Modulo 24C – Un arco ante-litteram: il romanzo “La cittadella”
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Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
Anzitutto, localizziamoci: La cittadella è un romanzo di Cronin, pubblicato 1937; L’arco di trasformazione del personaggio, di Dara Marks, è un manuale di sceneggiatura pubblicato nel 1999.
E tuttavia l’arco rimane un potente strumento di analisi del romanzo, per una ragione precisa: perché tutte le buone storie sono invariabilmente costruite intorno a elementi strutturali comuni, che si ritrovano nella mitologia, nelle fiabe, nelle leggende, nei film; è come se esistesse un codice comunicativo a cui ogni buona storia deve sottomettersi, o meglio, a cui naturalmente viene sottomessa dal suo autore, sebbene in modi variamente consapevoli; è come se il cervello umano fosse predisposto per recepire una stessa architettura narrativa, che deve di necessità sorreggere ogni storia; il merito della Marks – come già osservato – è nell’aver formalizzato questa architettura, nell’aver “messo a sistema” tutte le conoscenze accumulate nel tempo, e aver contestualmente definito un linguaggio tecnico per parlare e intendersi.
Cronin aveva sicuramente capito molto della teoria narrativa, anche solo a livello inconscio, e La cittadella – si può dire – recepisce integralmente la “filosofia dell’arco” (anche se poi la “mette in posa” a modo suo).
Riporterò direttamente gli stralci di alcune pagine del libro, nei casi a cui voglio dare particolare rilevanza.
Perché "La cittadella"?
- la costruzione dell’empatia;
- l’illustrazione della hamartia;
- la trasformazione del personaggio in relazione al suo difetto fatale;
- il personaggio di Cristina.
Il mood della storia
“Da bambino volevo guarire i ciliegi,
quando rossi di frutti li credevo feriti,
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.
per questo giurai che avrei fatto il dottore,
e non per un dio, ma nemmeno per gioco,
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore!
non volli tradire il bambino per l’uomo,
e vennero in tanti e si chiamavano ‘gente’,
ciliegi malati in ogni stagione.
nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare,
mi spedirono il meglio dei loro clienti
con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale:
‘Ammalato di fame, incapace a pagare’.
che fare il dottore è soltanto un mestiere,
che la scienza non puoi regalarla alla gente,
se non vuoi ammalarti dell’identico male,
se non vuoi che il sistema ti pigli per fame…”
Perché – vedi – un malato si rivolge a un medico per guarire, e lo paga per guarire; ma una volta guarito, non ne ha più bisogno; e come fa un medico a guadagnare denaro, e ancora più denaro, senza un flusso costante di malati da guarire?
E tu – medico – cosa dirai?
Da quale parte ti schiererai, visto che una scelta di campo va fatta, e nessuna mediazione sembra possibile?
Empatia
Competenza
La competenza è il saper fare ciò che ci si attende che il personaggio sappia fare e debba fare.
Andrew Manson è un medico, e ci si aspettiamo di vederlo fronteggiare con destrezza le tipiche situazioni in cui un medico può trovarsi. La narrazione ci propone una gran varietà di episodi, tutti dello stesso segno.
Vediamo Andrew estremamente scrupoloso nella sua prima visita (pp. 13-14); vediamo una coppia di mezza età affidarsi a lui per la nascita (insperata) del proprio figlio (p. 43); e negli istanti successivi a un parto apparentemente infausto, lo vediamo riportare in vita il bambino che sembrava nato morto (pp. 65-67); lo vediamo avere la corretta intuizione per smontare un’errata diagnosi di “pazzia” rilasciata con intollerabile superficialità da un suo collega, in teoria più esperto (pp. 52-55); e lo vediamo eseguire con successo un’operazione chirurgica in fondo a una miniera, con un’attrezzattura di emergenza e sotto il pericolo costante che venga giù tutto (pp. 153-157); e lo vediamo mettere tutto il suo impegno – ancorché con un fare polemico, peraltro comprensibile – persino quando si ritrova alle prese con scartoffie e pratiche burocratiche (p. 205).
Ma la sua competenza più grande – e qui sta il tocco di genio dell’autore – è nel sapere di non sapere, o almeno di non sapere abbastanza quanto vorrebbe.
