Modulo 15F – Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si

 

È possibile trasferire la musica dal mondo reale al mondo della pagina, far percepire le note sulla pagina anche solo in via largamente approssimata rispetto a ciò che sentiamo nella realtà?

Ne abbiamo accennato nel modulo 6 e abbiamo ripreso l’argomento nel modulo 9. La risposta – in breve – è “sì, è possibile: come è possibile partecipare al più iniquo dei giochi d’azzardo, nella speranza di far saltare il banco”. Fallo, se vuoi, ma non ti lagnare se poi ti ritrovi al monte dei pegni, nel vicoletto buio perpendicolare al viale scintillante del Gran Casinò.

Fine del post. O forse no. Dipende da te.

Pillola azzurra: fine della storia, domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quel che vorrai.
Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio.

È ormai un luogo comune – una tesi sostenuta a piè sospinto – l’importanza del contatto con gli attori, per chi coltiva ambizioni di scrittura: se ciò che si trova sulla pagina deve essere “recitabile su un palco” – tecnicamente: simulabile – non c’è niente di meglio che imparare da chi sul palco ci sta per mestiere.

Non si è mai pensato – a mia conoscenza – che altrettanti vantaggi si potrebbero avere dal contatto con il mondo dei musicisti. Pensa alla punteggiatura, giusto per dare l’esempio più elementare: saper piazzare virgole, punti e punti e virgola, è spesso una “questione di orecchio”, che richiede sensibilità verso le qualità musicali del linguaggio (di là delle regole formali, per le quali ti suggerisco il Prontuario di punteggiatura, di Bice Mortara Garavelli). E andando all’opposto, a un caso di elevata complessità, è stato per me sorprendente scoprire le affinità tra i modelli di progettazione delle storie e i motivi di fondo nella composizione dei brani musicali, che a volte diventano addirittura identità, come vedremo in conclusione del modulo 23B, ma come ho piacere di anticiparti già ora.

Una lettrice del blog mi ha proposto questa parafrasi – lei dice “al limite dell’imbarazzante”, ma in realtà molto ben centrata – del brano Des Abends (Nella sera), di Robert Schumann.

Il brano si apre senza alcun tipo di tensione, l’armonia gira sulla propria tonalità (arpeggi e note di passaggio sulla tonica) senza lasciar presagire alcun movimento, o stato tensivo.

Nel secondo periodo poi, con espedienti tecnici (pedale, settime diminuite: lasciamo perdere, sfronda la tecnica) la musica cambia, qualcosa stona, ci stiamo muovendo verso (altro tecnicismo) una tonalità dominante ma minore, che in musica significa che non ci giriamo intorno, ma ci andiamo decisi verso questo cambiamento, e la sensazione all’ascolto è quella di una forza di volontà che catalizza il movimento stesso, il cambio di tonalità è ineluttabile perché voluto dall’armonia e peraltro si cambia verso una tonalità minore, che induce quantomeno ‘tristezza’, o ‘aspettativa di incertezza’.

Entriamo nell’episodio secondario di transizione che ci troviamo in divenire, il compositore modula ancora e si sposta verso un’altra tonalità, maggiore stavolta, e lo sottolinea pure (le proprietà luministiche sono un ‘modo di dare colore’, di conferire importanza ad un passaggio armonico) confermando al contempo un senso di staticità che lascia l’ascoltatore ‘felicemente disorientato’: ci muoviamo ancora o ci fermiamo? Dove stiamo andando? Come finirà?

Schumann la chiude con quello che il critico considera un “geniale compromesso-commistione” (salto nuovamente i dettagli tecnici, non preoccupartene nemmeno tu) che porta a chiudere l’ascolto con una sensazione di ‘riposo nella tensione/tensione nel riposo’, un equilibrio difficilissimo da trovare.

D’altronde era Schumann
”.

Non importa se ora hai capito poco, o magari nulla. Si è offerta un’occasione per dare risalto a un punto di grande rilevanza, ed era bene sfruttarla, perché è qui che dovrai tornare, a questa audace narrazione di un brano musicale, per interiorizzare la matrice comune ai meccanismi emozionali, indipendentemente dalla loro forma esteriore e dai tecnicismi di esecuzione. 
 
