcia; lui, indispettito, la snobba e magari ci prova con un’altra; lei a quel punto lo riaggancia, ma lui fa il sostenuto e ora che lei che si indispettisce; lui tentenna, lei lo sta per mandare definitivamente a fanculo, e siamo al punto in cui bisogna smettere di giocare: insieme mano per mano, o ciascuno per la sua strada.

Mano per mano, a quanto ci mostra la scena. Bene. La scena si chiude così, con lei che fa capire di voler fare l’amore con lui. Ottimo. A questo punto, tu scrittore, dio creatore, metti tre asterischi (o qualsiasi altro segno separatore, però mi raccomando la sobrietà; puoi usare delle piccole immagini, o dei disegni, purché pertinenti ed evocativi della storia) e riparti con la scena successiva.

E quale sarà la scena successiva?

La soluzione più ovvia è iniziare con la colazione del giorno dopo, con lui che spalma della marmellata sul pancake, un gesto in linea con la domanda finale di lei. La scena trasmetterebbe un senso di continuità, anche se è stata saltata a piè pari tutta la notte d’amore tra lui e lei, nonché la dormita e il risveglio. Non un rigo, non una parola, su tutto ciò che è successo tra la domanda di lei (“i pancake come li preferisci?”) e il gesto di lui (spalmare la marmellata sul pancake). Quanto tempo sarà trascorso? Direi almeno otto ore. Che sono state tagliate perché non interessava mostrare ciò che accadeva in quel lasso di tempo (nella fattispecie non interessava mostrarli mentre facevano l’amore, perché magari, visto il tono della storia, sarebbe stata una scena fuori luogo, e però si voleva far capire ciò che era avvenuto).

Ci sono altre soluzioni? Quante ne vuoi.

Potresti ripartire con lui sull’altare, ad aspettare lei. La vede arrivare e avvicinarsi lentamente, sotto braccio al padre. Quando gli è accanto, stringe gli occhi e le sorride, e con un tono di cui andrebbe resa l’ironia può sussurrarle qualcosa del tipo “stamattina non c’eri a prepararmi i pancake, dov’eri finita?” oppure “ma tu guarda dove siamo finiti, pancake dopo pancake…” (nell’ovvio presupposto di un profilo psicologico del personaggio che lo porta a fare battute scherzose anche in momenti solenni).

Quanto tempo è passato? Sicuramente mesi, forse anni. Che non hai mostrato perché non ti interessava mostrarli, perché – finite le schermaglie del flirt iniziale – ti interessava ripartire dal loro matrimonio, senza dare conto del (più o meno lungo) periodo di fidanzamento.

È chiaro il meccanismo? Hai capito cosa vuol dire che la scena k alza la palla alla scena k+1?

Non importa quanta distanza temporale ci sia tra k e k+1, e a stretta logica nulla ti vieta di mettere in k+1 degli eventi cronologicamente precedenti a k; conta solo che tra la scene k e k+1 ci sia un aggancio, che k passi il testimone a k+1, che si crei una staffetta tra scene; “just as cause and effect have a pattern, and stimulus and response form a fundamental unit of construction… Just as causes result in effects and stimuli result in responses”, come dice zio Bickham.

L’accortezza tecnica rimane la stessa già vista per le strutture dei dialoghi: il taglio tra la fine di una scena e l’inizio della successiva deve variare da scena e scena, essere sempre diverso, ora un pensiero, ora una battuta di dialogo, ora un’azione o una percezione, e meglio ancora se non è nulla di specifico e circoscritto, ma è l’intera parte finale della scena che sfocia naturalmente nella successiva, o se il collegamento segue una curva e non un segmento (immagina ad esempio che la scena si concluda col personaggio che sale su una scala per cambiare una lampadina; e nella scena successiva lo ritroviamo nella sala d’aspetto di un pronto soccorso; non ci vorrà molto a capire – se la scena è scritta bene – che è caduto dalla scala mentre cambiava la lampadina).

Impara a scrivere, ma soprattutto a non scrivere, a usare i tagli di scena per smazzar via dalla storia tutto ciò che non serve, che non è funzionale allo sviluppo della narrazione, che non concorre a dare spessore a luoghipersonaggi.

Citando H.G. Wells: “Mister Conrad è prolisso; la sua storia non è tanto raccontata quanto intravista attraverso una foschia di frasi. Deve ancora imparare la metà più importante della sua arte: l’arte di non scrivere le cose”.

Non essere prolisso. Impara l’arte di non scrivere le cose.

