MODULO 19 – Infodump e rottura della quarta parete: il marchio dei dilettanti

 
Tre autori di generi diversi hanno replicato allo stesso modo a un mio rilievo sugli infodump presenti nei loro racconti: “ti sbagli, nella mia storia non ci sono informazioni-spazzatura”.

Ma da dove viene – mi sono chiesto – questa associazione tra gli infodump e la spazzatura?
 
Che domanda! Ma è ovvio. Dal luogo da cui ormai proviene tutto: internet.
 

 
Se esegui una ricerca su Google con la chiave “infodump”, il primo link in bella mostra è un sito di scrittura creativa che traduce la parola inglese “infodump” in “informazioni spazzatura”.
 
Tanto basta, ai più, per dire che nei loro racconti non ci sono infodump (ovvio: nessuno pensa di aver infilato della spazzatura nel suo racconto) senza neanche leggere la qualificazione successiva (“una serie di informazioni spesso non necessarie sciorinate dall’autore con una tecnica espositiva poco elegante e terribilmente noiosa”) che forse avrebbe chiarito il senso della mera traduzione letterale.
 
 
Vediamo di far chiarezza, di mostrare se non proprio tutte le nove teste dell’idra dell’infodump, almeno le più pericolose.

Ciao!
Sono l’infodump.

Riprendiamo la prima, ovvia, annotazione: nessun autore riterrà mai di aver messo “informazioni-spazzatura” nella sua storia; se ha inserito determinate informazioni – con tutta evidenza – le giudica rilevanti.

Abbiamo qui la prima sorgente di infodump, la più banale, ma proprio perciò la più grave: l’attribuire importanza a informazioni che non ne hanno.
 
La manifestazione classica dell’errore è nel riversare sulla pagina un blocco di stampo “anagrafico” sui personaggi.
 
Dalla Lezione 6 E se invece di Renzo e Lucia li chiamassimo Lui e Lei?”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Ne abbiamo parlato più volte, ma vale la pena ripeterlo ancora: un personaggio non diventa tridimensionale – vero, reale – perché tu, scrittore, ti affretti a stilarne la carta d’identità, magari con approccio artistoide. Il personaggio diventa tridimensionale quando agisce in coerenza col suo profilo psicologico. E questo è tutto.
 
E invece ancor oggi si leggono testi che sciorinano nome, cognome, età, professione, tratti caratteriali e abitudini del personaggio, in un colpo solo, come se tutto ciò potesse davvero farcelo conoscere. 
 
 
Basterebbe riflettere su ciò che avviene nel mondo reale, per coglierne l’assurdità: puoi dire di conoscere qualcuno solo perché del Signor Qualcuno ti sono stati comunicati nome, cognome, età, professione (e aggiungi pure tutte le informazioni che vuoi, ché tanto non cambia nulla)?
 
Accortezze ancora maggiori sono richieste per la presentazione dei luoghi.
 
Cosa abbiamo detto? Che la scrittura non è il cinema, che in scrittura non esiste una telecamera libera di inquadrare quel che desidera, che la scrittura si basa sul “Punto di Vista”, che non esistono luoghi dove non sia presente il “Punto di Vista”; e poi abbiamo detto che il luogo è un personaggio, che occorre uno sforzo creativo per far interagire il luogo con i personaggi propriamente detti, per non fare del luogo un mero tessuto connettivo privo di rilevanza narrativa. Non mi sembra meccanica quantistica.
 
E allora perché ancor oggi vediamo testi scritti così? 
 

Se Maria si è già alzata, se non è in camera da letto, chi è che sta osservando la camera con così tanta attenzione?
 
Devo ripetere la lezioncina di nuovo, un’altra volta, ancora una volta?
 
La scrittura non è il cinema, non puoi spostare la telecamera da un luogo all’altro a tuo piacimento, perché non hai nessuna telecamera; la scrittura inquadra il mondo della pagina con gli occhi del “Punto di Vista”, e non c’è realtà conoscibile al di fuori di quella restituita dal filtro del “Punto di Vista”, anche quando ci si limita alla realtà oggettiva (“L’albero nel mio giardino esiste solo quando io lo guardo”, per citare il fisico Niels Bohr).
 
Che ne è poi dello sforzo di creare un luogo-personaggio, se tutto si riduce a un’immagine statica? E se pure ce la si volesse digerire, l’obiezione tornerebbe di nuovo: la scrittura non è il cinema, quindi non ha senso ammassare dettagli su dettagli, nella speranza di evocare la stessa quantità di immagini che il singolo frame di un film ti restituirebbe all’istante, beneficiando del senso della vista.
 
Sì, lo so: lo hai visto fare a Manzoni con la celeberrima (famigerata?) “vigna di Renzo”, una descrizione statica della vigna, che prende una buona mezza pagina, con Renzo che neppure la guarda. Lo ha fatto Manzoni, bene.
 
Ma tu sei forse Manzoni? Vivi nell’Ottocento? E ambisci a scrivere con uno stile ottocentesco? 
 
O – per essere più concreti – se devi curarti un dente, vai forse alla ricerca di un dentista che opera secondo la prassi dell’Ottocento o ne cerchi uno allineato a migliori standard disponibili oggi, anno 2023?
 
Davvero non capisci che lo stile di scrittura muta, evolve, si raffina, e la miglior pratica di duecento anni fa – viva Iddio! – non può essere la stessa di oggi?
 
Andiamo avanti.


La parte evidenziata in blu demarca il vasto territorio del chissenefrega.
 
Cosa importa sapere che l’idea è stata di Nicola?
 
E, soprattutto, a che serve il pistolotto su come il padre contadino beveva l’uovo?
 
Continua pure a vomitare informazioni inutili sulla pagina, se questo ti fa piacere, se ti diverti così, ma non lamentarti se poi la reazione di un lettore tiepido sarà…

 
Questo tipo di infodump è il più grave, ma anche il più facile da evitare, per quel minimo di sensibilità artistica che si presume tu abbia.
 
Cosa ti sto dicendo, in fondo? Non stilare carte d’identità, fai agire i personaggi. Non prospettare situazioni generali, ma mostra singoli casi ad alto impatto drammatico. Collega le informazioni, tieni a mente la pistola di Cechov.
 
Dai, su, non mi sembra meccanica quantistica: ce la puoi fare.


Il primo livello di infodump è nell’attribuire importanza a informazioni che in realtà non comunicano nulla né sul personaggio né sulla storia.

Il secondo livello è fornire informazioni rilevanti nel modo sbagliato, il più delle volte mettendo in pausa la scena.

Fabio si svegliò con un gran mal di testa e la bocca impastata. La sera prima si era ubriacato di brutto, mischiando alcolici di ogni tipo, in un bar di periferia. Lo aveva fatto perché Alessandra lo aveva lasciato, ma in fondo se l’era cercata, era solo colpa sua. Negli ultimi mesi l’aveva trascurata, di più e sempre di più, e il suo atteggiamento non era cambiato nemmeno quando lei le aveva detto di un probabile tumore al seno. E tutto questo per cosa? Per la carriera, la maledettissima carriera, quel posto di capo divisione nel dipartimento marketing, che dopo una lotta acerrima, fatta di colpi bassi e scorrettezze, era andato ad Andrea Cavaliere, il suo rivale storico, sin dai tempi della Bocconi. E ora si ritrovava senza nulla: niente promozione, niente ragazza. Solo un gran mal di testa e un vuoto cosmico nell’anima. Si alzò e si diresse in cucina per prepararsi un caffè.

