Modulo 24C – Un arco ante-litteram: il romanzo “La cittadella”

Istruzioni per l'uso

Devi aver letto il libro e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
  
Non puoi pensare di capire le mie spiegazioni, se non ti sei già impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando ora.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver già letto e analizzato il libro, altrimenti perdi solo tempo.
 

Anzitutto, localizziamoci: La cittadella è un romanzo di Cronin, pubblicato 1937; L’arco di trasformazione del personaggio, di Dara Marks, è un manuale di sceneggiatura pubblicato nel 1999.
 
Cronin non conosceva – non poteva conoscere – l’arco di trasformazione della Marks, e pertanto non ha senso sovrapporre l’arco al suo romanzo, con la pretesa di trovare una coincidenza perfetta o quasi; perché chiaramente La cittadella non è stata scritta seguendo alla lettera le tempistiche e le scansioni logiche dell’arco (solo per dirne una: status quo, incidente scatenante e chiamata all’azione collassano di fatto nella pagina iniziale, e la storia parte già con il personaggio nel “nuovo mondo”).

E tuttavia l’arco rimane un potente strumento di analisi del romanzo, per una ragione precisa: perché tutte le buone storie sono invariabilmente costruite intorno a elementi strutturali comuni, che si ritrovano nella mitologia, nelle fiabe, nelle leggende, nei film; è come se esistesse un codice comunicativo a cui ogni buona storia deve sottomettersi, o meglio, a cui naturalmente viene sottomessa dal suo autore, sebbene in modi variamente consapevoli; è come se il cervello umano fosse predisposto per recepire una stessa architettura narrativa, che deve di necessità sorreggere ogni storia; il merito della Marks – come già osservato – è nell’aver formalizzato questa architettura, nell’aver “messo a sistema” tutte le conoscenze accumulate nel tempo, e aver contestualmente definito un linguaggio tecnico per parlare e intendersi.

Cronin aveva sicuramente capito molto della teoria narrativa, anche solo a livello inconscio, e La cittadella – si può dire – recepisce integralmente la “filosofia dell’arco” (anche se poi la “mette in posa” a modo suo).
 
Vale però la solita raccomandazione: il fatto che alcuni autori possano aver avuto delle “illuminazioni” su come progettare la storia – quando non avevano nessuna guida, se non il ragionare ripetutamente sulle storie già scritte – non è un buon motivo per ignorare la teoria disponibile oggi. Anzi, sarebbe stupido farlo, perché le scelte ottimali di una sceneggiatura, le soluzioni felici, i passaggi azzeccati sono sempre riconducibili alla teoria dell’arco. E allora tanto vale prendere la via più breve e sicura – lo studio della teoria – anziché avventurarsi in approcci individuali e destrutturati, che nel migliore dei casi produrranno gli stessi risultati della teoria, e più probabilmente risulteranno inquinati da bias cognitivi, intuizioni ingenue e inferenze deboli.
 

Riporterò direttamente gli stralci di alcune pagine del libro, nei casi a cui voglio dare particolare rilevanza.
 
Gli estratti più lunghi formeranno dei capoversi a sé, scritti in blu e col font Didact Gothic.

Le citazioni all’interno del testo saranno riportate in corsivo, tra virgolette alte.
 

Perché "La cittadella"?

Ho selezionato La cittadella per sei motivi:
  • il personaggio di Cristina.
Lasciami però iniziare – a mo’ di riscaldamento, di warm-up –  con un’annotazione generale sul mood della storia.
 

Il mood della storia


“Da bambino volevo guarire i ciliegi,
quando rossi di frutti li credevo feriti,
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.
Un sogno, fu un sogno, ma non durò poco,
per questo giurai che avrei fatto il dottore,
e non per un dio, ma nemmeno per gioco,
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore!
E quando dottore lo fui finalmente,
non volli tradire il bambino per l’uomo,
e vennero in tanti e si chiamavano ‘gente’,
ciliegi malati in ogni stagione.
E i colleghi d’accordo, i colleghi contenti,
nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare,
mi spedirono il meglio dei loro clienti
con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale:
‘Ammalato di fame, incapace a pagare’.
E allora capii, fui costretto a capire
che fare il dottore è soltanto un mestiere,
che la scienza non puoi regalarla alla gente,
se non vuoi ammalarti dell’identico male,
se non vuoi che il sistema ti pigli per fame…”
(Fabrizio De André, Un medico, da “L’antologia di Spoon River”)

Tutta la storia è attraversata da uno scrupolo di coscienza: fare la cosa giusta per tutti o la cosa più conveniente per sé stessi?

Perché – vedi – un malato si rivolge a un medico per guarire, e lo paga per guarire; ma una volta guarito, non ne ha più bisogno; e come fa un medico a guadagnare denaro, e ancora più denaro, senza un flusso costante di malati da guarire?
 
Forse – chissà – conviene tenere tutti in uno stato di malattia costante, se non proprio reale, almeno apparente; curare i sintomi, più che le cause; lasciare che certe malattie si sviluppino quanto basta, anziché stroncarle sul nascere, affinché possano poi assicurare una rendita; oppure, in senso inverso, suggerire delle sistematiche visite di controllo, dei check-up completi, che ovviamente hanno il loro costo, e da cui inevitabilmente verrà fuori la necessità di ulteriori analisi, di altri approfondimenti specialistici, così da tenere la giostra sempre in movimento.
 
Bisogna insomma in qualche modo trasformare la salute in un fantasma e la malattia in uno spettro, perché se non ci sono i malati – veri o immaginari, poco importa – il medico come fa a guadagnare denaro e ancora più denaro?  
 
La battuta di Natale Sperandeo, nel film Ragazzi fuori,
la si potrebbe riadattare senza sforzo alla classe medica:
dotto’, ma se stiamo tutti bene… tu come fai a campare?
 
Che fare?
 
Dedicarsi solo a chi sta davvero male, a chi può essere aiutato sul serio, o tenere tutti in un costante stato di allarme, con analisi cliniche, integratori, farmaci, per trasformare la buona salute delle persone in un investimento ad alto rendimento?
  
Obbedire alla vocazione del frate o sentirsi un business-man dagli affari d’oro?

Ragionare in termini di pazienti (da guarire) o di clienti (con cui guadagnare)?
  

 
Perché – vedi – tutti entriamo in uno stato soggezione psicologica, e nessuno bada più a spese, quando vengono anche solo ventilati dei possibili problemi di salute: nessuno rischia, nessuno ha la forza di controbattere, e tutti ci adeguiamo pedissequamente a ciò che il medico ci dice di fare. 

E tu – medico – cosa dirai?
 
Consiglierai il costoso integratore alimentare ricco di fibre necessarie per il benessere dell’intestino, sapendo che il farmacista ricambierà il favore spedendoti uno dei suoi clienti, o dirai semplicemente di mandar giù due forchettate di spinaci freschi, ché tanto l’effetto è lo stesso, se non addirittura migliore?

Da quale parte ti schiererai, visto che una scelta di campo va fatta, e nessuna mediazione sembra possibile?
 

 


La storia è permeata da questo dilemma morale, e nell’invitarti a rileggerla con rinnovata consapevolezza, ti prego di notare con quanta rapidità e naturalezza si entra nel mood della vicenda, come si arrivi al centro ideale della narrazione sin dalle prime pagine.


Empatia

L’empatia non sarà tutto, ma senza l’empatia tutto il resto non ha senso.

Come puoi appassionarti alle avventure di un personaggio, se non capisci perché il personaggio agisce come agisce, dice quel che dice e pensa come pensa?

Se non comprendi le ragioni del personaggio – i motivi per cui pensa, dice e fa certe cose e non altre – come potrai trovare interessanti le vicende in cui si trova coinvolto?

Senza empatia, la storia si riduce alla sua manifestazione materiale, una sequenza di parole sulla pagina o di immagini sullo schermo: qualcuno ti sta semplicemente raccontando qualcosa, che potrà pure interessarti, ma che non vivi con quel coinvolgimento emotivo che è la finalità principale di ogni narrativa.

I personaggi sono classificati in tre categorie, ai fini della costruzione dell’empatia: “buoni”, “neutri” e “cattivi” (ti rimando al modulo 23B, per la qualificazione tecnica dei tre termini).

Il dottor Andrew Manson appartiene alla categoria dei “buoni”.
 
E non è un “buono” generico, come lo sono tutti i personaggi, che nascono già “buoni”, di base, salvo indicazioni contrarie. Il suo essere “moralmente giusto” viene subito qualificato: ha premura nel rimborsare la prima quota del prestito ottenuto per gli studi universitari, a cui destina praticamente tutto il suo primo stipendio (pp. 17, 25); è triste quando vede dei matrimoni infelici, perché per lui la vita coniugale è uno stato idilliaco (pp. 63, 64-65); e si rifiuta di compiere azioni a suo vantaggio, che pur  legittimi in sé, apparirebbero come uno sgarbo – una “sottrazione di clientela” – al suo principale (pp. 53-54, 71-72).
 
Andrew Manson è “buono”, sì, ma non è stupido: prende in carico le visite del collega Danny (che si è ubriacato) ma non manca di rimproverargli la sua condotta censurabile (pp. 75-76); ingaggia una lotta di principio col venditore di mobili che vuole ingannarlo (pp. 100-106); si contrappone alla fazione più aggressiva della comunità di minatori per cui lavora, quando rifiuta di piegarsi all’usanza di rilasciare certificati medici farlocchi per esentare dal lavoro (pp. 109-111).
 
Andrew Manson è un “buono”, e la costruzione dell’empatia per un personaggio “buono” segue lo schema-base: vogliamo vederlo competente, proattivo e sottoposto a sofferenza ingiusta.

Le regole sono chiare, e anche semplici da enunciare, ma l’abilità sta nel riempirle di contenuti originali. Perché le regole in sé sono standard, inviolabili, ma l’artista conserva ampi margini di manovra nella loro applicazione pratica, ed è lì che si vede la sua bravura, nel declinare a suo modo delle regole uniformi per tutti.
 