L’interazione tra scrittori e musicisti – il confronto sullo spazio di confine tra le due discipline – è un filone non indagato come meriterebbe, e di conseguenza non ancora sfruttato in tutte le sue potenzialità; e può essere interessante avviarlo proprio sul tema di base – come rappresentare la musica nella pagina? – andando oltre la zona di conforto del mainstream, per lavorare con logica transdisciplinare, sull’incerta frontiera.

Intra-disciplinare: lavorare all’interno di un’unica disciplina.
Cross-disciplinare: osservare una disciplina dalla prospettiva di un’altra.
Multi-disciplinare: figure professionali ognuna specializzata in una disciplina,
che lavorano insieme attingendo ognuna alla propria conoscenza disciplinare.
Inter-disciplinare: integrazione di conoscenze e metodi di diverse discipline,
attraverso una sintesi ragionata della diversità di principî, metodi e tecniche.
Trans-disciplinareunità di quadri intellettuali, oltre le singole prospettive disciplinari.

Cosa dice il mainstream?

Dice – sostanzialmente – che ogni tentativo di rappresentare la musica in scrittura equivale a una sequenza di sorteggi da urne con palle nere (a tuo sfavore) e palle bianche (a tuo favore). Sorteggiamo dalla prima urna: se esce una palla nera (il lettore non ha riconosciuto la musica) il gioco è finito, e hai perso. Se esce una palla bianca (il lettore ha riconosciuto la musica) allora si sorteggia dalla seconda urna: se vien fuori ancora una palla bianca (quella musica gli suscita sensazioni concordi con lo stato emozionale della scena) hai vinto, se invece ti ritrovi con una palla nera (quella musica gli suscita sensazioni discordi rispetto allo stato emozionale della scena) hai perso.

Qual è il problema? Che le palle nere sono molte di più delle bianche (sicuramente nella prima urna, e probabilmente anche nella seconda). Quante di più? Non lo sai. Sai solo che sono di più, molte di più, davvero troppe per farti prendere un rischio così grande, se vivi la scrittura con professionalità.

E allora? Rinunciamo a rappresentare la musica in scrittura? Sì, rinuncio, direbbe uno scrittore. Non rinuncio affatto, gli replicherebbe un musicista.

Quando le cose si fanno troppo complicate” – ammoniva il matematico Enrico Bombieri – “conviene fermarsi e chiedersi: mi sono fatto la domanda giusta?”.

A volte bisogna accettare di giocare a un altro gioco, se si vuole venire a capo del gioco originario: bisogna cambiare domanda.
 
Nessuno è mai venuto a capo di nulla, finché ha provato a scovare una regola semplice per la generazione di numeri primi. Ma quando Gauss cambiò gioco, quando si pose un’altra domanda – non più “quale regola genera i numeri primi?” bensì “che probabilità c’è di estrarre un numero primo da un’urna che contiene i primi N numeri naturali?” – ecco che prese il via uno dei più affascinanti filoni di ricerca matematica.

Io voglio provare a simulare la musica sulla pagina nell’unico modo in cui è possibile vivere la musica ‘con eleganza’ nel mondo reale: come esperienza emotiva guidata, rendendola unica, irripetibile ed estemporanea” – mi scrive la lettrice del blog – “Nell’evocare un’esperienza di ascolto, io scrittore mi propongo di ricreare nella mente del lettore emozioni simili – se non identiche – a quelle che proverebbe se ascoltasse una musica che non conosce, per la prima volta, nel mondo reale”, in modo da “evitare che il lettore porti con sé le sue esperienze di ascolto pregresse”, e quindi con l’impegno a “camuffare qualsiasi traccia esplicita che renda riconoscibile il brano”.  

Chiaro, sì? Perché prendersi rischi inutili, scommettendo non su una, ma addirittura su due carte verosimilmente perdenti? Riproduciamo piuttosto sulla pagina un’esperienza di primo ascolto, di ascolto di una musica mai sentita prima – dal personaggio e quindi dal lettore – e passiamogli emozioni sfruttando proprio la sua “verginità”.

L’impostazione postula un fatto ovvio: chi ascolta della musica non può “reagire con insindacabile libertà emotiva” a ciò che sente.

Nel caso in cui nel tuo animo sopravviva ancora questo mito – e diciamo meglio questa superstizione – vedi di disfartene quanto prima: non solo per poter seguire e apprezzare come merita questo post, ma perché altrimenti non potrai capire nulla nemmeno delle tecniche di progettazione delle storie.