Fabula e intreccio, medias res, flashback e altre stupidate


 
C’è un momento in cui acquisiti consapevolezza, capisci di aver capito: è il momento in cui realizzi che “fabula”, “intreccio”, “flashback” (“analessi”, per i laureati in Lettere), “flashforward” (“prolessi”, sempre per i letterati), “cornice narrativa”, incipit “in media res” e “gemino ab ovo” – e prosegui da solo, ché mi sono già stancato – sono sovrastrutture più dannose che inutili, per un artigiano della scrittura.

Questo incessante classificare e categorizzare potrà offrire spunti per discussioni filosofiche in ambienti accademici, diventare oggetto di tesi di laurea o dottorato, trovare approfondimenti in circoli di letterati, e sì, ammettiamolo, entrare anche dentro manuali o corsi di scrittura, perché i fruitori se lo aspettano – come i lettori si aspettano una sotto-trama romantica in qualunque storia – e quindi tocca assecondarli, perché il cliente ha sempre ragione, anche se menomato.


Se solo tu appartenessi al genere Homo Sapiens, e non al Neanderthal, potrei evitare di scrivere questa sezione; e invece mi tocca farlo, per dirti cose ovvie per un Homo Sapiens – come sapere che dentro un uovo ci sono albume e tuorlo – ma sconvolgenti per un Neanderthal.

Non esiste nessuna fabula, non esiste nessun intreccio; non esiste nessun flashback e nessun flashforward; non esistono incipit di tipo “A”, di tipo “B”…, di tipo “Z”; non esiste nulla di tutto ciò…


Se chiedi cosa sia una storia a un artigiano della scrittura – a uno che deve scrivere sul serio, che non deve fare il poser né venderti nulla – ti sentirai rispondere che una storia è una sequenza logica di scene, ideata con l’obiettivo di massimizzare l’interesse e il coinvolgimento emotivo del lettore, sotto il vincolo di una piena comprensione della vicenda, momento per momento. Stop. Non c’è altro.

Che l’ordine logico di presentazione delle scene (intreccio) coincida o no con l’ordine cronologico degli eventi (fabula) è una cosa su cui puoi pure discutere, se non hai null’altro con cui trastullarti, ma che non sposta nulla né significa nulla nel processo di costruzione della storia.

Disgraziatamente, sei stato educato all’idea che rettangoli e quadrati siano figure diverse. Ma se in un impeto di ribellione li avessi mai osservati davvero, ti saresti accorto che sono la stessa cosa: quattro lati paralleli a due a due, che incrociandosi formano quattro angoli retti; tant’è che le loro aree si calcolano allo stesso modo; solo che a te – caro il mio Neanderthal – “base per altezza” ti sembra diverso da “lato al quadrato”.

Esistono solo i rettangoli. Se poi a quei particolari rettangoli con base uguale all’altezza vuoi dare il nome di “quadrati”, e se per economia non vuoi più parlare di “base” e “altezza”, ma semplicemente di “lati”, e dire quindi che l’area è pari a “lato per lato”, cioè “lato al quadrato”, fallo pure, ci mancherebbe.


Se vuoi nominare “fabula” quella particolare sequenza logica di scene che coincide lo sviluppo cronologico degli eventi, fallo pure, e non andrai in prigione per questo, tranquillo; e se invece vuoi chiamare “intreccio” un ordine logico sfasato rispetto all’ordine cronologico, fallo pure, e nessuna formazione di squadristi verrà a bussare alla tua porta.

Però, se non ti spiace, io preferirei parlare a questo punto di “Gianna Michaels” e “Brandy Taylor”, così, giusto per rendere la cosa un filo più interessante…

Fabula e Intreccio:
trova le differenze.

Se poi nella tua sequenza logica di n scene, una volta conclusa la scena k, si scopre che la scena k+1 è cronologicamente antecedente, e allora vuoi chiamarla “flashback”, chiamala pure “flashback”, se ti dà gioia; e se invece rappresenta un balzo in avanti nel tempo, e allora vuoi chiamarla “flashforward”, chiamala flashforward, e non litigheremo certo per questo.

Io, al solito, preferisco chiamarle “Angela White” e “Lana Rhoades”.

Flashback e Flashforward:
trova le differenze.

E se la scena 1 della tua sequenza logica di n scene è cronologicamente collocata nel mezzo del flusso naturale degli eventi, e allora vuoi dire che il tuo è un incipit in medias res, ma sì, dillo pure.

A me, invece, piace dire “Monica Roccaforte”.

Ammettiamolo: trovarsi “in medias res” ha il suo fascino vintage.

