MODULO 10 – Cementare i mattoncini: il flusso narrativo

 
 
Un testo narrativo è una sequenza di frasi costruite solo ed esclusivamente con i mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP].

E come si mettono in sequenza i mattoncini, come si cementano tra loro, per creare un flusso narrativo simulabile?

Può esserti utile – in via preliminare – riprendere i racconti sparpagliati nei vari moduli (L’eredità, L’ultimo caffè, Poker d’assi, Come viaggiare gratis e più in generale tutto ciò che trovi scritto con il font Quicksand) e decodificarli: riesci a individuare il mattoncino sottostante a ogni passaggio, e a intravedere la tecnica di cementazione, le modalità di costruzione del flusso narrativo attraverso le componenti [A], [PS], [P], [D], [PP]?

Il principio generale è semplice, al limite del tautologico: il flusso narrativo – la sequenza di mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP] – deve replicare ciò che verosimilmente accadrebbe nel mondo reale. Quindi, semplicemente, chiudi gli occhi e immagina la scena dal di dentro del personaggio – come la vivrebbe lui, il tuo personaggio – con tutta la precisione necessaria. Poi scrivila come l’hai immaginata, come la vivrebbe il personaggio, depurandola di tutte le parti superflue e sfilacciate, inevitabili nel mondo reale, ma da sopprimere nel mondo della pagina.

Se il tuo personaggio sta fuggendo in una foresta, inseguito da un gruppo di indigeni che vogliono bollirlo nel pentolone, avremo una scena molto dinamica, in cui si farà largo uso del mattoncino [A]. Potremmo quindi avere una sequenza del tipo [A1]-[A2]-[A3]-[A4]-[A5], con cinque azioni di fila compiute dal personaggio per sfuggire a chi lo vuole trasformare nella propria cena. Per esempio – a livello macroscopico – il personaggio può:

[A1] = fuggire dalla gabbia in cui lo hanno rinchiuso;

[A2] = attraversare la foresta;

[A3] = tuffarsi in un fiume;

[A4] = nuotare;

[A5] = toccare terra e correre su per un pendio.

Il blocco di macro-azioni [A1]-[A5] andrà ovviamente declinato in ciò che effettivamente il personaggio fa per fuggire dagli indigeni, e ogni mattoncino avrà il suo specifico grado di risoluzione, ma intanto abbiamo tratteggiato a grandi linee ciò che accadrebbe nella realtà, se ci si trovasse davvero in una situazione simile. In questa circostanza, tendenzialmente, non c’è granché da pensare, non vi è cioè grande spazio per il mattoncino [P]. C’è da fuggire e basta.

Attenzione però a non esagerare, perché – di là di tutto – un flusso ininterrotto di azioni non è realistico.

All’interno della macro-azione [A1] – “fuggire nella foresta” – il personaggio potrebbe a inciampare in un tronco (mattoncino [A]), cadere (altro mattoncino [A]) e ferirsi a una gamba (ed ecco allora interrompersi la sequenza di azioni e apparire il mattoncino [PS]: la ferita è una percezione sensoriale); la ferita indurrà probabilmente un pensiero (mattoncino [P]) anche molto semplice, rapido, ma congruente con la situazione, qualcosa del tipo cazzo, questo non ci voleva! o anche un semplice vaffanculo!, un qualsiasi pensiero di stizza che crei un minimo di alternanza nei mattoncini, per poi ricominciare con l’azione di fuga.

Pure, quando il personaggio si tuffa nel fiume – macro-azione [A3] –  sentirà il contatto con l’acqua, e quindi vien fuori una percezione sensoriale (mattoncino [PS]) che magari darà luogo a un pensiero (mattoncino [P]) da sfruttare per passare informazioni al lettore (a esempio, Dio mio, è ghiacciata!, per far conoscere la temperatura dell’acqua del fiume).

Bisogna sempre stare allerta per evitare sequenze narrative formate da “troppi” mattoncini dello stesso tipo. Non mi chiedere un’indicazione precisa sul quel “troppi”. Capiscilo da solo, in base a ciò che stai scrivendo. Lo scrittore sei tu, e sei tu a dover avere il polso della scena. Se hai il controllo della scena – come dovresti averlo – se sai davvero cosa sta accadendo nel mondo della pagina, e non ne hai solo una vaga idea, allora ti renderai conto da solo quand’è che una sequenza di mattoncini identici deve essere interrotta per inserirne uno di altro tipo.  Quel che io posso dirti è ciò che ti ho già detto: rimani vigile su sequenze troppo lunghe formate con troppi mattoncini dello stesso tipo, perché non sono realistiche.

E questo sarebbe davvero tutto: visualizza nella tua testa la scena da scrivere, vivendola da dentro il personaggio; rifletti su cosa realisticamente potrebbe accadere nella situazione che hai creato; traduci il tutto in termini di mattoncini narrativi, calibrando la granularità di ognuno, e prestando attenzione a non impilarne troppi dello stesso tipo.

All’inizio, nel rileggere ciò che hai scritto, avrai probabilmente la sensazione sgradevole di aver prodotto un testo che procede a scatti, a salti. Questo “effetto singhiozzo” – tipico dei principianti – è spesso indotto da una lunga sequenza di azioni o percezioni, brevi e discontinue, separate dal punto. Impara a usare la virgola, per prima cosa, ad alternare e collegare i mattoncini [A] e [PS] attraverso un segno di interpunzione che trasmetta maggiore velocità – la virgola – e ragiona sul grado di risoluzione da conferire al mattoncino [A], per evitare di riempirlo con micro-azioni irrilevanti ai fini di ciò che vuoi dire. L’impegno a scrivere in modalità “qui e ora” – a proporre una narrazione che possa essere simulata come se dovesse essere recitata su un palco o su un set cinematografico – non deve degenerare in una narrazione “istante per istante”, in cui viene mostrato anche ciò che il lettore può tranquillamente immaginare da sé tra un istante e l’altro.

