MODULO 7 – Preferire il proprio puzzo al buon odore degli altri?

Cosa distingue un professionista da un dilettante, in scrittura e non solo? Tante cose, ovviamente, ma ce n’è una che marca una linea divisoria netta: la presa di distanza dalle critiche.

Un professionista ha ben chiaro un fatto ovvio: io non sono il mio testo, e una critica al mio testo, anche feroce, non è mai una critica alla mia persona.

Un dilettante, al contrario, vive ogni osservazione al suo testo, fosse anche la più blanda o marginale, come un coltello che gli penetra nella carne viva.

Il professionista, proprio perché è un professionista, conosce perfettamente le regole di scrittura, e tuttavia sa pure che a ogni momento può incappare in una loro violazione – per imperizia o distrazione, per un gusto non sorvegliato – e quindi non ha problemi a riconoscere l’errore quando un editor, un maestro o un altro scrittore glielo fa notare, perché in fondo deve semplicemente prendere consapevolezza dell’ovvio: questa era la regola, qui l’ho violata.

Un dilettante scrive principalmente per suo diletto, senza nessuna precisa conoscenza delle regole, che non siano quelle di grammatica e sintassi, perciò non possiede nessun metro oggettivo – esterno al suo gusto o al gusto di chi lo legge – per separare ciò che nel testo funziona da ciò che invece non gira, e non si lascerà mai cavare un dente che ritiene sano (e, neanche a dirlo, è convito di avere una dentatura perfetta, cui possono far difetto solo eventuali refusi).

D’altra parte – leggiamo nel racconto Il piccolo principe – “è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”, e quando il dilettante ha dedicato molto tempo al proprio testo, quando ha speso giorni, settimane, mesi e anni a scriverlo e riscriverlo, fosse pure senza nessuna precisa linea direttiva, il suo rapporto con la pagina è ormai così intimo da sconfinare nell’identificazione: il testo – per lui – è un pezzo di cuore, perfetto e inviolabile.

Un professionista non si troverà mai a vivere una situazione così, oggettivamente insostenibile. La sua conoscenza delle regole e del processo di scrittura lo condurrà – orientativamente – da un minimo di tre a un massimo di cinque stesure, per poi passare il testo a un editor o a dei beta-reader, che potranno reindirizzarlo al meglio proprio perché le varie stesure, comunque limitate, sono state pensate e realizzate in conformità alle regole.

Estratto dalla
“Lezione 15 – Avverbio: lo zoccolo duro della lingua”, di Giuseppe Pontiggia.

Il dilettante convinto di avere talento e ispirazione in abbondanza, che ritiene di disporre di un magazzino di originalità assortite, dovrebbe consacrarsi alla matematica, dove c’è molta più libertà d’azione rispetto alla scrittura.


Fantasia

Entro nell’aula, la classe scatta in piedi in segno di saluto. Li invito a sedersi. Prendo la spugetta e la passo sulla lavagna, lequazione di diffusione del calore scompare pezzo a pezzo. Mi blocco e mi giro di scatto: il banco in prima fila del signor Müller è vuoto.

Il signor Weber accenna un sorrisso imbarazzato e abbassa lo sguardo. Tossico per richiamare la sua attenzione. 
 
Si alza, tenendo lo sgurdo in giù. «Il signor Müller, professore, ha abbandonato il corso.» Deglutisce e solleva appena gli occhi. «Preferisce scrivere racconti e poesie.»
 
Appoggio la spugnetta sulla cattedra e incrocio le braccia «Spiace…» Il mio sospiro riecheggia nelllaula. «ma d’altra parte non aveva abbastanza fantasia per fare il matematico
 
Il matematico David Hilbert,
il professore del racconto.

Proprio così: se hai fantasia da vendere, allora il tuo elemento naturale è la matematica, non la scrittura. “Non avete idea di quanta poesia ci sia in una tavola dei logaritmi”, citando il princeps mathematicorum Carl Friedrich Gauss.
 
Oh, non dire nulla, ti prego. Lo so, lo so. Saresti smascherato come un giocatore di dama in un circolo di scacchisti, se mai decidessi di accompagnarti a Ipazia e a Sophie Germain, a Maryam Mirzakhani e a Emma Castelnuovo.
 