Riesci a individuare l’infodump? Dovresti, perché è gigantesco.
 
 
Fabio si svegliò con un gran mal di testa e la bocca impastata. La sera prima si era ubriacato di brutto, mischiando alcolici di ogni tipo, in un bar di periferia. Lo aveva fatto perché Alessandra lo aveva lasciato, ma in fondo se l’era cercata, era solo colpa sua. Negli ultimi mesi l’aveva trascurata, di più e sempre di più, e il suo atteggiamento non era cambiato nemmeno quando lei le aveva detto di un probabile tumore al seno. E tutto questo per cosa? Per la carriera, la maledettissima carriera, quel posto di capo divisione nel dipartimento marketing, che dopo una lotta acerrima, fatta di colpi bassi e scorrettezze, era andato ad Andrea Cavaliere, il suo rivale storico, sin dai tempi della Bocconi. E ora si ritrovava senza nulla: niente promozione, niente ragazza. Solo un gran mal di testa e un vuoto cosmico nell’anima. Si alzò e si diresse in cucina per prepararsi un caffè.
 
La parte in rosso è un infodump: sono tutte informazioni di indubbia rilevanza, per inquadrare correttamente la situazione e il personaggio, ma sono informazioni fornite “in blocco e dall’esterno”.

La scena è stata messa in pausa, dopo che il personaggio si è svegliato col mal di testa e la bocca impastata, e riavviata quando si alza per dirigersi in cucina a prepararsi un caffè. Nel mezzo c’è l’intrusione dell’autore nella pagina  – io, in questo caso, che ho concepito il testo bell’apposta – che si rivolge direttamente al lettore per passargli informazioni senza le quali sarebbe difficile, se non impossibile, mettere a fuoco il mondo della pagina.
 
Le informazioni saranno pure rilevanti, ma sono trasmesse – per riprendere le parole della ricerca su Google – “con una tecnica espositiva poco elegante e terribilmente noiosa”, o per meglio dire, in modo tecnicamente sbagliato, senza se, senza ma.
 
Come si potrebbe sistemare un testo simile? Nel solito modo: trasformandolo in un flusso ordinato di mattoncini narrativi.

Il personaggio si sveglia col mal di testa e la bocca impastata; la sensazione fisica chiama un pensiero naturale sulla serata precedente (qualcosa del tipo “quanto cazzo ho bevuto ieri sera, ho proprio esagerato”) e così veniamo a sapere che è reduce da una brutta sbornia; una volta in cucina, mentre si prepara il caffè, potrebbe vedere un oggetto che gli ricorda Alessandra (ad esempio un particolare bicchierino di vetro in cui lei prendeva sempre il caffè, magari un bicchierino con su scritto proprio “Alessandra”, magari sormontato due rose incrociate, giusto per non renderlo anonimo); e così l’atto di prepararsi il caffè potrebbe accompagnarsi con dei pensieri su Alessandra, che pian piano – perché in scrittura le cose arrivano una alla volta – ci delineano la situazione; e mentre il personaggio è lì a sorseggiare il caffè, con i pensieri rivolti ad Alessandra, ecco arrivare lo squillo di un WhatsApp; è un messaggio di Andrea Cavaliere, che lo informa di aver fissato una riunione per lunedì con un grosso cliente, e i pensieri del personaggio slitteranno allora su di lui, e così la situazione si arricchirà di dettagli, e pian piano, parola dopo parola, tutto si farà più chiaro, all’interno di un flusso narrativo che di per sé è chiaro sin dall’inizio, e diventerà più preciso e nitido man mano che si andrà avanti, nel rispetto dei tempi e della realtà del mondo della pagina.      
 
Dovrebbe suonarti naturale, se stai studiando il manuale come dovresti: basta applicare il test del mattoncino, per evitare questo secondo livello di infodump. 
 
E siccome l’applicazione del test è meccanica, e non costa fatica, potresti pensare che nessuno possa realmente cadere in questo secondo livello di infodump.
 
Già. Nessuno può cascarci. O quasi.
 
Quello è l’anello di nonna, quello che mi ha lasciato prima di andarsene «Così mi porterai sempre con te» aveva detto, se lo era tolto, lo aveva chiuso tra le mani mentre se le portava davanti alla bocca, aveva detto qualche preghiera e poi ci aveva soffiato dentro.
 
Avevo deciso che quello sarebbe stato il mio portafortuna. Mia nonna era un po’ strega, una di quelle che segnava la paura, toglieva il malocchio e leggeva le carte, alcune volte faceva gli incantesimi agli innamorati. Mi incantavo a vederla muovere le mani mentre spiegava agli sfortunati ospiti le sventure che avrebbero incontrato e come lei li avrebbe aiutati ad affrontarle.
 
Dopo la sua morte, avevo preso l’abitudine di tormentarlo quando ero in ansia, nei momenti di stress lo ruotavo tra le dita, chiudevo gli occhi e ripetevo mentalmente le preghiere che nonna usava dire spesso, quella cantilena mentale mi aiutava a sopportare meglio l’attesa.
 
Questo è l’incipit di un testo reale.

Abbiamo una Prima Persona al Passato, una scelta di per sé azzardata, perché crea un “effetto diario” che dà la costante sensazione di un personaggio che parla al lettore; e spesso finisce col parlarci davvero, proprio come avviene in questo brano.

Ma il personaggio non deve parlare al lettore, perché il personaggio non sa che il lettore esiste! 

Tu, nel mondo reale, parli forse con delle entità che non vedi e non senti, che non percepisci, per informarle della tua vita? Non credo (o almeno spero di no). Tu vivi e basta. E lo stesso deve accadere al tuo personaggio: deve semplicemente vivere la sua vita all’interno del mondo della pagina, solo che tu, scrittore, dio creatore, gli farai vivere delle esperienze che siano informative anche per il lettore. L’abilità è tutta qui: far compiere al personaggio delle azioni (o fargli avere dei pensieri o delle percezioni, o fargli dire delle cose) che per lui, per il personaggio, hanno massimamente senso, data la situazione in cui si trova, ma che siano massimamente informative pure per il lettore.

L’infodump prende il nome di “rottura della quarta parete” quando il personaggio si rivolge direttamente al lettore, perché è come se venisse abbattuto quel “muro immaginario posto di fronte al palcoscenico, attraverso il quale lo spettatore osserva l’azione che si svolge nell’opera rappresentata” – per riprendere la definizione di Wikipedia – e che idealmente rappresenta “il completamento delle tre pareti che normalmente formano il palcoscenico”.
 
 
L’attacco è eccellente, così come la parte finale: un flusso di dettagli concreti, vividi, sensoriali, perfettamente coerenti; peccato che in mezzo ci sia una spippolata su Properzia de Rossi e sulle sue sculture.
 