Rileggi con spirito critico tutti i racconti scritti con il font Quicksand e ti accorgerai che tra un “qui e ora” e l’altro ci sono dei buchi, che però non vengono mai avvertiti, proprio perché si è avuta la cura di cementare i mattoncini in modo da colmare in automatico i vuoti in fase di lettura. Più in generale, ti suggerisco di rileggere tutti i racconti scritti in Quicksand, e di ragionarci sopra ogni volta che apprendi un nuovo concetto teorico, per vedere come è stato messo all’opera. Questo manuale, d’altra parte, non è una iniezione di sapere che ti viene inoculata e ti rende istantaneamente consapevole. Richiede piuttosto uno sforzo di apprendimento – continuo e crescente – quindi testa bassa e giù con lo studio.

In sintesi: le singole azioni e percezioni – i singoli mattoncini [A] e [PS] – daranno spesso luogo a frasi brevi, perché la singola azione e la singola percezione sono brevi in sé, e quindi sono brevi le frasi che la codificano; non renderle artificiosamente ancor più brevi di quanto già siano, frantumandole in tante micro-azioni o micro-percezioni; concepisci le cose in modo che il lettore possa interpolare – spontaneamente, senza accorgersene – la sequenza dei “qui e ora”; sforzati di immaginare sequenze fluide, che legittimino la separazione delle frasi con la virgola (o il punto e virgola) anziché col punto.

E non dimenticarti dei pensieri! A meno di situazioni estreme – che dovresti limitare –  è inverosimile che il personaggio agisca, agisca, agisca (o percepisca, percepisca, percepisca) senza avere mai un pensiero su ciò che gli sta accadendo intorno, su ciò che l’ambiente circostante gli rimanda. A livello testuale, il mattoncino [P] è uno strumento potente per creare frasi più lunghe, e quindi un testo più fluido, perché il pensiero può essere più esteso di un’azione o una percezione.

Anche qui, però, fai attenzione a non eccedere, a non creare sequenze troppe lunghe di pensieri. Quando il personaggio pensa – quando sul testo si materializza il mattoncino [P] – è come se il tempo e il mondo si fermassero. Il singolo pensiero – il mattoncino [P] – potrà dare luogo a una frase più lunga, ma se inizi a inanellare un pensiero dopo l’altro, a impilare mattoncini [P], crei qualcosa di straniante e noioso. Un personaggio che pensa, pensa, pensa, e poi pensa ancora, ancora e ancora, si sta facendo una pippa mentale – con buona pace di chi vorrebbe nobilitarla chiamandola flusso di coscienza – e a nessuno piace leggere le pippe mentali degli altri. E poi, mentre il personaggio è lì che pensa, pensa e pensa, si può sapere cosa sta accadendo attorno a lui? Possibile che il mondo sia immobile in contemplazione del personaggio che pensa? Dai, su.

Può sembrare ovvio, ma non è banale, ricordare che le percezioni sensoriali sono cinque, e quindi che il mattoncino [PS] è in realtà il contenitore di cinque mattoncini: vista [PSV], olfatto [PSO], gusto [PSG], tatto [PST], udito [PSU]. Sfrutta e alterna tutti i mattoncini contenuti in [PS]. L’errore del principiante è abusare della vista – del mattoncino [PSV] – e tralasciare gli altri. La vista è la percezione sensoriale più potente – perché è sempre presente – ma non c’è solo la vista nella realtà percepita. Ragiona sulla scena che stai scrivendo, sulla specifica situazione che il personaggio sta vivendo nel mondo della pagina, e chiediti quali altre percezioni il personaggio può avere. Non è possibile che stia “vedendo” e basta. Ci saranno per forza – come minimo – suoni o odori tipici del luogo in cui lo hai collocato. Ragiona sulla scena che stai scrivendo, per restituire al lettore l’effettiva esperienza vissuta dal personaggio, con quanta più precisione sensoriale possibile.

La multi-dimensionalità del mattoncino [PS] va sfruttata anche in chiave opportunistica, per recuperare l’apparente gap rispetto al cinema.

Ne abbiamo già parlato nel modulo 6: il cinema ha un  apparente vantaggio sulla scrittura, il suo vincolo percettivo forte con l’opera – in termini di vista e udito – che invece manca del tutto in narrativa. Al cinema, le cose si vedono e si sentono; in scrittura, ci sono solo parole su una pagina. Vedremo nel modulo 16 come “far apparire sulla pagina” anche ciò che non vi si trova scritto esplicitamente, ma intanto osserviamo come l’apparente svantaggio – nulla può essere percepito, tutto deve essere evocato – si possa tramutare in un punto di forza.

Tutto deve essere evocato, in scrittura, e tutto può essere evocato, a differenza del cinema dove una serie di percezioni sensoriali rimangono inaccessibili.

Al cinema le cose si vedono e si sentono, ma non c’è modo di annusarle, toccarle, gustarle. Non importa quanto bella sia l’immagine della lasagna sullo schermo: non riuscirai mai a sentirne il profumo e il sapore. Non importa quanto fumo si sia creato dentro la casa stretta tra le fiamme di un incendio: non sentirai mai mancarti l’aria. Non importa quanto soffice sia la stoffa sotto le dita del personaggio: tu non l’avverti.