Amo la matematica perché odio l’ipocrisia”. Le parole di Marie-Henri Beyle ci ricordano che la matematica non tollera i bari, non ammette bluff.
 
In scrittura, invece, sembra esserci sempre la possibilità di cavare dalla manica tutte le carte utili a portare il proprio gioco alla vittoria.

Ti mostro un caso paradigmatico di chi proprio non ci vuole stare, di chi vuol vincere a ogni costo, una situazione in cui puoi vedere tutti i peggiori atteggiamenti di chi – avrebbe detto Pontiggia – coltiva ambizioni, ma non i mezzi per realizzarle, beandosi di titoli accademici che qui sono privi di valore (come ti confermeranno i maestri di scrittura di nuova generazione, essi stessi laureati in Lettere).

Su un gruppo Facebook di scrittori compare un post dell’utente Taulant Ligori, che invita gli iscritti a pubblicare i propri racconti, perché il confronto – così dice – è “un’esperienza molto utile per la nostra rotta della scrittura”.

 
Ed ecco qui il “fata-horror psicologico”, sottoposto al giudizio della community.

 

IL CALCIATORE CHE NON CRESCEVA MAI

Sentii parlare per la prima volta di Gioacchino quando si trasferì in una squadra famosa del nostro campionato. Ai tempi, ancora adolescente, pensavo al calcio tutto il giorno e quella notizia non mi poteva sfuggire. Gioacchino poteva essere un’altra grande scoperta della stagione calcistica, come diversi campioni prima di lui. Vedere sorgere la sua stella già all'alba era motivo di eccitazione e meraviglia, per non parlare dei possibili vanti davanti ai miei amici. Gioacchino correva in modo molto simmetrico, piegato in avanti più del dovuto. Aveva due occhi profondi e scuri e la sua faccia raramente cambiava espressione. Non lo vedevo mai ridere.

Ai primi tempi del suo arrivo, seguii con attenzione la squadra dove giocava. Gioacchino era un calciatore di cui si aspettavano grandi cose, da una partita all’altra. Si attendeva che splendesse definitivamente.

Ma le grandi giocate non arrivarono e io, a pari passo con i giornalisti, persi l’interesse per il calciatore. Quando occasionalmente sentivo parlare ancora di lui, provavo sempre l’eccitazione che mi aveva suscitato il suo arrivo. Qualche volta lo sognavo anche: la stessa corsa, gli stessi occhi, lo stesso viso.

Poi, per un lungo periodo non ebbi più notizie di Gioacchino, né mi apparve in qualche sogno.

Finché un giorno, lo vidi di nuovo in un servizio di cronaca sportiva in televisione. Ormai Gioacchino faceva parte di una squadra spagnola, ma non era cambiato per niente. Era sempre lo stesso: la corsa, gli occhi, l'espressione del viso. E non c'era nessun segno dello scorrere del tempo in lui. Erano passati 25 anni dall'ultima volta che lo avevo visto.

Montenevoso, autunno 2566. Ormai la distinzione tra sogno e realtà è una faccenda seria.

 
Prima che qualcuno del gruppo possa commentare, Taulant Ligori lascia cadere così, en passant, il suo curriculum vitae, non sia mai lo si scambi per uno dei tanti scappati di casa con velleità letterarie.

 
Me cojoini! – pare si dica a Bergamo alta (o a Bolzano o a Bellinzona, ora non ricordo esattamente).

Ma a uno così, che cosa gli si potrà mai dire?
 
Ferdinando Borbone abbozza un primo commento di intonazione critica (che raccoglie 6 consensi) e Taulant Ligori sembra sinceramente interessato ad aprire una discussione costruttiva, a confrontarsi.
 
 
A leggere bene, e a dirla tutta, si respira aria di supercazzola.


Cosa vuol dire, esattamente, “gioca un ruolo anche il fatto che siamo già nella testa del protagonista che sta raccontato in prima persona”? Fa molto come se fossi antani per due.

