Modulo 26 – Esercizio #6

 
 
Parliamo di “contest letterari”, di quel pullulare di gare di scrittura che assumono le forme più varie. E ne parliamo – fondamentalmente – per diffidare dal parteciparvi.

Suona strano, lo so. Come ci si può far conoscere nell’ambiente, se non si prende parte alle iniziative organizzate all’interno dell’ambiente? L’osservazione è corretta, ma… ci sono dei “ma”.

Non ti sto vietando di partecipare a qualsiasi “contest”, per principio. Ti sto invitando a soppesare con cura i “contest” a cui conviene partecipare.

Mi è capitato di incrociare autori che partecipavano a prescindere, senza neppure sapere a cosa stavano partecipando, senza avere idea di chi lanciava il “contest”, dello sfondo in cui il “contest” si inseriva. Partecipavano perché sì, perché partecipare è meglio che non farlo, perché far girare il proprio nome può solo fare che bene. Erano convinti che lo spamming delle proprie abilità (?) avrebbe comunque prodotto risultati, quando – notoriamente – viviamo in un’epoca in cui lo spamming, più che inutile, è dannoso.

Senza aprire una discussione che porterebbe lontano, mi limito a registrare un semplice fatto suscettibile di influire negativamente sulle tue capacità di scrittura: il “contest” impone di regola dei vincoli sul tema della narrazione e sulla lunghezza del testo, e sono vincoli che possono confliggere violentemente con le tue attitudini o inclinazioni.

Poniamo – per dire – di essere sotto Natale, e il “contest” richiede di scrivere un racconto d’intonazione natalizia.

Peccato che tu detesti il clima che viene a crearsi durante le festività: ti infastidisce quell’aria di finta bontà che avvolge le persone, non sopporti i regali – farli come riceverli – così come i pranzi e le cene; e poi le riunioni di famiglia obbligate, gli addobbi a ogni angolo di strada, e tutte quelle musichette, sempre le stesse, da quando sei nato; per non parlare delle formule stereotipate (“Buon Natale e felice anno nuovo, a te e a tutta la tua famiglia”) buttate lì come si lancerebbe una ciabatta al gatto del vicino che ha sconfinato nel tuo terrazzo.

Tu detesti il Natale, ma il “contest” richiede di scrivere del Natale, e tu vuoi partecipare al “contest”… perché sì. Potresti ancora scrivere di un personaggio che – come te – detesta il Natale, e il tuo racconto potrebbe  diventare una sorta di denuncia sociale; ma c’è un problema, e non è tanto che – forse – un testo simile striderebbe col patto implicito nel “contest” (in cui ci si aspettano – e vengono premiate – solo storie “zucchero&miele”) quanto il fatto che gli hater del Natale sono ormai più cliché dell’originario cliché del Natale; sei fottuto, quindi, qualunque cosa tu possa fare (violenti la tua natura, se ti conformi al clima natalizio, rischi di apparire un odioso anticonformista per principio, se invece l’assecondi).

Ritorna quindi un’indicazione che non sarà mai ribadita a sufficienza: tu devi scrivere solo di ciò che conosci, di quel che ti appassiona nel senso più genuino del termine, su cui hai un così ricco deposito di idee, esperienze, e conoscenze, da poterle ricombinare tra loro in un modo che possa avvincere e sorprendere il lettore.

Quindi, prima di partecipare a un qualsiasi “contest”, accertati che sia effettivamente nelle tue corde, che tu sia in condizioni di produrre un testo almeno potenzialmente valido, e non il solito rimescolamento di cose pescate in film di terz’ordine e in anonime serie tv.

E poi tieni conto dell’effettiva tollerabilità del vincolo di spazio.

Uno scrittore sa bene che in un testo non esistono frasi inutili, che ogni parola conta, che lo spazio della pagina è troppo prezioso per occuparlo con espressioni di cui non sia perfettamente chiaro il senso, lo scopo, l’utilità.

Uno scrittore – in definitiva – è il primo ad auto-imporsi i più stringenti vincoli di spazio per la propria narrazione, perché sa bene che la sua storia deve avere tutta la lunghezza necessaria e sufficiente, non una parola in più, né una di meno.

Ma la modulazione del vincolo dipende dalla storia, è cioè endogena alla narrazione stessa, e non può essere imposta dall’esterno, per via esogena, indipendentemente da ciò che si vuole raccontare.

Se il “contest” ti vincola a non superare le 2.500 parole, e a te ne servono invece 3.000, cosa credi che accadrà? Che finirai col violentare la scrittura, pur di far stare la tua storia entro le 2.500 parole, e darai vita a una nuova puntata della serie “taglialo grosso, infilalo a calci”, quando l’arte della scrittura – come ogni arte – è una questione di finezze.

Ti propongo di seguito un testo scritto per un “contest”, da un autore che avrebbe tutti i numeri per essere una buona penna, ma che qui è stato pesantemente sviato dai vincoli a cui doveva sottostare.
 
 
 
Una folata di vento mi scompiglia i capelli, con una mano metto una ciocca dietro l’orecchio; sposto la manica del cappotto. Cavolo, sono già le dieci e mezzo passate, Cristina è sempre in ritardo. Sbircio in fondo alla strada, tutte le vetrine sono addobbate a festa, luci e colori, ma di lei non c’è traccia.

Se non arriva, entro da sola a comprare la borsa.

Nella vetrina, dietro le mie spalle appare il riflesso di una donna. Mi tocca una spalla.

«Vesna, sono io!»

«Finalmente. Sempre in orario, vedo.» Con un dito le indico l’orologio.