Solo scene estreme – di sesso o violenza – possono indurre un senso di partecipazione, di immedesimazione, a condizione che siano opportunamente preparate e contestualizzate. Tutti ci siamo contratti, quando abbiamo visto Annie gambizzare lo scrittore Paul Sheldon, nella versione cinematografica di Misery non deve morire – una scena che se ricordo bene fu comunque tagliata nel momento topico – ma in generale tanto forte è il legame del cinema con la vista e l’udito, quanto debole (o assente) con gli altri sensi.

Pensa – per conferma – al caso limite del porno: puoi trovare massimamente eccitante ciò che vedi, ma non riuscirai mai a riportare a te, alla tua fisicità, ciò che sta provando il personaggio, nemmeno in via largamente approssimata. Perché non c’è un contesto, nessuna preparazione degli eventi, nessuna logica, e alla fine è lui che sta facendo sesso, non tu.

In scrittura, al contrario, puoi evocare tutto, e quindi devi evocare tutto, perché sarebbe sciocco non farlo, perché vorrebbe dire auto-sabotarsi, sprecare risorse, e perché l’evocazione narrativa – se realizzata a regola d’arte – può far raggiungere un livello di immedesimazione che il cinema non riuscirà mai a realizzare.

Il mattoncino [PP] è particolare: sembra il più potente di tutti, ma, come recitava una vecchia pubblicità, la potenza è nulla senza controllo.

Col mattoncino [PP] – col modo in cui il personaggio percepisce la realtà oggettiva in base alla sua psicologia, e la traduce nel suo stato d’animo – è possibile, da un lato, comunicare con grande efficacia la sua interiorità, e dall’altro liberare la propria inventiva di scrittori, o – meglio ancora – combinare e armonizzare le due cose, come si dovrebbe sempre fare.

Attenzione, però. È un attimo ad abusarne, a utilizzarlo come baule per contrabbandare nel testo delle cose che non hanno diritto di cittadinanza nel mondo della pagina, ma che fanno sentire te, scrittore, tanto figo per averle scritte. È un attimo a falsare il test del mattoncino, quando c’è di mezzo il mattoncino [PP], a giustificare ogni porcheriola che si è scritta – spesso con abuso di figure retoriche – dicendo “eh, ma questa è una percezione psicologica del mio personaggio, quindi va bene”.

Devi conoscere a fondo il tuo personaggio – ne parleremo nei moduli 18A e 18D – e avere il controllo della situazione in cui lo hai collocato, per sapere com’è che lui – lui, per l’amore del cielo, lui, il tuo personaggio, non tu scrittore! – si comporterebbe in quella situazione: cosa direbbe, cosa farebbe, cosa penserebbe e quali percezioni (psicologiche) avrebbe. Lui, non tu. La pagina è il suo mondo, il loro mondo, il mondo dei personaggi, e non il tuo per pavoneggiarti con noi lettori, ricordandoci quanto eri bravo a far venire i lucciconi alla professoressa di italiano, con grande orgoglio di mamma e papà.

Due parole sul mattoncino [D]. Qualunque manuale di scrittura ti dirà che i dialoghi sono un mezzo eccezionale per dare spessore a un personaggio, arricchire le descrizioni, far avanzare la storia, accrescere la tensione o smorzare il ritmo. Tutto vero: i dialoghi sono uno snodo cruciale della narrazione, e alcuni possono divenire memorabili, più di qualunque altra parte della storia, e non a caso gli dedicheremo l’intero modulo 12.

Attenzione però a non vedervi anche una forza che non c’è, a conferirgli un potere maggiore di quello che già possiedono.

La parola, nell’oralità, concorre al più al 10% all’efficacia del messaggio. Il resto è tutta comunicazione para-verbale. Quando si scrivono i dialoghi – l’equivalente della parola orale nel mondo della pagina – si tenta di accrescerne l’importanza, sfruttando l’artificiosità del dialogo narrativo, il fatto cioè che i dialoghi narrativi esprimono il modo in cui le persone parlerebbero se riflettessero prima di aprir bocca. Può anche andare bene, purché non germoglino illusioni sul punto sino a cui ci si può spingere.

Devi anzitutto aver chiaro che il dialogo è la normalità di una scena narrativa. A meno che il personaggio non si trovi isolato – e tu non vuoi che il personaggio resti isolato per troppo tempo – è ovvio che dialogherà con chi gli sta intorno, esattamente come avviene nel mondo reale. Scrivere dialoghi è dunque la normalità per chi ambisce a produrre narrativa, e chi dice che i dialoghi sono la bestia nera degli scrittori, forse dovrebbe interrogarsi sulle sue effettive capacità invece di vedere fantasmi ovunque.

Ma c’è di più: la narrativa non è altro che la versione elegante della realtà – ne parleremo nel modulo 23, ma un accenno sarà presente già nei moduli 12 e 13 – e nella realtà noi siamo più colpiti dalle azioni che dalle parole. Non devo spiegarti che – in tutte le situazioni di vita – conta più “quel che si fa” di “quel che si dice”, vero? Sicuramente ci sono casi in cui una stessa azione si colora diversamente a seconda delle parole che vi si associano – un uomo che esce ogni sera con una donna diversa è una cosa; uno che a ognuna con cui esce dice “sei l’unica donna della mia vita” è un’altra cosa – ma è sempre l’azione a imprimere la direzione al personaggio, a rappresentarne l’armonica principale, direbbero i musicisti, su cui poi si innesteranno le secondarie.