Fammi un fischio, quando hai finito di spippettarti su quest’orgia di concetti inutili.

Dico davvero: se non hai capito l’inutilità – e peggio ancora, la pericolosità – del dare un nome alle n scene che formano la sequenza logica con cui la tua storia prende forma, allora vuol dire che non hai capito niente.

E se non hai capito niente, allora c’è una sola cosa che devi fare: tornare al modulo 0 e rileggere tutto il blog da capo, fino a qui.

Se ritornato qui, sei ancora convinto che abbia senso battezzare le scene, la procedura è la stessa: ritorna all’inizio e ricomincia.

E vai avanti così, tornando ogni volta all’inizio e rileggendo tutto daccapo, fin quando non ti sembrerà ovvio lasciare ai laureati in Lettere tutte le discussioni su fabula, intreccio e balle varie.
 

Una storia – ci dice zio Bickham – è una sequenza logica di n scene, in cui ogni scena k raccoglie gli esiti della scena k–1 logicamente precedente, e alza la palla alla scena k+1 logicamente successiva, attraverso la tecnica del taglio di scena.

Non c’è nessun vantaggio a introdurre esplicitamente la cronologia, figurarsi a conferirle una dignità teorica meritoria di definizioni. Però si possono avere parecchi problemi.
 
Potresti ad esempio chiederti come si fa a realizzare un flaskback con la tecnica del mattoncino, che è proprio il dubbio del coglionazzo che non ha capito nulla.
 
Il flashback (e il flashforward) nella scrittura dei mattoncini si fa come si fa ogni alta cosa: con il taglio di scena.

Non ho tempo e voglia di inventarmi chissà quale esempio originale, per cui ripiego senz’altro sul caso stereotipato: il “Punto di Vista è il principale indiziato per l’omicidio della moglie, e si trova ora al commissariato, interrogato da un ispettore di polizia. Una banalissima battuta di dialogo può offrire lo spunto per un salto temporale all’indietro. 

L’ispettore si stropiccia gli occhi, sospira. “Signor Fabiani, ho letto la sua deposizione, e sinceramente non c’ho capito un cazzo”. Manda giù con un solo sorso il caffè e accartoccia il bicchiere di carta, mi fissa e sbuffa. “Perciò, adesso, lei mi racconta minuto per minuto dove si trovava giovedì 6 luglio, intorno alle cinque del pomeriggio, quando sua moglie è stata uccisa”.

Taglio di scena, e riparti col “Punto di Vista collocato al 6 luglio, nel luogo in cui si trovava il 6 luglio, ad agire, pensare, parlare e percepire in quel luogo. Fatto. E così il lettore – che sino a quel momento non ne era a conoscenza – saprà cosa ha fatto il “Punto di Vista il 6 luglio, in un tempo “passato” rispetto alla narrazione “presente”.

Vuoi un altro esempio? 

Immagina una ragazza che ha avuto un gran successo con i social: è partita dal nulla, da un paesino di cinquemila anime sperduto sui monti, ed è diventata una influencer con milioni di follower, contesa per sponsorizzazioni di ogni tipo, e con un giro d’affari in continua crescita. Ritorna al paesino per le vacanze di Natale, accolta come una regina. Si ritrova nella piazzetta, il classico luogo di incontro dei paesani, o meglio l’unico. Si siede su una panchina in legno e vede inciso un cuore con l’iniziale del suo nome e del suo primo ragazzo. Ha un sussulto. Gli passa la mano sopra e… taglio di scena.

Si riparte con lei adolescente, a scuola, timida e imbarazza ogni volta che il ragazzo la guarda. E mostrerai cosa è accaduto tra lei e lui, quand’erano dei teenagers (nell’ovvio presupposto che questa informazione sia rilevate per qualificare e far capire meglio gli eventi della tua storia).

La visione del cuore con dentro le iniziali (mattoncino [PSV]) ha suscitato un pensiero sul ragazzo (mattoncino [P]), e quel pensiero ha offerto lo spunto per tornare indietro nel tempo: si riparte con una scena che di fatto è un ricordo del “Punto di Vista (un mega mattoncino [P], se vogliamo) ma sulla pagina apparirà come una sequenza di eventi “qui e ora” articolati con azioni, pensieri, percezioni e dialoghi, con cui quel ricordo prende forma e viene portato a conoscenza del lettore in tutti i suoi dettagli.

Lascio a te, come semplice esercizio, l’ideazione di agganci per i flasforward così come per le cornici narrative.