«Sai, ho impiegato molto più tempo del previsto a truccarmi.» Cristina si tocca lo zigomo, «Qui, in questo punto.» Lo sfiora con la punta delle dita, «Non sento più niente, questa parte è diventata insensibile.»

Allarga la bocca in una smorfia di finto dolore e si volta verso di me.

«Si vede ancora molto, il livido?»

Incrocio le braccia e increspo le sopracciglia. «Non è stato Celestino. Vero?».

Lei scuote la testa, alza i grandi occhiali da sole e si specchia nella vetrina.

«Macchè, sono settimane che non lo vedo. Ho dato giusto un ritocchino agli zigomi.»

Non ci credo. Ancora insiste con il suo ex marito! Forse era meglio se continuava a prendere botte da Celestino invece di affidarsi al bisturi di quel macellaio.

«Ma perché continui a farti questo? L’ultima volta ci hai quasi rimesso una tetta. Guardati! Non ti si vedono gli occhi, sei tutta gonfia.» Gonfio le guance e metto le mani a coppa ai lati del viso.

Si mette gli occhiali e sospira. «Sai che faccio, ci vado proprio adesso. Irrompo nel suo studio in queste condizioni. Vieni con me, ti prego?»

Si avvicina e cerca di prendermi le mani, faccio un passo indietro e scuoto la testa. «Non se ne parla, non chiedermelo proprio. Io lui non lo voglio proprio vedere. Mamma mia Cri!» Tossisco e sventolo una mano sotto il naso. «Ma quanto profumo ti sei messa!»

La borsa le scivola dalla spalla, con un ghigno di dolore la tira su.

«Non posso ancora fare la doccia. Ken mi ha detto di aspettare, l’infezione è ancora in corso.»

Inarco le sopracciglia. «Che infezione?»

«Quella della mastoplastica, sai non era guarita del tutto e qualche giorno fa è peggiorata.»

«Adesso basta!» Alcuni passanti si voltano a guardarmi. Chiudo gli occhi e respiro profondamente.

«Ti accompagno al suo studio, io non salgo, ma se non risolve la situazione entro qualche giorno ti porto in ospedale e tu lo denunci. Capito!»

* * *

Il telefono squilla, sul display c’è un nome. “Ken/Salvo”, sono le 03.46.

«Salvatore, dimmi. Che succede?»

« Scusami se ti chiamo a quest’ora! Sono davanti casa di Cristina. Sai tornavo da una cena e passavo di qui. Sono molti giorni che cerco di chiamarla ma lei non risponde. La luce in soggiorno è accesa e se la chiamo sento suonare il suo cellulare ma lei non risponde. Tu hai le chiavi di casa sua? Vero!»

Un formicolio mi pizzica la base della testa, scendo dal letto e con i piedi cerco le pantofole al buio, allungo la mano e accendo la luce.

«Come…Cosa vuoi dire che sono giorni che cerchi di contattarla! Due giorni fa l’ho accompagnata alla tua clinica.»

«Scherzi! Sono almeno due settimane che non la vedo. L’ultima volta è venuta da me per quella medicazione sotto il seno, poi non l’ho più vista.»

Allora non è salita a farsi medicare. Giuro che se non è morta, l’ammazzo io!

«Si ho le chiavi. Aspettami, ti raggiungo.»

* * *

Parcheggio l’auto lungo la strada, lui cammina avanti e indietro nel vialetto della casa di Cristina torturandosi le mani, nonostante tutto non ha un capello fuori posto.

Scendo dall’auto e mi avvicino a passo deciso. «Se gli è accaduto qualcosa è colpa tua.» Gli punto l’indice sul petto, «Dovevi rifiutarti, passi le tette, ma dopo quello che gli è accaduto, dovevi rifiutarti. Fargli un altro intervento prima che si rimettesse.»

«Sei impazzita? Di cosa stai parlando?»

«Degli zigomi.» Idiota. Con entrambe le mani mi colpisco la faccia. «Quando l’ho vista, due giorni fa, aveva la faccia così gonfia che non gli si vedevano nemmeno gli occhi!»

Cerco le chiavi in fondo alla borsa, il cuore mi batte così forte che lo sento pulsare nelle orecchie, nemmeno il portachiavi a forma di coccinella, il mio antistress, quello che abbiamo comprato insieme mi tranquillizza. Le infilo nella serratura, sento una stretta alla bocca dello stomaco.

Appena apro la porta una nauseante puzza di putrefazione mi aggredisce, lo stomaco sì contrae e un conato di vomito mi assale. Ken si volta di scatto, prende un fazzoletto di carta, lo appoggia sotto il naso ed entra dentro l’appartamento, le mie gambe si irrigidiscono, nel lungo istante che la mia mente cerca di collegare i pensieri lui esce di corsa.

«Chiama la polizia.» Allunga il braccio, apre la mano e la scuote davanti al mio viso, «No, non entrare.»

Si appoggia alla cassetta della posta, abbassa la testa e tossisce, con l’altra mano si massaggia la pancia.

Un puntino di sole fa capolino da dietro la montagna, una signora con delle pantofole molto più grandi dei suoi piedi e un giubbotto imbottito buttato addosso al pigiama sì avvicina; entra nel vialetto della casa di Cristina ma un poliziotto le fa cenno di allontanarsi.

Schiaccio la sigaretta sul cordolo del marciapiede e mi alzo con il culo ghiacciato, con le mani scuoto la terra che mi è rimasta attaccata ai pantaloni. Al diavolo! Era più di un anno che non fumavo.

La signora in pantofole si avvicina. «Cos’è accaduto alla Cristina?» Si stringe il colletto del giubbotto con entrambe le mani.