Mi concentrerò sulla “Parte Prima” (pagine 7-87) perché l’inizio è cruciale per empatizzare col personaggio, ma di quando in quando farò anche rinvio agli sviluppi successivi della storia, perché una delle abilità di Cronin è nel costantemente incollato il personaggio all’animo del lettore, con situazioni sempre diverse, affinché si possa continuare a tifare per lui, per il personaggio, anche quando inizierà la sua errata trasformazione.
 

Competenza

La competenza è il saper fare ciò che ci si attende che il personaggio sappia fare e debba fare.

Andrew Manson è un medico, e ci si aspettiamo di vederlo fronteggiare con destrezza le tipiche situazioni in cui un medico può trovarsi. La narrazione ci propone una gran varietà di episodi, tutti dello stesso segno.

Vediamo Andrew estremamente scrupoloso nella sua prima visita (pp. 13-14); vediamo una coppia di mezza età affidarsi a lui per la nascita (insperata) del proprio figlio (p. 43); e negli istanti successivi a un parto apparentemente infausto, lo vediamo riportare in vita il bambino che sembrava nato morto (pp. 65-67); lo vediamo avere la corretta intuizione per smontare un’errata diagnosi di “pazzia” rilasciata con intollerabile superficialità da un suo collega, in teoria più esperto (pp. 52-55); e lo vediamo eseguire con successo un’operazione chirurgica in fondo a una miniera, con unattrezzattura di emergenza e sotto il pericolo costante che venga giù tutto (pp. 153-157); e lo vediamo mettere tutto il suo impegno – ancorché con un fare polemico, peraltro comprensibile – persino quando si ritrova alle prese con scartoffie e pratiche burocratiche (p. 205).

Ma la sua competenza più grande – e qui sta il tocco di genio dell’autore – è nel sapere di non sapere, o almeno di non sapere abbastanza quanto vorrebbe.

Questa umiltà –  quest’attenzione al divario tra ciò che si sa e ciò che si dovrebbe sapere per operare al meglio –  è manifestata a più riprese.

Leggiamo che Andrew constatava come “tutta la sua preordinata concezione della medicina pratica si sgretolasse d’attorno e lui” (p. 27) e così “veniva rivedendo e modificando molte delle nozioni che aveva imparato nelle scuole” (p. 32); e quando all’esame per diventare un Member of the Royal College of Physicians gli viene chiesto quale sia “il principio supremo, l’idea, diremo basilare, che conviene tener sempre presente nell’esercizio pratico della nostra professione”, la sua risposta è semplicemente “io mi vado ripetendo di… guardarmi da… dal sentirmi troppo sicuro delle mie nozioni” (p. 152); e nella sua appassionata arringa finale, davanti all’Ordine dei Medici, non si fa scrupoli nell’ammettere che “quando mi sono laureato io, ero, più che altro, una minaccia per la società… Tutto quello che so, l’ho imparato dopo” (p. 358).

Abbiamo in definitiva una competenza molto ben caratterizzata – che non viene mai meno, neanche durante la sua trasformazione sbagliata – e che diventa un tratto distintivo del personaggio.
 

Proattività

La proattività è l’atto volitivo con cui si prende il controllo delle situazioni di vita, per dirigerle laddove si desidera, nella misura in cui gli esiti dipendono da noi: le persone proattive agiscono e non si lagnano.

Andrew Manson è sicuramente un personaggio proattivo. Non lo vediamo mai brontolare per il trattamento oggettivamente sgradevole riservatogli da Mrs Page (pp. 11, 24-25, 57, 77) e solo alla fine, quando sta per licenziarsi, le manifesta tutto il suo rincrescimento, che a quel punto è più che giustificato (p. 78). Lo vediamo collaborare con Denny per… far esplodere delle fognature malandate, perché non c’è altra via per costringere chi di dovere a ricostruirle a modo, e bloccare così la diffusione del tifo (pp. 27-30); e lo vediamo prendersi in carico i pazienti di Denny, quando il collega è preda degli effetti di una sbornia (p. 73); lo vediamo attivarsi per rasserenare il clima di lavoro con gli altri colleghi “sospettosi l’uno dell’altro, pieni di ridicole animosità” (pp. 132, 139-140); e poi lo vediamo per ben due volte scegliere di licenziarsi e andare incontro ai rischi della scelta (a p. 78 la prima; alle pp. 185-186 la seconda) anche quando – nel secondo caso – era stato caldamente invitato a rimanere (e lì Cronin coglie l’occasione per ribadire la sua competenza: “abbiamo perduto il miglior medico che abbiamo mai avuto” è il triste saluto di un minatore suo paziente); trova poi la forza col supporto di Cristina – di cimentarsi nella prova per conseguire la qualifica di Member of the Royal Collage, senza lasciarsi abbattere dal fatto che di quando in quando aveva l’esatta nozione della sublime pateticità del suo tentativo, udiva da lontano il riso di scherno degli dei” (p. 144), e venendo infine premiato con l’inaudito massino: 100” (p. 152); si adopera passando oltre le incomprensioni precedenti – affinché il minatore rimasto monco (per aver preferito i metodi artigianali di una vecchia infermiera a una scrupolosa cura medica) possa tornare al lavoro con mansioni che non richiedono la prestanza fisica (p. 163).
 
Anche la proattività di Andrew ha dunque una varietà di manifestazioni, che ne delineano il profilo e concorrono a rendere il personaggio tridimensionale, in sinergia con le altre caratteristiche.
 

Sofferenza ingiusta

Tutta la storia di Andrew Manson è segnata da una sofferenza ingiusta, dalla “bistecca calda, guarnita di cipolline” servita a Mrs Page, quando a lui tocca solo “un osso di pollo freddo, scarsamente munito” (p. 11) fino alla morte della moglie Cristina (p. 333-335).

E in mezzo troviamo di tutto: il banchiere che fa la spia a Mrs Page sull’apertura di un conto, con relative accuse ingiustificate ad Andrew di essersi appropriato indebitamente di una somma di denaro che invece gli spettava a pieno titolo (pp. 70, 77); i minatori che ritirano le loro tessere, dopo il rifiuto di Andrew di assecondare il malvezzo di rilasciare dei certificati di esenzione dal lavoro compiacenti, assurdamente considerati come un diritto (p. 111); il veder prestare fiducia alle dannose pratiche antiquate di un’infermiera, anziché alla sua diagnosi medica, precisa e scrupolosa (pp. 112-115, 161-162); l’essere disturbato per lavori di poco conto (pp. 116, 118); il ritrovarsi da solo nella battaglia per sopprime le quote di stipendio ingiustamente prelevate dal medico più anziano e potente (pp. 141-142); la perdita del bambino che aspettava con Cristina (in un incidente che inibisce ulteriori gravidanze) per di più oltraggiata dalla richiesta di un reverendo benestante sui possibili metodi anticoncezionali, perché “io e mia moglie non vogliamo bambini… il mio stipendio è magrolino” (pp. 173, 175-176); l’accusa di praticare la vivisezione illegalmente, con tanto di spedizione punitiva che viene fronteggiata dalla sola Cristina (pp. 178-180); e poi un lavoro d’ufficio, tutto centrato su aspetti formalistici e burocratici, privi di qualunque rilevanza (pp. 205-206).

Ce n’è abbastanza per stare dalla parte di Andrew, per tifare per lui, per capire le sue ragioni. Qualunque cosa possa ora diventare.
 

Hamartia

Da pagina 7 (inizio del romanzo) a pagina 208 (fine della Parte Terza) vediamo il nostro protagonista coinvolto in una gran varietà di situazioni, tutte ben distinguibili per tipologia e intensità, con esiti alternati, ma invariabilmente segnati da uno stesso marchio: l’idealismo di Andrew, la sua intransigenza.

Non solo c’è un muro tra il “bene” dal “male” , ma una persona “per bene” non si avvicina mai a quel muro, perché è un attimo a ritrovarsi in situazioni ambigue, e da qui ritrovarsi nel campo del “male”  senza neppure accorgersene.

Tutto giusto, ma… a quale prezzo? Tenere duro sui propri ideali ha un costo. Fin quando si può essere disposti a sopportarlo, prima di cedere?

Da pagina 7 a pagina 208 la storia denuncia a più riprese il mal costume dell’ambiente medico, anche qui con una apprezzabile varietà di situazioni, tutte accomunate dallo stesso punto: il vantaggio materiale, la rendita di posizione, il profitto individuale che il medico può trarre dalla sua professione.
 
Guadagnare non è ovviamente un reato, il denaro rappresenta il corrispettivo di ogni prestazione e serve a vivere. Altro, però, è il denaro per il denaro, il guadagno da accrescere a ogni costo, persino sganciandolo dalla prestazione  (a cui rimane legato in modo puramente formale) solo per alzare il proprio stile di vita, o meglio, per collocarlo su una traiettoria esplosiva (perché se i bisogni sono pochi e finiti, i desideri sono invece infiniti e illimitati, non hanno un confine, se non quello che noi decidiamo di imporgli).
 
E per altro verso, tuttavia, è facile trovare un’auto-giustificazione: sì, è vero, il medico starà pure approfittando della sua posizione, al limite ne sta tradendo lo spirito, ma alla fine non sta nuocendo a nessuno. Una forchettata di spinaci vale tanto quanto il costoso integratore, ma l’integratore non è certo veleno. E che male può esserci, poi, a intensificare i controlli clinici, a sottopore continuamente le persone a delle analisi mediche? Cosa c’è di sbagliato in un consumo di farmaci, fosse pure un iper-consumo, se alla fine le persone si convincono di stare meglio? E dov’è l’errore nell’accettare mance, regali, omaggi e ricompense sottobanco? Alla fine, a conti fatti, non muore mica nessuno, no? 

Le male usanze dell’ambiente medico non sembrano provocare danni, di sicuro non si vedono conseguenze oggettivamente negative per gran parte della narrazione, e se “così fan tutti”, perché mai il nostro Andrew non dovrebbe conformarsi alla prassi? Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, lui merita più di altri di estrarre benefici privati dalla professione di medico, perché lui è più bravo, competente e scrupolo dei suoi colleghi, e se tutti guadagnano e fanno la bella vita, perché mai lui dovrebbe auto-castrarsi?