Dopodiché, lascia che ti dica una cosa in tutta sincerità: la miglior sequenza logica il più delle volte è la stessa sequenza cronologica, quindi il modo migliore di gestire flashback e flashforward è congegnare la sequenza logica in modo da non aver bisogno di flashback e flashforward.

Ecco, brava: la cosa migliore che puoi fare adesso è fartela passare, questa fissazione.

Flashback e flashforward sono espedienti che funzionano bene al cinema, e se ancora non hai capito le differenze tra scrittura e cinema, allora abbiamo un problema.

L’andirivieni nel tempo è una dinamica a cui siamo abituati – che possiamo sopportare, e per alcuni versi persino apprezzare – quando guardiamo la storia da fuori, come avviene al cinema. In scrittura –nel mondo della pagina, dove si presume l’immersione nel personaggio e nella storia – il viavai temporale rischia di produrre un senso di straniamento, se non lo si gestisce con la massima accortezza.

Esserci trasformati in una donna sofisticata, aver interiorizzato la sua psicologia raffinata che guida un comportamento altrimenti indecifrabile, tifare, sperare e temere per lei per la situazione complicata in cui si trova, e ritrovarci a un tratto dentro una bambina, solo perché all’autore serviva comunicare un aspetto del passato del personaggio utile a capire il presente, o peggio ancora senza nessuno scopo preciso, ma solo perché si ha il fetish dei viaggi nel tempo, è un azzardo iniquo.

Fare uso di flashback e flashforward è un segnale di pigrizia, nel migliore dei casi, e di mancanza di sensibilità artistica, nel peggiore.
 
Possibile che non ci sia un modo alternativo di passare le informazioni al lettore, rispetto alla soluzione stereotipata del flashback o del flashforward?
 
E se invece li stai usando solo per tuo gusto e piacere, perché sì, riesci a capire che c’è più arte nelle opere di Gianna Michaels, Brandy Taylor e Angela White, che se non altro riescono a trasmettere un gran piacere a chi le osserva, per quanto effimero?


E visto che ci siamo, chiariamo pure la stupidata dell’incipit in medias res.



“In medias res”, preso alla lettera, vuol dire “nel mezzo dell’argomento”, espressione che – Treccani alla mano – risale ad Orazio, alla sua Ars Poetica dell’anno 148, per riferirsi alla narrativa di Omero, in cui si parte a metà degli avvenimenti, in contrapposizione ad altri poeti epici che cominciano invece “gemino ab ovo”, dall’inizio

In medias res e Gemino ab ovo:
dimmelo, quando hai finito di spippettarti, che così continuiamo.

L’incipit “in medias res” sarebbe quindi una storia che inizia da avvenimenti che si trovano “nel mezzo della storia”.

Ma cosa vuol dire trovarsi “nel mezzo della storia”?

Se la storia inizia con la festa dei quarant’anni del tuo personaggio, siamo “in medias res”? Sicuramente siamo nel bel mezzo della vita del personaggio – quarant’anni alle spalle, e altri quaranta grosso modo ancora da vivere – ma è questo che ci interessa? Ovviamente no.
 
“Nel mezzo della storia” ha un significato tecnico preciso, se prendiamo l’espressione alla lettera: vuol dire “nel midpoint”.

La miglior formalizzazione a oggi disponibile del concetto di “storia”: ne parleremo nel modulo 23.

Vuoi iniziare la tua storia dal  midpoint? Vuoi cioè che nella tua sequenza logica di n scene, la scena 1 sia una scena del  midpoint? Perché è questo che stai dicendo – a rigore – quando dici di voler iniziare “in medias res”. Nulla ti vieta di farlo, per carità. Ma sei sicuro di volerlo fare? Meglio ancora: ti conviene farlo?

Il  midpoint è una sequenza a elevato contenuto drammatico. Vuoi iniziare così? E perché? Per impressionare il lettore con il dramma vissuto dal personaggio? Ma dove vivi? Come puoi pensare di scrivere bene, se neppure ti accorgi dei fatti più elementari che sperimenti ogni giorno?

Tu ceni tutte le sere – tutte le cazzo di sere! – davanti a un telegiornale che ti rimanda immagini di gente morta nella guerra tra Russia e Ucraina e di bambini affogati in mare nel disperato tentativo dei loro genitori di sottrarli alle miserie di chissà quale zona dell’Africa. Nulla di ciò ti ha mai tolto l’appetito, e sicuramente ti infastidisce di più l’insalata mal condita che stai mangiando controvoglia, che non quell’incessante flusso di orrore che scorre sotto i tuoi occhi.

È doloroso ma onesto riconoscerlo: l’animo umano non riesce a empatizzare se non gli si dà un contesto, un’ambientazione, un background, un “prima”.
 