Io – te lo giuro – sono convinto che il piacere di un uomo nel fare sesso sia per almeno l’80% eterodiretto, suscitato dall’osservazione del piacere della donna: tanto più la donna gode, tanto più io mi godo il rapporto sessuale, perché il mio piacere individuale, in termini brutalmente fisici, è in fondo limitato, proprio per come funziona la risposta fisica al sesso del corpo di un uomo. Perciò rimango esterrefatto quando sento di un uomo che violenta una donna. Non solo per l’ovvia condanna alla violenza in sé, ma a un livello ancor più basico, e se vogliamo egoistico: perché già non capisco che piacere si possa provare se una donna non è partecipativa, figurarsi poi se piange, soffre e tenta in ogni modo di liberarsi dalla tua presa. La violenza su una donna è sempre e solo l’atto di un impotente.

Bene. E ora mettiamo che io abbia voglia di fare sesso, ma la mia compagna no, e magari sia pure in una di quelle fasi dove non ha proprio piacere a esser toccata, a non volere neppure carezze o abbracci, e vuole solo esser lasciata in pace. Ma io voglio fare sesso. E quindi insisto, insisto e insisto, e alla fine lei cede, pur di non sentirmi più. Assolutamente consenziente, ci mancherebbe, ma senza nessun particolare trasporto o coinvolgimento emotivo. Però, adesso, io mi sono svuotato e va decisamente meglio.

E ora – dimmi – a cosa dai più peso, nel formarti un’opinione su di me? Al mio bel discorsetto sulle donne, o al mio gesto verso la mia compagna? Cos’è che conta? Quel che dico o quel che faccio?

L’enfasi posta sui dialoghi narrativi – su quel che i personaggi dicono in scena – è per lo più spiegabile col desiderio di bypassare i limiti espressivi intrinseci al mondo della pagina, attraverso uno scambio di battute particolarmente brillanti. Il che va pure bene, purché non si dimentichi un fatto fondamentale: la nostra emotività – nel mondo reale come in quello della pagina – è pilotata dalle azioni e dalle motivazioni sottostanti a quelle azioni, e i dialoghi, così come i pensieri, servono appunto a chiarire – a qualificare, a confermare – le ragioni per cui il personaggio fa quel che fa. Sono sempre le azioni – i mattoncini [A] – a guidare la narrazione, a scandirne il tono; tutti gli altri mattoncini – [PS], [P], [D], [PP] – sono per così dire al loro servizio.

 

La sequenza [A]-[PS]-[P]

Non esiste una teoria generale delle sequenze narrative, non disponiamo cioè di un elenco di sequenze prefabbricate, già assemblate, di mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP], per rappresentare situazioni narrative opportunamente standardizzate. La sequenza ottima va costruita caso per caso, e qui vale la pena rimarcare due punti, che sono l’uno lo specchio dell’altro:

1) la tecnica di scrittura – come vedi – lascia grande libertà nella costruzione del testo, quindi è semplicemente falso che le regole piallano l’inventiva degli autori; solo li tengono sull’attenti su cosa sia ammissibile (simulabile dal cervello) e cosa no;

2) la grande libertà nel creare sequenze narrative si ritorce contro gli autori presuntuosi che vogliono scrivere di cose che non conoscono; solo la conoscenza di ciò di cui si scrive può indirizzare verso sequenze ottime, perché è la conoscenza a suggerire la messa in sequenza più naturale dei mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP].

C’è solo una sequenza – elementare – codificabile a priori: [A]-[PS]-[P], e cioè l’azione genera una conseguenza, che si manifesta sotto forma di percezione, la quale dà origine a un pensiero.

Corro per raggiungere l’autobus alla fermata, la scarpa sprofonda in una pozzanghera e il piede s’inzuppa. Vaffanculo!

Corro per raggiungere l’autobus alla fermata è chiaramente un’azione, una [A]; la scarpa sprofonda in una pozzanghera è la conseguenza dell’azione, che alza la palla a e il piede s’inzuppa che è una percezione tattile (di bagnato), cioè una [PS], alla quale segue il pensiero [P] vaffanculo.

Quindi [A] ha implicato [PS] che ha indotto [P], ovvero, se riguardato in senso inverso, abbiamo un [P] indotto dalla [PS] dovuta alla [A] precedente.

Uno degli errori tipici dei principianti è l’inversione del flusso narrativo, in particolare tra [PS] e [P].

Corro per raggiungere l’autobus alla fermata. Vaffanculo! Il piede mi è finito in una pozzanghera e si è inzuppato.

Quando il pensiero (vaffanculo) precede la percezione sensoriale che lo ha provocato (il piede inzuppato) è sempre e solo un errore, senza se senza ma.

L’inversione del flusso narrativo rischia tra l’altro di generare dei fraintendimenti nella comprensione del testo.

Corro per raggiungere l’autobus. Vaffanculo! Quando il lettore legge questa frase ha la sensazione che la corsa sia stata inutile, che il personaggio non sia riuscito a raggiungere l’autobus alla fermata, e ora dovrà aspettare il prossimo; ed è per questo che si lascia andare a un pensiero di stizza (vaffanculo).

Poi continua a leggere e scopre che, no, il vaffanculo non è per aver perso l’autobus, ma per aver messo il piede nella pozzanghera. Si dice – in linguaggio tecnico – che il lettore ha dovuto riconfigurare la scena: il testo lo ha prima spinto a pensare una cosa (il personaggio ha perso l’autobus) e poi lo ha obbligato a modificare (a riconfigurare) ciò che aveva pensato (il personaggio non ha perso l’autobus, bensì ha messo il piede nella pozzanghera).

Sequenze di [A], [PS], [P], [D], [PP] che obbligano a riconfigurare la scena sono errori gravi, da matita blu si sarebbe detto un tempo, perché il cervello non solo si affatica – di quella fatica sgradevole, che deprime e scoraggia nel proseguire nella lettura – ma soprattutto si infastidisce, e il fastidio nella lettura è la prima causa di revoca della sospensione dell’incredulità, su cui si basa tutta la narrativa.
 
