Modulo 18D – I personaggi: la psicologia in azione

Dalla Lezione 25 Il dolore passa, la vanità è eterna”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Tu scrivi narrativa per persuadere il lettore di una tesi, immergendolo nelle esperienze di un personaggio, per fargliele vivere come se fossero le sue: il mondo della pagina riproduce così il mondo reale, solo che lo fa con molta più eleganza (come vedremo nel modulo 23).

Il lettore mette in scena la storia, la simula, si crea un suo film mentale, pagina dopo pagina: è “come se” fosse al cinema, ma non è al cinema, perché in scrittura non c’è nessuna telecamera a inquadrare luoghi e personaggi.

In scrittura c’è il personaggio “Punto di Vista”, che rappresenta l’intermediario tra il lettore e il mondo della pagina: la storia è conosciuta attraverso il “Punto di Vista” – può essere conosciuta soltanto attraverso il “Punto di Vista” – che avrà pregi, difetti, incentivi, remore, desideri, paure, rimpianti, rimorsi, manierismi, semplicità, tutte cose di cui il lettore verrà a conoscenza attraverso sequenze narrative costruite solo ed esclusivamente con i cinque mattoncini fondamentali (azioni, pensieri, dialoghi, percezioni fisiche e psicologiche).

Non c’è realtà conoscibile al di là di quella offerta dall’intermediazione del “Punto di Vista”, filtrata dal “Punto di Vista”: l’oggettività della storia è un miraggio, o peggio ancora, un suicidio artistico, perché tutta la forza della scrittura, ciò che la rende ineguagliabile, sta esattamente nel poter diventare il personaggio, essere lui.

Il “Punto di Vista” è il protagonista del mondo della pagina, e la sua avventura deve seguire lo schema che sarà presentato nel modulo 23, se non si vogliono affastellare scene a caso (scene messe lì… perché mi piacciono, perché mamma ha i lucciconi per quanto sono belle, e zia mi ha tirato le guanciotte per farmi i complimenti).

Il mondo della pagina è conosciuto tramite il “Punto di Vista” – perché non c’è alternativa – ma ovviamente è popolato da diversi altri personaggi. Come li rappresenterai?

Precisiamo subito un’ovvietà, ai limiti del banale, ma dalle implicazioni notevoli: quando parliamo degli “altri personaggi” – di tutti i personaggi diversi dal “Punto di Vista” – i mattoncini narrativi si riducono drasticamente: te ne rimangono solo due, le azioni [A] e i dialoghi [D].

Ovvio, banale, ma è bene insistere sul punto.

Tu, nel mondo reale, quanti occhi hai? Due, i tuoi. E quante orecchie? Sempre due, giusto? E hai in solo naso e una sola bocca, un solo cuore e un solo cervello. Hai una sola anima. Tu, nel mondo reale, entri in contatto con la realtà attraverso te stesso. “Giudico la tua vista attraverso la mia vista, il tuo udito attraverso il mio udito, la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore. Non ho, né posso avere, alcun altro modo per giudicarle”, ci ricorda Adam Smith, nella Teoria dei Sentimenti Morali.

Se tua figlia, a tavola, manda giù un boccone e fa una smorfia, tu non puoi sapere cosa l’ha provocata, cosa ha sentito lei, tua figlia. Il cibo era troppo caldo? Troppo condito? O troppo poco? Era acido? Oppure, semplicemente, non era di suo gradimento? Boh! Non lo sai, non lo puoi sapere. Puoi chiederle cosa ci fosse che non andava, e lei potrà dirtelo, ma non potrai mai sapere cosa ha provato quando lo ha messo in bocca.

E lo stesso avviene nel mondo della pagina: non puoi entrare dentro qualcuno che non sia il “Punto di Vista”.
 
Scegli:
o ti fai le seghe mentali sui presunti tradimenti,
o ti fai rodere il culo in silenzio per il derby.
Non puoi fare entrambe le cose.

Puoi immergerti in un solo personaggio, il “Punto di Vista”, e solo per lui avrai a disposizione tutti e cinque i mattoncini narrativi.