Solo in questo momento mi accorgo che è molto freddo e io indosso solo una felpa leggera. «Non so molto più di lei.» Mento, non riesco a dirlo. Mi volto e vado verso la mia macchina parcheggiata al di là della strada, spero di trovare qualcosa di più pesante da indossare. Un poliziotto mi segue con lo sguardo, quando vede che prendo un giubbino dall’auto e torno sul marciapiede si tranquillizza.

Il commissario di polizia esce dalla casa, si toglie la mascherina e si struscia gli occhi con pollice e indice.

«Il medico legale dice che è morta da almeno dieci giorni. La decomposizione è in uno stato avanzato.»

«Da dieci giorni? Ma se l’ho incontrata due giorni fa!»

Mi guarda strabuzzando gli occhi. «Il Coroner farà un’autopsia, dobbiamo fare degli accertamenti.»

Il viso abbronzatissimo di Ken perde colore.

«Perché dovete fare degli accertamenti? Pensate sia stata uccisa? Se pensate questo devo parlare con qualcuno. È stato il suo ex compagno, si chiama Celestino, è un uomo molto viol—»

Lo interrompo prima che finisca la frase.

«Nessuno ha detto niente. Hai paura venga fuori che aveva una infezione per una mastoplastica curata male, che tu hai fatto?» Gli punto il dito contro.

Il commissario chiama un poliziotto con un cenno della mano. «Accompagnali in centrale.»

Ken mi si avvicina all’orecchio. «Pazza, schizofrenica. So quello che vuoi fare, ma tu non sarai mai lei.»

Alzo gli occhi al cielo. «Ancora con questa storia? Sei ridicolo! Pensi forse di accusarmi di qualcosa?» Questa volta non riuscirà a farmi perdere le staffe.

* * *

Torno a casa stanchissima. Appena apro la porta Jo si struscia alle mie gambe, la prendo in braccio e le accarezzo il pelo lungo e morbido. «Meno male che ci sei tu.»

Mi siedo sul divano, tolgo le scarpe e allungo i piedi sul pouf. La gatta incomincia a massaggiarmi la pancia e a fare le fusa. Mi accarezzo il collo, cerco di sciogliere un po’ di tensione, il peso della giornata si sta facendo avanti.

«Cristina non c’è più,» dico a voce alta, la gatta mi guarda e continua a massaggiarmi.

Ho fame, devo mangiare qualcosa, prima riempio la scodella di Jo, apro il frigorifero, prendo gli avanzi freddi e li mangio in piedi.

Non vedo l’ora di entrare nel letto. Prima però devo fare una doccia. Entro in bagno e apro l’acqua calda, il profumo del bagnoschiuma alla camelia mi rilassa. Lavo i denti, pulisco lo specchio dal vapore e guardo la mia faccia stravolta, prendo un pochino di crema idratante e la massaggio sul viso, poi tocco gli zigomi come avevo visto fare a lei.

«Si Vesna, hai decisamente bisogno di ritoccare anche gli zigomi.»

 
 
Iniziamo.
 
Una folata di vento mi scompiglia i capelli, con una mano metto una ciocca dietro l’orecchio; sposto la manica del cappotto. Cavolo, sono già le dieci e mezzo passate, Cristina è sempre in ritardo. Sbircio in fondo alla strada, tutte le vetrine sono addobbate a festa, luci e colori, ma di lei non c’è traccia.

Se non arriva, entro da sola a comprare la borsa.

L’incipit fa tutto quel che deve fare – localizza il personaggio e ne chiarisce l’obiettivo, in un clima con un principio di conflitto – ma soffre di diversi problemi.

Anzitutto non ha nulla di particolarmente interessante: è solo una donna che sta aspettando un’amica, con cui fare shopping. Ora, senza inginocchiarsi davanti al falso idolo del cosiddetto hook, serve attenzione per non cadere nell’atteggiamento opposto, di totale disinteresse verso gli elementi che possono mettere curiosità.

Per capirci: anziché dire che “Cristina è sempre in ritardo” (che ha pure un’intonazione lamentosa) si potrebbe mettere qualcosa del tipo “Chissà cosa le sarà successo stavolta, a quella matta di Cristina”, con cui passa nel sotto-testo l’informazione del ritardo di Cristina, e si fa intendere esplicitamente che Cristina è una tipa a cui capitano cose strane (o magari, come scopriremo, che va volutamente a cacciarsi in situazioni problematiche) con ciò mettendo un pizzico di interesse per proseguire nella lettura.

Registro poi un eccesso di dettagli. La frase “con una mano metto una ciocca dietro l’orecchio” è insopportabilmente lunga: come la potrebbe mai sistemare una ciocca dietro l’orecchio, se non appunto con una mano? Con un piede, forse? O con un gomito? È ovvio che la sistema con una mano, e ciò che è ovvio non va mai scritto. La frase corretta sarebbe qualcosa del tipo “mi sistemo una ciocca svolazzante dietro l’orecchio” (e il lettore capirà da sé che lo ha fatto con la mano).

C’è pure un problema di punteggiatura, all’interno di una frase che rimane comunque ben congegnata, e converrà sfruttare l’occasione per avere un minimo di visione d’assieme.

Questo è il testo originario:

Una folata di vento mi scompiglia i capelli, con una mano metto una ciocca dietro l’orecchio; sposto la manica del cappotto. Cavolo, sono già le dieci e mezzo passate, Cristina è sempre in ritardo.


che andrebbe sistemato più o meno così:

Una folata di vento gelido mi scompiglia i capelli, sistemo una ciocca svolazzante dietro l’orecchio e sposto la manica del cappotto: già le dieci e mezzo passate, chissà cosa le sarà successo stavolta, a quella matta di Cristina.