Leggi qui, da un testo reale.
 

Già l’attacco puzza di infodump e quel che viene dopo è semplicemente assurdo.
 
Fammi capire: prima il personaggio sa che sono le “quattro e ventidue” e dopo sente “la nota sonora di un messaggio”?
 
Ma questo autore in che mondo vive? Come la percepisce la realtà?
 
Perché nella realtà, nel mondo in cui viviamo tutti noi, prima sento la notifica sonora di un messaggio; poi, come conseguenza della notifica, mi sveglio e apro gli occhi; e dopo ancora prendo il cellulare e vedo che sono le quattro e ventidue.

Questo incipit è la dimostrazione – precisa, incontrovertibile – che l’autore ha scritto senza pensare, senza vedere la scena, senza raffigurarsela, e ne è venuto fuori il più grave degli errori; e se si commette un errore grave già nelle prime righe che si offrono a un lettore tiepido – le più importanti, quelle da cui può dipendere la scelta di proseguire o no nella lettura – cosa mai ci si può aspettare di trovare nel seguito?
 
Sfruttiamo l’occasione per osservare come nel flusso corretto – notifica sonora, personaggio che si sveglia, verifica dell’ora sul cellulare – abbiamo una percezione sensoriale uditiva (mattoncino [PSU], la notifica) che induce un’azione (mattoncino [A], il personaggio apre gli occhi) a cui segue una percezione sensoriale visiva (mattoncino [PSV], la presa d’atto dell’ora) che presuppone implicitamente compiuta un’altra azione (altro mattoncino [A], il personaggio che prende il cellulare) che non compare nel testo, ma che il lettore immaginerà da solo senza problemi.
  
 
Scrivere usando solo ed esclusivamente i cinque mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP] può dare la sensazione di produrre una scrittura estremamente semplice. Ti do una notizia: lo è. Ma non era esattamente questo ciò che volevamo?

Voglio che la mia prosa sia trasparente, non voglio che il lettore mi inciampi addosso. Voglio che veda oltre quello che sto dicendo, che veda quello che sto descrivendo. Non voglio che dica mai ‘Oh, buon dio, come è scritto bene!’. Sarebbe un fallimento”.

Ti ricordi, sì?

Tu non vuoi che il lettore dica “Oh, buon dio, come è scritto bene”. Sarebbe una tragedia. Significherebbe che la sua attenzione è stata attratta dalla scrittura in sé e non da ciò che la scrittura doveva veicolare.

Tu vuoi realizzare una scrittura trasparente e immersiva: le parole devono dissolversi sotto gli occhi, man mano che si leggono, per lasciare spazio esclusivo a ciò che il cervello simulerà leggendole e alle emozioni suscitate da quella simulazione.

Solo una scrittura che accetti di fare uso esclusivo di [A], [PS], [P], [D], [PP] può realizzare questo effetto.

Sarà pure una scrittura “semplice”, a leggersi, ma prova a realizzarla, se ci riesci. 

È molto probabile che all’inizio non ce la farai. I primi testi che produrrai potrebbero trasmetterti un senso di frustrazione, anche perché ogni errore sarà immediatamente sanzionato dal lettore.

Perché commettere errori – in un senso molto concreto – significa aver fatto inceppare la simulazione, e il cervello si accorge subito se quello che tu hai scritto sulla pagina non corrisponde a ciò che percepisce di regola nel mondo reale.

 

Faccia da Oscar

Infilo le chiavi nella porta di casa e giro. La sala è buia, dalla camera da letto arriva una luce fioca che rischiara il corridoio. Cazzo, è ancora sveglia. Vediamo cosa devo inventarmi questa volta.

Sofia è appoggiata alla spalliera, con le gambe sotto il piumone e un libro tra le mani. Mi guarda di traverso.

Le sorrido mortificato. «Amore mio, mi hai aspettato!» Spalanco le braccia, le lascio cadere lungo i fianchi sospirando. «Mi spiace, davvero…»

Posa il libro sul comodino, vicino all’abat-jour, e lancia uno sguardo alla sveglia. Sette minuti dopo mezzanotte. Okay, stiamo calmi, qualcosa mi invento.

Mi stropiccio gli occhi, simulo uno sbadiglio rumoroso. «Sarei qui da almeno due ore, se quegli imbecilli del Consiglio di Amministrazione non avessero il Q.I. di un cactus.»

«Capisco…»

Speriamo non capisca troppo. Che poi mi sembra ogni volta più bella, dopo che vado con un’altra.

Sfilo la giacca e l’appoggio sulla sedia a dondolo. «Dovrò andare in Norvegia, per contrattare una nuova fornitura di gas naturale.» Mi siedo sul bordo del letto, accanto a lei. Le sistemo una ciocca dietro l’orecchio. «Non sei mai stata in Norvegia, vero? Voglio fartela visitare. Troverò il modo di andarci in estate, perché—»

«Perché in Norvegia si sta meglio in estate, lo so.» Abbassa lo sguardo sul mio petto, lo risolleva e fa una smorfia. «Chissà come avranno riso quei cactus del Consiglio di Amministrazione, vedendoti senza cravatta.»

Lo stomaco mi si contrae, diventa un macigno. Lascio partire un fischio. «Non me ne parlare, ti prego, non me ne parlare.» Fanculo! L’ho scordata a casa di Fabiana. Mi alzo, scuoto la testa e rido. «Qualcuno mi ha chiesto se pensavo di essere Marchionne, un altro voleva sapere se avevo intenzione di dichiarare guerra ai croati…»

Alza un sopracciglio. «Che c’entrano i croati?»