Non sai nulla di quei soldati e di quei bambini, e quindi, sì, che muoiano pure, perché in fondo a te cosa cambia? Speriamo piuttosto che a tua moglie non scappi la mano con l’olio, la prossima volta che condisce l’insalata.

Estratto da Teoria dei Sentimenti Morali, di Adam Smith.
 
Quando ti vien voglia di partire con una scena ad alto contenuto drammatico – a prescindere che con l’espressione (vaga) “in medias res” ci si voglia o no riferire al concetto (tecnico, preciso) di  midpoint – dovresti chiederti quand’è l’ultima volta che le immagini della guerra ti hanno tolto l’appetito o il sonno. Perché se non c’è mai stata un’ultima volta, e con tutta probabilità neanche una prima, se i drammi reali del mondo reale non ti sfiorano, allora vorrei capire come pensi che un lettore tiepido possa sentirsi coinvolto nel finto dramma del tuo personaggio inventato, se prima non gli hai fornito un contesto.
 
Cosa vuoi dimostrare? Quanto sei bravo a maneggiare uno strumento delicatissimo? E se finissi invece col rivelare solo la tua stupidità? Vedi un po’ tu…

Ancora due parole, per metterti in guardia dai cattivi maestri.
 
Li riconosci all’istante da una frase precisa: “il problema di un incipit ‘in medias res’ sta nel fatto che la storia parte in difetto di informazioni verso il lettore”.

No! La versione corretta è: “il problema di un incipit ‘in medias res’ sta nel fatto che la storia parte in difetto di empatia verso il lettore”.

Può sembrare una sfumatura, e forse lo è, ma è una sfumatura che cambia tutto.

Il lettore sarà sempre “in difetto di informazione”, in qualsiasi modo tu scelga di iniziare la storia.

Se il personaggio, al pronti-su-via, è lì che festeggia i suoi quarant’anni, a te, lettore, mancano le informazioni su tutti i 39 anni precedenti.

Il lettore è sempre in difetto di informazione, comunque tu voglia iniziare, perché ci sono e ci saranno sempre infinite cose del personaggio che il lettore non conosce e non conoscerà mai.

E allora? E allora si fa in modo che il lettore non pensi a ciò che non sa, che non gli pesi non avere certe informazioni, perché tu, autore, stai tenendo la sua attenzione concentrata su altro. E questa abilità la devi avere sempre, a prescindere, “in medias res” o non “in medias res”.
 
La classifica dei concetti narrativi più studiati dai dilettanti.

Ma sei sicuro di quel che dici?
 
Tutte le scuole di scrittura parlano di fabula e intreccio, e dedicano intere lezioni a spiegare come realizzare i flashback e i flashforward; e poi ci sono interi capitoli di manuali prestigiosi che spiegano tutte le tipologie di incipit.
 
Sono cose che tutti dicono, di cui tutti parlano, che tutti ripetono…

 
E su questa faccenda, come Forrest Gump, non ho nient’altro da dire.
 

Stati alterati di coscienza: le scene confuse

 
… mi passa la lingua sull’ombelico, poi si sposta dolcemente verso un’anca, e quindi, facendosi strada attraverso il mio ventre, verso l’altra… mi solleva il tallone e passa il pollice sul collo del piede… mentre mi avvolge i seni con le mani… infila l’indice nella coppa del reggiseno… mi avvolge il clitoride… posiziona la punta del pene all’ingresso della vagina…

Lo hai riconosciuto?

È un estratto dal best-seller Cinquanta sfumature di grigio, e precisamente è il passaggio in cui Anastasia perde la verginità.

Sarebbe interessante sapere quante donne hanno percepito un “pene” e una “vagina” – anzi no: un “pene all’ingresso della vagina” – quando stavano per farlo la prima volta: c’è davvero mai stata una donna che ha pensato in questi termini – c’è un pene all’ingresso della mia vagina – in quei pochi secondi che la separavano dalla perdita della verginità?

E poi: è mai esistita – in un momento così particolare –  una donna capace di rimanere talmente fredda, lucida e presente a sé stessa, da tracciare con estrema precisione ogni singolo gesto e movimento del suo compagno?

E davvero pensava al suo corpo in termini di “ombelico”, “anca”, “ventre”, “tallone”, “pollice”, “collo del piede”, “seni”, “indice”, “clitoride”? Ma stava per perdere la verginità o si trovava a una lezione di “Anatomia I” del primo semestre di Medicina?

Questa scena – che ambirebbe a emozionare – si affloscia sulle stesse parole con cui prende forma.
 