Lascio a te, come semplice esercizio, capire le motivazioni sottostanti all’uso della virgola (anziché del punto e virgola) e dei due punti (prima della percezione visiva sull’orologio e il conseguente pensiero). Ti ricordo che il punto, il punto e virgola, e la virgola corrispondono a stacchi progressivamente più deboli nel flusso narrativo, e che i due punti servono spesso a preannunciare ciò che accadrà.

Ultimo problema: la frase “tutte le vetrine sono addobbate a festa, luci e colori, ma di lei non c’è traccia”. Luci e colori… cosa? Dov’è il verbo? Dovrebbe forse essere qualcosa del tipo:

tutte le vetrine sono addobbate a festa, luci e colori rallegrano l’atmosfera, ma di lei non c’è traccia.


o una qualunque altra cosa che chiarisca l’effetto di “luci e colori” sulla percezione (fisica o psicologica) del personaggio.
 
Proseguiamo.

Nella vetrina, dietro le mie spalle appare il riflesso di una donna. Mi tocca una spalla.

«Vesna, sono io!»

«Finalmente. Sempre in orario, vedo.» Con un dito le indico l’orologio.

Qui abbiamo un banale problema testuale: cosa vuol dire “nella vetrina, dietro alle mie spalle”?

La vetrina non è alle spalle del “Punto di Vista”. La vetrina sarà davanti al “Punto di Vista”, e su quella vetrina, a un tratto, appare il riflesso di una donna. A trovarsi “alle sue spalle” non è la vetrina, ma la donna, Vesna, che rimanda il suo riflesso sulla vetrina che è davanti al “Punto di Vista”.

La scrittura della battuta di dialogo va poi modificata, per dare maggior realismo al flusso.

«Finalmente!» Batto un dito sull’orologio. «Sempre in orario, vedo.»

Andiamo avanti.

«Sai, ho impiegato molto più tempo del previsto a truccarmi.» Cristina si tocca lo zigomo, «Qui, in questo punto.» Lo sfiora con la punta delle dita. «Non sento più niente, questa parte è diventata insensibile.»

Allarga la bocca in una smorfia di finto dolore e si volta verso di me.

«Si vede ancora molto, il livido?»


Questo passaggio può essere compattato in un blocco unico, perché fa parte dello stesso flusso, e poi non serve precisare che è Cristina a parlare.

«Sai, ho impiegato molto più tempo del previsto a truccarmi.» Si tocca lo zigomo. «Qui, in questo punto.» Lo sfiora con la punta delle dita. «Non sento più niente, questa parte è diventata insensibile.» Allarga la bocca in una smorfia di finto dolore e si volta verso di me. «Si vede ancora molto, il livido?»

Quel “si volta verso di me” crea comunque un’ambiguità.

Si presume che Cristina si stia rivolgendo al “Punto di Vista” non appena inizia a parlare, perché di regola funziona così: se parlo con qualcuno, allora lo sto guardando, ho gli occhi puntati su di lui. E invece veniamo a sapere alla fine che Cristina si volta verso Vesna, quindi vuol dire che fino a quel momento stava guardando altrove. Ma dove? Andrebbe precisato.

La si potrebbe per esempio far avvicinare alla vetrina, per specchiarcisi meglio, così il lettore saprebbe che sta sì parlando a Vesna, ma guardando la sua immagine sulla vetrina, il che sarebbe massimamente coerente con quel che dice, e alla fine, appunto, farla voltare verso Vesna.

Andiamo avanti.

Incrocio le braccia e increspo le sopracciglia. «Non è stato Celestino. Vero?»

Lei scuote la testa, alza i grandi occhiali da sole e si specchia nella vetrina.

«Macché, sono settimane che non lo vedo. Ho dato giusto un ritocchino agli zigomi.»

Non ci credo. Ancora insiste con il suo ex marito! Forse era meglio se continuava a prendere botte da Celestino invece di affidarsi al bisturi di quel macellaio.

«Ma perché continui a farti questo? L’ultima volta ci hai quasi rimesso una tetta. Guardati! Non ti si vedono gli occhi, sei tutta gonfia.» Gonfio le guance e metto le mani a coppa ai lati del viso.

Si mette gli occhiali e sospira. «Sai che faccio, ci vado proprio adesso. Irrompo nel suo studio in queste condizioni. Vieni con me, ti prego.»

Questo passaggio è ben fatto sotto il profilo del flusso informativo: applica bene i principî del dialogo narrativo – conflitto e obliquità –, crea una concatenazione naturale con i pensieri del “Punto di Vista”, e permette così di passare informazioni significative al lettore dall’interno della scena.

Registro alcune sbavature, a livello di micro-editing. Nella battuta “Non è stato Celestino. Vero?” è meglio usare la virgola: “Non è stato Celestino, vero?” come è facile rendersi conto se si prova a recitarla.

In “Lei scuote la testa” il “lei” è superfluo, perché ci sono solo due personaggi in scena, e scrivendo in Prima Persona non può crearsi ambiguità.

Quel “sei tutta gonfia” nella battuta di dialogo seguita da “Gonfio le guance” crea una fastidiosa ripetizione (gonfia-gonfio). Si potrebbe provare così.

«Ma perché continui a farti questo? L’ultima volta ci hai quasi rimesso una tetta. Guardati!» Gonfio le guance e metto le mani a coppa ai lati del viso «Non ti si vedono più neppure gli occhi».


E tanto basta – al lettore – a raffigurarsi un viso pesantemente rifatto.

Si avvicina e cerca di prendermi le mani, faccio un passo indietro e scuoto la testa. «Non se ne parla, non chiedermelo proprio. Io lui non lo voglio proprio vedere. Mamma mia Cri!» Tossisco e sventolo una mano sotto il naso. «Ma quanto profumo ti sei messa!»