Non saprei dire quanti lettori abbiano avuto questi pensieri – o altri sostanzialmente analoghi, anche solo come sensazione di fondo – ma sono pensieri che possono sorgere naturalmente nella testa di chiunque, dato l’ordine di presentazione degli eventi: dai, Andrew, fa come gli altri, goditi anche tu la vita, te lo meriti come gli altri, anzi di più!

Questo stato d’animo si chiama hamartia: il lettore desidera che il personaggio compia delle azioni che tutti – lettori e personaggio – sanno essere sbagliate, e che tuttavia, dato il particolare contesto narrativo, non sembrano poi così sbagliate, e possono perfino apparire giuste, corrette, addirittura indispensabili per raggiungere un bene più elevato. La hamartia – per dirlo in breve – è un errore di giudizio, la convinzione che si possa tenere un comportamento sistematicamente errato, senza mai andare incontro a conseguenze, senza mai esser chiamati a pagare dazio.

E il nostro Andrew in effetti cede, asseconda il desiderio di una parte dei lettori: diventa come tutti gli altri, si comporta come tutti gli altri. “Che cosa importava se le iniezioni non servivano? Non era affar suo; Miss Everett le voleva. Era stanco di privazioni; stufo d’esser un ciucco a tre scellini e sei pence. Voleva fara strada; vincere. Ad ogni costo” (p. 235).

Ma nessuna azione – in una storia ben fatta – è priva di impatti.

La prima conseguenza è il deterioramento dei rapporti con Cristina, e qui è probabile che l’animo di molti lettori inizi a oscillare tra i due personaggi: tutti, nel profondo, sanno che Cristina ha ragione e Andrew ha torto, ma – accidenti! – Andrew non sta facendo male a nessuno, e allora perché Cristina non impara anche lei a godersi la vita, a beneficiare di tutta la ricchezza finalmente raggiunta, e non la smette di guastare un clima altrimenti perfetto?

Cristina ha le sue ragioni, ma anche Andrew può esibire le sue, e tutta la “Quarta Parte” (da p. 211 in poi) è costruita per tenere l’animo del lettore in altalena tra Cristina ed Andrew – ora a capire l’una, ora a giustificare l’altro – ma sempre con un’attenzione particolare al punto di vista di Andrew. E così, quando vedremo Andrew avere pensieri miseri su Cristina (al ristorante con Frances, p. 293) e subito dopo cedere alla seduzione e al tradimento (pp. 295-296), siamo ancora nella condizioni di capirlo, magari non di giustificarlo, ma di capirlo sì, e questo è tutto ciò rileva: capire perché il personaggio da quel che fa.

Andrew è diventato esattamente come molti lettori desideravano che diventasse: non solo si è conformato agli usi e ai costumi della classe medica, ma è pure assurto a un punto di riferimento. Più che “come tutti gli altri” è addirittura “meglio degli altri”, nel senso che ha imparato meglio degli altri a sfruttare la situazione a suo vantaggio.

Tutto il problema – a livello esterno, di eventi osservabili – sembra ridursi a un allontanamento progressivo da Cristina, ma alla fine chi l’ha detto, dove sta scritto, che Cristina ha ragione ed Andrew ha torto? La stessa Cristina appare dubbiosa. “Com’era cambiata oggi la situazione! Ci aveva colpa lei? Si era fatta antisocievole, s’era ritirata in sé? Non le pareva di aver nulla da biasimarsi” (p. 259).

Si va avanti così, sballottati tra le ragioni di Andrew e il dolore di Cristina, sino ad arrivare all’evento che cambia tutto: la morte in sala operatoria di un pover’uomo, nel corso di un intervento ordinario, per l’imperizia di un chirurgo tanto caldeggiato da Andrew (pp. 304-310).

Si ha un bel dire che certi atteggiamenti moralmente ed eticamente censurabili non uccidono nessuno. Sì, certo, di regola la singola azione non uccide nessuno. Ma quando tutte le azioni scaturiscono da una stessa forma mentis, quando non sono più singole azioni, ma espressione di un modus operandi, quando il male viene iterato senza posa, e se ne smarrisce quindi l’intensità, ecco che – prima o poi – l’evento drammatico arriva.

Chi aveva desiderato vedere Andrew comportarsi come tutti gli altri, chi “tifava per lui” sino al punto da volere per lui tutto il meglio possibile (e l’intera narrazione è costruita in funzione di questa adesione empatica) ora si vede sbattuta in faccia la conseguenza del suo desiderio: una morte ingiusta, evitabile. 
 
La hamartia, alla fine, richiama tutti noi a una maggiore cautela, a desiderare con giudizio. Devi stare attento a quel che chiedi. Perché potresti averlo.
 

Difetto fatale e processo di trasformazione

Il difetto fatale, insieme alla posta in gioco, è ciò che dà senso a una storia.

Le storie – quali che siano il genere, il soggetto, la trama – ci parlano tutte della lotta del personaggio contro sé stesso (contro il suo difetto fatale) per trionfare nella lotta contro l’antagonista (nel conflitto esterno) così da portare in salvo la posta in gioco.

Si può dire che la qualità di una storia non può mai essere superiore alla qualità del difetto fatale e della correlata posta in gioco, che la tenuta di una storia si misura con le conseguenze del difetto fatale sulla difesa della posta in gioco, e col processo di cambiamento del personaggio (di rimozione del difetto fatale) per mettere al sicuro la posta in gioco.

Quando si entra nel “nuovo mondo” (nel Secondo Atto) la presenza del difetto fatale è la causa principale delle sconfitte del protagonista, e la sconfitta è spesso realizzata in senso stretto, in senso proprio: il personaggio esce esteriormente sconfitto dai conflitti esterni in cui si trova coinvolto (e sconfitta dopo sconfitta capirà che deve cambiare qualcosa dentro di lui, se vuole vincere nel mondo là fuori).

Ma la sconfitta – in generale – va intesa in senso tecnico: “sconfitta” è tutto ciò che mette in pericolo la posta in gioco, a prescindere se esteriormente gli eventi appaiono favorevoli o sfavorevoli. Se a conclusione del conflitto è aumentata la probabilità di perdere la posta in gioco, allora il protagonista ha indiscutibilmente perso, anche quando – in termini di bruti fatti osservabili – ha vinto. La sua vittoria esterna è stata più dannosa che inutile, perché lo ha allontanato dall’unica cosa davvero importante: la posta in gioco.

Non è facile disegnare un percorso di cambiamento fatto di sconfitte mascherate da vittorie, creare un mondo in cui tutto – esteriormente – sta andando alla grande, ma – interiormente – sta crollando pezzo dopo pezzo.

La cittadella può essere un caso di scuola: il lettore vede Andrew cambiare, pagina dopo pagina, e lo vede cambiare nella direzione che – ingenuamente – sembra la più naturale. “In un certo senso era vittima del suo proprio zelo. Era sempre stato povero. Nel passato il suo cocciuto individualismo non gli aveva fruttato che sconfitte. Almeno adesso trovava nel successo la giustificazione della sua condotta” (p. 251).

Andrew perde – in tutti i conflitti esterni iniziali – a causa “del suo proprio zelo”, del suo “cocciuto individualismo”.
 
Quindi – viene da dire – deve abbandonare il suo zelo, deve smetterla di comportarsi come un cocciuto individualista. Ed è esattamente ciò che fa. E da quel momento – in effetti – inizia a vincere, esteriormente; ma sono vittorie secondo i parametri  di una società malata, di un ambiente malsano; sono vittore rispetto a un sistema di valori censurabile, e meglio sarebbe dire rispetto a un sistema di disvalori.
 
Ella tirò un sospiro rotto. Bisognava che parlasse adesso; adesso o mai. “Caro! Non è l’unica. Ascoltami, per piacere. Questo tuo cambiamento mi ha resa tanto infelice. Anche Denny ha notato il cambiamento. Ci separa l’uno dall’altra. Non sei più l’Andrew Manson che ho sposato. Oh, se solo volessi tornare quello che eri!” (p. 275)

Tornare quello che si era prima? Ma vorrebbe dire ritornare a inanellare una sconfitta dietro l’altra!

Quindi? Qual è il punto scappato? Cos’è che gli sfugge?

Ne abbiamo accennato nel presentare il Secondo Atto, e converrà ora recuperare quel blocco di argomentazioni.

Quando Gesù dice “io vi mando come pecore tra i lupi, siate candidi come colombe e astuti come serpenti” sta lavorando di fino sull’animo dei suoi apostoli. Non sta dicendo loro di trasformarsi anch’essi in lupi, e meglio ancora in leoni o tigri, così da risolvere ogni problema esteriore. L’invito è anzitutto alla presa d’atto della situazione fattuale (voi siete pecore in mezzo ai lupi) e poi all’adozione di un modello di comportamento che preservi tutto quel che c’è di buono in loro (siate candidi come colombe) nella consapevolezza di trovarsi circondati da cattivi (siate astuti come serpenti).

Andrew dovrà svolgere lo stesso lavoro sulla sua visione del mondo. Se il problema (il difetto fatale) è nell’essere un delfino circondato da squali, la soluzione non può essere nel trasformarsi in uno squalo (e magari in uno tra i più temibili) così da risolvere apparentemente ogni problema. Il delfino deve rimanere delfino (quel che c’è di buono va preservato) ma deve imparare a difendersi, da delfino, in un mare popolato da squali di varie taglie e pericolosità.

Il messaggio inviato dal romanzo è chiaro: se tutto il mondo è una merda, la soluzione non può essere diventare “il più merdoso di un mondo di merda”, perché vorrebbe dire propagandare per “soluzione” qualcosa che – secondo la premessa sostenuta – non fa altro che aggravare il problema.
 
Ogni storia – citando David Mamet, regista, sceneggiatore e drammaturgo, vincitore del premio Pulitzer – ruota intorno a “un problema che l’eroe è costretto ad affrontare, e culminare con il suo rendersi conto di essere con le spalle al muro o che esiste un’altra soluzione”. 
 