Gli altri personaggi potranno essere conosciuti e percepiti – dal “Punto di Vista” e quindi dal lettore – solo attraverso le loro azioni e le loro parole. E il “Punto di Vista” interpreterà quelle azioni e quelle parole in funzione del suo profilo psicologico, senza poter mai sapere se la sua interpretazione è conforme, in tutto o in parte, a ciò che realmente sente e intende il personaggio titolare di quelle azioni e quei pensieri (proprio come la madre non può sapere cosa ha sentito esattamente la figlia nel mandar giù il boccone).

Schematizzando: tu – scrittore, dio creatore – disponi di cinque mattoncini narrativi ([A][P][D][PS][PP]) per plasmare il “Punto di Vista”; ma puoi usarne solo due ([A] e [D]) quando hai a che fare con il resto del mondo.

Tutti i personaggi – che non siano il “Punto di Vista” – si muoveranno in scena solo con le azioni e i dialoghi (e al più il dialogo potrà talvolta accogliere al suo interno il mattoncino [PP]).

Le possibilità espressive rimangono comunque notevoli. Ricordi cosa avevano detto nel presentare le modalità di cementazione dei mattoncini? Che le azioni contano più delle parole, che “quel che si fa” impressiona e convince molto di più di “quel che si dice”, che sono sempre e solo le azioni a imprimere una direzione ai personaggi.

Fai agire i personaggi! Mostrali in azione, in coerenza con il loro profilo psicologico.

Il tuo personaggio ha un rapporto deviato col denaro? Bene. Allora lo inquadrerai con gli occhi del “Punto di Vista”, e il lettore potrà vederlo mentre paga un caffè (costo € 1,2) e un decaffeinato (€ 1,5), consegna una banconota da 5 euro, ma la cassiera si sbaglia e gli dà un resto di 2,6 euro, come se avesse chiesto due caffè normali, e lui, il personaggio, si affretta a mettere le monetine nel portafoglio, sorridendo al “Punto di Vista” per quel guadagno inatteso. E il “Punto di Vista” potrà ad esempio scuotere la testa e sospirare, o meglio ancora, far presente alla cassiera che si è sbagliata e saldare lui, il “Punto di Vista”, i 30 centesimi mancanti. E così il lettore ne saprà di più su tutti i personaggi in scena.

Fai agire i personaggi, mostrali in azione, e ragiona sulla migliore granularità da conferire all’azione stessa.

Niente micro-azioni in sequenza serrata, niente cose del tipo “prende il portafoglio, lo apre, tira fuori una banconota da cinque euro, la porge alla cassiera, la guarda, le sorride, apre la mano, prende il resto, osserva le monetine sulla mano, le mette dentro il portafoglio, mi sorride, sgrana gli occhi”. Scrivere in modalità “qui e ora” non significa riprodurre sulla pagina ogni singolo istante, ma rendere l’idea di ciò che accade nel modo più fluido possibile. Sarà il lettore – se la granularità è ben calibrata – a colmare i vuoti tra un “qui e ora” e l’altro.

E – all’estremo opposto – niente macro-azioni che riassumono l’azione (dando l’impressione che tu non sappia di cosa stia parlando).

Fabio prese il comando dell’aereo.

Fabio prese il comando del carrarmato.

Fabio prese il comando del sommergibile.

Fabio prese il comando della navicella spaziale.


Non vedi che la struttura (sbagliata) è invariabilmente la stessa?

[Personaggio]-[Macro-azione]-[Oggetto su cui si esercita la macro-azione]

Se il personaggio, grazie alla macro-azione, può trovarsi indifferentemente su un aereo, dentro un carrarmato, in un sommergibile o in una navicella spaziale, allora, con ogni probabilità, tu, scrittore, non sai di cosa stai parlando. Perché “prendere il comando” è una macro-azione dentro la quale vi sono singole azioni molto diverse, a seconda che ci si trovi su un aereo, un carrarmato, un sommergibile o una navicella spaziale, e tu devi mostrare le azioni specifiche di ognuno di quei mezzi, se le conosci, e altrimenti rinunciare a scriverne.

Fai agire i personaggi, perché saranno le loro azioni a rivelarne la psicologia, e a renderli tridimensionali agli occhi del lettore.