Ragiona! Se lo scopo è “far emozionare” – con la musica, la narrativa o qualsiasi altra forma d’arte – si presume senza possibilità di smentita che tu abbia il sostanziale controllo dei meccanismi emozionali, che tu sappia quali corde toccare nell’animo umano, è proprio il caso di dire.

Ovviamente, quando ascolti della musica puoi anche “non cogliere in alcun modo la tecnica che soggiace all’esecuzione” e “non renderti conto dell’impalcatura armonica”, così come quando leggi narrativa puoi non avere la consapevolezza di fronteggiare il cosiddetto arco di trasformazione del personaggio; ma le emozioni che proverai – nell’uno e nell’altro caso – derivano da una base di partenza, da un solco, che è comune a tutti gli esseri umani, o almeno a tutti coloro che non sono affetti da gravi e manifesti deficit fisici, intellettivi o psicologici.

Ascoltando le prime battute de La danza dei cavalieri di Prokofiev, se queste non suscitano in te alcun tipo di tensione, se non presagisci alcun dramma montare dal profondo del tuo inconscio, è altamente plausibile che tu soffra di un qualche squilibrio biochimico.
 
Se invece che suscitare tali emozioni l’ascolto ti provoca un’emozione di incontenibile gioia, o di leggiadro benessere, allora la probabilità che tu sia uno squilibrato diviene pressoché una certezza.
 
Se, ascoltando questo brano, non si producono in te emozioni di alcun genere, allora sei candidato per la diagnosi di una sindrome che abbiamo riconosciuto una decina di anni fa, l’anedonia musicale; parimenti potresti soffrire di amusia (congenita, traumatica; è l’equivalente musicale della dislessia)”.

In sintesi: ascoltando musica – così come leggendo narrativa – ognuno potrà provare sfumature emozionali differenti, com’è inevitabile, ma sempre ben circoscrivibili nei confini di una stessa emozione primaria; e si vuole allora sfruttare questa universalità “per rendere gli effetti di un’esperienza di ascolto vissuta dal personaggio senza paura di ‘sbagliare’ l’emozione da rendere”.

Ti mostro il brano con cui la lettrice del blog si è cimentata in questo esercizio – a mia conoscenza del tutto innovativo – non prima però di una precisazione fondamentale.

Il brano mi è stato inviato quando le pubblicazioni erano arrivate al modulo 7. L’autrice non conosceva quindi il blocco di qualificazioni stilistiche che correda la scrittura dei mattoncini, contenuto nelle varie sezioni di questo modulo. Sarebbe pertanto unfair – ingiusto, scorretto – rinfacciarle alcune sbavature testuali contro cui non aveva alcuna difesa, nel momento in cui ha scritto il brano. Sono peraltro sbavature marginali, correggibili, a conferma che il testo si regge, ha una sua validità.

Pure, l’autrice si è cimentata nell’esecuzione a più elevata complessità: “faccio l’esempio più difficile che posso, nell’alveo di una questione già di per sé complessa: prendo la musica classica, in particolare l’orchestra. Con la musica leggera sarebbe stato più ‘agile’ lavorare, in questo senso; per non parlare poi di studiare quelle musiche nate a uso e consumo dell’emozione immediata, come le colonne sonore cinematografiche”.

Qualunque osservazione di merito non potrà prescindere da questi elementi al contorno.

Giusto per darti due coordinate: siamo in un contesto erotico, e precisamente all’interno di pratica di bondage, in cui il Padrone è l’uomo e la Schiava è la donna (che rappresenta il personaggio “Punto di Vista”). La troviamo raggomitolata sul proprio letto, da sola e al buio, in condizioni psico-fisiche precarie, ma in uno stato che rimane vigile e cosciente.

 
Cosa ha voluto fare l’autrice? Secondo quali paradigmi ha ragionato? Su quali basi tecniche?

Riprenderò le sue parole testuali, e spesso le farò mie, ma solo per evitare di vedermi rivoltare contro la mia convenzione di scrittura (ho scelto di virgolettare e scrivere in corsivo tutto ciò che riporto come citazione testuale, con l’intento di dare massimo risalto alla citazione; ma qui verrebbe un lungo testo tutto in corsivo, che sarebbe fastidioso da leggere; meglio quindi non introdurre elementi distrattivi).