Questa informazione ha la sua rilevanza nell’economia del racconto, perché più tardi il personaggio troverà nella sua cucina una scultura concepita con i noccioli delle albicocche, senza però sapere chi l’abbia realizzata.
 
Quindi, sì, l’informazione è importante, ma è restituita al lettore – di nuovo – “con una tecnica espositiva poco elegante e terribilmente noiosa”: il personaggio buca la quarta parete e parla direttamente al lettore, per informalo di cose che gli torneranno utili nel seguito del racconto (anzi, a dirla tutta, non si sa se sia il personaggio o l’autore in persona a parlare al lettore, ma in fondo poco importa: il fatto rilevante, e censurabile, è che la quarta parete è stata bucata, e poco conta a questo punto chi sia stato, se il personaggio o l’autore).
 
Ma la buona scrittura non funziona così. Le informazioni devono sempre arrivare al lettore “dall’interno” della scena, come corollario di ciò che i personaggi naturalmente farebbero, direbbero o penserebbero nella specifica scena in cui il dio creatore li ha collocati.

Lascio a te – come semplice esercizio – le considerazioni su quest’altro brano.
 
 
Non rompere mai la quarta parete.
 
Non me ne frega un cazzo ha nessuna importanza che in passato lo abbia fatto Pirandello: tu non sei Pirandello, quindi fai il cazzo di favore di non rompere mai la quarta parete.
 
Perché solo due classi di autori rompono la quarta parete: i premi Nobel e i dilettanti. Tu hai forse vinto un Nobel?

Quando il New Jork Times dedicherà un articolo anche a te per la vincita del Nobel,
allora sarai libero di rompere la quarta parete, e pure la quinta e la sesta, se ti fa piacere.
Prima di allora, fatti una cortesia: non renderti ridicolo.

Riepiloghiamo ed estendiamo le forme di infodump.
    
Primo livello: informazioni inutili scambiate per rilevanti.

Secondo livello: informazioni rilevanti trasmesse in modo tecnicamente sbagliato.

Terzo livello: informazioni rilevanti trasmesse in modo formalmente corretto, ma sostanzialmente sbagliato, e quindi, ancora una volta, tecnicamente sbagliato.

Ti propongo una battuta di dialogo, ripresa da un testo reale.
 
«Beatrice, la mamma non sta bene, di testa, voglio dire. Non è stata sempre così. Quando l’ho conosciuta in ufficio era gentile ed era tanto bella, me la ricordo ancora, come un’attrice. Ogni tanto si innervosiva e mi trattava male. Niente di strano, pensavo. Insomma, Beatrice, non lo so che cosa le sia successo. Dovrebbe rivolgersi ad un medico. Ma capisci anche tu che non ci andrà mai.»

Il “Punto di Vista” è Beatrice, una studentessa universitaria con un lavoro part-time in una gelateria, e una situazione familiare parecchio complicata: la madre è una mezza matta, esaurita, depressa, sempre nervosa, e lo è praticamente da sempre. Ci è stato appena mostrato un litigio tra le due; il padre rientra a casa e dall’aria che tira capisce che qualcosa non va; entra nella stanza di Beatrice e la trova rannicchiata sul letto, si fa raccontare ciò che è successo, e abbozza il discorsetto consolatorio che hai appena letto.
 
Ragioniamo: Beatrice conosce perfettamente i problemi della madre; vive in quella casa da sempre, ed è consapevole della situazione; il padre quel discorso glielo avrà sicuramente già fatto quando aveva 12 anni, con ogni probabilità glielo avrà ripetuto a 13, a 14 a 15 a 16 anni; ma poi basta. Perché glielo sta rifacendo ora, che di anni ne ha 22, per di più con un’intonazione di novità? Solo per informare il lettore, ecco perché.

Ma la scrittura non funziona così. Ciò che si trova sulla pagina deve sì essere informativo per il lettore, ma deve prima di tutto avere perfettamente senso per il personaggio.
 
Si producono infodump (di terzo livello) quando le frasi sulla pagina – pur superando formalmente il test del mattoncino – non corrispondono a nulla che i personaggi si sognerebbero mai di pensare, dire, fare o percepire, nella specifica scena in cui sono stati collocati, creando così una situazione irreale, straniante.
   
 
dialoghi e i pensieri sono i mattoncini che naturalmente si prestano a essere sporcati con gli infodump di terzo livello, ma a volte anche il mattoncino delle percezioni sensoriali viene strumentalizzato per forzare il flusso informativo verso il lettore. 

Parcheggio la macchina nel posto-auto condominiale.
 
Parcheggio la mia Yaris blu nel posto-auto condominiale.

Questo blog promuove una scrittura interamente basata su un flusso di dettagli concreti, vividi, percepibili, visualizzabili, e più in generale simulabili: la lettura deve indurre un film mentale (coerente, nitido, emozionante).

Il culto del dettaglio concreto non deve però degenerare in un’adorazione aprioristica e incondizionata.
 
È rilevante far sapere al lettore che l’auto del personaggio è una Yaris blu?
 
Se la risposta è “no”, la prima frase è corretta, la seconda è un infodump.
 
Se la risposta è “sì”, il problema permane.
 
Tu, essere reale del mondo reale, quando parcheggi la tua auto, stai lì a pensare alla sua marca e al suo colore? Non credo. Se non si produce una situazione che attira la tua attenzione sulle caratteristiche della tua macchina – ad esempio vedere che nel posto auto accanto al tuo è comparsa un’altra Yaris blu – tu percepisci la tua Yaris blu semplicemente come una “macchina”, non stai lì a pensare di continuo di avere una Yaris blu, ma hai semplicemente consapevolezza di avere una macchina, punto.
 
E lo stesso vale per il personaggio: lui sa di avere una Yaris blu, ma non pensa certo in termini di Yaris blu, lui pensa – come te – di avere una macchina, punto. Se gli fai percepire una Yaris blu, anziché una macchina, solo per informare il lettore, stai cadendo in un infodump.
 
Vale per la Yaris blu e per tutto il resto.
 
Se il tuo personaggio è uno sceicco abituato a espletare i suoi bisogni in un water d’oro massiccio, ebbene, il water d’oro massiccio, per lui, sarà la normalità, e non starà ogni volta a pensare di star cacando dentro dell’oro massiccio più di quanto tu puoi pensare di cacare dentro della ceramica. Il water (d’oro massiccio per lui, di ceramica per te) è semplicemente… un water.
 
Scrivere una frase del tipo:
 
Mi siedo sul water d’oro massiccio e lascio andare una scarica di diarrea.
 
non ha più senso di scrivere:
 
Mi siedo sul water di ceramica e lascio andare una scarica di diarrea.
 
Ti è mai capitato di pensare al materiale di cui è composto il tuo water, quando ti ci siedi sopra? Non credo (meno che meno se sei in preda ad un attacco di diarrea). E allora perché lo scrivi sulla pagina? Solo per informare il lettore? Infodump.
 
Se vuoi passare l’informazione sul water d’oro massiccio, allora devi creare una situazione in cui il personaggio abbia occasione di notare una cosa che già sa. Potrebbe vedere – così, giusto per dire – che sul bordo si è prodotta una scalfittura, e questo fatto potrebbe suscitargli un pensiero da cui vien fuori che il water è d’oro massiccio.
 