E cosa significa che “c’è il taglio psicologico” e quindi bisogna interrogarsi “se il passo menzionato meriti davvero di essere mostrato o semplicemente raccontato”? Tarapia tapioco! Prematurata la supercazzola o scherziamo

Nella buona narrativa moderna, tutto ciò che è rilevante si mostra, con tutti e soli i dettagli necessari e proporzionati alla sua rilevanza; tutto ciò che è irrilevante si taglia. Quindi, nella buona narrativa moderna, o si mostra o si taglia, ma non si racconta mai. Chiaro? O mostri o tagli. Non racconti. Mai.
 
C’è però quella domanda finale – “Cosa ne pensi?” – che lascia ancora uno spiraglio alla discussione, e Ferdinando Borbone s’infila, raccogliendo l’adesione entusiasta di Taulant Liguori.
 
 
E così Ferdinando Borbone dice cosa ne pensa “rigo dopo rigo”, a iniziare dal primo. 

 
Tutte cose piuttosto ovvie, elementari, proprio l’a-b-c della scrittura moderna.

Ma non per Taulant Liguori, che – non lo avete dimenticato, vero? – è “laureato in Lettere alla Sapienza” e ha svolto “ricerche personali in ambito narratologico”.

   
C’era da aspettarselo, da un “laureato in Lettere”, che prima o poi tirasse fuori il narratore onnisciente dell’Ottocento. Meraviglioso! E delle carrozze che mi dici? E dei titoli nobiliari? E dei moti per l’unità nazionale ne vogliamo parlare?

C’è una sottile ironia nel vedere un utente col nickname Ferdinando Borbone – il Re delle Due Sicilie che diceva “i Borboni sono vecchi, e se volessero modellarsi sulla forma delle novelle dinastie, si renderebbero ridicoli: ci tradisca la sorte, ma noi non ci tradiremo mai” – ricordare a tutti che viviamo (e scriviamo) nel 2023, e non nell’Ottocento.

Apriti cielo! “Posso capire e accettare altre critiche e suggerimenti costruttivi, ma non questo…

 
Eccola qui tutta la presunzione del laureato in Lettere, che confonde il mondo reale con i circoli accademici auto-referenziali rimasti inchiodati alla figura del narratore: “è una delle primissime cose che si capiscono studiando un po’ di narratologia” – sbotta Taulant Liguori, nel salire in cattedra – e viene da chiedersi di quale narratologia stia parlando; probabilmente di quella ottocentesca, delle conoscenze che si avevano allora, nell’Ottocento, se tira fuori l’idea anacronistica che la “narrativa differisce dal teatro e dal cinema proprio per il narratore”.
  
Però, da allora, dall’Ottocento, se ne è fatta di strada in narratologia – come in ogni altra disciplina seria – e dopo quasi due secoli di studio, noi, oggi, sappiamo che la narrazione deve fare a meno della presenza del narratore sulla pagina – come peraltro si era intuito già nell’Ottocento, da Flaubert in poi – e sappiamo pure come farne a meno, con quali tecniche e quali regole, a differenza di Flaubert&Co. che brancolavano nel buio: altro che indispensabile!



Ferdinando Borbone espone il punto di vista in un modo  – diciamolo – un po’ paraculo, coprendosi dietro la maggioranza silenziosa del gruppo, e soprattutto dietro l’auctoritas del padrone di casa, con un finale low profile per stemperare i toni.
 

 
Niente da fare. Taulant Liguori tiene il punto, non indietreggia di un passo, per poi ripartire in contropiede: accusa Ferdinando Borbone di avere un “preconcetto”, e dalla sua cattedra di laureato in Lettere gli intima di “approfondire le conoscenze”, prima di parlare.
 
 
Il rasoio di Occam è una visione della vita che non sarà mai abbastanza conosciuta: perché moltiplicare gli enti, creare sovrastrutture gratuite, arricchire inutilmente il linguaggio, se lo stesso identico concetto si può rappresentare con la stessa identica precisione con pochissime parole semplici e ben scelte?