Questa umiltà – quest’attenzione al divario tra ciò che si sa e ciò che si dovrebbe sapere per operare al meglio – è manifestata a più riprese.
Leggiamo che Andrew constatava come “tutta la sua preordinata concezione della medicina pratica si sgretolasse d’attorno e lui” (p. 27) e così “veniva rivedendo e modificando molte delle nozioni che aveva imparato nelle scuole” (p. 32); e quando all’esame per diventare un Member of the Royal College of Physicians gli viene chiesto quale sia “il principio supremo, l’idea, diremo basilare, che conviene tener sempre presente nell’esercizio pratico della nostra professione”, la sua risposta è semplicemente “io mi vado ripetendo di… guardarmi da… dal sentirmi troppo sicuro delle mie nozioni” (p. 152); e nella sua appassionata arringa finale, davanti all’Ordine dei Medici, non si fa scrupoli nell’ammettere che “quando mi sono laureato io, ero, più che altro, una minaccia per la società… Tutto quello che so, l’ho imparato dopo” (p. 358).
Abbiamo in definitiva una competenza molto ben caratterizzata – che non viene mai meno, neanche durante la sua trasformazione sbagliata – e che diventa un tratto distintivo del personaggio.
Proattività
Sofferenza ingiusta
Hamartia
Le male usanze dell’ambiente medico non sembrano provocare danni, di sicuro non si vedono conseguenze oggettivamente negative per gran parte della narrazione, e se “così fan tutti”, perché mai il nostro Andrew non dovrebbe conformarsi alla prassi? Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, lui merita più di altri di estrarre benefici privati dalla professione di medico, perché lui è più bravo, competente e scrupolo dei suoi colleghi, e se tutti guadagnano e fanno la bella vita, perché mai lui dovrebbe auto-castrarsi?
Non saprei dire quanti lettori abbiano avuto questi pensieri – o altri sostanzialmente analoghi, anche solo come sensazione di fondo – ma sono pensieri che possono sorgere naturalmente nella testa di chiunque, dato l’ordine di presentazione degli eventi: dai, Andrew, fa come gli altri, goditi anche tu la vita, te lo meriti come gli altri, anzi di più!
Questo stato d’animo si chiama hamartia: il lettore desidera che il personaggio compia delle azioni che tutti – lettori e personaggio – sanno essere sbagliate, e che tuttavia, dato il particolare contesto narrativo, non sembrano poi così sbagliate, e possono perfino apparire giuste, corrette, addirittura indispensabili per raggiungere un bene più elevato. La hamartia – per dirlo in breve – è un errore di giudizio, la convinzione che si possa tenere un comportamento sistematicamente errato, senza mai andare incontro a conseguenze, senza mai esser chiamati a pagare dazio.
E il nostro Andrew in effetti cede, asseconda il desiderio di una parte dei lettori: diventa come tutti gli altri, si comporta come tutti gli altri. “Che cosa importava se le iniezioni non servivano? Non era affar suo; Miss Everett le voleva. Era stanco di privazioni; stufo d’esser un ciucco a tre scellini e sei pence. Voleva fara strada; vincere. Ad ogni costo” (p. 235).
Ma nessuna azione – in una storia ben fatta – è priva di impatti.
La prima conseguenza è il deterioramento dei rapporti con Cristina, e qui è probabile che l’animo di molti lettori inizi a oscillare tra i due personaggi: tutti, nel profondo, sanno che Cristina ha ragione e Andrew ha torto, ma – accidenti! – Andrew non sta facendo male a nessuno, e allora perché Cristina non impara anche lei a godersi la vita, a beneficiare di tutta la ricchezza finalmente raggiunta, e non la smette di guastare un clima altrimenti perfetto?
Cristina ha le sue ragioni, ma anche Andrew può esibire le sue, e tutta la “Quarta Parte” (da p. 211 in poi) è costruita per tenere l’animo del lettore in altalena tra Cristina ed Andrew – ora a capire l’una, ora a giustificare l’altro – ma sempre con un’attenzione particolare al punto di vista di Andrew. E così, quando vedremo Andrew avere pensieri miseri su Cristina (al ristorante con Frances, p. 293) e subito dopo cedere alla seduzione e al tradimento (pp. 295-296), siamo ancora nella condizioni di capirlo, magari non di giustificarlo, ma di capirlo sì, e questo è tutto ciò rileva: capire perché il personaggio da quel che fa.