Andrew deve perciò realizzare l’esistenza di “un’altra soluzione”, ed è proprio la particolarità di questa “altra soluzione”, della peculiare trasformazione a cui la storia chiama il protagonista – della raffinatezza con cui va realizzata, e che sulle prime viene fraintesa come per molti versi è normale che accada – a consegnare al romanzo un tratto di eleganza che deve rimanere di riferimento per chiunque ambisca a scrivere grandi storie.

Escalation del conflitto

Una storia è una sequenza di scene; una scena è una sequenza di mattoncini narrativi basati sul conflitto; una storia è quindi una sequenza di conflitti, da variare per tipologia e modulare per intensità, all’interno di un trend crescente.

Andando avanti con la storia, passando da una scena all’altra,
il livello di conflitto può conoscere alti e bassi,
ma deve presentare una chiara tendenza ad aumentare.
 
L’escalation del conflitto è un principio fondante della narrazione; è semplice da enunciare, e tutti dicono di averlo capito, quando gli viene spiegato; poi, però, quasi nessuno riesce a metterlo davvero in pratica.

È come se nella testa riecheggiasse una vocina malefica: “sì, in teoria una storia è una sequenza di conflitti, ma in pratica…”.

Già, in pratica.

In pratica – dicono in tanti, in troppi – non è possibile costruire una sequenza di conflitti, senza trasformare la storia in una zuffa continua, rendendola illeggibile.

Ritorna l’equivoco del conflitto come zuffa, ma soprattutto viene introdotta una contrapposizione letale tra teoria e pratica; passa l’idea che la teoria è sì una gran bella cosa, ma che la pratica all’occorrenza se ne può discostare, o addirittura ne può anche fare a meno, perché la teoria è una cosa e la pratica un’altra.

La cittadella chiarisce che la qualità di un’opera è un tutt’uno con la teoria che vi si impiega, e che rispettare la teoria è possibile, a condizione di intenderla correttamente (e di conoscere ciò di cui si scrive e di ragionare a fondo sulle scene).

Siamo in situazioni conflittuali tutte le volte che un bisogno, una volontà o un desiderio incontrano un’opposizione e lottano per superarla. Creare conflitti significa quindi immaginare una varietà di bisogni, volontà e desideri dei personaggi e contrapporgli una varietà di ostacoli. Dalla capacità di variare bisogni, volontà, desideri e ostacoli – per tipologia e intensità – dipendono la qualità tecnica della storia e, in definitiva, il coinvolgimento emotivo del lettore.

A livello macroscopico l’escalation del conflitto è evidente, nel romanzo di Cronin: si parte con le scaramucce tra il dottor Manson e Mrs Page, la drammaticità delle situazioni aumenta su tutti i versanti lungo la storia, per raggiungere il culmine nella contrapposizione finale tra il dottore e l’Ordine dei medici (che vuole radiarlo).

Ma serve scendere a livello microscopico – di singole scene – per apprezzare l’abilità di Cronin nel permeare ogni pagina con almeno un conflitto, nel costruire una gran varietà di conflitti.

C’è una prospettiva di conflitto già all’inizio (p. 8) quando il cocchiere gli descrive una realtà cittadina complicata e rimane reticente (con una venatura inquietante) davanti alle richieste di spiegazioni di Andrew (“lo scoprirete da voi”).

C’è conflitto – sempre diverso – ogni volta che Andrew entra in contatto con Mrs Page (pp. 9-13, 23-25, 40-43, 57, 76-78); ma c’è conflitto anche al primo incontro con Danis (per i suoi modi sgarbati, pp. 15-16) e con Cristina (per il rifiuto di rimandare a casa il bambino malato, pp. 34-36); e il conflitto con Cristina continua quando si rincontrano alla cena in casa dei Watkins, con Andrew che vorrebbe scusarsi e non ci riesce, se non a fine serata e senza concederle poi una possibilità di replica (pp. 37-40)

C’è conflitto alla prima visita medica, quando Andrew non riesce a diagnosticare la malattia con la precisione desiderata (p. 14-15) e più in generale c’è un perenne conflitto di Andrew con sé stesso per la progressiva presa di consapevolezza di non saperne mai quanto sarebbe necessario per svolgere al meglio il suo lavoro (pp. 27, 32-33, 47, 152).

C’è conflitto in occasione al raduno della British Medical Union, a Cardiff, a cui Andrew vorrebbe partecipare ma non può, non essendo socio e non avendo denaro necessario (p. 55) e a cui alla fine riesce a prender parte grazie ad un invito (p. 56); e c’è conflitto con Cristina, in treno, nel viaggio di andata verso Cardiff, quando Andrew vorrebbe dichiararsi, ma la sua timidezza lo blocca (p 58); c’è conflitto durante il pranzo con il collega – preoccupato solo di snocciolare tutti i modi per far denaro con la professione medica, quando Andrew vorrebbe invece raccontare i suoi progressi nelle diagnosi – da cui segue una coda velenosa con Cristina (pp. 60-63); e c’è conflitto nel viaggio di ritorno a Blaenelly, quando Andrew vorrebbe scusarsi con Cristina, riappacificarsi, ma non può farlo perché “il loro treno era gremito” ed erano finiti “in due posti scomodi in mezzo a una diecina di minatori che discutevano animatamente la partita di calcio del pomeriggio” (p. 63); c’è conflitto non appena Andrew rimette piede a casa, perché la signora Morgan sta partorendo prima del tempo, con tutte le complicazioni che seguiranno (pp. 63-67)

C’è un conflitto interno, di Andrew con sé stesso, quando gli viene offerto di creare una sua lista di pazienti, autonoma rispetto a quella del dottor Page (pp. 71-72).

C’è il conflitto contro il tempo, quando Andrew si rende conto di doversi far carico delle visite di Denis, e ciò intensifica il conflitto personale col collega (p. 73-76).

C’è un conflitto contro il tempo e l’ambiente circostante quando Andrew cerca un nuovo lavoro dopo aver abbandonato Mrs Page, e realizza che “l’aver praticato in quella remota regione mineraria gli nuoceva”, perché gli assistenti reduci dalle montagne […] avevano troppa cattiva reputazione” (p. 80).
 
C’è conflitto (opacità, possibili raccomandazioni) nella procedura di selezione per il nuovo posto a cui Andrew ambisce, da cui segue una prospettiva di complicazioni nei suoi rapporti con Cristina (p. 81-82).

E qui finisce la “Prima Parte”: ottanta pagine intessute di conflitto, capoverso dopo capoverso, riga dopo riga, parola dopo parola.

Dovresti continuare da solo – a questo punto – a trovare tutti gli alri conflitti sparpagliati per la storia; ma lascia che ti aiuti ancora un po’.

La “Seconda Parte” si apre con una nuova prospettiva di conflitto: se il denaro era un elemento distorsivo nell’operato dei medici delle montagne di Blaenelly, ora, nel nuovo contesto, si preso il centro della scena (e ciò non lascia presagire nulla di buono)

Il dottor Llewellyn, più elegante che mai nella sua giacca a code e nei suoi polsini ingemellati d’oro, venne incontro a loro con un’espressione cordialmente raggiante. “Lieto di fare la vostra conoscenza, Mrs Manson. Spero che Aberalaw vi piacerà. Non è un brutto posto, credete. Favorite. Mia moglie viene subito.”

La signora venne subito, infatti, non meno raggiante di suo marito. Era una donna dai capelli rossastri, tra i quaranta e i cinquanta, col viso bianco costellato di lentiggini, e si rivolse a Cristina con amichevoli boccheggiamenti. “Cara, come siete graziosa! Siamo già amiche, permettetemi di baciarvi.” L’abbracciò e la squadrò da capo a piedi con ammirazione. Al fondo del corridoio risuonò il gong. Si trasferirono nella sala da pranzo.

Era un pasto eccellente. I padroni di casa parlavano sorridendo agli ospiti […].
 
“Sarete oberato di lavoro,” ammise Manson.

“Eh, si deve pur vivere, dottor Manson. Mucchio di spese. La macchinetta che avete vista all‘ingresso, per esempio, non sembra niente, ma m’è costata milleduecento sterline. Quanto a… ma lasciamo andare. Non c’è ragione che vieti a voi di incassare profitti assai tondetti, sapete. Diciamo dalle tre alle quattrocento sterline nette se state in gamba e lavorate sodo.” Fece una pausa, assunse un’aria confidenziale, umidamente sincera. “C’è una cosa che è bene che sappiate subito. Un’intesa, in vigore già da tempo, e voluta dagli assistenti stessi, in forza della quale essi mi riservano un quinto dei loro rispettivi introiti.” Proseguì, in fretta, ma senza la minima soggezione: “Questo, capite, perché li aiuto nei casi gravi; quando si trovano in difficoltà mi chiamano. Son tutti soddisfatti del sistema.”

Andrew manifestò un po’ di sorpresa. “È una cosa contemplata dal regolamento?”
 
“Non precisamente questo,” rispose l’altro, corrugando la fronte, “è una decisione adottata in privato dagli assistenti stessi vario tempo fa.” […].

Manson tentò di raccogliere le sue idee, che danzavano una ridda turbinosa. Erano ridotti, lui e Cristina, a due gomitoli, che i padroni di casa si palleggiavano a vicenda con molta destrezza
(pp. 95-97).

C’è un conflitto – serrato, crescente e variegato – con il venditore di mobili (pp. 100-105).

C’è conflitto tra i minatori ed Andrew, con i primi che consideriamo i certificati di esenzione dal lavoro come un atto dovuto, e il secondo che si rifiuta di rilasciarli quando capisce l’andazzo (pp. 106-110).

C’è conflitto tra Andrew e un’infermiera sui modi migliori per guarire un minatore da una brutta scottatura, con Andrew che esegue le sue fasciature e medicazioni e l’infermiera che le disfa con la complicità del malato stesso (pp. 112-115).