Perché dire che “il narratore c’è ma rimane nascosto”, se si può dire, più semplicemente, “il narratore non c’è”? Ovvio che dietro a ogni storia c’è sempre un autore che l’ha creata – ma va là? – ma dire “non esiste il narratore” è una affermazione netta che richiama con forza la necessità di essere come Dio nella creazione, laddove espressioni più involute, del tipo “c’è ma rimane nascosto”, lasciano sempre il dubbio su cosa sia un narratore nascosto e uno che invece si palesa nella pagina.

E che Taulant Liguori non si accorga che nel suo racconto il narratore è dappertutto, che si è preso l’intera pagina, dalla prima all’ultima parola, la dice tutta su quanto il legame emotivo col testo – unito in questo caso alla presunzione del professorino di Lettere – possa impedire di vedere persino ciò che è manifestamente sotto gli occhi

Ferdinando Borbone – con la santa pazienza – prova a spiegarglielo.
  
 
Niente da fare. Il problema è sempre e solo di Ferdinando Borbone, che solo ora si esprime “almeno un po’ meglio”, ma comunque rimane fuori strada, proprio non vuol capire, e così parte una lezioncina di narratologia per ricondurlo alla ragione.
 
Il racconto è fatto dei pensieri del protagonista… tarapia tapioco!
 
Il tell si usa nelle SCENE… supercazzola prematurata! 
 
Faresti meglio a usare il tempo, l’energia e la pazienza per studiare meglio dei concetti che ti sono poco chiari: prematurata la supercazzola o scherziamo?
 
Ci si può immergere e immedesimarsi anche nei soli PENSIERI del protagonista e immaginare ciò che immagina: come fosse antani per due
 
 
Re Ferdinando II di Borbone, quello vero intendo, da mo’ che l’avrebbe sbattuto nelle prigioni del Regno.
 
Ferdinando Borbone si mostra invece più tollerante, e sceglie la ritirata strategica, non prima però di aver tirato un colpo di fioretto sulla presunta competenza del suo interlocutore.
 

Tanto basterebbe a chiudere la discussione, senonché Taulant Liguori , sarà pur laureato in Lettere, però deve averci per forza l’ultima parola – gne-gne-gne – e lasciamogliela pure, se ci tiene così tanto gne-gne-gne – con gli immancabili “capolavori scritti solo in modo raccontato”.
 

Cosa ti insegna questa discussione?
 
Anzitutto che non devi mai discutere su Facebook. L’ho fatto io per te, al posto tuo, proprio per farti capire che tu non devi farlo. Sono serio. Vuoi scrivere bene, oggi, anno di grazia 2023, e per gli anni a venire? Smettila subito di discutere su Facebook o su altri social network. Hai tutto da temere e nulla da sperare, da queste discussioni.
 
Discutere su Facebook et similia è come lavare la testa agli asini: si spreca acqua, tempo e sapone. Piuttosto, testa bassa sulle regole di buona scrittura, e sforzo continuo per applicarle al meglio e sempre meglio.

 

Yawp

I ragazzi del bar appoggiano le bottiglie dacqua e spumante sul tavolo della sala riunioni d’ordinanza; fanno avanti e indietro tra la sala e il corridoio, il tavolo si riempie di vassoi in cartoncino impacchettati con nastri gialli e i prodotti da forno diffondono la loro fragranza; ci scambiamo tutti degli sguardi compiaciuti, in silenzio, sorridendo a mezza bocca.
 
Marcello tira fuori due banconote da dieci euro dalla tasca dei pantaloni, ne dà una ciascuna ai due ragazzi. Sgranano gli occhi e si inchinano: a volte basta un niente per conquistarsi una gratitudine eterna.

Si posiziona al centro del tavolo ovale e scarta i vassoi più vicini, il profumo di pizzette, arancini e focaccine si fa ancora più intenso.
 
Anna mi si avvicina all’orecchio. «Ha fatto le cose in grande.»

Le sorrido e annuisco. «Come sempre.»
 