La fisiologia della scrittura va dalla caratterizzazione del profilo psicologico (che rimarrà dietro le quinte) alla manifestazione delle sue azioni in coerenza col profilo psicologico (cha appariranno sotto gli occhi del lettore, nel mondo della pagina) al giudizio che il lettore darà sul loro carattere muovendo dalle azioni che ha osservato (ogni lettore giudicherà da sé, opportunamente indirizzato dallo scrittore, che però non potrà mai andare oltre una “spinta gentile”).

Ragiona bene sulla circolarità del processo tra il profilo psicologico del personaggio delineato dallo scrittore, le azioni che compirà il personaggio in coerenza col profilo attribuitogli, e l’inferenza del lettore sulla psicologia del personaggio a partire dalle azioni che vede compiergli.

Non prendere scorciatoie, che nel migliore dei casi si riveleranno allungatoie, e molto più spesso dei vicoli ciechi.

Non spiattellare la psicologia del personaggio sulla pagina. È un errore, che come ogni errore ne genera altri – ad esempio quello di far parlare il personaggio direttamente al lettore, già stigmatizzato nel modulo 9, e che vedremo essere il marchio del dilettante – ed è pure un errore grave in sé, rivelatore delle “costrizioni allucinatorie” che i cattivi scrittori si infliggono a causa della mancata padronanza della tecnica.
 
Dalla Lezione 6 E se invece di Renzo e Lucia li chiamassimo Lui e Lei?”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Il personaggio non diventa tridimensionale perché tu – scrittore – inizi a vomitare informazioni su di lui nella pagina.

 
Nessun essere umano, nel mondo reale, ci apparirà vero, concreto, tridimensionale, semplicemente scorrendone la carta di identità, giusto? E come puoi pensare, allora, che ciò avvenga nel mondo della pagina.

Nome e cognome: Mi chiamo Achille Moretti.

Professione: sono dirigente di primo livello al centro cardiologico di M.

Segni particolari: alla fine di ogni turno sento il bisogno, l’urgenza addirittura, di riattivare la circolazione nelle gambe e liberare la mente.

Ma da dove è saltato fuori questo tizio? Dall’opera di uno scrittore o dalla pratica burocratica di un impiegato comunale?

Mostrami il personaggio in azione!

Non dirmi che “durante l’intera giornata oppongo il mio sorriso alle geremiadi dei ricoverati”. Non ti servono né una “intera giornata” né tutti i “ricoverati”. Ti bastano pochi minuti con un ricoverato specifico, un singolo episodio ricco di dettagli concreti e vividi, per farmi capire quanto sei gentile e tollerante.

E non dirmi “sono accondiscendente con i colleghi”, e men che meno non parlarmi del “primario di cardiochirurgia” come di “uno stronzo arrogante”. Perché l’effetto che ottieni – e dovresti saperlo, per quel minimo di conoscenza su come gira la vita – sarà opposto a quello che vorresti suscitare. Le persone che si elogiano da sole (“sono accondiscendente con i colleghi”) stanno sulle balle a tutti, nel mondo reale. E perché, allora, credi che sulla pagina le cose siano diverse? E quando qualcuno dà dello “stronzo arrogante” a qualcun altro, noi sappiamo per certo – nel mondo reale – che lo stronzo arrogante è lui, chi accusa gli altri di esserlo, e non le vittime incolpevoli delle sue invettive.

Se davvero sei “accondiscendente con i colleghi”, allora mostrami almeno un episodio – ne basta uno! – in cui questa accondiscendenza sia evidente dal tuo comportamento, da ciò fai e da quel che dici. E se davvero il primario di cardiochirurgia è “uno stronzo arrogante”, allora mostrami le azioni concrete, visualizzabili, e le parole precise, con cui l’arroganza prende forma.

Sempre ammesso – si intende – che tu conosca davvero il mondo degli ospedali, dei malati, dei chirurghi e dei primari. Sempre ammesso – per esser chiari – che tu non stia semplicemente proponendo un frullato di serie tv a tema “medici in prima linea”, illudendoti che l’argomento in sé sarà sufficiente a far piangere di commozione.