Questo passaggio è problematico da diversi punti di vista.

Anzitutto quel “cerca di” è un errore (torna al modulo 15C, se non capisci perché).

E poi il flusso è incoerente: nel momento stesso in cui Cristina si avvicina – e cioè all’inizio della frase, comunque da emendare per quel “cerca di” – il “Punto di Vista” sente l’odore pesante del profumo, e quindi, per realismo, lo deve far notare subito, per poi tornare all’argomento di discussione.

Sarebbe più o meno così.

Si avvicina e mi stringe le spalle, mi libero dalla presa, tossisco e sventolo una mano sotto il naso. «Ma quanto profumo ti sei messa!»

«Allora, vieni?»

«Non se ne parla, non chiedermelo proprio. Io lui non lo voglio proprio vedere.»

E starà poi all’autore valutare se inserire o meno dei beat per accompagnare le due battute di dialogo e quale struttura assegnargli.

La borsa le scivola dalla spalla, con un ghigno di dolore la tira su. «Non posso ancora fare la doccia. Ken mi ha detto di aspettare, l’infezione è ancora in corso.»

Una minuzia sull’uso delle preposizioni: “con un ghigno di dolore la tira su” fa sembrare il ghigno come un gesto strumentale a tirare su la borsa, come se uno dicesse “con l’interruttore accendo la luce”.

La frase rimane chiara, se ne capisce il significato (“con” è usato per associare due eventi: il ghigno e il tirar su la borsa), però un cultore della pulizia stilistica dovrebbe fare attenzione a questi dettagli (che possono sembrare cose da grammar-nazi, lo ammetto).

Inarco le sopracciglia. «Che infezione?»

«Quella della mastoplastica, sai non era guarita del tutto e qualche giorno fa è peggiorata.»

«Adesso basta!» Alcuni passanti si voltano a guardarmi. Chiudo gli occhi e respiro profondamente.

«Ti accompagno al suo studio, io non salgo, ma se non risolve la situazione entro qualche giorno ti porto in ospedale e tu lo denunci. Capito!»

* * *

Quel “profondamente” è un errore (torna al modulo 15B, se non ne capisci il motivo).

Il dialogo continua a funzionare: conflitto e obliquità permettono di passare informazioni utili, nel modo corretto.

Quel “Alcuni passanti si voltano a guardarmi” non è tecnicamente sbagliato, ma un minimo di qualificazione avrebbe reso maggiormente tridimensionale la scena (se non vi fossero stati vincoli esogeni di spazio). “Alcuni passanti”… chi? Un uomo in giacca e cravatta? Una mamma con una bambina? Una vecchietta? Ci sta, per certi versi, che il “Punto di Vista” non presti particolare attenzione alle persone intorno, ma “alcuni passanti” è davvero troppo generico, e qualificandone opportunamente la natura si potrebbero dare anche dettagli sull’ambiente, per rendere il tutto più realistico.

Il taglio di scena (segnalato dai tre asterischi) è ben fatto perché lascia aperto un bel ventaglio di possibilità: potremmo ritrovare la protagonista sia in ospedale sia in una caserma dei carabinieri (come il testo suggerisce in modo esplicito) ma rimangono plausibili anche situazioni intermedie (suggerite in modo implicito) che l’autore ha poi effettivamente messo in atto.

Il telefono squilla, sul display c’è un nome. “Ken/Salvo”, sono le 03.46.

«Salvatore, dimmi. Che succede?»

« Scusami se ti chiamo a quest’ora! Sono davanti casa di Cristina. Sai tornavo da una cena e passavo di qui. Sono molti giorni che cerco di chiamarla ma lei non risponde. La luce in soggiorno è accesa e se la chiamo sento suonare il suo cellulare ma lei non risponde. Tu hai le chiavi di casa sua? Vero!»

Un formicolio mi pizzica la base della testa, scendo dal letto e con i piedi cerco le pantofole al buio, allungo la mano e accendo la luce.

«Come… Cosa vuoi dire che sono giorni che cerchi di contattarla? Due giorni fa l’ho accompagnata alla tua clinica.»

«Scherzi?! Sono almeno due settimane che non la vedo. L’ultima volta è venuta da me per quella medicazione sotto il seno, poi non l’ho più vista.»

Allora non è salita a farsi medicare. Giuro che se non è morta, l’ammazzo io!

«Si ho le chiavi. Aspettami, ti raggiungo.»

* * *

Questa è una bella “scena corridoio”: serve a condurre la storia verso il suo culmine, ma si è avuta la cura di inserire un forte elemento di curiosità.

La brevità della scena giustifica pure la scelta di far parlare il personaggio al telefono (che di base è un’opzione limitativa, perché si perde del tutto la recitazione dell’altro personaggio e – di conseguenza – anche la recitazione del “Punto di Vista” viene vincolata, non potendosi avere reazioni fisiche alle azioni dell’altro personaggio).

Anche l’attacco della scena è buono, perché smazza subito via le opzioni standard suggerite dalla chiusura della scena precedente. Rimane un po’ legnoso sul piano stilistico. Lo si potrebbe migliorare – ad esempio – facendo sobbalzare il personaggio allo squillo del telefono, anche per introdurre un minimo di dinamicità, e conformarsi alla sequenza ottimale per cui a una percezione (in questo caso uditiva, lo squillo del cellulare) devono seguire gli effetti sul personaggio (il sobbalzare). Pure quel “sul display c’è un nome. ‘Ken/Salvo’, sono le 03.46” si può migliorare, accentuando gli elementi visivi e sonori, e magari facendo seguire un pensiero al fatto di ricevere una telefonata a un’ora inconsueta.

