MODULO 13 – Parola d’ordine numero due: “Drammatizzare”

 
 
Immagina un bell’uomo appena sbarbato e perfettamente pettinato, nel più classico ed elegante dei completi scuri, appositamente confezionato per l’occasione dal sarto di fiducia; è seduto sulla comoda poltrona di uno studio televisivo; sul tavolino accanto c’è un bicchiere d’acqua, nel caso gli venisse sete.
 
Le luci si accendono e il nostro showman dà il via a un meraviglioso monologo d’avanguardia sul mondo LGBT, sull’importanza di superare gli stereotipi di genere, sul rispetto, la civiltà, la tolleranza, la condivisione, l’apertura mentale. Ricorre a tutto l’armamentario retorico per trasmettere concetti delicati e complessi, per renderli fruibili a chiunque. Va avanti per dieci minuti ininterrotti, un’eternità, considerati i tempi televisivi.
 
Il pubblico – in studio e a casa – è estasiato dal tono e dai contenuti del suo discorso, dalle straordinarie parole con cui la linea d’argomentazione prende forma e si sviluppa.

 
Ora immagina un padre che si è appena seduto sul vecchio divano di casa, in attesa della cena. Sorseggia del vino scadente e legge il giornale. Nulla di particolare, ma sono i suoi dieci minuti di relax, dopo la solita, estenuante, giornata in fabbrica.
 
Madre e figlio, in cucina, non la smettono di confabulare. Poi, finalmente, si piazzano davanti al padre.

“Alberto, nostro figlio deve dirti una cosa”.
 
Sarà un fatto di soldi, immagina il padre, sì, sarà sicuramente così: a mio figlio serve del denaro. Va bene, farò dello straordinario e tutto andrà a posto. Lo guarda e gli sorride, il figlio sospira.
 
“Papà, sono gay”. 

Come reagirà il padre, superato lo spiazzamento iniziale? Lo abbraccerà e gli dirà che gli vorrà sempre bene, o gli sferrerà un pugno allo stomaco per fargli capire cosa vuol dire essere “un vero uomo”?

Poniamo l’abbracci: il suo amore paterno non è indietreggiato di un passo.

Tra una settimana sarà Natale, e la famiglia si incontrerà, come ogni anno, con tutte le altre numerose famiglie del parentato.
 
Ci saranno tutti, da nonna Adelina di 93 anni, di invidiabile lucidità di pensiero e parola, a Giorgetto, il figlio di dieci mesi del fratello più piccolo del padre, con in mezzo tutto il variegato ventaglio di nipoti, cugini, zii, generi, suoceri; e ci sarà pure qualche amico, abituato da sempre a unirsi alla famiglia per l’occasione.

E poi ci sarà Marco, il fidanzato del figlio. O almeno così vorrebbe il figlio, e ci tiene davvero ad avere il consenso del padre.
 
L’amore paterno non è indietreggiato di un passo, ma, accidenti, mio figlio che si tiene per mano con un altro maschio, davanti a tutti, quando mio nipote Luca racconterà come ogni anno delle sue conquiste estive e dei bagordi che si appresta a fare per capodanno. Cosa penseranno i miei fratelli? Cosa diranno i cugini di mio figlio? Come reagirà nonna Adelina? E se calasse il gelo? E se tutta la notte di Natale fosse avvolta nell’imbarazzo prima e nella vergogna poi? E se imbarazzo e vergogna non avessero mai fine? Cosa accadrà quando si spargerà la voce che mio figlio è gay? Perché io a mio figlio vorrò sempre bene, ma il mondo come ci giudicherà?

L’amore paterno non è indietreggiato di un passo, ma ora, a quell’amore, è chiesto qualcosa di più: fare un passo avanti. Ci riuscirà?
 

E allora, dimmi, quale delle due situazioni trovi narrativamente più valida, il monologo televisivo o i tormenti del padre?

Perché – vedi – fare narrativa significa creare dei personaggi e obbligarli a prendere decisioni pratiche su cose che per loro sono drammatiche, aumentando il voltaggio a ogni giro, a ogni scelta; e attraverso le decisioni dei personaggi – decisioni, non bei discorsi teorici – far sì che il lettore formuli un autonomo giudizio di condanna o assoluzione, e abbia verso di loro, verso ognuno dei personaggi, un atteggiamento di comprensione o di rifiuto, di empatia o di repulsione.

Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.

Chiediti sempre, prima di scrivere una scena – prima per l’amor del cielo, prima, non dopo – quale sia il suo contenuto drammatico, per tipologia e intensità. Domandati, prima di scrivere – prima, non dopo – cos’è che nella tua scena tormenta il personaggio, quali sono gli eventi che lo fanno sperare o temere, gioire o soffrire, e cosa dovrà fare in pratica per fronteggiarli.

E non ti salti in testa di isolare il personaggio, di lasciarlo solo con sé stesso, in balia dei suoi pensieri, che non si nobilitano ribattezzandoli stream of consciousness. Il personaggio che pensa di continuo è l’equivalente dello showman che ci parla del mondo LGBT in generale, astrattamente, con piglio teorico. Kissenefrega!
 
Tu non vuoi discorsi astratti e generali, né da autore né da lettore. Tu vuoi scrivere e leggere di personaggi che devono decidere e agire. I bla-bla-bla sui massimi sistemi non sono narrativa, ma solo fuochi d’artificio, che una volta finiti non lasciano nulla, non importa quanto siano stati scoppiettanti e colorati. Anche perché lo capiscono tutti che non sono i pensieri del personaggio, ma i tuoi; e nascondersi dietro il flusso di pensiero di un personaggio farlocco, per sbrodolare il proprio monologhino sulla guerra e sulla pace, sulla giustizia e l’ingiustizia, sulla rava e la fava, non ha mai emozionato nessuno.

Muovi sempre da problemi di scelta concreti e drammatici, nel mettere in scena i tuoi personaggi. E che siano problemi che tu per primo, scrittore, dio creatore, sei in grado comprendere, e quindi di restituire a chi ti legge in tutta la loro effettiva drammaticità. Se vuoi scrivere della guerra, ma tutto ciò che sai della guerra – fortunatamente – proviene dai servizi dei telegiornali, allora reindirizza la situazione su qualcosa di attinente alla guerra, e però comprensibile. “Volete la pace o i condizionatori accesi?”. Parti da qui, dalla domanda dell’allora premier Mario Draghi rivolta idealmente a tutto popolo italiano, e trasformala in un problema di scelta per il tuo personaggio.

Torneremo sui personaggi e sulle scene nei moduli 18A18D, 22, per poi raccordare tutto nel modulo 23 (A, BCDE).
 
Però, intanto, tieni presente le tre regole fondamentali della buona scrittura di narrativa: drammatizzare, drammatizzare, drammatizzare.

 

Un papà, una figlia

Accarezzo la porta chiusa della stanza di mia figlia: devo dirglielo, devo dirglielo assolutamente, coraggio.

Trattengo il fiato, stringo il bando di concorso in una mano e con
 le nocche dell’altra lascio partire due colpi decisi. Deglutisco, accarezzo un’altra volta la porta. Perché non risponde?

«Valentina?» Busso più forte, con il palmo aperto. «Valentina apri per favore, devo dirti una cosa imp—»

La porta si spalanca.

«Che c’è? Che vuoi? Sto studiando!»

La puzza di chiuso mi dà la nausea. «Cielo che aria viziata!»

Mi affretto ad aprire la finestra, una folata di vento solleva alcuni fogli dalla scrivania, volteggiano e finiscono ai piedi del letto ancora sfatto.

Li raccolgo e li blocco sotto un libro aperto. Tre piccole ics a matita sul margine bianco marcano il capoverso finale della pagina. In gran parte delle applicazioni, i domini rilevanti sono rettangoli, prismi, coni, cilindri o loro unioni. Sollevo in blocco le pagine del libro, per vederne la copertina. “Equazioni alle derivate parziali – Teoria e applicazioni”. Cavolo, me le ricordo, roba tost—

«Papà!» Valentina tiene la porta spalancata, sbuffa. «Si può sapere che vuoi?»

Le mostro il bando, il suo futuro. «Guarda!»

Resta piantata sull’uscio, allunga un minimo il capo e aguzza la vista. «Che roba è?»

«Il concorso in Banca d’Italia!»

Mugugna e rotea gli occhi, a grandi passi va a chiudere la finestra.

«Papà, devo studiare.»

Sorrido e faccio per accarezzarla, allontana il viso di scatto, neanche avessi voluto colpirla. Sospiro: calmo, devo stare calmo.