«L’etimologia, amore mio, l’etimologia!» Faccio ciondolare la testa. «Croato, la croata, corbata, crovata, cravatta.» Mi blocco. «Pare che i soldati croati portassero al collo—»

«E il Presidente cosa ha detto?». Increspa le labbra e socchiude gli occhi. «Dici sempre che è così attento al dressing code…»

Faccio spallucce, sospiro. «Ormai si è abituato. Lo sa che noi matematici siamo un bel po’ strani.» Prendo fiato, il cuore si ferma. «Sai che Newton, dovendo far cuocere un uovo, tenne in mano l’uovo e lanciò nel tegame l’orologio?» Calma! Dai che sto andando alla grande. «Un consigliere ha pure raccontato quella volta in cui Einstein—»

«Nessuno ha enunciato ipotesi meno erudite?»

«Naturalmente! C’è stato chi ha dato la colpa a te.» Corrugo la fronte per fingere di rimproverarla.

«A me?»

«Si, a te: hanno detto che non mi controlli abbastanza prima di farmi uscire, e qualcun altro ha detto speriamo non lo controlli quando rientra, tra le risate generali.» Ora che mi invento? «Figurati che un consigliere, per togliermi dall’imbarazzo, si è persino offerto di prestarmi la sua.»

«La sua
… cosa

«La sua cravatta.»

Esplode in una risata, gli occhi le brillano. Quanto è bella! Di donne ne scopo tante, ma alla fine amo solo lei.

Mi fa segno di avvicinarmi. Chiude gli occhi e si porta
l’indice sulla guancia. Mi risiedo sul bordo del letto e le schiocco un bacio leggero. È andata, è andata! Che attore che sono!

«Vai a cambiarti, Newton.» Sprofonda sotto il piumone, si gira su un fianco e sbadiglia. «Buona notte Einstein.»

Le accarezzo i capelli, una, due, tre volte. Lo stomaco è ancora un macigno, il cuore recupera il suo ritmo. Spengo l’abat-jour e sorrido. Che attore che sono, da premio Oscar, altroché.

Entro in bagno e accendo la luce. Appoggio la schiena sulla porta, alzo lo sguardo al soffitto e sbuffo per liberare la tensione. Il cuore si è regolarizzato, finalmente.

Mi infliggo dei piacevoli schiaffetti coordinati sul viso, con entrambe le mani: sono un attore, un attore!

Pizzico le guance e le stiro più che posso, sino a farle sfuggire dalla presa. Le schiaffeggio un altro po’, in alternanza. Con questa faccia avrei sbancato Hollywood, altroché.

Rido in silenzio e colpisco più forte, a velocità crescente. Fammela ammirare per bene questa bella faccia da Oscar.

Mi piazzo davanti allo specchio e sbianco: la cravatta c’è e ha un nodo impeccabile.


Il racconto Faccia da Oscar è stato ideato per spiegare a un gruppo di autori come creare un “effetto sorpresa” in una storia, senza però indurre un “effetto di straniamento” nel lettore. Voleva essere la risposta – tecnicamente corretta – a convinzioni sciocche da cui erano derivate storielle prive di qualsivoglia valore artistico: far credere per il 98% della storia che il personaggio sia in chiesa, sull’altare, in attesa della sposa, per poi scoprire nel finale che si trova nello studio dell’avvocato divorzista; far credere per il 98% della storia che il personaggio si voglia suicidare, per poi scoprire alla fine che stava solo facendo bungee-jumping. Sono stupidate colossali, che infastidiscono qualunque lettore tiepido, e disabituano gli autori dal ragionare correttamente.

Ne era venuta fuori una regola generale per gestire i “colpi di scena”, che sarà chiarita nel modulo 15A, ma che è utile anticipare sin d’ora nel contesto della cementazione dei mattoncini: se il personaggio si sorprende, il lettore può sorprendersi insieme al personaggio; se il personaggio non si sorprende, il lettore non deve sorprendersi; e quindi non deve mai accadere che il personaggio non si sorprenda e il lettore sì.

Sembra uno scioglilingua, ma per quel minimo che ci si riflette si vede che la formuletta contiene un passaggio chiave per la corretta cementazione: devi sempre tenere sotto controllo ciò che sa il personaggio, ciò che sa il lettore, e ciò che personaggio e lettore capiscono in base a ciò che entrambi sanno.

Pensa a Cappuccetto Rosso e al suo incontro con il lupo nel bosco: i due si parlano, Cappuccetto gli racconta della nonna malata, poi si salutano e ognuno procede per la sua strada. Cappuccetto non dà peso all’incontro col lupo, la chiacchierata è stata amichevole, e lui, il lupo, è stato gentile, voleva solo informarsi su cosa ci facesse una bambina nel bosco: non l’ha aggredita, non l’ha minacciata, e soddisfatta la sua curiosità l’ha salutata e se ne è andato. Non è successo nulla di particolare, nella prospettiva di Cappuccetto Rosso: l’incontro con il lupo è stato un incontro come un altro.

Ma qualunque bambino capisce all’istante che qualcosa è successo, che non puoi pensare di incontrare un lupo nel bosco, e non andare incontro a conseguenze. Il bambino (lettore-spettatore) e il personaggio (Cappuccetto) hanno la stessa informazione (abbiamo incontrato un lupo nel bosco) ma è diverso il modo con cui la elaborano (per il bambino è successo qualcosa di potenzialmente pericoloso, per il personaggio no).