Rifletti prima di scrivere e… fai attenzione anche a come leggi.

 
Tu leggi per vivere un’altra vita, una vita diversa dalla tua; però, al tempo stesso, non vuoi fronteggiare personaggi che “non ti lasciano scampo”, che “non hanno bisogno di te”, se non per la vanagloria di chi li ha creati.

E qui sembra sorgere un potenziale conflitto tra obiettivi: in che senso il personaggio “ha bisogno di te”, se sei tu che devi rinunciare alla tua vita, per vivere la sua?

Vediamolo su un esempio stilizzato.

Nonna Iole era incredibilmente affettuosa e amorevole con la sua nipotina Gisella.

Il personaggio di nonna Iole – all’apparenza – ha enormemente bisogno di te, lettore, per diventare tridimensionale: sei tu, lettore, che devi riempire di contenuti il concetto di “incredibilmente affettuosa e amorevole”, e c’è un’infinità modi in cui puoi farlo.

Almeno in teoria. Perché poi cosa accadrà in pratica? Accadrà – inevitabilmente – che tradurrai quel “incredibilmente affettuosa e amorevole” nei modi con cui tua nonna è stata affettuosa e amorevole con te. E se per disgrazia una nonna non l’hai avuta, o avendola non ne hai particolari ricordi amorevoli, finirai col configurare nonna Iole nel modo in cui sarebbe piaciuto a te, lettore, avere una nonna di un certo tipo, o come immagini che tu, lettore, ti comporteresti nel ruolo di nonna.

Dovresti avvertire che qualcosa che non va. Tu e tua nonna. E cosa ne è stato di nonna Iole? È diventata un muppet dentro cui ti celi tu o tua nonna, a seconda dei casi. Che ne è stato del vivere la vita di un altro, del vivere la vita – la vera vita – del personaggio di nonna Iole?

Proviamo così.

Nonna Iole infilava sempre una banconota da 10 euro nel cappottino della sua nipotina Gisella, di nascosto dalla madre.

Il personaggio di nonna Iole – all’apparenza – “non lascia scampo”: infila banconote da 10 euro nel cappotto della nipotina, senza dir nulla alla madre (di Gisella). È così: ogni visita alla nonna, 10 euro a Gisella, senza che la mamma di Gisella ne sappia nulla. Ma siamo sicuri che questa nonna Iole “non lasci scampo”?

Nonna Iole è nonna Iole, perché a questo, sì, non può esserci scampo: agisce, pensa, percepisce, parla in linea con quello che è lei, nonna Iole. E poi però ci sei tu, lettore, che rielabori azioni, pensieri, parole e percezioni di nonna Iole.

La tua rielaborazione non deve essere finalizzata a giudicarla in base del tuo sistema di valori, ma a comprenderla in funzione del comportamento complessivo di nonna Iole, di tutto ciò che nonna Iole avrà fatto e detto – e pensato e percepito, se è il “Punto di Vista” – prima di dare i 10 euro alla nipotina.

Il regalo di 10 euro alla nipotina può significare tutto e il suo contrario, se considerato stand-alone: può essere una dimostrazione d’amore (come voleva far intendere lo scrittore) o una grave mancanza di rispetto verso la madre (che non ne sa nulla, ed evidentemente non vuole che ciò avvenga) oltre che un atto diseducativo (per l’associazione che si viene a creare, nella testa della bambina, tra la visita alla nonna e la ricompensa di 10 euro).

È impossibile non giudicare un singolo episodio narrativo (e giudicarlo inevitabilmente col proprio sistema valoriale) ma quando si è davanti a una sequenza di episodi, quando ogni episodio è la conseguenza del precedente e pone le basi per il successivo, allora diventa possibile cogliere la coerenza interna della costruzione, da considerare come un tutt’uno, e spetta a te, lettore, la verifica della tenuta complessiva della narrazione. il vaglio delle interrelazioni che la vanno a formare.