«Vita mia, è un concorso per diplomati: gli mangi in testa a tutti quanti.»

«I-io
» Agita le mani, scuote la testa, una ciocca di capelli le attraversa il viso. Se la sistema dietro un orecchio. «Io non so in che mondo vivi: devo dare l’ultimo esame a febbraio, e a giugno chiudere la tesi.» Mi strappa il bando delle mani e lo getta per terra. «Dove lo trovo il tempo per la tua Banca d’Italia?»

Mi piego per raccoglierlo, la schiena spedisce una fitta di dolore. La mia Banca d’Italia?

Poggio il bando sopra il libro e gli tengo sopra la mano come per proteggerlo. «Dico solo che è un’opportunità, ed è sciocco sprecarla.»

«Un’opportunità?» grugnisce.

«Sì, un’opportunità, una grande opportunità, lasciami dire.»

Storce gli occhi e fa una linguaccia. «In estate se Dio vuole mi laureo, e tu vuoi spedirmi nella marmaglia di una selezione per diplomati?»

«Amore mio, è la Banca d’Italia: lo stipendio da diplomati supera qualsiasi altro primo stipendio da laureati—»

«Non me ne frega nulla della tua maledettissima Banca d’Italia, capito?»

Serro gli occhi e trattengo il respiro, il cuore salta un battito, forse due: e da dove credi che venga tutta quella vita che consideri normale, i viaggi, la macchina nuova, lo shopping…

Butto via un bel po’ d’aria, il cuore recupera il suo ritmo e accelera. «Non dico che anche tu debba lavorare in Banca d’Italia. Dico solo che la Banca d’Italia…» Picchietto con le dita sul bando «… è un buon inizio, un ottimo inizio.» Dio mio, come fa a non capire? Pianto i miei occhi nei suoi. «Farai sempre in tempo a cambiare, se non ti trovi beni, se non ti piace.»

«Papà… i-io non sono te.» Singhiozza appena e abbassa lo sguardo. «Perché non lo capisci?»

L’avvolgo in un abbraccio forte. «Ah, no? Tu non sei me? E l’amore per la matematica da chi l’hai preso? Da mamma, ancora convinta che pi-greco sia uguale a 3,14?
» Stringo il suo visino tra le mani. «Quante volte le abbiamo spiegato che è un numero irrazionale?» Le sorrido. «E ogni volta ci guarda come se fosse la prima volta.»

Si libera dalla mia presa, abbassa la testa per nascondere un mezzo sorriso. «Papà, ti prego…» Passa una mano sugli occhi lucidi. «Devo studiare.»

Mi afferra per un braccio per trascinarmi verso la porta, faccio appena in tempo a riafferrare il bando.

«Studia pure tranquilla per l’esame e la laurea, non ti preoccupare; di presentare la tua domanda me ne oc—»

Mi sbatte la porta in faccia.

«… cuperò io.»


Una mamma, un figlio

La puzza di disinfettante pervade l’aria, il letto cigola a ogni mio movimento. Che ore saranno? Le due? Le tre?

I lamenti cadenzati di Mattia si alternano ai miei sospiri. Gli scosto dalla fronte i capelli zuppi di sudore, accarezzo le guanciotte, le bacio. Dormi piccolo mio, dormi.

Il ronzio di una zanzara mi fa scattare in su, batto forte le mani. Sbuffo: prima o poi ti prendo, maledetta.

Mi rimetto sdraiata su un lato, rivolta verso il mio pulcino. «Dormi angioletto mio, dormi.» Lo abbraccio e sfrego il mio naso sul suo. «La mamma è qui con te… vedrai che usciremo presto da questo ospedale.»

Gli infilo la mano sotto il pigiamino, il dito incontra un laghetto di pus: Dio mio, no
un’altra vota, di nuovo, no…. Lo raccolgo sul polpastrello, il gemito del mio pulcino  mi fora il timpano e sfalda il cuore.

Scatto in su. «Dio maled—»

Mi tappo la bocca: no, no, perdonami, perdonami… non volevo! Le lacrime si accumulano sotto gli occhi. Non volevo, perdonami!

Soffoco i singhiozzi mordendomi le dita. Non volevo! Perdonami mio Dio, perdonami: io voglio solo essere ascoltata… devi ascoltarmi Dio… devi ascoltarmi!
 

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