È tutto esterno: è come se lo scrittore inquadrasse la scena da fuori, come un regista, ma non essendo un regista – non avendo la possibilità di sfruttare la percezione visiva del lettore – si preoccupa solo di restituirne il senso, senza eccedere nei termini, vuoi per non urtare la suscettibilità del lettore, vuoi perché è complicato selezionare i più adatti.

E a ogni modo, se pure ci fosse mai  stata una donna che in quel momento percepiva “peni”, “vagine” e “clitoridi” – se pure nell’infinità di cose possibili nel mondo reale si è davvero prodotta questa situazione – resta il fatto che qui siamo nel mondo della pagina, dove l’impossibile verosimile è da preferire al possibile non credibile. E quindi, sì, sarà pure esistita una ragazza che ha percepito “peni”, “vagine” e “clitoridi”, ma non è credibile, e perciò sulla pagina non funziona.

Cos’è – nella realtà e quindi sul piano tecnico – la perdita della verginità?
 
È uno stato alterato di coscienza, come lo sono, pur con diverso grado, l’ubriacatura, l’effetto suscitato dalle droghe, o le sensazioni vissute durante o subito dopo un incidente stradale: tutte situazioni dove noi stessi siamo i primi a non capire bene cosa stia accadendo, quindi complicate da trasporre in un flusso narrativo ordinato e realistico.

Ma il fatto che la realtà sia confusa non fa venir meno l’obbligo di chiarezza della scrittura: la scena in sé può essere pure confusa, a causa dello stato di alterato di coscienza del personaggio, ma la scrittura deve rimanere chiara, limpida, senza eccezioni, le parole devono essere sempre trasparenti e il flusso narrativo cristallino, se si vuole che il lettore viva sulla propria pelle l’emozione che si ambisce a veicolare. 
 
Nessuno ti obbliga a scrivere scene confuse, ma se lo fai allora devi scriverle in modo chiaro. Così come nessuno di obbliga a scrivere scene di sesso – o di violenza, o di altre dinamiche aspre – ma se decidi di farlo, allora lo devi fare da dentro il personaggio, riportando sulla pagina ciò che il personaggio prova e sente, nei termini appropriati per esprimere sensazioni e stati d’animo del personaggio, senza edulcorazioni, senza censure, anche se la vividezza delle parole rischia di “disturbare” qualche lettore.

E a ogni modo – ti ripeto – nessuno ti obbliga a scrivere scene che non hai la capacità o il coraggio di scrivere, anche perché nessuno si accorgerà di ciò che non hai scritto; ma in tanti potrebbero notare quanto male hai riportato sulla pagina ciò che non eri in grado di rappresentare, qualunque fosse il motivo.

Come il medico e il carabiniere: sempre in servizio

 
Finalmente l’altro ieri ci sono riuscito – non per i miei sforzi, ma per la grazia del Signore. Come un lampo improvviso, l’indovinello è stato risolto. Non sono in grado di spiegare qual è stato il filo conduttore che ha connesso quello che già conoscevo con ciò che ha reso possibile il mio successo”.
 
Sono parole di Johann Friedrich Carl Gauss, il princeps mathematicorum, il più grande matematico di tutti i tempi.

Una sensazione simile viene segnalata anche da William Hamilton, l’inventore dei “quaternioni”, una classe di numeri un po’ stramba per il senso comune (numeri che non servono né a contare né a misurare, numeri che non quantificano nulla, eppure numeri a tutti gli effetti).
 
Hamilton racconta di un’idea che gli balenò dopo anni di studio “come un circuito elettrico che si chiude”, mentre passeggiava lungo il Royal Canal. L’emozione fu così intensa da spingerlo a incidere la formula sul parapetto del Brougham Bridge, dove oggi si trova una targa commemorativa dell’evento. “Mentre qui passeggiava, il 16 ottobre 1843 Sir William Rowan Hamilton, in un lampo d’ispirazione scoprì la formula fondamentale per la moltiplicazione dei quaternioni, e la incise su una pietra di questo ponte”.
 
 
La grazia del Signore? Lampi di ispirazione? Circuiti che si chiudono all improvviso?
 
Ma davvero? È mai possibile?

Fermiamoci e ragioniamo.

Le esperienze raccontate da Gauss ed Hamilton sono in realtà comuni a chiunque abbia studiato.