L’autrice ha anzitutto fatto leva sulla reminiscenza di alcuni suoni di base, in particolare archi, tamburi e fiati, che si presumono noti al lettore giacché può trovarli ovunque – dalla colonna sonora di un film della Marvel alla musica di un videogioco, da una sinfonia di Beethoven alla melodia della pubblicità della Barilla – suoni che riconosciamo anche solo inconsciamente, sin da piccoli, senza che nessuno ce li spieghi, e che associamo intuitivamente, sin da bambini, ai suoni prodotti da Madre Natura.

Anche a voler sostenere l’insostenibile – a voler dire che il lettore non ha mai sentito un violino o non sa quale suono produce la bacchetta che percuote un tamburo – si potrebbe sempre obiettare che il lettore ha l’esperienza acustica del battito del proprio cuore (mutuata dagli uomini primitivi per creare le percussioni) così come l’esperienza acustica della propria voce che risuona tra le ossa del cranio quando parla.

Secondariamente, l’autrice ha recuperato dei termini di uso comune nella disciplina musicale per descrivere l’altezza, l’intensità e il timbro dei suoni (scrocchiare, pizzicare, vibrare sono parole tipiche per descrivere il suono degli archi; squillante è un attributo del suono dei fiati).

L’ha fatto non già con l’illusione che esistesse “la parola giusta” per restituire un insieme di variabili così complesse, ma con l’obiettivo di selezionare un attributo tipico del suono in oggetto, che era indispensabile restituire al lettore (ad esempio il pizzicato, il vibrato) per facilitargli l’evocazione della percezione sensoriale, per canalizzare con massima chiarezza una sola, specifica emozione.

E qui voglio riportare il passaggio testuale, perché non sarei in grado di sintetizzarlo con la necessaria efficacia.

Le parole che si usano per descrivere laltezza di un suono, portano in sé un’onomatopea che esplica l’altezza del suono.

Nell’analisi armonica, le parole impiegate si portano dentro lintensità di ciò che rappresentano: pensa alla focalizzazione sulle due ‘e’ dovuta all’accento nella parola ‘greve’. In analisi armonica le parole possono riuscire a portare addirittura l’estensione: compara ‘greve’ con ‘squillante’ e pensa a come devono muoversi diversamente le tue labbra per pronunciarle: più apri le labbra, più aumenti l’estensione, più alzi l’intonazione.

La concatenazione di parole, insomma, rende una serie di fattori diversi – certo non un’armonia completa; ho capito, in narrativa si procede in maniera sequenziale, ma avremo pure margine di manovra, perlomeno in territori sfumati come quello dove ci siamo avventurati, oppure no? È ben arduo circoscrivere quali parole scegliere e come metterle in fila per avere in cambio tale resa.

Ma credo che esercitandosi con degli obiettivi commisurati alle proprie capacità, sia possibile scegliere parole appropriate e metterle propriamente in sequenza”.

Da ultimo, l’autrice ha impiegato parole suscettibili di rendere l’ascensione e la discensione tipiche della melodia (i violini che provano ad avanzare, e poi arretrano e si ricompattano; i tamburi che battono un colpo su due; e così via).

Manca una cosa importante, per sua stessa ammissione: il ritmo.
 
Nel mio indecoroso esempio non mi spingo oltre l’idea di rendere gli effetti ‘emotivi’ delle scale tonali e l’idea di un ritmo lento e pesante, quasi una marcia, ma a passo di danza” (in generale, sì, il ritmo e le sue variazioni sono le prime informazioni percepite di un brano, ma anche le più complesse da restituire sulla pagina).



L’esperimento ha avuto successo? Si? No? O magari – come si dice – l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto?

Difficile a dirsi, per più d’una ragione.

Il testo andrebbe innanzitutto sistemato nei suoi (piccoli) errori di scrittura, se non altro per far risaltare meglio ciò che voleva trasmettere. Piccole cose, comunque, che è possibile aggiustare senza sforzi eccessivi.

C’è piuttosto un’oggettiva impossibilità a concludere sulla buona riuscita per il solito problema del “settaggio”.
 