Il principio generale è semplice: il personaggio non nota nulla di ciò che per lui è normale, ordinario, consueto; e, se lo nota, è perché si è prodotta una specifica situazione che lo spinge a notarlo.
 
Facile, no?
 
Il culto dei dettagli non deve degenerare in un’ossessione per i dettagli.

Come si evitano gli infodump?
 
Semplice: bisogna ragionare al contrario rispetto a come si agisce.

La scena si scrive dall’inizio alla fine, dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra, scendendo ogni volta di un rigo. Ma si progetta in senso inverso: si parte dalla fine per tornare all’inizio, si risale rigo dopo rigo, da destra a sinistra, dal basso verso l’alto.

Prima di metterti a scrivere una qualsiasi scena – prima, per l’amor del cielo, prima! – chiediti sempre cosa il lettore dovrà sapere alla fine della scena, quali informazioni rilevanti avrà ottenuto grazie alla lettura della scena, cosa saprà in più di interessante e significativo, rispetto all’inizio.

Dopodiché fatti una semplice domanda: qual è la scena migliore – in termini di tempo, luogo e attori coinvolti – per far sì che tutte le informazioni che voglio passare al lettore si manifestino in modo naturale, come ovvia conseguenza di ciò che ha massimamente senso che i personaggi facciano, dicano e pensino, nella situazione in cui li ho messi?

La scena che scriverai non è l’input dell’algoritmo, ma l’output.

È una cazzata follia scrivere una scena perché sì – perché questo luogo è fantastico, questi personaggi sono adorabili, e a te piace far accadere queste cose – e scoprire alla fine che poco o nulla di quel che si voleva trasmettere al lettore è effettivamente arrivato.

Questa è la prima causa di infodump, la madre di tutti gli infodump, e ora capisci perché parlo degli infodump come del marchio del dilettante.

Perché solo se scrivi per tuo diletto – senza curarti del lettore, ma pretendendo poi il suo apprezzamento – puoi essere così superficiale da realizzare la scena man mano che la scrivi. Arrivato alla fine, inevitabilmente, qualcosa non tornerà, sentirai che mancano informazioni. Ma ormai la scena è scritta, tanto più che era proprio la scena che volevi scrivere – ti piace così tanto! – e però le informazioni vanno date. E così le inserirai a forza, con l’approccio “taglialo grosso, infilalo a calci” – farai compiere ai personaggi azioni insensate, gli metterai in bocca frasi assurde, oppure invaderai direttamente la pagina per dire ciò che manca – quando la scrittura è invece tutto un gioco di finezze, di rifiniture, di cesello.

E non è finita. Non solo devi ragionare al contrario (dalla fine all’inizio) rispetto a come poi materialmente scriverai (dall’inizio alla fine) per individuare la scena migliore, ma devi anche sapere che 999 su 1.000 la prima scena a cui penserai non sarà la migliore. Perché il tuo cervello – ne accennavamo nel modulo 5 – non ti vuole bene, o meglio, si preoccupa di te a modo suo. Perciò – se anche stai ragionando come devi, dalla fine all’inizio, per trovare la scena migliore – il tuo cervello si affretterà a fornirti una prima soluzione basilare, standardizzata, affinché tu la smetta di sprecare energie in un cosa per lui inutile.

Immaginiamo che ti sia posto col giusto setting mentale: prima pensi a cosa vuoi comunicare, cosa il lettore deve sapere alla fine della scena, e dopo ricerchi la scena ottima da cui far sgorgare le informazioni in modo naturale. Perfetto, bene così. E cosa vuoi far sapere al lettore? Vuoi fargli sapere – ad esempio – che il tuo personaggio è ossessionato dal lavoro. Quindi, arrivati alla fine della scena, il lettore deve aver chiaro che il personaggio è “un carrierista”. Bene. Dove lo collochi il tuo personaggio, per comunicare al lettore questo suo tratto caratteriale?
 
La prima soluzione è invariabilmente la stessa per tutti: il posto di lavoro. Ovvio no? Se il personaggio è ossessionato dal lavoro, allora lo colloco sul posto di lavoro, al centro della sua ossessione.
 
E cosa vorresti fare, esattamente? Mostrare che lavora “più degli altri”? O che si preoccupa “più degli altri” di tenere buoni rapporti con i capi? O che si prende “meno pause caffè degli altri”? Non senti qualcosa di debole, di fiacco, di moscio, in tutte queste idee? Perché sul posto di lavoro è normale… lavorare. Non si crea nessun vero contrasto, nessuno stacco, che possa dare risalto al folle desiderio del personaggio di “far carriera”. Ma il tuo cervello ti ha suggerito una scena ambientata nel posto di lavoro, quindi… sbrigati a scriverla e torniamo alle cose serie, per favore.

Vedrai alla fine del modulo 22 come ricondurre alla ragione la tua massa cerebrale.

Per il momento è sufficiente mostrare come un minimo di ragionamento in più avrebbe suggerito soluzioni infinitamente migliori.

Non sarebbe meglio collocare il personaggio a casa sua, con la sua famiglia, seduto a tavola per la cena con moglie e figli, e poi farlo scattare in piedi allo squillare del cellulare con la suoneria riservata al suo capo? Pianta tutti lì, va a parlare sul terrazzo, e magari organizzi il dialogo in modo da far uscire quante più cose interessanti possibili. Non devi tirarla troppo per le lunghe (far parlare i personaggi al telefono non è mai una grande idea, perché si perde la recitazione di chi sta all’altro capo) ma poche battute ben scelte possono restituire parecchie informazioni utili. E magari il tuo personaggio è così eccitato dalla conversazione appena conclusa, da rimanere qualche minuto in terrazzo a pensarci sopra, a immaginare quel che accadrà in ufficio quando tutti sapranno ciò che lui è venuto a sapere in anteprima. Niente esagerazioni, mi raccomando, niente “pippe mentali” (flussi di coscienza) ma solo pensieri congruenti con ciò che si è detto con il capo, intervallati da percezioni fisiche indotte dallo stare sul terrazzo. Quando il nostro personaggio torna dentro, i figli non sono più a tavola, la moglie è a testa bassa a giocherellare su mezzo dolce preconfezionato, e il suo minestrone, ancora intatto, si è bello che freddato. Ora sì che sappiamo quanto è “carrierista” il tuo personaggio.

Mi dirai – non senza ragione – che un personaggio così è “un palo nel culo”, che ci siamo fottuti l’empatia. Sì, hai ragione, se ragioniamo stand-alone. Ma è ovvio che non è con questa scena che inizierà la tua storia. Questa scena arriverà quando il lettore avrà già empatizzato col tuo personaggio e quindi può capire perché il personaggio fa quel che fa, dice quel che dice, e si comporta come si comporta.
 