Cappuccetto si sorprenderà, quando dopo vari tira e molla (“che occhi grandi che hai… che mani grandi che hai…”) scoprirà che nel letto non c’è la nonna, ma il lupo. Il bambino lo ha capito nel momento stesso in cui Cappuccetto ha messo piede in casa, che nel letto della nonna non c’è nulla di buono ad aspettarla. Il personaggio si è sorpreso, il lettore no, perché il lettore – a parità di informazione con il personaggio – ha capito delle cose che al personaggio sono sfuggite. La regola del “colpo di scena” è rispettata.

Prendi ora Faccia da Oscar. Forse avevi già capito che il personaggio aveva la cravatta e la moglie lo stava coglionando alla grande, per smascherarlo; e, se è così, alla fine non ti sarai sorpreso insieme al personaggio; è la stessa situazione di Cappuccetto Rosso (il personaggio si sorprende, il lettore no) quindi la regola è rispettata. O magari non avevi capito – e nel mio gruppo di test in effetti nessuno era arrivato  a capire che il personaggio aveva la cravatta – e allora sarai sobbalzato insieme a lui, quando si è piazzato davanti allo specchio: il personaggio si è sorpreso, e il lettore si è sorpreso insieme a lui, regola rispettata, “colpo di scena” realizzato correttamente.

Ma il racconto Faccia da Oscar aveva anche un altro obiettivo, si inseriva in un do ut des: io vi spiego come gestire correttamente il flusso di informazioni, come cementare i mattoncini, voi eseguite una lettura attenta del testo, lo vagliate con spirito critico ma sincero, senza vedere errori a tutti i costi (atteggiamento deleterio per l’apprendimento) e tuttavia segnalandomi ciò che realmente vi ha disturbato.

Qui di seguito alcuni responsi.   

- Diciamo che l’errore potrebbe essere nel ritrovarsi il nodo perfettamente allacciato dopo essersi agitato così tanto da avere il cuore “a mille”

- … neanche il ferma cravatta avrebbe impedito al personaggio di accorgersi del penzolamento assente in ogni sua azione, anche chinarsi a spegnere la luce del comodino rimarca l’assurdità dell'apparizione di un oggetto così “pesante” scenograficamente.

- Vediamo cosa devo inventarmi questa volta: è di troppo. Okay, stiamo calmi, qualcosa mi invento: le cose devono accadere, non serve questo intercalare peraltro ripetitivo.

- Che sia un matematico a contrattare mi pare singolare, anzi non credibile. I matematici non sono portati a negoziare, non sono commerciali per natura.

- … sembra strano che quando lui balza in piedi non abbia istintivamente controllato con la mano l’assenza della cravatta.

Ti rendi conto quanto siano utili questi commenti per un autore? Sono precisi, puntuali, mirati, chiari, e perciò recepibili. Ora, grazie a questi commenti, l’autore sa esattamente dove, cosa e come correggere, nella misura in cui – s’intende – voglia accoglierli. L’autore può ora lavorare a ogni frase “con la stessa precisione di un orefice” – per dirlo con Pontiggia – e questo fa tutta la differenza.

Ma perché i lettori hanno potuto formulare questi commenti? Solo perché l’autore gliene ha dato modo, solo perché ha usato una scrittura trasparente, perché ha scritto con la tecnica del mattoncino.

C’è un abisso tra questi commenti – chiari, precisi – e l’ammasso di osservazioni vaghe, fumose e indecifrabili, in risposta alla richiesta di un parere su un testo scritto as usual

“Mah, non so, in alcuni passaggi è un po’ lento, è come se la storia ogni tanto si inceppasse, cioè, non è che non mi è piaciuto, anzi, lo trovo carino, però, non so, forse dipende dal fatto che alcuni personaggi non sono messi a fuoco, non so come spiegarmi, però magari è solo una mia impressione, eh, perché il testo è scritto benissimo, forse sono io che non capisco, è che probabilmente hai scritto un testo complicato, che va letto più volte per essere capito, non so… solo una mia opinione, eh… prendila per quel che vale”.

E l’autore è lì a farsi una sega dopo l’altra bearsi di aver scritto un testo complicato, rafforzato nella cazzata convinzione che, sì, il problema è tutto e solo del lettore, dei suoi limiti di comprensione, perché il testo in realtà è chiarissimo e se l’emozione della scena non arriva è solo per le deficienze congenite di chi legge.

Ma se pure – poniamo – l’autore volesse dar seguito ai feedback del lettore, cosa mai dovrebbe fare in concreto? Cosa significa – esattamente – che alcuni passaggi sono lenti? Cosa vuol dire – esattamente – che la storia si inceppa? Dove e cosa deve modificare, per far scorrere il testo?

Non si sa e non c’è modo di saperlo, perché, insomma, la scrittura va così: o si crea la magia tra scrittore e lettore, o non si crea, e se non si crea, non c’è nulla da fare, ed è inutile insistere.
 



Bello lo scenario, bella la nostalgia, bella la lingua, bello tutto, ma…
manca “un movimento” (?), “una rivelazione” (?), “un istante prezioso” (?).
Ah però! E quindi cosa dovrebbe fare l’autore, in concreto?
E questo è il commento della “Scuola”, di chi ambisce a insegnare,
suggerendo di “scavare nel testo” (?).
Boh…  

Nulla di questa follia tutto ciò potrà mai accadere, se scrivi con la tecnica del mattoncino, perché la scrittura dei mattoncini va a toccare le corde del cervello, è un continuo arpeggiare con le corde cerebrali, e  il cervello manda segnali forti e chiari per segnalare il suo fastidio a ogni tuo sbaglio, per quanto minimo, come nel gioco della mia infanzia L’allegro chirurgo.