Lo avevamo già incontrato negli esercizi di rewriting (L’ultimo caffèPoker d’assiCome viaggiare gratis), ne abbiamo parlato nel modulo 15A, e qui ritorna prepotente.
 
È complicato giudicare una singola scena – quando non è un incipit – perché la singola scena presume un contesto intorno, esplicito o implicito. È il motivo per cui negli esercizi di rewriting si può aver provato, qua e là, una sensazione di straniamento: non perché la scrittura fosse in sé sbagliata, ma perché a tratti appariva un po’ come la particella di sodio nell’acqua Lete: isolata. E – mancando il contesto – ogni lettore ne avrà creato uno di sua iniziativa, perché il lettore ha sempre bisogno di un contesto, e se lo scrittore non glielo fornisce, allora se lo crea da solo, per poi magari entrare in confusione quando il suo contesto implicito “stona” con il clima della scena.

Prendiamo ad esempio il racconto L’ultimo caffè. Magari più d’una lettrice sarà rimasta sorpresa nel vedere che la ragazza aveva lavato, stirato e inamidato i vestiti del suo ex, per poi piegarli con cura e riporli in un bel bustone, affinché potesse portarli via senza problemi. Le tue cose, io, te le lascio ammonticchiate sul pianerottolo, così come le trovo, e vedi di farle sparire in fretta per non crearmi imbarazzi con i vicini; sempreché, s’intende, non te le abbia già lanciate dal balcone.

Sarebbe un pensiero legittimo, perché la scena “piove dal cielo” – senza un contesto, senza l’aggancio con scene precedenti che la giustifichino e la rendano plausibile – perciò il lettore è in deficit di informazioni, e lo colma con un settaggio standard (le separazioni sentimentali, di regola, sono traumatiche, non pacifiche) che però confligge con il clima della scena, e manda in confusione.

Siamo al punto: una scena è “intonata” o “stonata” – giusta o sbagliata, funziona o non funziona – non in senso assoluto, ma rispetto al flusso di scene in cui va a inserirsi, proprio come una nota in uno spartito.

Qui – addirittura – non abbiamo neanche una scena, ma una micro-scena, per cui è oggettivamente complicato pronunciarsi sulla sua tenuta.

Il problema del “settaggio” – o del framing, per usare il gergo delle scienze cognitive – è generale: noi abbiamo bisogno di inquadrare le cose in un contesto, per riconoscerle e apprezzarle; in assenza del contesto adeguato, e a più forte ragione in presenza di un contesto inusuale, possiamo arrivare a non percepire più nulla, anche a parità di stimoli oggettivi.
 

Nel gennaio 2007 il celebre violinista Joshua Bell
organizzò un mini-concerto di 6 brani nella metro di Washington
ed eseguì con il suo Stradivari del 1713, da 3,5 milioni di dollari,
alcuni dei più famosi e difficili brani di Bach.
Soltanto 6 persone si fermarono e rimasero ad ascoltarlo per un po,
mentre 20 passanti gli diedero qualche spicciolo, per poi proseguire per la loro strada.
Dentro la confezione del violino, alla fine dell’esperimento, c’erano ben 32 dollari:
nessuno notò che uno dei migliori musicisti del mondo
aveva suonato alcuni tra i pezzi più difficili della storia con un violino preziosissimo.
Tre giorni prima, Bell aveva suonato in un concerto alla Symphony Hall di Boston,
dove i biglietti costavano 100 dollari e vi era stato il tutto esaurito.
 
Ogni esperienza di ascolto musicale – e più in generale di contatto con l’arte – presuppone una fase di preparazione, di predisposizione, per quanto semplice. Un settaggio preliminare è richiesto anche solo per godersi la recita dei propri figli a scuola: spegni il cellulare, ti vesti comodo, scegli un bel posto centrale, fai un lungo respiro e ti imponi di non pensare a nulla, se non allo spettacolo che stai per vedere. Possono sembrare cose semplici – sì, lo sono – eppure rimangono fondamentali per gustarsi al meglio persino una recita scolastica.

Un’osservazione però mi sento di spenderla: “questa musica che comprime ed espande la stanza” mi ha trasmesso – all’istante – la sensazione di una alternanza di suoni bassi (compressione) e alti (espansione); i tamburi “che mancano [implacabili] un colpo su due” (quell’implacabili serve davvero?) li ho avvertiti; sino allo squillo dei due corni – con annesse sensazioni – ci sono poi arrivato in modo scorrevole, ma poi…

Già: cos’è successo poi?
 