Andrew è diventato esattamente come molti lettori desideravano che diventasse: non solo si è conformato agli usi e ai costumi della classe medica, ma è pure assurto a un punto di riferimento. Più che “come tutti gli altri” è addirittura “meglio degli altri”, nel senso che ha imparato meglio degli altri a sfruttare la situazione a suo vantaggio.
Tutto il problema – a livello esterno, di eventi osservabili – sembra ridursi a un allontanamento progressivo da Cristina, ma alla fine chi l’ha detto, dove sta scritto, che Cristina ha ragione ed Andrew ha torto? La stessa Cristina appare dubbiosa. “Com’era cambiata oggi la situazione! Ci aveva colpa lei? Si era fatta antisocievole, s’era ritirata in sé? Non le pareva di aver nulla da biasimarsi” (p. 259).
Si va avanti così, sballottati tra le ragioni di Andrew e il dolore di Cristina, sino ad arrivare all’evento che cambia tutto: la morte in sala operatoria di un pover’uomo, nel corso di un intervento ordinario, per l’imperizia di un chirurgo tanto caldeggiato da Andrew (pp. 304-310).
Si ha un bel dire che certi atteggiamenti moralmente ed eticamente censurabili non uccidono nessuno. Sì, certo, di regola la singola azione non uccide nessuno. Ma quando tutte le azioni scaturiscono da una stessa forma mentis, quando non sono più singole azioni, ma espressione di un modus operandi, quando il male viene iterato senza posa, e se ne smarrisce quindi l’intensità, ecco che – prima o poi – l’evento drammatico arriva.
Difetto fatale e processo di trasformazione
Le storie – quali che siano il genere, il soggetto, la trama – ci parlano tutte della lotta del personaggio contro sé stesso (contro il suo difetto fatale) per trionfare nella lotta contro l’antagonista (nel conflitto esterno) così da portare in salvo la posta in gioco.
Si può dire che la qualità di una storia non può mai essere superiore alla qualità del difetto fatale e della correlata posta in gioco, che la tenuta di una storia si misura con le conseguenze del difetto fatale sulla difesa della posta in gioco, e col processo di cambiamento del personaggio (di rimozione del difetto fatale) per mettere al sicuro la posta in gioco.
Quando si entra nel “nuovo mondo” (nel Secondo Atto) la presenza del difetto fatale è la causa principale delle sconfitte del protagonista, e la sconfitta è spesso realizzata in senso stretto, in senso proprio: il personaggio esce esteriormente sconfitto dai conflitti esterni in cui si trova coinvolto (e sconfitta dopo sconfitta capirà che deve cambiare qualcosa dentro di lui, se vuole vincere nel mondo là fuori).
Ma la sconfitta – in generale – va intesa in senso tecnico: “sconfitta” è tutto ciò che mette in pericolo la posta in gioco, a prescindere se esteriormente gli eventi appaiono favorevoli o sfavorevoli. Se a conclusione del conflitto è aumentata la probabilità di perdere la posta in gioco, allora il protagonista ha indiscutibilmente perso, anche quando – in termini di bruti fatti osservabili – ha vinto. La sua vittoria esterna è stata più dannosa che inutile, perché lo ha allontanato dall’unica cosa davvero importante: la posta in gioco.
Non è facile disegnare un percorso di cambiamento fatto di sconfitte mascherate da vittorie, creare un mondo in cui tutto – esteriormente – sta andando alla grande, ma – interiormente – sta crollando pezzo dopo pezzo.
La cittadella può essere un caso di scuola: il lettore vede Andrew cambiare, pagina dopo pagina, e lo vede cambiare nella direzione che – ingenuamente – sembra la più naturale. “In un certo senso era vittima del suo proprio zelo. Era sempre stato povero. Nel passato il suo cocciuto individualismo non gli aveva fruttato che sconfitte. Almeno adesso trovava nel successo la giustificazione della sua condotta” (p. 251).
Andrew perde – in tutti i conflitti esterni iniziali – a causa “del suo proprio zelo”, del suo “cocciuto individualismo”.
Tornare quello che si era prima? Ma vorrebbe dire ritornare a inanellare una sconfitta dietro l’altra!