Possiamo immaginare situazioni analoghe, ma esteticamente meno estreme. Mettiamolo sugli spalti di uno stadio, il giorno del derby, e – al solito – facciamo squillare il cellulare. E parte la stessa giostra, cambiando quel che c’è da cambiare: un personaggio che preferisce parlare col capo, anziché guardare il derby. Più carrierista di così…

In casa con la famiglia, allo stadio in mezzo ai tifosi, o in mille altri luoghi possibili, però mai sul posto di lavoro: mai adottare la prima soluzione.


“Stupido è, chi lo stupido fa” è la frase simbolo del film Forrest Gump. Gliela ripeteva sempre la mamma, e lui la ripeteva a sua volta a chi gli domandava “sei stupido o cosa?”.
 
Stupido è chi lo stupido fa: non esistono persone stupide, ma soltanto atteggiamenti stupidi; in nessuno c’è una stupidità congenita, ma sei stupido solo se fai lo stupido.
 
Lo stesso accade con gli infodump.

Se smazziamo via gli errori – contro cui il modulo ti ha messo in guardia – essere o non essere un infodump non è una caratteristica congenita delle informazioni, ma dipendente dal contesto che gli si è costruito intorno, dal flusso della storia.

Riprendiamo l’esercizio Come viaggiare gratis (rewriting).
 
Abbiamo un personaggio (Greta) che spiega a un altro personaggio (il “Punto di Vista”) che senza la tessera magnetica non è possibile salire e scendere dalla nave o aprire la cabina.
 
Oh, bella – sì dirà – ma il “Punto di Vista” lo saprà bene che senza tessera magnetica molte attività sono precluse. Certo che lo sa. Ma allora perché Greta glielo sta dicendo? Per informarlo di una cosa che sa già? No! Lo sta dicendo a noi lettori per farci capire come funzione la vita di bordo: infodump, infodump, gne-gne.gne…

Calma e ragioniamo. Cosa abbiamo detto nel modulo 15A? Che non esiste una scena giusta o sbagliata in sé, come non esiste una nota intonata o stonata indipendentemente dalle altre note. Una scena – purché scritta bene – è giusta o sbagliata, e in particolare contiene o no infodump, in relazione al flusso narrativo in cui è inserita.

Certo, se questa scena fosse l’incipit della storia, se la storia iniziasse proprio con questa scena, e non avessimo quindi nessuna informazioni pregressa, si potrebbe avere la sensazione di un infodump.

Ma basterebbe creare una o due scene precedenti, in cui il “Punto di Vista” manifesta più volte il suo piano a Greta, in circostanze diverse, ogni volta con grande enfasi, per rendere verosimili i dialoghi successivi. Perché Greta, esasperata dall’idea assurda del “Punto di Vista” di rimanere a bordo a sbafo, è a quel punto costretta a spiegargli delle cose ovvie (per loro due, per i personaggi) di cui così vengono a conoscenza anche quei lettori che non sapessero come funziona la vita in crociera.

Ti renderai conto che è verosimile, per quel minimo che ci rifletti. Quante volte nella vita vera, nel mondo reale, sei stato costretto a precisare l’ovvio, perché la tua controparte teneva il punto su cose assurde? Lo stesso avviene nel mondo della pagina. Il personaggio può essere legittimato a dire ovvietà, se tu scrittore, dio creatore, lo hai obbligato a farlo, visto il contesto in cui lo hai messo e gli altri personaggi che gli hai piazzato intorno.

Ti faccio osservare come all’interno dell’esercizio – che aveva peraltro una finalità di riscrittura di un testo concepito come un unico, gigantesco, infodump – si era tentato di rendere l’esasperazione di Greta con la battuta “Ancora con questa storia?”, con quell’ancora che – nel sotto-testo – lasciava intendere come non fosse la prima volta che il “Punto di Vista” esponesse l’idea bislacca di rimanere a bordo a crociera finita.
 
Lo stesso ragionamento si applica al racconto Un padre, una figlia.
 
Il padre non lo sa che la figlia sta per laurearsi? C’è bisogno che la figlia glielo ricordi? Forse sì. Con una scena precedente, ben congegnata, si potrebbe mostrare il padre come un tipo stralunato col culto del “lavorare in Banca d’Italia”, con l’idea di una Banca d’Italia come soluzione a tutti i problemi pratici della vita. Che è esattamente ciò che si è tentato di rendere con la battuta “Io non so in che mondo vivi” pronunciata dalla figlia.

Ragiona, rifletti, pensa, non banalizzare: le scene hanno senso, o non ne hanno, all’interno del flusso narrativo in cui si trovano, e se a volte basta poco a creare un infodump, altre volte può bastare ancora meno ad eliminarlo, a scena invariata, alterando il contesto.

Ragiona, rifletti, pensa, non banalizzare: stupido è, chi lo stupido fa.


IPOCRISIA
 
Do una pacca leggera sul culo di Laura, all’ingresso della sala colazione. Il maître ci accoglie con un sorriso e un mezzo inchino.

«Benvenuti. Posso chiedervi il numero di camera, per cortesia?»

Estraggo la chiave dalla tasca della tuta. «816.»

Annuisce e con un gesto della mano ci invita ad accomodarci. «Prego, mando subito qualcuno per l’ordinazione.»
 
La melodia tenue di Let it be ci accompagnano lungo la sala. Un panzone stempiato con un maglione verdastro appiccica gli occhi alle tette di Laura; la signora che gli sta accanto mi lancia uno sguardo sprezzante e scuote la testa. Faccio spallucce: la solita tassa da pagare per stare con una più giovane.

Ci accomodiamo in un tavolino circolare all’angolo, accanto alla vetrata. Il sole batte sul manto di neve che ricopre l’intera montagna, gli skylift sono già in funzione. Oggi in pista si gode proprio.
 
Allungo la mano sul tavolo verso Laura, le nostre dita si incastrano, mi artiglia il dorso con le unghie laccate di rosso, socchiude gli occhi e ride. Le spedisco un piccolo bacio, lo ricambia con uno scrocchio delle labbra. Che gran figa che è.

Si libera dalla presa, caccia fuori l’iPhone dalla borsetta e lo sblocca. Digita qualcosa, il dito corre sullo schermo, tra i sospiri. «Questa guerra è una cosa tremenda.»

Sì, davvero tremenda. Alzo l’indice verso un cameriere di passaggio per richiamare l’attenzione. Con due passi è al tavolo.

«Chiedo scusa per l’attesa. Prego, ditemi.»

Laura solleva di scatto la testa dal telefono. «Per me lo o stesso di ieri.» Spinge in su il nasino con l
’indice e alza gli occhi al soffitto, come per risvegliare la memoria. «Una spremuta d’arancia, un cappuccino bollente, due cornettini al pistacchio, e poi…» Sbuffa, le unghie tamburellano sul tavolo, le vibrazioni aumentano. «Ah, sì, uno yogurt bianco e della macedonia, grazie.»

«Bene.» Il cameriere indirizza lo sguardo su di me. «Per lei, invece?»

«Solo un caffè lungo al vetro, per il momento; poi eventualmente le dico.»

«Perfetto, arrivo subito.» Gira i tacchi e sparisce dietro una colonna.

La chioma smossa di meches bionde le avvolge il viso, piegato sul telefono. S
ospira e si abbandona a un lamento prolungato. «Prima il covid, ora questa guerra… che cose tremende…»
 
Già. Quasi quanto il tuo appetito.