Lo scrittore: “Tu non puoi avere la pretesa di rendere le emozioni delle politonalità più spinte!”
La musicista: “E tu non puoi mettere avanti una sequenzialità pedissequa!”

È successo che mi sono ritrovato nello spazio di confine tra musica e scrittura.

Il tentativo di rappresentare la musica nella pagina – against mainstream – nasce come sfida transdisciplinare, con l’ambizione di oltrepassare i confini che separano i paradigmi, le norme, le etichette istituzionali proprie di ogni disciplina.

“Transdisciplinare” è una di quelle parole altisonanti, che lascia intendere, o comunque presuppone, ampiezza di vedute, tolleranza, spiccata inclinazione all’ascolto e capacità di mettersi in discussione.

Poi, però, cosa accade in pratica? Accade – come registra l’autrice stessa – che “la comunione di intenti fra discipline è solo dichiarata; quando si arriva ai nodi particolarmente intricati e agli argomenti scottanti, i ricercatori tendono a tornare nelle rispettive retroguardie e cercare conforto nelle proprie certezze, quindi nelle proprie discipline, anziché privilegiare un metodo dialogico realmente aperto e ‘votato alla causa’ – che interessa a pochi – attestandosi su di una interdisciplinarietà che rispetto (perché setta comunque una rotta) ma che non è sufficiente (poiché ci si ferma lì, senza tentare di percorrere il tragitto)”.

Non avrei saputo dirlo meglio: transdisciplinare, senz’altro, ma… non ti azzardare a mettere in discussione le mie certezze! E però l’approccio transdisciplinare è proprio questo che richiede: di mescolare le diverse certezze di ognuno, di filtrare e riordinare una molteplicità di fonti eterogenee, accettando che le gerarchie conosciute possano perdere di significato.

Ritorna – in un contesto istituzionale – la questione del “dire” contrapposto al “fare”, della massima tolleranza e apertura mentale verso la comunità LGBT, purché quella comunità non entri a casa mia, purché non coinvolga i miei figli.

Il fatto è che uno scrittore istintivamente si irrigidisce, quando una musicista gli dice che per rendere la musica in scrittura “bisogna fare un mucchio di cose insieme, velocemente e precisamente, anche in termini di successione delle informazioni”, perché questo è esattamente ciò che gli è stato proibito di fare sin dalla lezione zero, e che gli viene ricordato di non fare a ogni occasione utile: non scrivere mai un mucchio di cose assieme, non essere troppo veloce nel passare informazioni al lettore.
 

Quel che accade in scrittura quando passi tante informazioni troppo velocemente.
 
 
 
Regola numero 1 della scrittura: non stilare “elenchi di cose”.
Perché se cominci a “elencare cose” (rossetto, ciglia finte, stivali, gonna…)
e per di più in maniera statica, come se stessi scattando una fotografia,
il lettore tratterrà memoria – nel migliore dei casi – solo della prima e dell’ultima.
 
 
 
Ma ora, secondo te, quale profumo dovrebbe mai simulare il lettore,
quando gliene sono stati scaraventati addosso così tanti, in così poco spazio, e tutti così diversi?
 
La note musicali volano, le parole scritte arrancano.
 
Le mani della pianista viaggiano a gran velocità sui tasti, producono suoni che si diffondono nello spazio, lo occupano all’istante. Le parole dello scrittore escono pian piano sulla pagina, una alla volta, e camminano in fila indiana, a piccoli passi.

L’ascolto è un’esperienza immediata, nella quale la conoscenza coincide con l’atto, laddove la lettura è un’esperienza intermediata, nella quale la conoscenza passa attraverso un’attività simulativa. L’ascolto è attenzione, non apprendimento; quando si legge narrativa, al contrario, si devono apprendere informazioni “senza prestare attenzione alle parole” (nel senso che la scrittura deve essere trasparente: le parole servono solo a intermediare emozioni, e non devono mai attirare l’attenzione su di sé).

Sicuramente c’è ancora da lavorare, serve mettersi di impegno a limare parole e frasi, “con la stessa precisione di un orefice”, avrebbe detto Pontiggia, consapevoli che “uno scarto minimo, un errore di millimetri” può avere “conseguenze decisive” sulla partecipazione emotiva del lettore alla musica sulla pagina.