Quindi? Qual è il punto scappato? Cos’è che gli sfugge?
Quando Gesù dice “io vi mando come pecore tra i lupi, siate candidi come colombe e astuti come serpenti” sta lavorando di fino sull’animo dei suoi apostoli. Non sta dicendo loro di trasformarsi anch’essi in lupi, e meglio ancora in leoni o tigri, così da risolvere ogni problema esteriore. L’invito è anzitutto alla presa d’atto della situazione fattuale (voi siete pecore in mezzo ai lupi) e poi all’adozione di un modello di comportamento che preservi tutto quel che c’è di buono in loro (siate candidi come colombe) nella consapevolezza di trovarsi circondati da cattivi (siate astuti come serpenti).
Andrew dovrà svolgere lo stesso lavoro sulla sua visione del mondo. Se il problema (il difetto fatale) è nell’essere un delfino circondato da squali, la soluzione non può essere nel trasformarsi in uno squalo (e magari in uno tra i più temibili) così da risolvere apparentemente ogni problema. Il delfino deve rimanere delfino (quel che c’è di buono va preservato) ma deve imparare a difendersi, da delfino, in un mare popolato da squali di varie taglie e pericolosità.
Il messaggio inviato dal romanzo è chiaro: se tutto il mondo è una merda, la soluzione non può essere diventare “il più merdoso di un mondo di merda”, perché vorrebbe dire propagandare per “soluzione” qualcosa che – secondo la premessa sostenuta – non fa altro che aggravare il problema.
Escalation del conflitto
Una storia è una sequenza di scene; una scena è una sequenza di mattoncini narrativi basati sul conflitto; una storia è quindi una sequenza di conflitti, da variare per tipologia e modulare per intensità, all’interno di un trend crescente. È come se nella testa riecheggiasse una vocina malefica: “sì, in teoria una storia è una sequenza di conflitti, ma in pratica…”.
Già, in pratica.
La cittadella chiarisce che la qualità di un’opera è un tutt’uno con la teoria che vi si impiega, e che rispettare la teoria è possibile, a condizione di intenderla correttamente (e di conoscere ciò di cui si scrive e di ragionare a fondo sulle scene).
Siamo in situazioni conflittuali tutte le volte che un bisogno, una volontà o un desiderio incontrano un’opposizione e lottano per superarla. Creare conflitti significa quindi immaginare una varietà di bisogni, volontà e desideri dei personaggi e contrapporgli una varietà di ostacoli. Dalla capacità di variare bisogni, volontà, desideri e ostacoli – per tipologia e intensità – dipendono la qualità tecnica della storia e, in definitiva, il coinvolgimento emotivo del lettore.
A livello macroscopico l’escalation del conflitto è evidente, nel romanzo di Cronin: si parte con le scaramucce tra il dottor Manson e Mrs Page, la drammaticità delle situazioni aumenta su tutti i versanti lungo la storia, per raggiungere il culmine nella contrapposizione finale tra il dottore e l’Ordine dei medici (che vuole radiarlo).
Ma serve scendere a livello microscopico – di singole scene – per apprezzare l’abilità di Cronin nel permeare ogni pagina con almeno un conflitto, nel costruire una gran varietà di conflitti.
C’è una prospettiva di conflitto già all’inizio (p. 8) quando il cocchiere gli descrive una realtà cittadina complicata e rimane reticente (con una venatura inquietante) davanti alle richieste di spiegazioni di Andrew (“lo scoprirete da voi”).
C’è conflitto – sempre diverso – ogni volta che Andrew entra in contatto con Mrs Page (pp. 9-13, 23-25, 40-43, 57, 76-78); ma c’è conflitto anche al primo incontro con Danis (per i suoi modi sgarbati, pp. 15-16) e con Cristina (per il rifiuto di rimandare a casa il bambino malato, pp. 34-36); e il conflitto con Cristina continua quando si rincontrano alla cena in casa dei Watkins, con Andrew che vorrebbe scusarsi e non ci riesce, se non a fine serata e senza concederle poi una possibilità di replica (pp. 37-40)
C’è conflitto alla prima visita medica, quando Andrew non riesce a diagnosticare la malattia con la precisione desiderata (p. 14-15) e più in generale c’è un perenne conflitto di Andrew con sé stesso per la progressiva presa di consapevolezza di non saperne mai quanto sarebbe necessario per svolgere al meglio il suo lavoro (pp. 27, 32-33, 47, 152).