Sei alle prese con un argomento, lo studi ogni giorno, ci sbatti la testa di continuo, ma non riesci a farlo tuo. A volte hai la sensazione di averlo afferrato, ma subito dopo ti scivola via, come un’anguilla. Non lo capisci perché – fondamentalmente – non riesci a connetterlo con il resto delle tue conoscenze, a saldarlo con tutto ciò che già sai. È come se fosse un post-it appicciato sul bordo dello schermo del pc: ora c’è, ma potrebbe cadere da un momento all’altro, per un colpo di vento, o anche solo per l’indebolirsi della colla. Sei stanco, esasperato, scoraggiato. Continui a pensarci, a rifletterci, ma più vai avanti più vieni sopraffatto dalla sgradevole sensazione di uno sforzo inutile. Ti senti come un criceto sulla ruota: hai percorso chilometri, e non ti sei mosso di un passo. Basta: un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto. Devi ammettere, per quanto ti bruci, che la tua intelligenza ha un limite: non puoi capire tutto, non puoi sapere tutto. Lasci stare, abbandoni, molli, dichiari la resa. Smetti di pensarci.

Sei sotto la doccia, dopo una bella corsa di dieci chilometri in un’ora. Ti sei insaponato più volte, ti sei fatto lo shampoo, e ora ti godi, a braccia incrociate, il getto d’acqua calda sulla testa. Sei in una di quelle rare fasi dove il cervello è completamente sgombro: nessun pensiero, nessuna riflessione, niente. Solo lo sciabordio dell’acqua, e… boom! Ecco arrivare la soluzione al problema, così, di colpo, tutta intera, come fosse un pacco Amazon recapitato dentro la tua intelligenza.

Da quanto tempo non pensavi a quell’argomento? Settimane? No. Mesi, altroché. Forse parecchi mesi. E addirittura anni, in alcuni casi. E ora è tutto chiaro. All’istante. Sotto un getto d’acqua calda, dopo aver dichiarato la resa.

Hai davvero la sensazione di una rivelazione, di un lampo di genio, di un circuito che si è chiuso, non sai come ma si è chiuso, non per tuoi meriti, ma per la grazia del Signore.

Possibile?
 
Se fosse davvero “una grazia del Signore”, allora bisogna pure riconoscere che il Signore concede le sue grazie a una classe di individui ben precisa.

Io non ho conoscenze specifiche di neuroscienze, ma questo meccanismo è sufficientemente noto, diffuso e divulgato – e soprattutto sperimentato su sé stessi – da poter essere rappresentato con buona approssimazione persino da me.

Il tuo cervello – di base – non ti vuole bene. Al tuo cervello interessa la sopravvivenza, non l’evoluzione. È come se trattenesse memoria dei tempi in cui la più grande ambizione era arrivare vivi al giorno successivo, e solo di quello si preoccupa ancor oggi: di tenerti in vita, di non farti sperperare energie.
 
Risolvere un’equazione differenziale, avventurarti nel mistero del dualismo onda-particella degli oggetti fisici, ricostruire gli eventi del Risorgimento italiano, capire la differenza tra un sistema giuridico di civil law e uno di common law, o anche solo realizzare una sceneggiatura a regola d’arte, sono tutte cose inutili, che non servono alla tua sopravvivenza, e rischiano anzi di comprometterla, perciò non potrai mai contare sul supporto spontaneo del tuo cervello per venirne a capo.

A meno che tu non riesca a convincere il tuo cervello che quelle cose, per te, sono importanti, maledettamente importanti, e perciò – cazzo! – datti una svegliata e aiutami, perché senza di te – mio caro cervello – non ce la posso fare.

E come fai capire al tuo cervello che quelle cose sono importanti? Ovvio: focalizzandoti su di esse, ragionandoci di continuo, portandole consapevolmente al centro dei tuoi pensieri. Fallo oggi, fallo domani, fallo dopodomani e dopodomani ancora, e alla fine, sì, il tuo cervello capirà: queste cose sono importanti, devo lavorare su queste cose.

È come se il tuo cervello avesse bisogno dell’autorizzazione a ragionare su certe cose, e questa autorizzazione puoi rilasciargliela solo tu, concentrando coscientemente i tuoi sforzi su quelle cose. A quel punto, una volta che il cervello si sentirà autorizzato, inizierà a lavorarci per conto suo, in background, in modi e forme che tu – al livello conscio – non percepirai.

Lui – il tuo cervello – è lì che macina, senza che tu te ne accorga: va alla ricerca di collegamenti tra quello specifico argomento e tutto ciò che è già contenuto nei suoi depositi di conoscenza; allaccia e intreccia, crea nessi di causa-effetto e meccanismi di feedback; rielabora, sottopone a test di congruenza e ricomincia da capo. E quando ritiene di aver finalmente raggiunto un risultato valido e attendibile, ecco che te lo spedisce. Magari quando sei sotto una doccia calda, dopo una corsa di dieci chilometri.