 
Nella “Avvertenza” a L’arte di persuadere, Prezzolini scriveva che quello doveva essere “un libro al quale dovesse collaborare il lettore” per cui avrebbe voluto stamparlo intercalando a ogni pagina scritta “una pagina bianca per le aggiunte e le esemplificazioni personali”.

Prezzolini scrisse L’arte di persuadere nel 1907, quando la sua suggestione era chiaramente inattuabile.

Ma oggi – con la tecnologia del 2023 – l’ambizione di Prezzolini può tranquillamente diventare uno standard, a condizione di aver chiaro che le pagine bianche non stanno lì per esser imbrattate con pensieri a caso, che le “esemplificazioni personali” devono essere ragionate, meditate, organizzate e ben esposte, come è avvenuto con il contributo che ho ricevuto sulle “modalità di rappresentazione della musica nella scrittura di narrativa”, all’origine di questo post.

Il blog è “mio” solo nel senso che sono io, materialmente, a curare la redazione e la pubblicazione dei post; ma tra un post e l’altro c’è sempre latente un post ancora tutto da scrivere, la famosa “pagina bianca” di Prezzolini, a disposizione di chiunque voglia riempirla con “esemplificazioni personali” di interesse potenzialmente universale.

E proprio sulla scia dell’universalità delle cose, Prezzolini chiariva che il titolo scelto per l’opera rispondeva solo a “una piccola parte del volume”, e precisamente a quella che offriva i migliori pretesti per parlare di cose “che mi importano forse di più dell’arte del persuadere”.

È con lo stesso spirito che io vivo e porto avanti il blog: come un pretesto per viaggiare – con coerenza e ordine – tra una molteplicità di argomenti variegati, che forse mi interessano di più dell’arte di scrivere e sceneggiare, e che mi sforzo di connettere e tenere assieme, con quell’atteggiamento transdisciplinare di cui si dice nel post.

E suggerisco a te, lettore, di vivere il blog allo stesso modo: come un pretesto. Se tutto ciò che stai imparando è solo ed esclusivamente l’arte di scrivere e sceneggiare, allora – sinceramente e contro il mio interesse – ti suggerisco di lasciar perdere, di fermarti qui: hai perso sin troppo tempo e non puoi permetterti di sprecarne altro.

Nessun argomento merita di essere studiato, se tutto quel che se ne trae sono conoscenze limitate solo a quell’argomento; nessun argomento merita di essere studiato, se mentre lo si studia non si aprono fessure o si spalancano finestre su altri mondi, su altri universi; nessun argomento merita la fatica dello studio, se non rappresenta null’altro che un pretesto.
 
Studiare serve solo se, dietro l’oggetto immediato in primo piano, la mente viene guidata verso un secondo piano, e da qui verso prospettive ancora più distanti. Altrimenti non ne vale la pena.

Però intendiamoci.

Il fatto che l’argomento in sé sia solo un pretesto – un trampolino per tuffarsi in argomenti di maggior rilevanza – non legittima il trattarlo con approssimazione e superficialità, perché “tanto è solo un pretesto e le cose che mi interessano sono altre”.

Sono la serietà, lo scrupolo e la precisione con cui ti rapporti all’argomento che ti fornisce il pretesto, il fingere che “non sia solo un pretesto”, a garantire l’integrità metodologica dell’impostazione, a far sì che anche tutto il resto  – di cui ti importa di più –   sia affrontato col giusto abito mentale.

Quindi, a conclusione del blog, una volta che saranno stati pubblicati tutti i moduli, tu avrai sicuramente imparato a scrivere e a sceneggiare a regola d’arte. Potresti anche non scrivere mai – per mancanza di tempo, di possibilità – ma rimarrai pur sempre un lettore di narrativa o uno spettatore di film, e il blog ti avrà allora fornito uno schema di analisi – fatto di principî, regole e tecniche – con cui giudicare l’opera su base sicura, con spirito critico e finezza interpretativa, un metro condiviso per confrontarti e discutere con gli altri, di là degli insindacabili gusti personali.

Ma – sinceramente – sarebbe triste, molto triste davvero, se non avessi imparato null’altro che questo.

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