Il taglio di scena – con la battuta di dialogo – non lascia qui dubbi su dove ritroveremo la nostra protagonista.

Parcheggio l’auto lungo la strada, lui cammina avanti e indietro nel vialetto della casa di Cristina torturandosi le mani, nonostante tutto non ha un capello fuori posto.

Scendo dall’auto e mi avvicino a passo deciso. «Se gli è accaduto qualcosa è colpa tua!» Gli punto l’indice sul petto, «Dovevi rifiutarti. Passi le tette, ma dopo quello che gli è accaduto, dovevi rifiutarti. Fargli un altro intervento prima che si rimettesse.»

«Sei impazzita? Di cosa stai parlando?»

«Degli zigomi.» Idiota. Con entrambe le mani mi colpisco la faccia. «Quando l’ho vista, due giorni fa, aveva la faccia così gonfia che non gli si vedevano nemmeno gli occhi!»

La scrittura è buona, complessivamente.

Apprezzabile – in particolare – la coerenza tra il beat (“Gli punto l’indice sul petto”, un gesto velatamente aggressivo) e la battuta di dialogo (di contenuto accusatorio) che ben restituiscono lo stato d’animo del “Punto di Vista” e consentono di immaginare in autonomia tutto il resto. Lo stesso apprezzamento vale per l’altro beat (“Con entrambe le mani mi colpisco la faccia”).

Quel “parcheggio l’auto lungo la strada” suona un po’ vago. Che vuol dire “lungo la strada”? Si può sicuramente migliorare e – con l’occasione – dare alcuni elementi di luogo.

Cerco le chiavi in fondo alla borsa, il cuore mi batte così forte che lo sento pulsare nelle orecchie, nemmeno il portachiavi a forma di coccinella, il mio antistress, quello che abbiamo comprato insieme mi tranquillizza. Le infilo nella serratura, sento una stretta alla bocca dello stomaco.

Qui ci sono parecchie sbavature.

Quel “Cerco le chiavi” è debole. La versione corretta sarebbe “Frugo nella borsa, alla ricerca delle chiavi”, perché “frugare” è un verbo più facilmente simulabile di “cercare”.

Per due volte, poi, si fa uso del verbo percettivo “sento” (torna al modulo 15C, se non capisci perché è un errore).

Il passaggio “quello che abbiamo comprato insieme” – nel fraseggio interiore – suona forzato, al limite dell’infodump.

Appena apro la porta una nauseante puzza di putrefazione mi aggredisce, lo stomaco sì contrae e un conato di vomito mi assale. Ken si volta di scatto, prende un fazzoletto di carta, lo appoggia sotto il naso ed entra dentro l’appartamento, le mie gambe si irrigidiscono, nel lungo istante che la mia mente cerca di collegare i pensieri lui esce di corsa.

Altro passaggio piuttosto problematico: la scrittura è lenta e si avvita su sé stessa, rispetto alla velocità della dinamica reale. Quanto meno l’inizio andrebbe modificato più o meno così:

Apro la porta e una puzza di putrefazione mi provoca un conato di vomito.

Osserva, in particolare, come l’espressone originaria “una nauseante puzza di putrefazione” soffre di un eccesso di precisazioni: la puzza è nauseante , di per sé, figurarsi poi se è di putrefazione. A che serve quindi precisare “nauseante”? Esiste forse una “puzza di putrefazione” che non lo è?

Ricorda sempre “la regola del contrario”, nell’uso degli aggettivi: se il sostantivo non ammette l’aggettivo contrario a quello che gli hai associato, allora quell’aggettivo non serve (per capirci: non serve dire “pericoloso criminale”, perché non esistono “criminali innocui”, e nell’essere un “criminale” è già implicito un elevato tasso di pericolosità).

Quel “nel lungo istante che la mia mente cerca di collegare i pensieri” non supera il test del mattoncino, quindi è un errore; il collegamento con “lui esce di corsa” è forzato e crea un flusso problematico da simulare.

«Chiama la polizia.» Allunga il braccio, apre la mano e la scuote davanti al mio viso. «No, non entrare.»

Si appoggia alla cassetta della posta, abbassa la testa e tossisce, con l’altra mano si massaggia la pancia.


Quel “con l’altra mano” non serve, perché non aggiunge nulla di significativo.

Un puntino di sole fa capolino da dietro la montagna, una signora con delle pantofole molto più grandi dei suoi piedi e un giubbotto imbottito buttato addosso al pigiama sì avvicina; entra nel vialetto della casa di Cristina, ma un poliziotto le fa cenno di allontanarsi.

Schiaccio la sigaretta sul cordolo del marciapiede e mi alzo con il culo ghiacciato, con le mani scuoto la terra che mi è rimasta attaccata ai pantaloni. Al diavolo! Era più di un anno che non fumavo.

La signora in pantofole si avvicina. «Cos’è accaduto alla Cristina?» Si stringe il colletto del giubbotto con entrambe le mani. 

Questo passaggio è gestito male.

Quel “una signora con delle pantofole molto più grandi dei suoi piedi e un giubbotto imbottito buttato addosso al pigiama” è un cosiddetto cumulo nominale: un soggetto formato cumulando più nomi (la signora, le pantofole più grandi dei piedi, il giubbotto imbottito addosso al pigiama) che incontra il verbo a una distanza siderale. Brutto e sostanzialmente statico (equivale a una fotografia del personaggio, quando noi vogliamo un filmato) e quindi non aiuta la lettura.