Quindi, sì, corri il rischio di combinare bei disastri con la scrittura dei mattoncini, se non ne hai il saldo possesso, perché il cervello del lettore suonerà di continuo come una sirena d’allarme.
 
Paradossalmente è meglio – molto meglio – una situazione in cui il cervello non simula affatto. Meglio un testo con un flusso di tante belle parole che il cervello all’inizio prova a simulare, ma che poi rinuncia a simulare perché capisce che non c’è nulla da simulare (e allora è inutile stancarsi senza ragione).
 
Se pure il lettore continuasse a leggere – per i 1001 motivi per cui ognuno di noi può continuare a leggere, a iniziare dalla simpatia personale verso l’autore – il suo cervello è ormai in stand-by: non si emoziona – se non per ragioni che nulla hanno a che fare col testo, come ad esempio il rapporto affettivo con chi l’ha scritto – ma nemmeno si infastidisce. È come se fosse ovattato: non si eccita, non si indispettisce, e magari  di quando in quando si bea di qualche bella parola che legge (ma di sicuro non sta vivendo la vita del personaggio come se fosse la sua; sta solo leggendo parole, e alcune, forse, gli stanno piacendo).

Questo non potrà mai accadere nella scrittura dei mattoncini. Quando scrivi usando solo [A], [PS], [P], [D], [PP] possono accadere solo due cose: o il testo è di qualità alta, e allora il cervello vive con gusto l’esperienza di lettura, oppure è di qualità bassa, e allora il cervello avrà una sensazione di fastidio permanente che prima o poi – più prima che poi – lo porterà ad abbandonare la lettura.

Se impari il karate, bene; se non impari il karate, bene; se impari il karate forse sì forse no, male”. L’ammonimento del Sensei all’allievo – nel film Karate Kid – lo possiamo riadattare alla scrittura con la tecnica del mattoncino: meglio, molto meglio, l’impossibilità di simulare che una simulazione incoerente dovuta a una cementazione errata.

La tecnica del mattoncino è altamente sfidante: o la impari bene, molto bene, oppure lascia perdere e rimani (o torna) a scrivere come prima; non esistono vie di mezzo; o l’eccellenza o niente, un po’ come Balzac, che al padre irritato per la sua scelta di fare lo scrittore, e che gli ricordava che in letteratura o sei Re o non sei niente, rispose deciso “io sarò Re”.


Qui è la stessa cosa: devi voler diventare – come minimo – Re della Scrittura. Altrimenti lascia stare.

 
Come minimo devi essere Re: come minimo.

La tecnica del mattoncino è (l’unica tecnica) giusta, se vuoi far vivere al lettore un’esperienza emozionante, col fine di persuaderlo di una tesi (e testi che centrano  l’obiettivo con tecniche alternative, ci riescono non già grazie alla scrittura, ma nonostante la scrittura).
 
Questo non significa – sottolineo non significa – che tu debba leggere solo testi scritti con la tecnica del mattoncino. Al contrario: tu devi leggere tutto e di tutto, con divorante invidia o annoiato disprezzo, devi essere una tritasassi in fatto di letture, ma devi anche sapere – ne acceneremo nel modulo 21A, perché l’argomento è parecchio spinoso – cosa trarre di buono da questa moltitudine di letture, cosa invece devi assolutamente ignorare, e come fare, in concreto, a separare la merda dalla cioccolata.

Leggi di tutto e di più – ci mancherebbe altro, per l’amor del cielo! – ma quando scrivi fallo solo ed esclusivamente con la tecnica del mattoncino.

La tecnica è giusta – non è forse vero che quando leggi metti in scena ciò che leggi? – e sei tu che devi imparare a metterla in pratica, e imparare non è mai facile, soprattutto se i risultati richiedono un periodo “di incubazione”.
 
Qui dipende solo da te, da quanta voglia hai di metterti in gioco e migliorare. Io, qui, sono impotente. È solo una tua scelta.

Sappi però tre cose.

La prima: la tecnica del mattoncino ti ricorda la natura del meccanismo emozionale della pagina scritta. La magia della scrittura – l’emozione suscitata dalla pagina, il coinvolgimento nella storia – è nel cumularsi di un’infinità di effetti infinitesimi. La bottiglia (il testo) si riempie goccia dopo goccia (parola per parola) fino a essere colma (a suscitare l’emozione). Nessuna goccia (parola o frase) può prendersi da sola il merito di aver riempito la bottiglia (di aver suscitato l’emozione) e anche se ci sono gocce e gocce (non tutte le parole o le frasi sono uguali) rimangono comunque gocce. Non c’è nessun rubinetto magico che possa riempire la bottiglia (dell’emozione) con un getto d’acqua (di parole) ad alta intensità.

La seconda: di testi narrativi dallo stile ampolloso, sovrabbondante, impregnato di parole auliche e frasi poetiche, chiunque ne può produrre how many you want – quanti ne vuoi, a profusione – come si produrrebbe “arte” seduti sul water, dopo aver mandato giù un chilo di prugne. Chiunque può scrivere in quel modo, ma chi scrive in quel modo è in grado di scrivere con la tecnica del mattoncino?

La terza: tutti coloro con cui ho condiviso le mie conoscenze mi hanno detto ogni volta tante cose diverse, ma tutte alla fine riconducibili a uno stesso messaggio. “Ora che ho capito come si scrive, non è più come prima; ora devo ragionare, riflettere, controllare… non è più come prima”. Di regola mi limito ad abbozzare un sorriso, ma ogni volta non posso fare a meno di pensare “… ma quindi mi stai dicendo che prima scrivevi a cazzo, giusto?”. Sì, giusto.

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