Marcello si schiarisce la gola con un colpo di tosse. «Colleghi, e avrei più che altro voglia di dire amici, è arrivato il 13 marzo 2023: il giorno della mia… della mia pensione, del collocamento a riposo d’ufficio comè scritto sul portale della Banca d’It—» Un singhiozzo represso gli spezza la voce. Sfila gli occhiali e si passa una mano sul viso. «Scusate, è l’emozione.»

Un applauso rimbomba nella sala. “Mar-cel-lo! Mar-cel-lo! Mar-cel-lo!”. Il coro da stadio lo rianima e gli strappa un sorriso imbarazzato.

Vabbè, può bastare così. Afferro una pizzetta, la mozzarella ancora calda mi si scioglie in bocca: spettacolare!

Anna mi dà uno scappellotto. «Ma sei proprio un impunito!»

«Lascia fare, lascia fare.» Marcello agita le mani per far capire che è tutto a posto «Dai, su, iniziate, che queste cose sono buone se le mangiate adesso.»

Faccio una linguaccia ad Anna e prendo un’altra pizzetta. Marcello ci viene accanto, Anna si versa dello spumante e lo sorseggia.

«E ora cosa farai, che non devi più gestire questa gabbia di matti degli ispettori?» 
 
«Scriverò.»

«Caspita!» Anna alza il bicchiere per un brindisi ideale. «Avevamo un capo scrittore, e non lo sapevamo.»

Sorrido, mi faccio spazio tra i due, prendo la bottiglia e riempio il bicchiere sino all’orlo: ne avrò bisogno, già lo so.
 
Marcello mi prende sottobraccio per portarmi all’angolo della sala. «Ho trovato un sito internet di scrittori.»

Capirai! Facile come non vincere al superenalotto. «Fantastico!» Butto giù quanto più spumante mi è possibile, le bollicine pizzicano in gola.

«Si chiama Yawp.» Si guarda alle spalle, a desta e a sinistra, con aria circospetta. «Mi sono già iscritto.»

Dio, salvami! «Ti divertirai da matti, ne sono sicuro.» O forse no.

«Perché non ti iscrivi anche tu?»

Ecco, lo sapevo. «Ah, oh, sì…» Stiro il collo verso l’estremità più lontana del tavolo. «Ti spiace se vado a prendere un dolce? Non vorrei che finissero.»

Passo in mezzo alla folla dei colleghi dispensando sorrisi di circostanza, il brusio delle chiacchiere inizia a darmi un lieve mal di testa. Vicino al bordo ricurvo del tavolo c
’è Alberto con in mano un piattino stracolmo di cannoli bianchi e neri. Eccone un altro completamente fuori di capoccia.

Finisco lo spumante e poso il bicchiere. «Cosa consigli? Ricotta o cioccolata?»

Fa spallucce. «Perché scegliere? Prendili entrambi, no?»

Ineccepibile: di qualcosa si dovrà pur morire, no? Metto un cannolo bianco sul piatto e ne prendo un altro nero. Lo addento, ma una pacca sulla spalla mi fa andare il boccone di traverso.
 
«Allora, ti iscrivi?»

Deglutisco. «No, Marcello.»

«Perché? Tu ami la scrittura.»

«Appunto.» Ingoio in un sol colpo ciò che rimane del cannolo. «E so bene come la scrittura venga violentata in certi ambienti.»
 
«Scusa, ma se qualche testo non ti piace, saltalo, e finisce lì.»

«Non ne sarei capace.» Uffa, come glielo spiego? Mi passo due dita sulle labbra per togliere un residuo di crema. «Io soffro nel veder violentata la scrittura, sento la necessità di risvegliare il dormiente che scrive male, di sottrarre anche lui alla sofferenza di cui è al tempo stesso causa e vittima, senza saperlo.»
 
Alberto mi sferra un cazzotto sulla spalla, il piattino ondeggia, il cannolo per poco non cade a terra.

«Cazzo Fabiani! Un budda, tu sei un budda!». Dagli occhiali spessi filtra uno sguardo esaltato. «Quante volte ti ho detto che sei un budda senza saperlo? Eh? Quante, quante?»

Tante, troppe.