Servirebbe una frase realmente dinamica, dove anzitutto una signora si avvicina e, avvicinandosi, compie dei gesti o le accadono delle cose (dinamicità) che portano il “Punto di Vista” a notare le pantofole enormi e il giubbotto sopra il pigiama (che di per sé sono dettagli ben scelti e caratterizzanti). Forse – relativamente al giubbotto – si potrebbe addirittura usare un gerundio (“Una signora si avvicina abbottonandosi un giubbotto sopra il pigiama”) perché le due azioni – avvicinarsi e abbottonarsi il giubbotto – possono in effetti accadere in simultanea ed essere sostanzialmente allineate nei tempi di esecuzione.

Veniamo poi a sapere che un poliziotto la blocca; quindi la polizia è arrivata, e forse anche da un bel po’; e com’è che noi – lettori – non l’abbiamo vista arrivare? Un evento così rilevante andrebbe mostrato, non può passare nel sotto-testo (ma qui, forse, l’autore doveva risparmiare spazio per stare entro i vincoli di parole imposti dal  “contest”).

Belli i dettagli del “culo ghiacciato” e della “terra rimasta attaccata ai pantaloni”, e ottimo anche il pensiero sulla sigaretta, che rende bene lo sconvolgimento emotivo in cui si trova il personaggio.

Quel “la signora in pantofole si avvicina” – come beat della battuta di dialogo – manda in confusione. Non si era già avvicinata prima? Quanto tempo le occorre per avvicinarsi a sufficienza? Possibile che sia così lenta?

Solo in questo momento mi accorgo che è molto freddo e io indosso solo una felpa leggera. «Non so molto più di lei.» Mento, non riesco a dirlo. Mi volto e vado verso la mia macchina parcheggiata al di là della strada, spero di trovare qualcosa di più pesante da indossare. Un poliziotto mi segue con lo sguardo, quando vede che prendo un giubbino dall’auto e torno sul marciapiede si tranquillizza.

Anche questo passaggio è gestito male.

Quel “Solo in questo momento mi accorgo che è molto freddo e io indosso solo una felpa leggera” suona “molto raccontato e poco mostrato”, e a ogni modo non è credibile. Se fa molto freddo, e la protagonista indossa solo una felpa leggera, lo dovremmo venire a sapere – ad esempio – dal fatto che a un tratto viene colta da brivido e non da una descrizione che  – ancora una volta – è puramente statica, in stile fotografia.

Quel “Mento, non riesco a dirlo” non supera il test del mattoncino, perciò è un errore.

Il “quando” è un errore (torna al modulo 15B, se non ne capisci il motivo).
 
Che il poliziotto “si tranquillizza” lo si deve far capire da ciò che il poliziotto fa e dice, e non scrivendo “si tranquillizza”, per il solito principio per cui gli stati d’animo non si dichiarano mai esplicitamente (modulo 9).

Il commissario di polizia esce dalla casa, si toglie la mascherina e si struscia gli occhi con pollice e indice.

«Il medico legale dice che è morta da almeno dieci giorni. La decomposizione è in uno stato avanzato.»

«Da dieci giorni? Ma se l’ho incontrata due giorni fa!»

Mi guarda strabuzzando gli occhi. «Il Coroner farà un’autopsia, dobbiamo fare degli accertamenti.»

Ritorna il problema dell’eccesso di precisazioni: “si struscia gli occhi con pollice e indice” è troppo costruito, artefatto, non corrisponde alla reale percezione del personaggio, che suonerebbe più vera e diretta nella forma “si stropiccia gli occhi”.

Per il resto, il flusso di informazioni consolida la stranezza della situazione, e quindi va bene così.

Il viso abbronzatissimo di Ken perde colore.

«Perché dovete fare degli accertamenti? Pensate sia stata uccisa? Se pensate questo devo parlare con qualcuno. È stato il suo ex compagno, si chiama Celestino, è un uomo molto viol—.»

Lo interrompo prima che finisca la frase.

«Nessuno ha detto niente. Hai paura venga fuori che aveva una infezione per una mastoplastica curata male, che tu hai fatto?» Gli punto il dito contro.

Ci sono diversi problemi, facili da risolvere in sé, ma segno di una mancata comprensione di alcuni principî.

“Abbronzatissimo” è un superlativo inutile. “Abbronzato” va più che bene. E – a ogni modo – che il viso di Ken è “abbronzato” non possiamo venirlo a sapere solo adesso, quando finora ce lo siamo immaginato normale. Questa caratteristica andava precisata subito, all’apparizione di Ken sulla scena, magari con un pensiero del “Punto di Vista” (qualcosa del tipo “ma tu guardalo: siamo a gennaio ed è abbronzato come fossimo in piena estate”, utile anche per confermare la localizzazione temporale che implicitamente era stata comunicata all’inizio, dicendo che la protagonista indossava un cappotto). Trovo invece grazioso quel “perde colore” (che è chiaramente una percezione psicologica del “Punto di Vista”) perché crea un bel contrasto tra la realtà oggettiva e l’interpretazione soggettiva (il viso di Ken è rimasto abbronzato, ma il protagonista lo vede sbiancato). 

Quel “Lo interrompo prima che finisca la frase” è l’apice dell’inutilità. Si è correttamente messo l’em-dash (—), il simbolo che indica il troncamento della frase. A che serve quindi esplicitare l’interruzione nel testo, se la si è già comunicata col suo elemento in codice? O, se preferisci, a quale mattoncino narrativo dovrebbe corrispondere la frase “Lo interrompo prima che finisca la frase”?

Quel “Gli punto il dito contro” andrebbe inframmezzato nella battuta:

«Nessuno ha detto niente.» Gli punto il dito contro. «Hai paura venga fuori che aveva una infezione per una mastoplastica curata male, che tu hai fatto?»
 
Prova a recitarlo, e ti renderai conto che così – col beat nidificato – la simulazione funziona meglio, è più realistica.