«Vorrei avere una bacchetta magica per far finire subito tutto quest’orrore.»

O forse ti serve un libro di storia, per mettere le cose in prospettiva.
 
Le sorrido come si sorride a una bambina, anche se non mi vede. «Nessuna grande potenza ha mai tollerato di avere al confine una nazione anche solo vagamente ostile.» Batto due colpi leggeri sul tavolino «Nessuna. Mai.»
 
Risolleva la testa di scatto. «Nessuna… cosa?»
 
Il cameriere si avvicina al tavolo con un vassoio stracolmo. Sposto il cestino con le fette biscottate e le confezioni monodose di miele e marmellata, per far spazio a tutta quella roba.
 
Laura prende la spremuta e la manda giù in un colpo. Si sistema il cappuccino davanti, afferra un cornetto e lo addenta, un fiotto di pistacchio cade sul bordo della tazza e scivola sul piattino. Lo raccoglie col polpastrello e si infila il dito in bocca per ripulirlo.

È più figa delle altre, ma un po’ problematica da portare in giro; vabbè, non si può avere tutto.

Stringo il mio bicchierino di caffè, il tepore sulle mani è un relax per tutto il corpo. «Sai cos’era il Sacro Romano Impero?»

Aggrotta la fronte, le sopracciglia folte si arcuano ancora di più, le guance le si gonfiano.

Porto il bicchierino sotto il naso, l’aroma di caffè mi stuzzica le narici. Do il primo sorso. «Immagina un’aquila gialla e nera di profilo, ad ali spiegate, con la testa a nord dell’attuale Germania, il corpo che attraversa l’Europa e le zampe piantate in Italia, in ciò che noi chiamiamo Umbria e Marche.» Sorseggio un altro po’. «Questo era il Sacro Romano Impero, poco prima del 1200».

«Wow, figo!» Spezza in due il secondo cornetto, un gocciolone di pistacchio scompare dentro il cappuccino. Fagocita metà cornetto e ruota la mano per invitarmi a proseguire.

«Okay… ora pensa al sud Italia, dalla Sicilia sino a Napoli, che all’epoca era il regno dei Normanni.»

Intinge l’altra metà del cornetto nel cappuccio. «Ti ascolto, ti ascolto…»

«Tra il Sacro Romano Impero e il regno di Sicilia c’era una strisciolina verticale di terra.» Stringo indice e pollice a “U” sotto i suoi occhi. «È solo una strisciolina, ma è governata dal più potente sovrano al mondo.»

«E chi è?»

«Il Papa.» Apro una confezione di miele e la riverso in quel che resta del caffè. «Sai cosa accade? Che Ruggero il normanno muore improvvisamente, e sul trono di Sicilia sale un bambino di 9 anni, Guglielmo, sotto la reggenza della madre.»

Solleva la tazza con entrambe le mani, se la porta davanti a coprire naso e bocca. Mi fissa da là dietro a occhi stretti. «Uhm… si mette male, mi sa.»

«Malissimo, perché arrivano gli Svevi, quelli che stanno a capo dell’Impero, e che ora si prendono pure il Regno di Sicilia. Prima Enrico IV e poi Federico II, lo Stupor Mundi—»

«Stupo-che?» Dà un sorso al cappuccino, della schiuma le resta sul naso.

Glielo pulisco con tovagliolo. Ma come ci sono finito con questa qui? «Stupor… vabbè, quello che dà il nome all’università di Napoli, okay?»

«Ah!» Poggia la tazza sul tavolo. «E qual è il problema?»

È figa, ma tutta scema. Però sempre meglio che cozza e scema. «Il problema…» Col cucchiaino mischio caffè e miele, e assaporo la miscela. «Il problema è che ora il Papa è stretto in una tenaglia: se gli Svevi unificassero il regno di Sicilia col resto dell’impero, poi sarebbe un attimo a ingoiare anche la strisciolina pontificia. Tanto più che gli Svevi sono parecchio incazzosi, senza troppa soggezione verso la Chiesa.»

«E quindi?»

«Quindi il Papa chiama la casata francese degli Angioini in una specie di crociata contro gli Svevi.» Giocherello col cucchiaino per raccogliere il più possibile della cremina giallo-nera. «Carlo d’Angiò sbaraglia Manfredi, il regno di Sicilia diventa un feudo della Chiesa, e tutto torna a posto, più o meno.» Miele e caffè, che spettacolo! «È sempre la stessa storia, capisci? In ogni tempo e in ogni luogo, vicino o lontano, nessuna grande potenza ha mai tollerato sul proprio confine una nazione anche solo vagamente ost—»

«Ehi!» Fa il gesto del time-out, strabuzzando gli occhi. «Non vorrai snocciolarmi mille anni di guerre, spero.»

Alzo le mani per scusarmi. Tutte uguali ’ste ragazzine: più avrebbero bisogno di sapere, meno ne sentono la necessità.

Pianta un gomito sul tavolo, spalanca il palmo della mano e ci poggia sopra il mento. «Muori dalla voglia di raccontarmene un’altra, ve’?» Con le unghie si picchietta lo zigomo. «Però sbrigati, che voglio andare a sciare.»

Ma perché oltre a una figa a fontanella non ha pure un cervello funzionate?

Versa lo yogurt sulla macedonia. «Dai, racconta: lo so che ti piace.» Gira e rigira, due pezzi di frutta zompano fuori dalla ciotolina. «Però qualcosa di più divertente e un po’ meno antico, please.»

Faccio sparire i due pezzi di frutta dentro un tovagliolo, lo appallottolo e l’infilo dentro il vasetto dello yogurt. «1962: i tredici giorni di Cuba.»

Sgrana gli occhi. «Che figata Cuba! Mio fratello c’è stato un sacco di volte.»

Già, come se ne mancassero di mignotte, qui in Italia.

«El pueblo unito, maschera e vestito!» stornella agitando il pugno chiuso.

Le blocco il braccio e glielo abbasso. Gli occhi dell’intera sala sono su di noi. Dio, che figura! Sorrido a tutti, a destra e sinistra, a voler chiedere scusa. Un brusio si diffonde e cresce d’intensità. Arrossisco, chino lo sguardo. Vorrei sprofondare…

«Ma sei impazzita?» bisbiglio.

«Perdono, perdono… è che quando si parla di Cuba mi infoio proprio.»

«Quella canzone è del Cile, non di Cuba.» Sospiro passandomi una mano sulla fronte. «E non è maschera e vestito, ma jamás será vencido

Mi fa una linguaccia. «Cuba, Cile… sempre per “C” inizia, no?»

Ma sì! Che Guevara, Cecchi Gori: più o meno siamo lì.

Si attorciglia una ciocca intorno al dito, inclina testa. «Vabbè… che è successo a Cuba?»

«Siamo nel giugno del 1960, e Fidel Castro ha appena rovesciato la dittatura di Fulgencio Batista y Zaldívar.»

«Di chi?» Stiracchia la ciocca e dà il primo assaggio al miscuglio di yogurt e macedonia.