«Tu rinunci al Nirvana, e scendi qui nel Samsāra, nell’oceano delle esistenze mortali, per risvegliare chi dorme, per il bene di tutti gli esseri senzienti!». Afferra un cannollo dalla montagnola che ha sul piatto e lo trangugia in un sol boccone. «Tu deffi affolutamente fenire alle noffe fiunioni.» Deglutisce, si scrolla dei pezzi di forfora dalla spallina della giacca e mi punta
l’indice sul viso. «Ti ho già detto dove ci incontriamo?»

«Tutti i venerdì, alle nove, al Centro Dharma di via Val di Secchia.» Gli abbasso il dito: che pazienza che ci vuole. «Prima o poi vengo, promesso.»
 
Impila altri due cannoli nel piattino e mi strizza l’occhio. «Ti aspetto Fabiani, ti aspetto.» Si allontana verso la folla dei colleghi, si volta di scatto.  «Ti aspetto Fabiani!»
 
Alzo il pollice e gli strizzo l’occhio anch’io. Prima o poi capirò se sia l’ispezionare banche a rendere folli o se siano i folli a essere attratti dall’idea di ispezionare le banche…

Sospiro, con le ultime forze sorrido a Marcello. «Ecco, vedi, è lui che dovrebbe iscriversi a questo… come si chiama?»

«Yawp.»

«Sì, Alberto sarebbe perfetto per Yawp.»

«Sono ancora il tuo capo, almeno fino alle cinque di oggi pomeriggio.» Mi lancia un’occhiata di supplica. «Potrei obbligarti.»

Trattengo una risata, poso il piattino sul tavolo e alzo le mani in segno di resa. «Dai, va bene, darò uno sguardo a questo… come si chiama?»
 
«Yawp.»
 

Ma la discussione tra Taulant Liguori e Ferdinando Borbone mostra anche un’altra cosa: la chiara preferenza per il proprio puzzo rispetto al buon odore degli altri – per dirlo con Prezzolini – l’ostinata difesa dei propri errori, a causa di un coacervo di bias cognitivi.
 
Vuoi scrivere bene, oggi, anno di grazia 2023, e per gli anni a venire? Entra nell’ordine di idee che il vaglio definitivo e inappellabile è quello della massa dei lettori tiepidi.

Show, don’t tell è la formula standard di ogni manuale di scrittura, e almeno una volta devo perciò dirla anch’io, anche se qui parleremo sempre di scrittura dei mattoncini per enfatizzarne la dimensione tecnica-stilistica. Comunque, sì, diciamo pure show, don’t tell perché in effetti non c’è niente di meglio che mostrare le cose, anziché raccontarle.
 
Nei prossimi tre sotto-moduli ti mostrerò altrettanti racconti, nella loro versione originaria e in una versione riscritta, per predisporti al meglio allo studio del blocco di moduli tecnici (dal numero 8 al 15) e prima ancora per farti apprezzare a intuito, a pelle – icto oculis, avrebbe detto il laureato in Lettere Taulant Liguori – la differenza tra la scrittura tradizionale e la scrittura di frontiera.

Ora, siccome tu non sei né più intelligente né più furbo della massa che sta là fuori, potresti cadere al pari di altri nel bias cognitivo di giudicare migliori le versioni originarie di quelle riscritte, per puro spirito di contrapposizione, per il semplice gusto di polemizzare o per far vedere quanto sei figo.

D’altra parte la scrittura lavora e funziona su statistiche, su grandi numeri, come gran parte delle attività umane. E nei grandi numeri ci sarà sempre una frazione in direzione ostinata e contraria. Il 100% non esiste: troverai sempre dei lettori più a loro agio con uno stile ampolloso, barocco, ricco di figure retoriche, straboccante di aggettivi e avverbi, impostato sul narratore che si intromette di continuo nella pagina per dare spiegazioni non richieste. E quindi? Cosa dimostra l’esistenza di questi lettori? Semplicemente che anche in scrittura il 100% non esiste, come nella pressoché totalità delle cose della vita. Il gusto di un lettore non si giudica, ci mancherebbe altro, ma non è con il gusto di un lettore che si giudica la qualità tecnica di un’opera narrativa.
 