Il commissario chiama un poliziotto con un cenno della mano. «Accompagnali in centrale.»

Ken mi si avvicina all’orecchio. «Pazza, schizofrenica. So quello che vuoi fare, ma tu non sarai mai lei.»

Alzo gli occhi al cielo. «Ancora con questa storia? Sei ridicolo! Pensi forse di accusarmi di qualcosa?» Questa volta non riuscirà a farmi perdere le staffe.

* * *

Qui ci sono diverse cose fatte bene.

Qui, sì, ci sta tutta la precisazione che il commissario chiama un poliziotto “con un cenno della mano”, perché in effetti ci sono molti modi con cui – in generale – si può chiamare una persona (a voce, con un fischio, con un cenno della mano, …) e allora è corretto precisare quale sia.

Buono il beat di Ken che si avvicina all’orecchio della protagonista: fa capire – nel sotto-testo – che la frase è sussurrata, o comunque pronunciata a bassa voce, e quindi se ne dà sì il tono, ma senza esplicitarlo.

Il beat “Alzo gli occhi al cielo” andrebbe usato in modalità nidificata, per dare varietà al testo, ma anche – di nuovo – per avere un migliore recitazione.

«Ancora con questa storia?» Alzo gli occhi al cielo. «Sei ridicolo! Pensi forse di accusarmi di qualcosa?» Questa volta non riuscirà a farmi perdere le staffe.

Al solito: prova a recitarlo, e ti renderai conto che funziona meglio così.

Torno a casa stanchissima. Appena apro la porta Jo si struscia alle mie gambe, la prendo in braccio e le accarezzo il pelo lungo e morbido. «Meno male che ci sei tu.»

L’autore è affaticato, ha fretta di concludere e si vede.

“Torno a casa stanchissima” è un raro concentrato di errori in così poco spazio. Se l’atto del “tornare a casa” è rilevante, allora lo si mostra (si fa vedere – sulla pagina – la protagonista che percorre la strada di ritorno a casa, con tutti i dettagli necessari); se invece non è rilevante (come in effetti non lo è) allora si fa capire che la protagonista è tornata a casa facendole compire un’azione che la localizza.

Quel “stanchissima” è un doppio errore: gli stati fisici e psicologici non si dichiarano mai esplicitamente, ma si comunicano attraverso azioni, pensieri, percezioni e dialoghi (torna al modulo 9, per un ripasso) e il superlativo, a ogni modo, non aggiunge nulla (“stanca” sarebbe già sufficiente, fermo restando che scrivere “stanca” è già un errore).

Mi siedo sul divano, tolgo le scarpe e allungo i piedi sul pouf. La gatta incomincia a massaggiarmi la pancia e a fare le fusa. Mi accarezzo il collo, cerco di sciogliere un po’ di tensione, il peso della giornata si sta facendo avanti.

«Cristina non c’è più,» dico a voce alta, la gatta mi guarda e continua a massaggiarmi.

Ho fame, devo mangiare qualcosa, prima riempio la scodella di Jo, apro il frigorifero, prendo gli avanzi freddi e li mangio in piedi.

Non vedo l’ora di entrare nel letto. Prima però devo fare una doccia.

Entro in bagno e apro l’acqua calda, il profumo del bagnoschiuma alla camelia mi rilassa. Lavo i denti, pulisco lo specchio dal vapore e guardo la mia faccia stravolta, prendo un pochino di crema idratante e la massaggio sul viso, poi tocco gli zigomi come avevo visto fare a lei.

Siamo al disastro: evidentemente lo spazio a disposizione stava per finire, e serviva chiudere alla svelta.

Quel “cerco di” – al solito – è un errore (modulo 15C).

“Avanzi freddi”, se non è un errore, è comunque una scelta pigra (la protagonista, per quanto stravolta, si stara accorgendo di quale cibo specifico sta mangiando, no? E se lei, la protagonista, sa bene cosa sta mangiando, perché il lettore non lo sa?)

“Dico a voce alta” è un altro errore (modulo 12).

“Ho fame, devo mangiare qualcosa” – al solito – è un errore (perché gli stati fisici e psicologici non si dichiarano mai esplicitamente: modulo 9).

I “prima” e i “poi” sono errori (modulo 15B).

«Si Vesna, hai decisamente bisogno di ritoccare anche gli zigomi.» 
 
Resta irrisolto il mistero di Cristina: com’è possibile che la protagonista l’abbia incontrata di recente, se era deceduta già da tempo?
 
E perché mai, poi, la protagonista decide di rivolgersi a Ken, quando fino alla scena prima l’abbiamo vista accusarlo e prenderne le distanze?
 
Sicuramente la Vesna che ritroviamo alla fine è “ribaltata” rispetto alla Vesna conosciuta all’inizio, il personaggio è cambiato, sì, ma i motivi del cambiamento non sono per nulla chiari.
 
Né ha senso, d’altra parte, avventurarsi in chissà quali interpretazioni. Semplicemente, con ogni probabilità, le parole a disposizione erano finite, e serviva chiudere.
 

 
La (buona) scrittura ha già i suoi vincoli (sensati e utili) per pensare di introdurne altri (privi di logica e deleteri).
 
Scrivi solo l’autenticità che ti appartiene, ciò che senti nelle tue corde, senza mai assecondare – per mera vanità – quella pletora di sollecitazioni esterne che non risuonano con la tua anima.

E – soprattutto – non darti mai (e non lasciarti imporre) vincoli di spazio. Sei uno scrittore, per l’amor del cielo! Prenditi pure tutte le parole che ti servono (per scrivere una scena, un capitolo, un romanzo) e non una di più.

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