C’è conflitto quando Andrew realizza che l’ospedale non è un luogo a sua disposizione, ma rigidamente assoggettato al dottor Llewellyn, i cui modi sono parecchio discutibili.
 
Difatti, egli riprese: “Ma, tu che hai visto l’ospedale con me, ricorderai, vero, il mio entusiasmo all’arrivo, quando speravo nella possibilità di poter finalmente lavorare sul serio, con le comodità indispensabili eccetera. Ebbene, ero un povero illuso! Ho scoperto che l’ospedale non è affatto a mia disposizione; non è l’ospedale di Aberalaw, è l’ospedale di Llewellyn.”

Ella palesò interesse, in attesa che si spiegasse. Difatti egli continuò: “Avevo un caso stamattina,” ora parlava in fretta, con calore, confusamente, “ho detto avevo, bada, perché infatti ora non l’ho più: una vera polmonite incipiente, in uno dei minatori che lavorano alla perforatrice nella miniera d’antracite; sai quante volte t’ho detto che sto facendo delle indagini sulle condizioni in cui respirano questi disgraziati… sono convinto che c’è un vasto campo di ricerche da esplorare in questa direzione… Ebbene, mi son detto, ecco finalmente, in questo mio primo malato che richiede il trattamento all’ospedale, una ottima opportunità per eseguire dei rilievi interessanti; e ho subito chiamato Llewellyn al telefono per invitarlo ad esaminare il caso con me, questo, capisci, per aver io accesso all’ospedale.” S’interruppe per prender fiato e riparti più veloce di prima: “Ebbene, Llewellyn arriva, tutto pomposo nella limousine, ed esamina il mio malato, con perfetta competenza, debbo dire. È uno che sa il suo mestiere, non c’è che dire: un asso. Be’; confermò la mia diagnosi, accennando, anzi, ad una o due cosette in più che mi erano sfuggite, e concordò pienamente nel parere di ammettere senz’altro l’individuo all’ospedale. Mi sono affrettato a ringraziarlo, lasciandogli capire quanto mi premesse di approfittare delle facilitazioni offerte dall’ospedale allo studio delle indagini che sto compiendo…”

Fece un’altra pausa e indurì la mandibola. “A questo punto Llewellyn mi scoccò un’occhiata, perfettamente amichevole e cordiale come sempre ma disse: Non occorre che veniate voi, Manson; bado io, adesso che è ricoverato. Non potremmo avervi qui, voialtri assistenti, m’adocchiò i gambali, ’a girare per le corsie con quei chiodoni sotto le suole.”

Andrew soffocò un’imprecazione, poi scrollò le spalle e concluse: “Bah, a che scopo ripeterti tutto quello che ha detto? Si riduce a questo, in sostanza: io posso, sì, andarmene rovistando nelle catapecchie dei minatori, con l’impermeabile macero e gli scarponi infangati, a visitare malati al buio o quasi, a curarli in condizioni impossibili; ma quando si tratta dell’ospedale, mi si vuole soltanto per somministrare l’anestetico!”

Fu interrotto dal telefono. Dandogli un’occhiata di simpatia, Cristina s’alzò per andare in anticamera a rispondere alla chiamata. La vide tornare esitante. “È Llewellyn che ti vuole, caro, mi spiace… ti vuole domani alle undici per… per un anestetico.” Egli non replicò. “Cosa devo dire, darling?”

“Digli che vada all’inferno!’ gridò; poi, passandosi la mano sulla fronte: “No, no. Digli che sarò lì alle undici,” e precisò, con un sorriso amaro, “alle undici in punto.”

Quand’ella tornò, gli portò una tazza di caffè: il più efficace dei suoi rimedi contro i malumori di suo marito
(pp. 117-118)

Si respira aria di conflitto in casa dei coniugi Vaughan, con Andrew che proprio non riesce a socializzare, laddove Cristina si mostra disinvolta, con ripercussioni sui rapporti immediati tra Andrew e Cristina, che si irrigidiscono di colpo (pp. 124-128).

C’è conflitto tra Andrew e gli altri medici assoggettati a versare un quinto dei loro onorari a Llewellyn, che a parole si dicono concordi a metter fine a questa prassi, ma poi, dopo che Andrew ha preso posizione, si tirano indietro e ritrattano ogni cosa (pp. 137-142); e l’epilogo del conflitto ha di nuovo una venatura inquietante.

“L’indomani mattina Andrew compì la sua ronda con la fronte aggrottata sotto una crudele emicrania. In piazza incontrò la limousine di Llewellyn. Mentre alzava la testa in atto di sfida, vide Llewellyn sorridergli col più affabile gesto di saluto” (p. 142).

C’è conflitto tra Andrew e Cristina, quando il primo inveisce contro tutti i titoli accademici di Llewellyn e la seconda assume un atteggiamento di aggressività passiva, apparentemente preoccupata solo di limarsi le unghie (pp. 142-144).

C’è conflitto – contro il tempo, contro l’ambiente – quando Andrew deve improvvisare un intervento chirurgico di amputazione di un braccio nel profondo di una caverna in cui tutto rischia di crollare da un momento all’altro (pp. 153-157).

E c’è conflitto persino quando Cristina vuole comunicare ad Andrew di essere incinta, ma per un motivo o per un altro non ci riesce, se non a fine della giornata (p. 167).
 
E a questo punto, sì, puoi pure proseguire da solo alla ricerca di tutti gli altri conflitti, e non ti sarà difficile scovarli, perché ce n’è almeno uno in ogni pagina.
 

Semine e raccolti

“Semine” e “raccolti” – in inglese set-up e pay-off – sono due termini standard di sceneggiatura. A me non piacciono, per i motivi già spiegati nel modulo 16, e li uso soltanto perché qui approssimano bene l’idea generale da aver presente in questo specifico contesto.

Di là delle questione nominalistiche e definitorie, a prescindere cioè dall’uso di etichette utili per parlare più rapidamente, serve richiamare e mantenere presente il concetto di base, in tutta la sua estensione e fluidità: una storia è come una sistema fisico-chimico, a ogni azione corrispondono reazioni e retro-azioni, cosicché la narrazione procede secondo precisi nessi di causa (le semine) ed effetto (i raccolti) e tutto ciò che accade in una determinata scena deve trovare la sua giustificazione in ciò che è accaduto nelle scene precedenti e alzare la palla o fare da sponda a ciò che accadrà nelle scene successive. Non puoi raccogliere, se non hai seminato, per dirlo con uno slogan che riprende le definizioni standard.

È però fondamentale che “semine” e “raccolti” non siano aggiunte posticce a una scena prefabbricata, ma costituiscano gli elementi generativi dell’intera narrazione: si potrebbe dire – volendo estremizzare – che ogni scena deve essere al tempo stesso, in linea di principio, un’unica immensa semina per le scene successive e un unico immenso raccolto delle scene precedenti.

La cittadella ne è un esempio eccellente.

Tutti gli eventi sono concatenati, legati, interconnessi, ogni “semina” genera il suo “raccolto” che diventa una nuova “semina” per il “raccolto” successivo, giocando di fino sui tempi con cui ogni “semina” dà luogo al corrispondente “raccolto”.

Ti invito a rileggere il romanzo prestando attenzione alla consecutio degli accadimenti, per apprezzarne ancor di più la sua bellezza, e imparare l’arte di dare un ritmo alla storia.

Qui mi limito a offrirti un esempio introduttivo, che ti sia da guida nelle analisi che vorrai condurre in autonomia.

La “Prima Parte” del romanzo va da pagina 7 a pagina 87. Conosciamo Andrew mentre si sta recando entusiasta a Bringower per il suo primo incarico lavorativo, e lo vediamo alla fine licenziarsi in preda allo sdegno.

Cosa è successo da pagina 7 a pagina 87? Come si è arrivati a quella conclusione (a quel “raccolto”)? Quali sono gli eventi (le “semine”) che lo giustificano?

Ricostruiamo il primo tratto di storia a grandi linee.

Pronti, su, via, Andrew riceve un’accoglienza gelida da parte di Mrs Page, da ogni punto di vista, sia professionale che umano.

La moglie del dottore precisa subito la posizione di subalterno di Andrew e lo invita a rimanere sempre al suo posto, a eseguire le consegne, a non prendere iniziative: “tutto quel che dovete fare voi è di tenere a mente che lavorate per mio marito, e per vostro conto, questo è l’essenziale; se lo tenete a mente, son certa che s’andrà benissimo d’accordo io e voi” (p. 12).

E il trattamento che gli riserva sul piano personale è altrettanto distaccato. Alla prima cena insieme gli fa servire “un osso di pollo freddo, scarsamente munito di polpa”, quando lei consuma invece “una bistecca calda, guarnita di cipolline, e un quartuccio di birra”, col pretesto che è “un poco anemica” (p. 11). Non solo il vitto, ma anche l’alloggio è ai minimi termini: “Non fu la durezza del materasso, bensì la crescente ansietà al riguardo della sua prima cliente che impedì a Manson di riposare” (p. 17). E persino la richiesta di una mezza giornata di riposo diventa una gentile concessione.

Entrò in casa pieno di burbanza. “Sentite, Mrs Page, conformemente alla mia interpretazione delle Norme di Servizio Interno per gli Assistenti Medici Proletari, io ho diritto ad una mezza giornata di libertà all‘anno. Desidero e intendo avvalermene sabato venturo. Vado a Cardiff.”

“Nientemeno, dottore!” Arricciò il naso alla sua richiesta, rilevando tra sé che il suo tono era stato arrogante; lo scrutò con diffidenza, ma poi dichiarò, con un broncetto d’indulgenza: “Oh, be’, credo che possiamo concedervi un permesso.” E, ad un subitaneo pensiero piacevole, allo scopo di indennizzarsi della propria liberalità, fece schioccare le labbra e aggiunse: “A condizione però che mi portiate da Cardiff una scatola di dolci di Parry, siamo intesi?”
(p. 57).

E infine – fatto determinante – Mrs Page è avida, insopportabilmente avida, come si era intuito dal principio e come dimostra inequivocabilmente – a prova di scemo – la scena dedicata al pagamento del primo stipendio di Andrew (pp. 23-25).