Rimane una tenuta emotiva, in linea col fatto che la narrativa parla “alla pancia” del lettore, e sarà perciò la tua emotività a vagliare il tutto, e che da un lato dovrai mettere a nudo in favore della storia e dei personaggio, ma dall’altro potrebbe rivelare aspetti sconosciuti e inattesi dell’animo umano a cui lo scrittore non aveva pensato. È un equilibrio delicato, tra la rinuncia a sé stessi per diventare il personaggio e la colorazione che ne puoi ancora dare in conseguenza di quei margini di libertà valutativa che comunque restano aperti. E la morale – a ogni buon conto – non si può forzare: at the end of the history, sarai tu, lettore, a stabilire se nonna Iole è davvero così amorevole o è invece una pazza da internare, ma tu, nel ruolo di scrittore, devi dare il meglio per far passare un messaggio preciso, per circoscrivere in limiti esatti le possibilità interpretative. 
 
Se invece il lettore resta libero di interpretare le situazioni e i personaggi come vuole, se reclama questo diritto sempre e comunque, qualunque cosa si trovi scritta sulla pagina, perché sforzarsi di progettare e realizzare proprio quelle scene e non altre, perché far accadere certi eventi e non altri, perché scegliere alcune parole e non altre? 
 
Non può esserci arte, se non si ha il controllo su quel che il lettore è legittimato a intendere.
 

La convocazione dei personaggi – per dar vita a una storia nel mondo della pagina – soggiace a una tautologia: devi sempre scegliere i più adatti.

E chi te lo dice chi sono i personaggi più adatti? Al solito: la conoscenza di ciò di cui stai scrivendo. Se sai di cosa parli, allora saprai anche – pressoché in automatico – chi sono i migliori interpreti per restituire al lettore il senso profondo della tua storia.

Io posso fornirti solo alcune coordinate generali.

Il personaggio “Punto di Vista” – qualunque sia la sua storia – sarà invariabilmente impegnato in un complesso e travagliato processo di trasformazione; avrà accanto degli alleati, che lo supporteranno nella misura in cui lui ne capirà l’importanza; e fronteggerà dei nemici, che gli si opporranno per delle ragioni precise.

Quindi, in prima battuta, i personaggi si dividono in due squadre: quelli schierati dalla parte del “Punto di Vista”, e quelli schierati dalla parte opposta.

Evita assolutamente di pensare ai primi come ai “buoni” e ai secondi come ai “cattivi”, perché “buono” e “cattivo” – lo vedremo – portano con sé giudizi valoriali che producono delle macchiette.

Entra nell’ordine di idee che il lettore deve “tifare” per la squadra del “Punto di Vista”, aderire cioè “di pancia” alle ragioni di una delle due parti, ben sapendo, razionalmente, che la parte avversa ha pure le sue ragioni, non meno meritorie di tutela, se solo la storia la si osservasse con un sufficiente distacco emotivo (cosa che però tu non vuoi: il lettore deve rapportarsi all’opera “facendo il tifo” per il “Punto di Vista”, proprio come tiferebbe in una partita in cui sia coinvolta la sua squadra, e non certo come assisterebbe a una partita tra due squadre qualsiasi, avendo al più una blanda preferenza per l’una o l’altra per motivi incontrollabili, come il nome o i colori sociali).
 
Ti sconsiglio di ragionare esplicitamente in base ai cosiddetti “archetipi narrativi” – il guardiano della soglia, il muta-forma, il messaggero, l’ombra, il buffone… – per lo stesso motivo per cui ti ho sconsigliato di impostare esplicitamente le scene in termini di set-up e pay-off: sono sovrastrutture di per sé inutili, che si rivelano dannose quando si crede che possano creare dal nulla dei personaggi o delle situazioni narrative che dovrebbero essere già presenti nella storia (per la conoscenza profonda che se ne possiede) e che se invece non sono presenti, allora probabilmente non servono (e però si rischia di introdurle a forza… perché sì, perché ci devono stare).

Le autentiche parole d’ordine per la creazione dei personaggi sono solo due: chiara differenziazione e nessuna polarizzazione.