«Lascia perdere. Fidel Castro si è preso Cuba, okay?» Sarebbe perfetta, se avesse il cervello come le tette. «Proprio davanti al sogno americano c’è ora un’isola comunista.»

«E qual è il problema?»

Anche come una tetta sola basterebbe, in fondo. «Il problema è che nessuna grande potenza ha mai tollerato uno Stato anche solo ideologicamente ostile al proprio confine.»

Sbadiglia, tormentando ancora quella povera ciocca.

Le tolgo la mano dai capelli e gliela blocco sul tavolo. «Fai conto che domani una band musicale si trasferisce nell’appartamento accanto al tuo. Resteresti immobile e in silenzio, davanti a un via vai di chitarre, batterie e tastiere, piazzate proprio lì, sul muro di confine con la tua camera da letto? O vorresti capire le intenzioni di quei giovanotti tatuati dappertutto, con una sfilza di orecchini al naso e capelli viola e blu?»

«Ma questo che c’entra con Cuba?». Sfila la mano e manda giù un altro boccone di macedonia.
 
Le sorrido. «Al buon Fidel non dispiacerebbe aggregare gli Stati del sud in nome di un potere operaio…»

«E scommetto che questo agli americani non piace, ve’?»

«Per nulla, così provano a rovesciare Castro.»

«E scommetto che non ci riescono, ve’?»
 
Ah, però! Le cose le sai, allora: peccato che bisogna scippartele con le tenaglie. «Infatti. Mai sentito parlare dell’invasione della Baia dei Porci?»

Fa l’occhiolino e sorride. «Tu eri uno di loro, ve’?»

Come non detto. «Okay, Fidel è ancora lì, ma se un domani gli americani ci riprovassero? E allora sai che fa? Chiama i russi—»

«I russi, i russi, gli americani…» canticchia ciondolando con la testa.

Le tappo la bocca con la mano, non sia mai improvvisi un altro concerto. Però conosce Dalla: mezzo punto l’ha guadagnato, dai.
 
Mi passa la lingua tra le dita, strizza l’occhio un’altra volta. Se solo fosse intelligente la metà di quanto è zoccola. Le accarezzo una guancia e mi ricompongo.

«Fidel chiama i russi, dicevo, e gli chiede di piazzare i loro missili nucleari a Cuba.»

«E i russi accettano?»

«Non aspettavano altro, per quanto gli rodeva per i missili americani piantati in Turchia.» Dispongo le confezioni di monodose di marmellata
a semicerchio, davanti a me, e alzo le mani. «Intendiamoci: nessuno vuol far del male a nessuno, ci mancherebbe. Ma intanto i missili sovietici sono lì, a uno sputo dalla Florida.»

«Gli americani non devono averla presa bene, ve’?»

Sherlock Holmes ti spiccia casa, ve’? «Diciamo che valutano diverse alternative, sempre in grande amicizia: bombardare le postazioni russe, attuare un blocco navale, o invadere direttamente Cuba, solo che—»

«Oh, fermo là!» Mi agita sotto il naso il cucchiaino con sopra un pezzetto d’arancia. «Cosa mi stai dicendo? Che giustifichi Putin?»

Le afferro il polso, lo tiro giù come fosse di cristallo, ma l’arancia cade lo stesso sulla tovaglia. «La Storia non giustifica e non condanna». Raccolgo il pezzo d’arancia e l’infilo nel vasetto dello yogurt. «La Storia serve a non sorprendersi, quando accadono certe cose al ricorrerne di altre.»

Il cameriere si avvicina. «Posso portar via qualcosa?»

Annuisco. «Sì, grazie.»

Sparecchia a rallentatore, fa il vago, ma a ogni volta che toglie qualcosa dal tavolo lo sguardo gli cade nella scollatura di Laura.

«Porti via anche questo.» Laura gli porge la ciotolina di macedonia mezza piena. «Non mi va più.» Mi fissa incattivita. «Cosa vuol dire che non devo sorprendermi?»

Mi piego sul tavolo, le prendo le mani e gliele stringo. «Avevi detto di aver guardato i miei interventi sul canale YouTube della rivista “La Storia”.» Madonna che tette! «Evidentemente non l’hai fatto.»

«Per favore, eh! Ho già tanto da studiare di mio.» Sbuffa, mi allontana. «In questi anni di università non vivo più…»

«Guarda che entrare all’università è facile, il difficile è uscirne. Con una laurea.»

Fa un’altra linguaccia. «Gne-gne-gne.»

Le indico il suo l’iPhone poggiato sul tavolo, illuminato dal sole. «Vai su YouTube e scrivi
Stati Uniti vs Russia. Cosa succede in Ucraina. Puoi ascoltare anche solo dal minuto cinque al minuto sei.» Batto il pugno sul tavolo. «Certe cose le dicevo già anni fa, non ieri: solo gli ipocriti e gli ignoranti, oggi, possono sorprendersi.» Do un altro pugno. «Ascolta, ascolta... dura meno di un minuto.»
 
Fa un sorrisino di plastica e sbatte le palpebre. «Non puoi farmi una sintesi?»
 
Tramuto all’istante uno sbuffo in un sorriso altrettanto finto. «Certo, cara.» Scuoto appena la testa, prima o poi dovrò decidermi a frequentare donne della mia età. «Zelensky era l’equivalente di un concorrente del “Grande Fratello”, il giorno dopo si ritrova a capo di uno Stato, e quello dopo ancora parla di entrare in Europa e nella NATO.»
 
«E allora?» mugugna scocciata.
«Se l’Ucraina vuole entrare nella NATO, beh, è libera di farlo.» 

Che tenera!
 
Le sorrido. «Nessuno Stato sovrano è mai stato libero e indipendente, se per libero e indipendente intendi fare quel che si vuole, fregandosene di tutto e tutti.» Con le mani mimo la forma di una sfera. «La libertà si esercita all’interno di un sistema di vincoli: geografici, politici, storici, o semplicemente d’opportunità.»

«Ma che dici? Che Putin ha ragione?»

«Dico che a metà 800 la Sicilia era la più grande produttrice di zolfo al mondo, e lo zolfo, all’epoca, era tra le materie prime di importanza vitale—»

«Che c’entra adesso lo zolfo siciliano?»
 
«C’entra, perché gli imprenditori inglesi vantavano da sempre il diritto di estrarre lo zolfo siciliano, dietro il pagamento di un canone ai Borbone di Napoli, a cui la Sicilia apparteneva.»

«E che problema c’è?»

Niente, non ci arriva. «Il problema, tesoro mio, era che si trattava di un canone ridicolo, due spicci, giusto per salvare le apparenze e non dire che uno Stato, l’Inghilterra, ne stava depredando un altro, la Sicilia.»

Sul viso le si dipinge un
’espressione meravigliata. «E il re l’accettava?»

Spalanco le braccia, le lascio ricadere lungo i fianchi sospirando. «I Borbone erano pacifici, e abbozzarono a lungo, per quieto vivere. Fin quando non salì al trono Ferdinando II, che decise, guarda un po’, di riappropriarsi di ciò che era suo.» Scarto la confezione di fette biscottate e ne addento una. «I francesi erano disposti a pagare molto di più per gli zolfi siciliani, o meglio, era disposti a pagare il giusto.»