È stato settato un ambiente in cui nessuno avrebbe piacere a restare, da cui tutti vorrebbero andarsene, avendone l’opportunità.

Ma il nostro Andrew è troppo preoccupato di far bene il proprio lavoro, di imparare la pratica medica sul campo, dopo aver studiato tanto, per star lì a rimuginare su cose sì fastidiose, ma irrilevanti rispetto all’importanza degli obiettivi a cui ambisce.

“Era una situazione assai diversa da quella che aveva immaginato nei sogni della sua fantasia. Ma, dopo tutto, l’essenziale era di lavorare; tutto il resto era secondario, e aveva fretta di cominciare” (p. 12)
 
E così trova modo di sorridere persino  di situazioni in sé fastidiose, ma di cui coglie il lato grottesco.

“Manson attaccò con decisione la polpa secca, e bevve acqua fresca. Il suo senso umoristico aveva fortunatamente arrestato il primo moto d’indignazione che lo aveva fatto fremere. La florida cera della padrona di casa rendeva così patente l’invalidità della scusa che aveva addotto che egli dovette fare uno sforzo per non ridere” (p. 11)

In breve: Mason è proattivo e – come tutte le persone proattive – non si lagna; vuole diventare un bravo medico, fa di tutto per mettere in pratica ciò che sa, per imparare il più possibile da ciò che sperimenta giorno dopo giorno; il suo impegno produce risultati, com’è logico che avvenga, e ben presto diventa il medico di riferimento dell’intera comunità.

Accade così – inevitabilmente, data tutta la costruzione precedente – che una coppia di mezz’età, i coniugi Mason, vogliano l’assistenza di Andrew, e solo di Andrew, per la nascita insperata del loro primo figlio. “Non vogliamo avere a che fare con altri medici all’infuori di voi” – sentenzia il marito – “Sarà un caso difficile, è prevedibile. La moglie ha quarantatré anni” (p. 43).

E il parto, in effetti, ha le sue complicazioni: il bambino sembra nato morto, ma Andrew lo riportara in vita, quando più nessuno nutriva speranze (pp. 64-67).

La riconoscenza dei Morgan è infinita e la coppia ci tiene a materializzarla.
 
Una quindicina di giorni più tardi, Joe Morgan venne a vederlo nell’ambulatorio. Il suo modo di fare era portentosamente solenne. Dopo un lungo ed astruso fervorino, perdette la pazienza e sbottò: “Al diavolo le parole, dottore, io non sono un oratore. Ma vogliamo dirvi che non c’è denaro che possa ripagarvi di tutto quello che avete fatto per noi. Tuttavia, ad ogni modo, io e mia moglie vi preghiamo di accettare da noi questo piccolo regalo.” E con un impulsivo gesto balordo gli cacciò un foglietto di carta tra le mani.

Era un assegno di cinque ghinee, che Manson stette, pensieroso, a contemplare qualche secondo. I Morgan, pur considerati come una coppia temperante ed ordinata, eran ben lungi dall‘essere agiati. Questa somma, alla vigilia del loro espatrio, con le ingenti spese da fronteggiare, rappresentava senza fallo un grave sacrificio da parte loro; una nobile generosità. Commosso, Manson disse: “Non posso accettarlo, Joe.”

“Dovete, dottore, dovete!” insisté Joe, con gravità, richiudendo la sua mano su quella del medico, “se no ci offendete mortalmente. È un dono che facciamo personalmente a voi; non è per il dottor Page. È da anni che Page percepisce le mie quote, e non l’ho mai disturbato una volta. Page è molto ben pagato. Questo è un regalo esclusivo per voi, mi capite?”

“Sì, Joe, ho capito,” disse Manson, sorridendo
(pp. 69-70).

Andrew accetta l’assegno con un imbarazzo evidente, più per timore che un rifiuto sia interpretato come una mancanza di rispetto, e comunque senza nessun retro-pensiero venale. Tant’è che non lo mette subito all’incasso, ma se ne ricorda solo qualche giorno dopo, incidentalmente, nel passare davanti alla banca.

E qui gli eventi precipitano: il banchiere informa Mrs Page che il dottor Manson ha aperto un conto personale, versando una somma inusuale per un semplice assistente (e Cronin si è premurato di farci sapere – a p. 32 – che Mrs Page e il banchiere sono in rapporti stretti, così da giustificare la confidenza di un’informazione riservata); Mrs Page – avida e malfidata com’è – lo interpreta come un furto ai danni di suo marito (e di fatto a suo danno) e non si fa problemi a esternare malamente il suo pensiero ad Andrew (“Vi credete un dio. Arrivate fra noi e v’immaginate di potervi beccare la clientela del vostro principale invece di servirlo fedelmente. Ora vi siete smascherato. Non siete che un ladro, nient’altro che un ladro!”, p. 77).

Andrew era passato sopra a piccoli e grandi soprusi, ma ora la situazione è qualitativamente diversa; viene accusato di essere un ladro, anzi “nient’altro che un ladro”; viene messa in discussione la sua onestà, la sua integrità morale, la correttezza del suo operato; viene mortificata e degradata la sua persona in tutta la sua interezza, e tutto questo – per Andrew e per noi lettori che ne abbiamo preso le parti, che abbiamo empatizzato con lui – non è più tollerabile.

In conclusione debbo dirvi, Mrs Page, che sono disgustato e stufo di voi; penso che siete una meschina ma volgarissima cagna. Un vero caso patologico. Prendete nota che mi licenzio” (p. 78). Che – diciamolo francamente – è ciò che tutti i lettori fremevamo dalla voglia di sentirgli dire, e non certo da ora, ma che solo ora viene detto perché è solo ora che un’affermazione così violenta trova piena giustificazione e totale approvazione.

Il licenziamento condurrà Andrew in un altro luogo, alle prese con altri personaggi, altre situazioni, altri conflitti; e la storia andrà avanti, proseguirà secondo la sua direttrice.

E ora – nel riesaminare con rinnovata consapevolezza la dinamica degli eventi – osserva come tutto è perfettamente incastrato per condurre a quel preciso sbocco (il licenziamento di Andrew): ogni azione genera una o più conseguenze massimamente coerenti con essa (è ovvio che una coppia matura, alla loro prima, insperata gravidanza, si affidi a chi ha dimostrato di essere il miglior medico su piazza; così come è ovvio offrire una somma di denaro di una certa rilevanza, anche se non si è agiati, al medico che ha riportato in vita quello che è e rimarrà il loro unico figlio) e ogni conseguenza diventa a sua volta la causa di un altro evento (è ovvio depositare una somma di denaro in banca) che a sua volta ne provoca altri (il banchiere che fa “la spia” a Mrs Page, che rimane pur sempre la moglie di colui che sulla carta è ancora il medico più autorevole del paese) e tutti perfettamente congruenti con l’ambientazione e i personaggi.

Tutto accade per una ragione, tutto ha uno scopo, tutto è – al tempo stesso – l’effetto di una causa precedente e la causa di un evento successivo, tutti gli eventi si puntellano e si sostengono a vicenda.
 
Citando Will Storr: “le scene non basate sul rapporto causa-effetto tendono a risultare noiose”, e soprattutto “rischiano di confonderci, perché non parlano la stessa lingua del cervello”, che è una lingua basata sui perché non sugli e poi. “Il nostro cervello non va molto d’accordo con gli ‘e poi’. Se succede qualcosa adesso e poi ci ritroviamo dentro un’auto, in un parcheggio, con una donna che ha appena visto pugnalare qualcuno, e poi nel 1977 con un topo che si aggira in un Mothercare, e poi c’è un vecchio che intona canti marinareschi in un frutteto infestato da fantasmi… be’, forse l’autore vuole metterci un po’ troppo alla prova”.
 
La cittadella è tutta una sequenza di perché: non ci troverai mai un e poi.
 

Cristina

Cristina – la moglie di Andrew – è un personaggio cruciale.

Chi ha il fetish delle categorizzazioni, e ama quindi ricorrere agli archetipi narrativi, lo definirebbe probabilmente “il mentore” (di Andrew).

A me piace essere più diretto, preciso ed efficace, per non cadere nell’uso gratuito di etichette, che spesso creano più problemi di quelli che risolvono.

Cristina è la personificazione della parte migliore di Andrew: tutto ciò che di buono c’è in Andrew prende corpo, anima e respiro in Cristina, che diventa un personaggio autonomo, indipendente da Andrew, pur rimantenendovi legato.

Cronin lo comunica più volte, in modo esplicito.
 
Sebbene Cristina ora occupasse più che mai i suoi pensieri, tutto il contesto di questi pensieri aveva cambiato carattere. Non si sentiva più sperso, ma felice, ilare, pieno di speranza. Il cambio di prospettiva si rifletté nel suo lavoro. Era abbastanza giovane da poter creare di sana pianta nella sua fantasia una situazione, costante, nella quale Cristina lo osservava nell’atto di esercitare la sua professione, rilevava la diligenza del suo metodo, lo scrupolo dei suoi esami, lo lodava per la meticolosa accuratezza della sua diagnosi. Quando sentiva la tentazione di sbrigare una visita, di arrivare ad una conclusione senza aver ascultato il petto del paziente, la respingeva pensando: “Dio, no! Cosa penserebbe Cristina se mi vedesse!” […]. Nel suo idealismo collegava Cristina alla propria ambizione, faceva di lei un addizionale incentivo del grande assalto che sferrava contro le posizioni dell’ignoto (p. 49).

Si prometteva di non diventare mai trasandato, mercenario, di non saltare mai a conclusioni affrettate, di non scrivere mai “la ricetta dell’altra volta”. Si proponeva di indagare sempre, di “essere scientifico”, d’essere insomma degno di Cristina”
(p. 50).

Cristina esercitava su di lui una benefica influenza stabilizzatrice. Era una donna pratica, supremamente positiva e alla buona, del tutto priva di civetteria. Sovente andava da lei in uno stato di irritazione o di preoccupazione, e ne veniva via calmo e sereno. Sapeva il modo di ascoltare, tranquillamente, attentamente, quello ch’egli aveva da dirle, e di fare poi i suoi pacati commenti, che di solito erano intonati, non solo, ma anche divertenti. Aveva un senso umoristico frizzante. E non lo adulava mai
(p. 56).