I profili psicologici dei personaggi – e di conseguenza le azioni a cui daranno luogo – devono essere distinguibili, ben differenziati, come lo sono le sette note musicali: un ascoltatore può pure ignorare che quel suono corrisponde a un “do”, quell’altro a un “re” e quell’altro ancora a un “sol”, ma li distingue comunque perfettamente; allo stesso modo, un lettore può pure non saper nulla di psicologia, ma deve spontaneamente avvertire la sensazione che ogni personaggio è diverso dagli altri.

E le differenza profonde, di psicologia e azioni, devono associarsi a differenze superficiali.

Se la tua ambientazione è centrata su una famiglia tradizionale – papà, mamma, due figli – e se uno dei due figli è più estroverso e intraprendente, e l’altro più riservato e timido, fa sì che uno sia maschio e l’altro femmina, in modo che nella testa del lettore si rafforzi il contrasto (quindi, a esempio, maschio-estroverso vs femmina-timida, oppure maschio-timido vs femmina-estroversa). Non è una regola, ma un canone di condotta che puoi variare a piacimento, purché la separazione netta tra i figli rimanga chiara.

Se i figli sono entrambi maschi, fai la cortesia di non chiamarli Marco e Mario; se sono femmine, non chiamarle Valeria e Valentina. Per quanto tu possa essere stato bravo nel differenziarli psicologicamente, ci sarà sempre il rischio che il lettore confonda Marco con Mario e Valeria con Valentina, o viceversa, a causa della sovrapposizione letterale dei due nomi.

Evita la pecionata di chiamare Francesco l’uno e Chiara l’altra. Sì, lo so, nel mondo reale lo fanno in tanti, ed è pure una cosa bellissima, ma nel mondo della pagina fa ridere, a meno che tu non abbia costruito tutta un’ambientazione – familiare e non solo – che giustifichi e sostenga la scena, senza farla apparire come un tocco artistoide di cui nessuno sento il bisogno.

Ricorda che i nomi portano con sé significati ed evocazioni: se il tuo personaggio è una donna del popolo, non chiamarla Sissi; e magari non chiamarla Sissi neppure se è una principessa, per evitare associazioni banali. Documentati sui nomi, sulla loro origine, e sulla loro frequenza nei luoghi dove è ambientata la storia, eventualmente per dare un segno di distinzione al personaggio. In Fabiana – ad esempio – il nome e il cognome della ragazza (Fabiana Silvestri) sono manifestamente discosti dalla chiara intonazione siciliana di tutti gli altri. Forse la famiglia della ragazza si è trasferita in Sicilia per ragioni di lavoro, chissà. Certo è che “Silvestri” – anche solo inconsciamente – suona distonico rispetto a “Cavallaro”, “Giuffrida” e “Russo”. Ed è bene che sia così, se si vuole enfatizzare la particolarità del personaggio (che particolare lo è senz’altro).
 
Ogni personaggio deve avere “una sua voce” – si dice di continuo – e spero che questa frase fatta sia ora più ricca di contenuti operativi e spendibili, arrivati a questo punto del manuale.

E ricorda: i personaggi del mondo della pagina – tutti, nessuno escluso – sono esseri reali, con tutte le complessità proprie degli esseri reali, che devi rispettare e riprodurre in modo stilizzato, senza cadere in polarizzazioni banali.

Evita perciò i personaggi cattivi-cattivissimi-cattivi-perché-sì così come i buoni-buonissimi-che-più-buoni-non-si-può, a meno che tu non stia scrivendo per un pubblico di bambini intorno ai cinque anni. Anche perché – te lo ricordo, semmai dopo un paio di righe te lo fossi già scordato – nella tua storia non si ci sono “buoni” e non ci sono “cattivi”, ma solo personaggi che agiscono coerentemente con il loro profilo psicologico, per raggiungere ciascuno il proprio obiettivo, all’interno di una storia in cui tu, dio creatore, li ha messi.

A un lettore tiepido piace ritrovare nel mondo della pagina gli stessi grovigli del mondo reale, solo depurati dalle parti sfilacciate e ineleganti, inutili o ridondanti, inspiegabili o casuali. Abbraccia quindi la complessità della psicologia umana, e ricorda che ognuno di noi ha sempre un buon motivo per fare quel che fa, almeno in linea di principio.

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