Capito il meccanismo? È simile a un terremoto. Le sotterranee forze telluriche si mettono in movimento, si intrecciano, prendono forza, si diffondono, ma noi, sul suolo, non ci accorgiamo di nulla. Fin quando… ommiodio, il terremoto! Ma quelle forze bisogna attivarle, e l’unico modo è lanciare consapevolmente scariche sistematiche sulla superficie visibile.
 
Questo è esattamente il processo operativo per la scrittura di una scena.

La scrittura è un’attività distinta in due passi logicamente e temporalmente successivi: la “fase di scrittura” e la “sessione di scrittura”.

La “sessione di scrittura” è quando ti siedi davanti al pc e inizi a battere i tasti. La “fase di scrittura” è tutto il resto.

La “fase di scrittura” consiste nel pensare alla tua scena di continuo, tutte le volte che nei hai occasione: quando sei in fila al supermercato, quando aspetti l’autobus, quando sei in metro per andare al lavoro, quando corri nel parco, quando prepari da mangiare, dopo aver fatto sesso (o anche durante, se il partner non è poi granché) nel mezzo di una riunione di lavoro (che il più delle volte, dopo i primi dieci minuti, non hanno più nulla di utile) e via così.

Devi pensare alla tua scena… sempre! D’altra parte la scrittura è la tua grande passione, no? E cos’è una passione se non una cosa che si desidera fare di continuo, di cui non si è mai stanchi? Quindi, se davvero la scrittura è la tua passione, allora – by definition – tu non vorrai far altro che pensare alla tua scena. E pensando di continuo alla tua scena, mettendo la scena al centro dei tuoi pensieri, farai capire al cervello che la tua scena è una cosa fottutamente importante. E così anche lui comincerà a lavorarci per conto suo, in background, sottotraccia, con una potenza immaginativa pari a un multiplo di quella che tu puoi avere a livello conscio.
 
Quando avrai pensato alla tua scena così tanto da non poter più pensare altro, quando te la sarai riscritta in testa centinaia di volte, quando la “fase di scrittura” sarà ultimata, allora potrai andare allo step successivo, alla “sessione di scrittura”.

Ti siederai al computer, a scrivere materialmente ciò che fino a quel momento hai covato nella tua testa, che nella tua testa ha fermentato e decantato, e che ora va riversato sulla pagina, battendo i tasti del pc.

Inizierai la “sessione di scrittura” e… boom, boom, boom, boom! Il tuo cervello ti manderà di continuo i risultati del suo lavoro in background: soluzioni originali, innovative, raffinate, eleganti, particolari, ricche di sfumature e particolari; tutte cose a cui – consapevolmente – non eri arrivato e a cui non saresti mai arrivato, se ti fossi messo direttamente a scrivere; tutte cose che potevano essere cavate fuori solo dall’inconscio, ma che il cervello doveva prima essere autorizzato a cavar fuori, attraverso la “fase di scrittura”.

Ti eri seduto al pc per scrivere una scena di un certo tipo, e non dico che ne hai scritta una completamente diversa, ma di sicuro quella che ora hai materialmente scritto assomiglia a quella che immaginavi di scrivere come Scarlett Johansson assomiglia alla più bella scimmia del pianeta.

Trova le differenze.

Separa le cose: la “fase di scrittura” da un lato, la “sessione di scrittura” dall’altro.

Non è vero che “non hai tempo per scrivere”.

La “fase di scrittura” puoi eseguirla di continuo, anzi, vorrai eseguirla di continuo, se la scrittura è la tua passione, perché – per definizione – un appassionato di scrittura vuole trovarsi di continuo in “fase di scrittura” e la vita gli offre sempre la possibilità di esserlo.

La “sessione di scrittura” – una volta esaurita la “fase di scrittura” – può richiedere anche meno di un’ora al giorno.

Non riesci a dedicare meno di un’ora alla tua passione? Ma allora, scusa, che passione è? Come fai a dire di essere appassionato, se non riesci a ritagliarti nemmeno un’ora per una cosa che – a prestar fede a quel che dici – ti reclama di continuo?
 
Non sarà, per caso, che sei solo uno dei tanti che danza intorno al falò delle vanità?
 
 
La vanità: il peccato preferito del diavolo.



 
Vivete con gioia e semplicità, state buoni se potete…
… e soprattutto notate il conflitto dal minuto 1.27.

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