Lei non rispondeva. Cadde un silenzio, durante il quale egli si trasferì alla finestra, ad ammirare il panorama deserto. Poi si voltò, e aveva un ruga verticale tra i sopraccigli. “Ma perché non potrei, Tina, per qual ragione non potrei studiare queste lingue, solo per poter tentare gli esami?”

Mandando all’aria tutti i suoi arnesi, ella saltò dal letto per gettarglisi nelle braccia. “Era questo che volevo sentirti dire! Qui ti riconosco. Chissà che io non possa aiutarti in questo. Non dimenticare che la tua vecchia è una maestra giubilata.”

Discussero tutta la giornata, abbozzando piani di azione. Sgombrarono il salotto, relegando Trollope, Cechov e Dostoevskij in una delle camere chiuse. E quella sera Andrew andò a scuola da Cristina. Così la sera seguente. E le successive
(p. 144).

Cristina era in salotto. La vista della sua pallida faccia statuaria gli diede un gran brivido. Oh, come avrebbe voluto sentirsi domandare, con l’antica sollecitudine, come avesse trascorse le ore lontano da lei! Ma Cristina disse soltanto, con quella sua voce uguale, priva di tono: “Hai avuto una giornata lunga. Vuoi una tazza di tè prima dell’ambulatorio?”

Andrew rispose. “Niente ambulatorio stasera.”

Cristina lo guardò. “Ma è sabato, il giorno di massima frequenza.”

Per tutta risposta egli scrisse su un foglio di carta: Oggi l’ambulatorio è chiuso, e andò ad affiggerlo all’esterno della porta. Adesso il suo cuore pulsava così forte che pareva volesse scoppiare. Quando tornò, trovò Cristina più pallida di prima, gli occhi pieni di apprensione, e si sentì domandare, con una voce sorda: “Cos’è successo?”

Allora, roso da un’angoscia inesprimibile, Andrew proruppe in un grido: “Cristina!”. Tutto quello che aveva da dire era contenuto in quell’unico nome. Poi piangendo si gettò in ginocchio ai suoi piedi
(p. 319). 

Se non ci fosse stata Cristina, se la parte migliore di Andrew non fosse stata clonata in un personaggio a sé stante, acquisendo una sua autonomia e indipendenza dal personaggio da cui proviene, allora sarebbe stato impossibile per Andrew trarsi in salvo, riacquistare la necessaria lucidità per reindirizzare correttamente in suo processo di cambiamento. Perché il rumore del mondo è destinato a prevalere, quando la parte migliore di noi rimane sepolta dentro di noi, quando non ne abbiamo una percezione materiale, tangibile, quando non possiamo né vederla né toccarla, ma ne avvertiamo a malapena un eco sempre più flebile. È sin troppo facile tacitare quella vocina che ci sussurra di fare la cosa giusta, fintantoché il tutto rimane a livello di fraseggio interiore.

E invece Cristina c’è: è un personaggio in carne e ossa, di cui Andrew può vedere (sperimentare) la gioia e il dolore, il sorriso e il pianto, la tenerezza e l’indifferenza, il calore e la freddezza; Cristina è un termometro preciso della situazione, che impedisce di auto-convincersi che le cose stiano andando tutto sommato bene, quando in realtà stanno precipitando; sono il viso di Cristina, i suoi occhi, il tono della sua voce, le sue parole, i suoi gesti e i suoi atteggiamenti a dirti inequivocabilmente come stanno le cose; e quel viso, quegli occhi, quella voce, quelle parole, quei gesti, quegli atteggiamenti non puoi controllarli a tuo piacimento, accomodarli o mistificarli, ma solo registrali; puoi rifiutarli, respingerli o sforzarti di ignorarli – come Andrew fa per gran parte del tempo (da p. 211 a p. 319) – ma non puoi soggiogarli, non puoi assoggettarli ai tuoi sofismi, perché si tratta di cose che stanno fuori da te, eppure a te legate come l’immagine di uno specchio a chi ci si riflette.

Per la prima volta da varie settimane, la guardò effettivamente in faccia mentr’ella con gli occhi bassi esaminava l’elenco che aveva in mano. Malgrado l’ottusità dei propri sensi fu colpito dal cambiamento che notò in lei. Aveva un’espressione calma, stereotipata; gli angoli della bocca accennavano all’ingiù. Nei suoi occhi era una mestizia di morte.

Seduto alla scrivania dinanzi al libro mastro, sentì in un fianco una fitta acuta che lo spingeva a parlare. Ma non ne ebbe il tempo. Cristina aveva preso a leggere l’elenco.

Egli veniva trascrivendo sul mastro i dati man mano che Cristina li enunciava, segnando una croce per le visite, un circoletto per le consultazioni, tirando le somme delle sue iniquità. Quando Cristina ebbe finito, egli osservò, con una voce che suonò ironica solo ai suoi propri orecchi: “Be’, vediamo quanto quest’oggi.” Ma non si sentì la forza di calcolare il totale. Cristina uscì. La udì salire in camera, richiudere piano la porta. Era solo. Dove vado? in nome di Dio, dove vado? D’un tratto il suo sguardo cadde sulla borsa di tabacco piena zeppa di monete. Con mossa isterica la prese e la scaraventò in un angolo. Cadde con un tonfo sordo. Poi si alzò. Sentiva mancargli il respiro. Uscì nel cortile; fondo pozzo di tenebra sotto le stelle. S’appoggiò vacillando al muro e prese a vomitare
(pp. 311-312).
 
Perché – vedi – soltanto i fatti contano, e soltanto i fatti debbono contare. Perché noi siamo quel che facciamo, per dirlo con Leonardo Sciascia: le intenzioni (specialmente se buone) e i rimorsi (specialmente se giusti) ognuno dentro di sé può giocarseli come vuole (fino alla disintegrazione, alla follia) ma un fatto è un fatto, e non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario.
  
Cristina è lì a richiamare costantemente i fatti ad Andrew, e quando Cronin ci dice che “la loro riconciliazione fu il più mirabile evento che fosse loro capitato dal giorno che s’erano innamorati” (p. 315) sta in pratica glorificando il ricongiungimento di Andrew con la parte migliore di sé, nella consapevolezza che tutto il male compiuto non è comunque stato inutile, perché era per quel male che si doveva passare per rendere il legame indissolubile.
 
Ma lui non aveva pace. “Come ho potuto arrivare fino a questo passo?” gemeva, senza posa. “Ero matto, Tina, o che cos’è stato? Non riesco a capire. Io mettermi con quella mafia, dopo aver conosciuto Danny e Hope! Meriterei la forca.”

Cristina cercava di consolarlo. “Tutto è accaduto con tanta precipitazione, caro. Chiunque sarebbe stato travolto.”

“No, ma sul serio, Tina! Mi pare d’impazzire, a ripensarci. E quanto devi aver sofferto tu! Meriterei la tortura prima della forca.”

Cristina sorrise, sorrise effettivamente. Era una meraviglia, per Andrew, rivedere la sua faccia spoglia di quella glaciale indifferenza che da tanto tempo simulava: tenera, contenta, sollecita di lui. Pensò: siamo vivi di nuovo
(p. 315).

Mettiamola in negativo: Cristina non sta lì soltanto per aggiungere una sotto-trama romantica alla storia, per soddisfare i lettori che si aspettano di trovarla (e ci restano male se non c’è) anche se poi la sotto-trama romantica non gioca alcun ruolo nel processo di trasformazione del personaggio.

Cristina è il cuore della storia: se togli Cristina – se privi la storia dell’amore tra Andrew e Cristina – non c’è più nessuna storia da raccontare.

Cristina è cruciale per lo sviluppo della storia, ma anche lei deve rispettare la regola a cui sono assoggettati tutti i personaggi diversi dal protagonista: sparire, uscire di scena, quando non servono più.

Una volta che Andrew ha ritrovato sé stesso – e abbiamo certezza che non si smarrirà più – il personaggio di Cristina ha assolto il suo compito e va congedato.

E il congedo avviene nel modo più traumatico  – con la morte – un po’ perché non c’è alternativa, e un po’ perché così si aggiunge drammaticità (con una ulteriore sofferenza ingiusta per il personaggio) e si creano i presupposti per miscelare – nel finale – aspetti positivi e negativi, com’è tipico delle grandi storie. 
 
Voglio chiosare sul personaggio di Cristina proprio con la dinamica dell’evento che ne determina la morte.

È un’incidente – viene investita da un tram (pp. 334-335) – e gli incidenti si presentano sempre come eventi casuali, sfortunati, laddove noi sappiamo che il caso, l’alea e la (s)fortuna hanno un ruolo marginale in ogni storia ben fatta.

E infatti Cronin si premura di creare tutte le condizioni per attutire l’effetto del puro caso: è sera, è tardi, i negozi stanno per chiudere, e Cristina deve sbrigarsi se vuole trovarne uno ancora aperto per compare il formaggio che piace tanto ad Andrew; e poi la vediamo mortificata, agitata e frettolosa.
 
Gli sottrasse il piatto prima che potesse servirsi. “Son qui a far la sentimentale, invece di pensare a te, digiuno e affamato. Bella moglie d’un lavoratore!” Diede un’occhiata alla pendola. “Ho giusto il tempo di arrivare da Frau Schmidt prima che chiuda.”

“No, Tina, lascia andare. Non voglio.”

“Sì, sì, tu sta’ zitto. Voglio io. Il Liptauer ti piace, tu piaci a me, dunque vado a prendertelo.” E fu fuori dalla stanza prima che lui potesse protestare di nuovo.

Andrew seguì con l’orecchio i suoi passetti frettolosi nell’anticamera, la udì richiudere la porta di strada.