Ci saranno pur state o ci sono – spoiler su uno dei racconti! – donne a cui è piaciuto o piace esser prese con violenza. E quindi? Rimuoviamo il reato di stupro perché ad alcune piace così? Dimmi tu.
 
Il nostro discorso è logico, non empirico, o meglio, noi esaminiamo in lungo e in largo l’empiria, per poi fondare meglio la logica, per porla su basi più solide.
 
Ti invito quindi a realizzare un semplice esperimento: far leggere entrambe le versioni dei racconti –  originale e riscritta – a quante più persone possibili, ma che siano solo ed esclusivamente semplici lettori, gente incontaminata, fuori dalle cricche di scrittorucoli, professorini e intellettualoidi, così come dalle fazioni e le comunelle tipiche delle piattaforme on-line, persone senza velleità artistoidi, con la testa sgombra da pregiudizi e l’anima non inquinata dai rigurgiti di un’erudizione classica mal digerita.
 
Sottoponi la duplice versione dei racconti  a un pubblico puro, disinteressato, generico, il più numeroso ed eterogeneo possibile – senza commenti o spiegazioni da parte tua, come se gli stessi inoculando un farmaco, con la stessa asetticità, per non creargli aspettative implicite – affinché le regolarità statistiche possano manifestarsi al meglio.

Realizza l’esperimento e registrane i risultati, costruisci le statistiche di gradimento sulla versione preferita dai lettori del tuo campione.
 
Sarà una rivelazione, un risveglio, e non ci sarà incentivo migliore nel proseguire nello studio di questo manuale, per imparare a scrivere a regola d’arte
 
 
 

Noterelle sui tre racconti

I tre racconti (L’ultimo caffèPoker d’assi e Come viaggiare gratis) sono ripresi da una piattaforma di scrittura on-line.
 
Ho cambiato il personaggio “Punto di Vista” del racconto L’ultimo caffè – da lei a lui – in applicazione del principio “scrivi solo di ciò che conosci”: io sono un uomo, e per quanto possa meditare, riflettere e auto-suggestionarmi, non riuscirei mai a restituire “l’emozione della scena” da una prospettiva femminile.
 
Ho cambiato anche l’ambientazione del racconto Poker d’assi – da una bisca all’appartamento di uno dei giocatori – per la stessa ragione: bisogna scrivere solo di ciò che si conosce, e io di bische non so nulla.
 
Il racconto Come viaggiare gratis è riportato, e riscritto, limitatamente all’incipit, perché tanto bastava per capire quel che serve capire.
 
Due parole ancora su L’ultimo caffè, che potrebbe rivelarsi – nel vostro esperimento – una situazione per me win-win: qualunque sarà il gradimento – se per la versione originaria o la riscritta – potrebbe rimanere comunque dimostrata la superiorità della versione riscritta.
 
Questo è un passaggio nodale dell’intero metodo, quindi sarà il caso di spendere qualche parola.
 
Il tipo di scrittura che sponsorizzo – che impareremo a chiamare scrittura dei mattoncini, per dare rilievo ai suoi contenuti tecnici e artigianali – ha l’obiettivo di massimizzare il coinvolgimento emotivo nella storia, di farla vivere – leggendola – come se fosse vera, reale: il lettore, arrivato alla fine, deve poter dire io c’ero, io ero lì.
 
Qual è il punto scivoloso? Che non sempre si desidera esserci, trovarsi lì, e in alcuni frangenti si vorrebbe anzi essere da tutt’altra parte.
 
Il nostro personaggio è una spia, smascherata dalla polizia locale, imprigionata e ora da sottoporre a tortura affinché confessi tutto ciò che sa. Chiara la situazione? Il personaggio è una spia che sta per essere torturata, il che significa che tu, lettore, stai per essere torturato: ti caveranno a forza i denti, ti strapperanno le unghie, ti verseranno addosso dell’olio caldo, ti schiacceranno sul viso un ferro rovente, e via così, con tante altre piacevolezze.
 