«E Ferdinando glieli diede?»

«Si.»

«Bravo Ferdinando!»

E questo la dice tutta su quanto ne capisci. «Già, bravo. Ma secondo te cosa successe l’istante dopo?»

Fa una smorfia, stira un
’altra ciocca. «Che gli inglesi la presero male?»

«La presero
 peggio.» Avvicino indice e pollice sino a farli sfiorare, stringo gli occhi. «Si andò a tanto così dalla guerra, e servì un lavoro diplomatico mostruoso per evitarla.»

«Ah! E come finì?»

«Finì che Ferdinando chiese scusa agli inglesi, gli lasciò la concessione e risarcì i francesi per la disdetta dell’accordo preso.»

«Ma la Sicilia era sua…» sussurra.

Alzo un sopracciglio e abbozzo un sorrisetto. «Già, ma nessuno è libero di agire senza tener conto delle reazioni degli altri, giuste o sbagliate che siano.» Mussolini aveva ragione: Dio stramaledica gli inglesi! «Re Ferdinando era amico di tutti e nemico di nessuno, non si immischiava negli affari degli altri Stati e non voleva che altri si immischiassero nelle cose del suo Regno, lasciava in pace e voleva essere lasciato in pace.»

«E non fu così, ve’?»

«Già. Se le Due Sicilie avessero accettato il protettorato inglese, come aveva fatto il Portogallo, per dire, forse esisterebbero ancora, come oggi esiste ancora il Portogallo.» Dio stramaledica gli inglesi! «Invece Ferdinando voleva essere libero e indipendente, e così gli inglesi armano il pirata Garibaldi in quella spedizione romanticamente detta dei mille

Il volto le si rabbuia, forse ho esagerato. Oh, non sia mai le passi la voglia di scopare! Con un cenno della testa le indico la pista dove due sciatori stanno venendo giù uno accanto all’altro.

«Proposta: saliamo in camera, scopatina, e poi ci tuffiamo nella neve, che dici?»
 
Riacquista di colpo il sorriso, strizza l’occhio e mi spedisce un bacio rumoroso.
 
 Il Papa si sentì assediato,
quando il Regno di Sicilia finì nelle mani del Sacro Romano Impero:
se il Regno fosse stato annesso all’Impero, se avesse perso la sua indipendenza,
il territorio del Papato sarebbe diventato una piccola macchia grigia,
all’interno di un’immensa distesa giallo-nera, col rischio di essere fagocitato
(anche perché gli Svevi non è che avessero tutta questa soggezione verso Sua Santità).
Così il Papa chiamò gli Angioini a “liberare” la Sicilia, e ne seguì una guerra secolare.
Con quella mossa il Papato si garantì altri sei secoli di vita.
 
 
 
Nel 1861 la storia si ripete:
lo Stato Pontificio (quel che ne è rimasto)
è di nuovo circondato, questa volta dal Regno dItalia.
Riesce a strappare altri dieci anni di esistenza,
ma quando viene meno la protezione di Napoleone III,
il XX settembre 1870  lo spazza via per sempre.
 
 
 

Riesci a vedere le cose dal punto di vista di chi si sente assediato?

Permettimi di sfruttare il racconto Ipocrisia per richiamare alcuni concetti esposti in precedenza, prima di parlare di infodump.

I personaggi sono un “lui” e una “lei”, in stile “la pupa e il secchione”, con una marcata differenza di età, sebbene non dichiarata. Tutto piuttosto cliché, non c’è che dire. Ma è di loro che parla la storia, di una pupa ventenne o giù di lì e di un secchione sulla quarantina? No. La storia parla della Storia, degli insegnamenti della Storia – tu conoscevi gli episodi citati? – per ammonire sulla complessità della vita, sul fatto che i “buoni” e i “cattivi” esistono solo nelle favole (perciò, peggio che inutile, è dannoso comportarsi da ipocriti, come se “giusto” e “sbagliato” fossero categorie nette anziché sfumate).
 
Che poi i personaggi siano una pupa e un secchione è un fatto secondario, nell’economia della narrazione, rispetto al messaggio che la storia vuole mandare, perché la storia non parla di cosa accade a un secchione che si mette con una pupa, ma sfrutta l’accoppiata pupa-secchione in modo strumentale per denunciare la difficoltà – se non l’impossibilità – a non essere ipocriti: perché alla fine anche gli spiriti più raffinati finiscono lì, tra le cosce di Laura Ipocrisia, stretti tra le sue gambe, a stantuffare alla grande. Perché l’ipocrisia, girala come ti pare, è una gran figa che fa sentire tanto fighi anche tutti noi.

 
Veniamo agli infodump.

Il racconto sfrutta un’espediente classico per evitarli, solo che lo tira troppo per le lunghe: parlo del cosiddetto personaggio novellino e di ciò che la sua presenza implica sulla dinamica della scena.
 
Qui abbiamo un personaggio “Punto di Vista” molto esperto (il secchione), e gli affianchiamo un personaggio di segno opposto, che nulla sa e tutto deve imparare (la pupa). Et voilà: il secchione deve “spiegare cose” alla pupa, e spiegandole alla pupa – all’interno della storia – anche il lettore le viene a sapere. Fatto. O quasi.

Quando un personaggio inizia a “spiegare cose” a un altro personaggio è sempre alto il rischio che l’illusione narrativa si dissolva e subentri nel lettore la sensazione che le cose le stiano dicendo a lui, che la spiegazione sia stata orchestrata solo a suo uso e consumo.

Servono quindi almeno due accortezze.

Non creare troppo distacco tra i personaggi. La pupa e il secchione – riconosciamolo – sono irreali, sembrano davvero usciti dal reality televisivo, e ovviamente non va bene; ma – attenzione! – sarebbe stato ancora peggio se per maggior senso del realismo si fossero utilizzati un un papà e una figlia (cambiando quel che serviva cambiare); perché a quel punto l’espediente narrativo si sarebbe palesato, a causa di un’intonazione che sarebbe diventata inevitabilmente professorale. Calibrare il personaggio novellino – contemperando esigenze opposte – non è banale.

Non tirarla troppo per le lunghe. Ci può stare che il personaggio esperto spieghi una cosa al novellino; ci può stare che ne spieghi due; ma alla terza spiegazione, tutta la faccenda inizia ad apparire ripetitiva, e la ripetizione rivela quei meccanismi che invece dovrebbero rimanere nascosti. Questo specifico racconto – Ipocrisia – non lo consente, ma in generale, se il personaggio esperto spiega più cose, allora deve farlo in modi sempre diversi: una volta sarà una spiegazione teorica (basata quindi sui dialoghi, sul mattoncino [D]); un’altra volta una dimostrazione pratica (basata quindi sulle azioni, sul mattoncino [A]); e via così.
 
Quindi, per riassumere e generalizzare, tutte le volte che credi di aver trovato una soluzione facile, meccanica, applicabile automaticamente, senza pensare, quello è il momento preciso in cui sei caduto in uno degli errori di scrittura più perniciosi.

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