Tutta la scena – nella sua semplicità – comunica rapidità, azione serrata, fretta: c’è un confitto tra gli stessi coniugi (con Andrew che minimizza la situazione e Cristina che la enfatizza) e c’è un conflitto contro il tempo (arrivare da Frau Schmidt prima che chiuda, per comprare il formaggio Liptauer che tanto piace ad Andrew); quindi bisogna sbrigarsi fare in fretta, e ci sta – ci può ben stare – che nella corsa verso il negozio si finisca vittime di un incidente, date le premesse.
 

La scena più bella

Cronin scrisse La cittadella nel 1937, secondo la tecnica standard dell’epoca, di cui ben poco è sopravvissuto oggi.

Gli infodump oggi sono il marchio del dilatante; dichiarare gli stati di animo, con espressioni del tipo “un’angoscia inesprimibile” (p. 319) oggi fa storcere la bocca a qualunque lettore evolutosi sopra il livello di uno scimpanzé; annunciare una battuta di dialogo, o usare dialogue tag come “disse” e “rispose”, sono scelte che oggi denunciano un ritardo grave nella propria scrittura; e si potrebbe andare avanti così, senza mai incontrare un punto fermo.

Tutto vero. Oggi. Ma all’epoca in cui Cronin scriveva La cittadella, ormai quasi un secolo fa, i riferimenti tecnici erano diversi, e non si può giudicare la scrittura di allora con il metro di ora, non ha senso applicare un determinato set di parametri valutativi (che beneficia di tutti i progressi intervenuti nel frattempo)) ad un testo scritto seguendo altre impostazioni (quando quei parametri non erano noti).

Qualunque critica alla scrittura di Cronin – che prenda a riferimento gli insegnamenti del blog – dimostra solo la scarsa intelligenza di chi la formula.

La prospettiva andrebbe piuttosto ribaltata: sebbene Cronin non sapesse nulla della scrittura dei mattoncini, e dell’armamentario di tecnicismi che la correda, la sua sensibilità artistica lo portava a concepire numerose scene che l’approssimavano in modo spesso soddisfacente.

Quel che per te – aspirante autore del 2023 –  è un corpo teorico strutturato e ben definito, per lui –  per Cronin, autore del 1937 –  erano intuizioni più o meno precise, più o meno fondate e ragionevoli, da tradurre al meglio sulla pagina, secondo la sensibilità e i canoni dell’epoca.

Se dovessi esibire una scena – una sola – a testimoniare l’abilità di Cronin nel dare concretezza al suo sesto senso, non avrei dubbi nell’indicare il pranzo al Plaza (pp. 282-284).

È anzitutto una scena di straordinario impatto emotivo, se viene colto il messaggio del sotto-testo: è il momento in cui la parte peggiore di Andrew (interpretata da Andrew stesso) tenta di prendere il sopravvento sulla sua parte migliore (interpretata da Cristina), il momento in cui Andrew vuol convincere Cristina che entrambi stanno vivendo in un mondo da favola, oltre ogni più scintillante aspettativa, e che tutto andrà ancor più alla grande, se solo lei, Cristina, avrà fiducia in lui.

È l’antica storia del male che prova a gabbare il bene, prospettandogli l’intero spettro delle meraviglie che lo attendono, se solo accetta di essere un minimo – oh, giusto un minimo! – ragionevole e accondiscendente.
 
E il modo in cui il messaggio è codificato, il tecnicismo con cui la scena prende forma sulla pagina, è spettacolare: un caso di scuola – per dinamica degli eventi e dettagli selezionati – di cosa voglia dire suscitare nel lettore la sensazione di presenza fisica nel testo, di come sia possibile fargli esclamare io c’ero, io ero lì!
 

Tralasciamo quel “si sentiva impacciato” e balziamo subito alla battuta di dialogo che mostra perfettamente l’impaccio di Andrew: inciampa di continuo sulle sue stesse parole, non sa cosa dire, perché nel profondo sa bene che quel regalo non è per nulla risolutivo, e così, alla fine, non trova niente di meglio che ostentarlo.
 
Cristina impallidisce, le dita le tremano e si accanisce con lo spago: è tutto perfettamente visualizzabile, simulabile senza sforzo nella mente del lettore, e l’esclamazione successiva (“Che bellezza!”) è la sintesi mirabile in cui culminano i gesti e le sensazioni precedenti.
 
La descrizione del contenuto della scatola è precisa, chiara; va da sé che l’avverbio “squisitamente” è superfluo, ché la forma dell’oggetto viene già restituita dagli altri dettagli (“volpi argentate perfette, foggiate in modo da sembrare una pelle sola”).
 
Passiamo sopra – al solito – a quel “voce eccitata”, e concentriamoci piuttosto sul meraviglioso scambio di battute.
 
Andrew magnifica l’oggetto, ne esalta la qualità, si diffonde in spiegazioni e… come risponde Cristina? Risponde nell’unico modo in cui ha senso rispondere in un dialogo ben fatto: in modo obliquo. Andrew parla della volpe, e Cristina gli chiede se lui le vuole ancora bene. Non gliene importa nulla della pelliccia, è ovvio, anche se non può dirlo apertamente. Vuole solo sentirsi dire che è ancora amata: “io non chiedo altro in tutto il mondo”.
 
Andrew rilancia, e l’invita a pranzare fuori, in un ristorante di lusso. Peccato che Cristina ha già preparato l’arrosto, ma… “non fare la guastafeste” la ammonisce bonariamente Andrew. E ti invito ad apprezzare la naturalezza con cui si introduce l’altro elemento chiave di un buon dialogo narrativo: il conflitto (Andrew vuole pranzare fuori, Cristina è rammaricata di sprecare l’arrosto, e tuttavia non vuole neppure passare per guastafeste).
 
Il passo successivo – la descrizione esplicita dello stato d’animo di Andrew – andrebbe ovviamente aggiustato in una scrittura moderna, ma lo stato d’animo di per sé e il pensiero che vi si associa (“le donne bisogna trattarle così…”) sono paradigmatici di un sistema di disvalori che sta toccando il suo apice.
 
Il passaggio dell’appuntamento – con il suo seguito – è meraviglioso: c’è conflitto ovunque, contro il tempo, contro l’ambiente e ovviamente tra i personaggi.
 
Cristina ha equivocato – l’appuntamento era al ristorante, non al grill, ma del resto Andrew aveva detto “grill” e non “ristorante” – e il suo ritardo, ora, non solo ha fatto indispettire Andrew, ma ha causato un problema oggettivo: “un tavolo infelice, incuneato tra due colonne, vicino al servizio”, una situazione ancora una volta perfettamente simulabile nella testa di un lettore (che con ogni probabilità l’avrà vissuta anche lui almeno una volta).
 
Il pranzo, dunque, inizia male; e prosegue peggio: “tavole così vicine che le persone parevano sedute l’una sul grembo dell’altra”, camerieri che “si muovevano come contorsionisti”, un “calore tropicale” e il brusio che “saliva e scendeva”. Ancora una volta è tutto vivido, realistico, ben percepibile, volendo migliorabile in alcuni punti, ma perfettamente simulabile.

L’ordinazione è un altro colpo da maestro. Per Cristina – di cui si avverte già l’insofferenza – un cibo vale l’altro, anche se chiaramente non può dirlo. Delega la scelta a Andrew, ed Andrew per tutta risposta ordina i piatti più costosi, non perché li gradisca davvero, ma per il solo fatto che sono costosi, come traspare da ciò che dice dopo (“Non ce ne intendevamo di questa roba, a Blaenelly, eh?”).
 
Cristina compie sforzi sovraumani per assecondare l’apparente giovialità del marito, ma tutto quell’ambiente – in cui gli uomini erano “tutti lisci, oliati, troppo ben vestiti” e ogni donna “era bionda, in nero, dipinta, dura” – le gioca contro.
 
Realizza, di colpo, la “discordanza fra la sua volpe e il suo modesto vestito”, si sente “come una margherita nella serra delle orchidee” (una metafora che ci può ben stare nella psicologia di Cristina).
 
Andrew si accorge che qualcosa non va, s’indispettisce, e Cristina prova a tirarsi su. Ma “il pollo è troppo condito”, lo riesce “a stento ad inghiottire, senza gustarlo affatto”, e – insomma – questo pranzo sta diventando per lei un’autentico supplizio.
 
L’effetto è far innervosire ancor di più un Andrew già agitato di suo, che a quel punto non si fa più scrupoli a manifestare il suo rammarico e il disappunto per il bicchiere di vino lasciato intatto dalla moglie; ma a Cristina serve semplicemente dell’acqua, non il vino.
 
Si accentua la sua percezione di inadeguatezza (“Non era pettinata come avrebbe dovuto essere, non s’era fatta la faccia; persino i camerieri la guardavano”), diventa sempre più impacciata e, fatalmente, “con una mossa nervosa alzò un asparago, la testa si ruppe e le cadde, sgocciolante di salsa, sulla pelliccia nuova. La bionda metallica del tavolino vicino guardò il compagno e rise”.
 
Che scrittura semplice e al tempo stesso meravigliosa! La testa dell’asparago che si rompe, lo sgocciolio della salsa sulla pelliccia nuova, la risata della bionda metallica al tavolo accanto: prova a scriverla tu una scena con dettagli così precisi, chiari e perfettamente inanellati, se ne sei capace.
 
L’atmosfera si incupisce, il pranzo si conclude “in un arido silenzio”, e arrivati a casa – se possibile – le cose vanno anche peggio, per quanto esteriormente ognuno dei due si sforzi di mantenere un certo contegno. Cristina arriva persino a “dubitare di essere la moglie che ci voleva per lui”.
 
Quando si rincontrano, la sera, Cristina trova ancora la forza per un gesto affettuoso (“gli buttò le braccia al collo e lo baciò ringraziandolo ancora, e per la pelliccia e per l’invito”) ma la risposta di Andrew è formale, distaccata, di pura circostanza (“Contento che ti sia divertita”).
 
E così si chiude l’ora più buia tra marito e moglie.
 
Al lettore rimane addosso una tristezza infinita, e all’aspirante scrittore un esempio magistrale di cosa sia una grande scena.

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