C’è conflitto in occasione al raduno della British Medical Union, a Cardiff, a cui Andrew vorrebbe partecipare ma non può, non essendo socio e non avendo denaro necessario (p. 55) e a cui alla fine riesce a prender parte grazie ad un invito (p. 56); e c’è conflitto con Cristina, in treno, nel viaggio di andata verso Cardiff, quando Andrew vorrebbe dichiararsi, ma la sua timidezza lo blocca (p 58); c’è conflitto durante il pranzo con il collega – preoccupato solo di snocciolare tutti i modi per far denaro con la professione medica, quando Andrew vorrebbe invece raccontare i suoi progressi nelle diagnosi – da cui segue una coda velenosa con Cristina (pp. 60-63); e c’è conflitto nel viaggio di ritorno a Blaenelly, quando Andrew vorrebbe scusarsi con Cristina, riappacificarsi, ma non può farlo perché “il loro treno era gremito” ed erano finiti “in due posti scomodi in mezzo a una diecina di minatori che discutevano animatamente la partita di calcio del pomeriggio” (p. 63); c’è conflitto non appena Andrew rimette piede a casa, perché la signora Morgan sta partorendo prima del tempo, con tutte le complicazioni che seguiranno (pp. 63-67)
C’è un conflitto interno, di Andrew con sé stesso, quando gli viene offerto di creare una sua lista di pazienti, autonoma rispetto a quella del dottor Page (pp. 71-72).
C’è il conflitto contro il tempo, quando Andrew si rende conto di doversi far carico delle visite di Denis, e ciò intensifica il conflitto personale col collega (p. 73-76).
C’è un conflitto contro il tempo e l’ambiente circostante quando Andrew cerca un nuovo lavoro dopo aver abbandonato Mrs Page, e realizza che “l’aver praticato in quella remota regione mineraria gli nuoceva”, perché gli “assistenti reduci dalle montagne […] avevano troppa cattiva reputazione” (p. 80).
E qui finisce la “Prima Parte”: ottanta pagine intessute di conflitto, capoverso dopo capoverso, riga dopo riga, parola dopo parola.
Dovresti continuare da solo – a questo punto – a trovare tutti gli alri conflitti sparpagliati per la storia; ma lascia che ti aiuti ancora un po’.
La “Seconda Parte” si apre con una nuova prospettiva di conflitto: se il denaro era un elemento distorsivo nell’operato dei medici delle montagne di Blaenelly, ora, nel nuovo contesto, si preso il centro della scena (e ciò non lascia presagire nulla di buono)
Il dottor Llewellyn, più elegante che mai nella sua giacca a code e nei suoi polsini ingemellati d’oro, venne incontro a loro con un’espressione cordialmente raggiante. “Lieto di fare la vostra conoscenza, Mrs Manson. Spero che Aberalaw vi piacerà. Non è un brutto posto, credete. Favorite. Mia moglie viene subito.”
La signora venne subito, infatti, non meno raggiante di suo marito. Era una donna dai capelli rossastri, tra i quaranta e i cinquanta, col viso bianco costellato di lentiggini, e si rivolse a Cristina con amichevoli boccheggiamenti. “Cara, come siete graziosa! Siamo già amiche, permettetemi di baciarvi.” L’abbracciò e la squadrò da capo a piedi con ammirazione. Al fondo del corridoio risuonò il gong. Si trasferirono nella sala da pranzo.
Era un pasto eccellente. I padroni di casa parlavano sorridendo agli ospiti […].
“Eh, si deve pur vivere, dottor Manson. Mucchio di spese. La macchinetta che avete vista all‘ingresso, per esempio, non sembra niente, ma m’è costata milleduecento sterline. Quanto a… ma lasciamo andare. Non c’è ragione che vieti a voi di incassare profitti assai tondetti, sapete. Diciamo dalle tre alle quattrocento sterline nette se state in gamba e lavorate sodo.” Fece una pausa, assunse un’aria confidenziale, umidamente sincera. “C’è una cosa che è bene che sappiate subito. Un’intesa, in vigore già da tempo, e voluta dagli assistenti stessi, in forza della quale essi mi riservano un quinto dei loro rispettivi introiti.” Proseguì, in fretta, ma senza la minima soggezione: “Questo, capite, perché li aiuto nei casi gravi; quando si trovano in difficoltà mi chiamano. Son tutti soddisfatti del sistema.”