Tu – lettore – sei il personaggio, quindi tutte queste belle cose le stanno facendo proprio a te – lettore – e te le ritroverai scritte sulla pagina con quel nitore di stile che te le farà avvertire sul tuo corpo. Quanta voglia hai di vivere una situazione simile? Nessuna, immagino.
 
Questo è il paradosso della scrittura dei mattoncini: quando realizzata a regola d’arte può scacciare il lettore dalla pagina perché rende troppo vivida, reale e concreta, una situazione che il lettore non ha piacere di vivere.
 
Molti lettori – comprensibilmente – hanno seri problemi con le scene violente; e gli autori, sapendolo, o le tagliano (quindi mostrano la spia che viene incatenata a una sedia e l’aguzzino che prende i ferri per la tortura, per poi realizzare il cosiddetto taglio di scena, e far ripartire la storia mostrando la spia mezza morta a conclusione della tortura, senza aver mostrato la tortura in sé) oppure ricorrono allo “stile raccontato” (il “tell”) in cui la tortura viene sintetizzata, riassunta, giusto per restituirne il senso al lettore, ma senza fargliela vivere “qui e ora” sulla sua pelle. Solo il primo approccio – il taglio di scena – è ammissibile, nella scrittura dei mattoncini. Tutto il resto non è una scelta stilistica, non è una soluzione alternativa, non è un modo diverso di scrivere: è un errore, punto e basta. Perché nella scrittura dei mattoncini, o mostri o tagli, ma non sintetizzi mai.
 
Ho parlato di scene violente, ma lo stesso può dirsi delle scene di sesso, che nella scrittura dei mattoncini, diventano a tutti gli effetti scene strettamente pornografiche, nel senso che stiamo mostrando due personaggi che fanno sesso con l’idea di far immedesimare massimamente il lettore in uno dei due, dovendo quindi dare tutti i dettagli necessari allo scopo.
 
Non tutti possono avere piacere di questa immedesimazione, specie se il personaggio non beneficia dell’empatia del lettore (un requisito fondamentale di una buona sceneggiatura) e la scena è comunque carica di una certa violenza; si potrebbe quindi preferire una versione più edulcorata, smorzata, meno coinvolgente, maggiormente allineata alla propria sensibilità, ma proprio questa preferenza – per la versione originale – sarebbe la conferma della superiorità tecnica della versione riscritta, di una scrittura che sta facendo esattamente quel che deve fare, far immedesimare il più possibile il lettore nel personaggio e nella situazione (solo che, appunto, il lettore non ha piacere di viverla).
 
Per tutto ciò, L’ultimo caffè (rewriting) parte oggettivamente avvantaggiato: che piaccia o non piaccia, rischia di vincere comunque sulla versione originaria.
 
C’è però un contrappeso a riequilibrare le cose, di cui diremo meglio nel modulo 10, ma che è utile anticipare, visto che ne abbiamo l’occasione.
 
La scrittura dei mattoncini è tutta sensoriale e cerebrale, tocca direttamente le corde del cervello, che sono delicatissime: ne può venir fuori una sinfonia eccezionale, se come autore sai cosa, come e quando toccare, ma il minimo sbaglio produce stonature e disarmonie. Ogni errore – nella scrittura dei mattoncini – viene immediatamente sanzionato dal lettore, con un fastidio o un calo di interesse che possono condurre rapidamente ad abbandonare la lettura. Come a dire che la scrittura dei mattoncini esige una qualità alta, per essere efficace; altrimenti rischia di essere fallimentare, peggio di qualsiasi altro testo scritto as usual.
 
Io ho l’assoluta certezza della superiorità tecnica della scrittura dei mattoncini su qualsiasi altro tipo di scrittura di narrativa – mi confortano la sapienza antica, da Aristotele in poi, e le prove scientifiche moderne offerte dalle neuroscienze – ma ovviamente non ho la presunzione di essere un interprete perfetto di questa tecnica. Posso sbagliare, come sbagliano tutti, per quanta attenzione possa aver messo.
 
Solo il tuo esperimento potrà dire quanto le versioni riscritte siano fatte bene, quale sia la proporzione tra scelte ottime, subottimali e sbagliate.

Buona lettura (e scrittura) a tutti.

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