MODULO 3 – Vivere 5000 vite


 
Perché leggiamo narrativa?
 
Rispondere a questa domanda è pregiudiziale, per chi vuol scrivere: dobbiamo sapere cosa il lettore si aspetta di trovare tra le nostre pagine, perché senza un focus sull’interesse e le aspettative del lettore finiremo col riversare sulla pagina le nostre proteste, le nostre lamentele, le nostre ansie, le nostre preoccupazioni, i nostri malumori, col farne insomma uno sfogatoio personale, molto utile a noi, ma di scarsissima attrattiva per altri.

Noi, qui, non consideriamo la scrittura come una forma di terapia o di libera espressione. Sì, la scrittura è anche questo, nessuno lo nega. “Scrivi!” è la prima esortazione di psicologi e psichiatri ai loro pazienti, perché, sì, quando si scrive ci si libera, si mette ordine, ci si sente meglio, e quindi sì… scrivi, scrivi, scrivi!

Ma noi qui ragioniamo su altri parametri, qui viviamo la scrittura come una forma d’arte

Quindi, di nuovo, perché leggiamo?
 
Dobbiamo saperlo, da scrittori, perché la circolarità lettura-scrittura è massimamente evidente proprio nella dualità tra le figure del lettore e dello scrittore, nell’aspettativa che abbiamo da lettori quando ci avviciniamo a un testo, dall’aspettativa che dobbiamo soddisfare da scrittori quando offriamo un nostro testo ad altri.

Quindi: perché leggiamo?
 
Ognuno avrà i suoi motivi, autoreferenziali e quindi insindacabili, ma nessuna discussione, nessuno scambio di idee ed esperienze, sarà mai possibile, finché si rimane chiusi nella propria individualità.

C’è qualcosa che ci accomuna tutti, in cui tutti ci possiamo rivedere, di là degli insindacabili moventi specifici di ognuno?

Ovvio che c’è: noi leggiamo narrativa per vivere un’esperienza ricca di significati attraverso le avventure di un personaggio, un’esperienza che il più delle volte ci è preclusa nel mondo reale, da cui trarre un insegnamento profondo.

Io non sono e non sarò mai un medico, nel mondo reale, ma quando leggo La cittadella di Cronin lo divento: mi trasformo in un giovane medico con tanti begli ideali su come dovrebbe funzionare la professione, quei ideali che nel corso della storia, un evento dopo l’altro, sono prima messi in crisi e poi crollano, e una volta demoliti stravolgono la bella persona che ero all’inizio, quegli ideali che però poi si ricostituiscono più saldi di prima, a seguito di eventi ancor più dolorosi, e mi fanno risorgere dalle mie miserie, che a lungo avevo scambiato per vittorie, donandomi un’aura ancor più splendente.
 
Io vivo una vita che non è la mia – nel mondo della pagina, creato da Cronin – attraverso una sequenza serrata di scelte travagliate, di azioni ora coraggiose e ora meschine, di conflitti interni ed esterni, di cui a ogni momento mi ritrovo a dover gestire le conseguenze, ora positive ora negative, ora felici ora angosciose.

Arrivo stravolto, esausto, alla fine del libro: come se davvero avessi vissuto un’altra vita, la vita di un altro, prima di tornare alla mia, arricchito dal messaggio che quell’altra vita mi ha consegnato, attraverso l’esperienza di lettura.

Ecco perché siamo stanchi dopo la lettura di un bel libro. Non perché abbiamo dovuto in qualche modo partecipare al testo, immaginando – che ne so – l’architettura dei palazzi, i volti dei personaggi o altre cose spicciole del genere. Sì, d’accordo, avremo immaginato anche queste cose, ma non è certo per così poco che ci siamo stancati, ti pare? Siamo stanchi perché abbiamo rinunciato a noi stessi, per vivere un’altra vita, perché il libro è riuscito a farci diventare qualcun altro, a farci vivere la vita di un altro in un contesto ricco di significati.

Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Chi non legge ha solo la sua vita, che, vi assicuro, è pochissimo. Invece noi quando moriremo ci ricorderemo di aver attraversato il Rubicone con Cesare, di aver combattuto a Waterloo con Napoleone, di aver viaggiato con Gulliver e incontrato nani e giganti. Un piccolo compenso per la mancanza di immortalità”.

Umberto Eco ce lo conferma: noi leggiamo narrativa per vivere delle vite diverse dalle nostre, leggiamo per diventare qualcun altro.

Aver apparentato figure iconiche (Caino e Abele) a personaggi storici (Napoleone e Cesare) ad altri inventati ma in un contesto di ispirazione reale (Renzo e Lucia) a creature di pura fantasia (Gulliver, con i suoi nani e suoi giganti) lascia intendere la totale irrilevanza  – sul piano artistico – della natura della storia, se “vera”, “inventata”, “liberamente ispirata a eventi reali” o qualsiasi altra formula si vuole.

Perché approcciare alla lettura significa mettere in atto la sospensione dell’incredulità: noi, da lettori, crediamo che tutto ciò che si trova sulla pagina sia vero, qualunque sia il rapporto tra la storia nel mondo della pagina e gli eventi del mondo reale.

La precisazione “tratto da una storia vera” è giudicata – oggi, anno 2023 – un doppio autogol.
Da un lato, è come se l’autore confessasse la sua incapacità di creare una storia avvincente, 
e avesse quindi bisogno dell’esca della realtà-reale, per far abboccare all’amo il lettore.
Dall’altro è come se considerasse il lettore alla stregua di un povero ebete,
incapace di concedergli il credito della sospensione dell’incredulità,
e dovesse quindi tenerlo sulla pagina con la realtà-reale della storia.
D’altra parte, “tratto da una storia vera” è una precisazione ridondante:
perché sempre si prenderà a riferimento la realtà per congegnare le proprie storie.
Pure, quando si va a vedere quanta verità c’è nelle storie “tratte da una storia vera”,
si scopre che la percentuale è la stessa del succo di arancia nelle aranciate del supermercato:
più o meno intorno al 20%
perché nessuna realtà può essere travasata così come nel mondo della pagina,
se si vogliono ottenere determinati effetti artistici
“Il vero romanzo” – diceva Pontiggia – 
“non è quello che la gente dice di aver vissuto: è quello che deve riuscire a scrivere”.
E sul piano del metodo – infatti – la storia non è vera perché il suo autore ne dichiara la verità
“è tutto vero, è tutto vero: te lo giuro!”
ma perché sembra vera per quanto è scritta bene. 
 
Trattieni quindi questo messaggio fondamentale: la stragrande maggioranza – di là delle specifiche inclinazioni – è attratta dall’idea di abbandonarsi a un’esperienza di vita alternativa, altrimenti irrealizzabile, attraverso la lettura dei travagli di un personaggio.

Quindi – specularmente, da scrittori – dobbiamo riuscire a trasportare il lettore nel mondo del nostro personaggio, a fargli vivere la sua vita, le sue esperienze.

E come si realizza questo effetto? Come si fa a trasferire il lettore nella realtà del mondo della pagina, dentro la vita di un personaggio?
 
Proprio perché leggiamo “per diventare qualcun altro”,
dovremmo leggere il più possibile di situazioni e persone distanti da noi.
Ti piace la montagna? Leggi storie di marinai.
Sei ateo? Leggi storie di uomini di chiesa.
Sei una suora? Leggi la biografia di una pornostar.
Sei pacifista? Leggi storie di soldati.
Diventa qualcun altro, per l’amor del cielo!
Perché se non sei capace di diventare qualcun altro 
in quell'ambiente protetto e artificiale che è il mondo della pagina,
come puoi dare a intendere di essere una persona tollerante e di ampie vedute,
in quel gran casino che è il mondo reale?
L’impegno di tutti –  lettori e scrittori – è nel non essere mai lettori ghiacciati,
nel dare una possibilità a tutti e a tutto, e noi – da scrittori – dobbiamo meritare quella chance,
e non sprecarla quando ci viene concessa, scrivendo al meglio delle nostre possibilità.

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