Andrew manifestò un po’ di sorpresa. “È una cosa contemplata dal regolamento?”
Manson tentò di raccogliere le sue idee, che danzavano una ridda turbinosa. Erano ridotti, lui e Cristina, a due gomitoli, che i padroni di casa si palleggiavano a vicenda con molta destrezza (pp. 95-97).
C’è un conflitto – serrato, crescente e variegato – con il venditore di mobili (pp. 100-105).
C’è conflitto tra i minatori ed Andrew, con i primi che consideriamo i certificati di esenzione dal lavoro come un atto dovuto, e il secondo che si rifiuta di rilasciarli quando capisce l’andazzo (pp. 106-110).
C’è conflitto tra Andrew e un’infermiera sui modi migliori per guarire un minatore da una brutta scottatura, con Andrew che esegue le sue fasciature e medicazioni e l’infermiera che le disfa con la complicità del malato stesso (pp. 112-115).
C’è conflitto quando Andrew realizza che l’ospedale non è un luogo a sua disposizione, ma rigidamente assoggettato al dottor Llewellyn, i cui modi sono parecchio discutibili.
Difatti, egli riprese: “Ma, tu che hai visto l’ospedale con me, ricorderai, vero, il mio entusiasmo all’arrivo, quando speravo nella possibilità di poter finalmente lavorare sul serio, con le comodità indispensabili eccetera. Ebbene, ero un povero illuso! Ho scoperto che l’ospedale non è affatto a mia disposizione; non è l’ospedale di Aberalaw, è l’ospedale di Llewellyn.”
Ella palesò interesse, in attesa che si spiegasse. Difatti egli continuò: “Avevo un caso stamattina,” ora parlava in fretta, con calore, confusamente, “ho detto avevo, bada, perché infatti ora non l’ho più: una vera polmonite incipiente, in uno dei minatori che lavorano alla perforatrice nella miniera d’antracite; sai quante volte t’ho detto che sto facendo delle indagini sulle condizioni in cui respirano questi disgraziati… sono convinto che c’è un vasto campo di ricerche da esplorare in questa direzione… Ebbene, mi son detto, ecco finalmente, in questo mio primo malato che richiede il trattamento all’ospedale, una ottima opportunità per eseguire dei rilievi interessanti; e ho subito chiamato Llewellyn al telefono per invitarlo ad esaminare il caso con me, questo, capisci, per aver io accesso all’ospedale.” S’interruppe per prender fiato e riparti più veloce di prima: “Ebbene, Llewellyn arriva, tutto pomposo nella limousine, ed esamina il mio malato, con perfetta competenza, debbo dire. È uno che sa il suo mestiere, non c’è che dire: un asso. Be’; confermò la mia diagnosi, accennando, anzi, ad una o due cosette in più che mi erano sfuggite, e concordò pienamente nel parere di ammettere senz’altro l’individuo all’ospedale. Mi sono affrettato a ringraziarlo, lasciandogli capire quanto mi premesse di approfittare delle facilitazioni offerte dall’ospedale allo studio delle indagini che sto compiendo…”
Fece un’altra pausa e indurì la mandibola. “A questo punto Llewellyn mi scoccò un’occhiata, perfettamente amichevole e cordiale come sempre ma disse: Non occorre che veniate voi, Manson; bado io, adesso che è ricoverato. Non potremmo avervi qui, voialtri assistenti, m’adocchiò i gambali, ’a girare per le corsie con quei chiodoni sotto le suole.”
Andrew soffocò un’imprecazione, poi scrollò le spalle e concluse: “Bah, a che scopo ripeterti tutto quello che ha detto? Si riduce a questo, in sostanza: io posso, sì, andarmene rovistando nelle catapecchie dei minatori, con l’impermeabile macero e gli scarponi infangati, a visitare malati al buio o quasi, a curarli in condizioni impossibili; ma quando si tratta dell’ospedale, mi si vuole soltanto per somministrare l’anestetico!”
Fu interrotto dal telefono. Dandogli un’occhiata di simpatia, Cristina s’alzò per andare in anticamera a rispondere alla chiamata. La vide tornare esitante. “È Llewellyn che ti vuole, caro, mi spiace… ti vuole domani alle undici per… per un anestetico.” Egli non replicò. “Cosa devo dire, darling?”
“Digli che vada all’inferno!’ gridò; poi, passandosi la mano sulla fronte: “No, no. Digli che sarò lì alle undici,” e precisò, con un sorriso amaro, “alle undici in punto.”
Quand’ella tornò, gli portò una tazza di caffè: il più efficace dei suoi rimedi contro i malumori di suo marito (pp. 117-118)
Si respira aria di conflitto in casa dei coniugi Vaughan, con Andrew che proprio non riesce a socializzare, laddove Cristina si mostra disinvolta, con ripercussioni sui rapporti immediati tra Andrew e Cristina, che si irrigidiscono di colpo (pp. 124-128).
C’è conflitto tra Andrew e gli altri medici assoggettati a versare un quinto dei loro onorari a Llewellyn, che a parole si dicono concordi a metter fine a questa prassi, ma poi, dopo che Andrew ha preso posizione, si tirano indietro e ritrattano ogni cosa (pp. 137-142); e l’epilogo del conflitto ha di nuovo una venatura inquietante.
C’è conflitto tra Andrew e Cristina, quando il primo inveisce contro tutti i titoli accademici di Llewellyn e la seconda assume un atteggiamento di aggressività passiva, apparentemente preoccupata solo di limarsi le unghie (pp. 142-144).
C’è conflitto – contro il tempo, contro l’ambiente – quando Andrew deve improvvisare un intervento chirurgico di amputazione di un braccio nel profondo di una caverna in cui tutto rischia di crollare da un momento all’altro (pp. 153-157).
E c’è conflitto persino quando Cristina vuole comunicare ad Andrew di essere incinta, ma per un motivo o per un altro non ci riesce, se non a fine della giornata (p. 167).
Semine e raccolti
Di là delle questione nominalistiche e definitorie, a prescindere cioè dall’uso di etichette utili per parlare più rapidamente, serve richiamare e mantenere presente il concetto di base, in tutta la sua estensione e fluidità: una storia è come una sistema fisico-chimico, a ogni azione corrispondono reazioni e retro-azioni, cosicché la narrazione procede secondo precisi nessi di causa (le semine) ed effetto (i raccolti) e tutto ciò che accade in una determinata scena deve trovare la sua giustificazione in ciò che è accaduto nelle scene precedenti e alzare la palla o fare da sponda a ciò che accadrà nelle scene successive. Non puoi raccogliere, se non hai seminato, per dirlo con uno slogan che riprende le definizioni standard.
È però fondamentale che “semine” e “raccolti” non siano aggiunte posticce a una scena prefabbricata, ma costituiscano gli elementi generativi dell’intera narrazione: si potrebbe dire – volendo estremizzare – che ogni scena deve essere al tempo stesso, in linea di principio, un’unica immensa semina per le scene successive e un unico immenso raccolto delle scene precedenti.
La cittadella ne è un esempio eccellente.
Tutti gli eventi sono concatenati, legati, interconnessi, ogni “semina” genera il suo “raccolto” che diventa una nuova “semina” per il “raccolto” successivo, giocando di fino sui tempi con cui ogni “semina” dà luogo al corrispondente “raccolto”.
Ti invito a rileggere il romanzo prestando attenzione alla consecutio degli accadimenti, per apprezzarne ancor di più la sua bellezza, e imparare l’arte di dare un ritmo alla storia.
Qui mi limito a offrirti un esempio introduttivo, che ti sia da guida nelle analisi che vorrai condurre in autonomia.
La “Prima Parte” del romanzo va da pagina 7 a pagina 87. Conosciamo Andrew mentre si sta recando entusiasta a Bringower per il suo primo incarico lavorativo, e lo vediamo alla fine licenziarsi in preda allo sdegno.
Cosa è successo da pagina 7 a pagina 87? Come si è arrivati a quella conclusione (a quel “raccolto”)? Quali sono gli eventi (le “semine”) che lo giustificano?
Ricostruiamo il primo tratto di storia a grandi linee.
Pronti, su, via, Andrew riceve un’accoglienza gelida da parte di Mrs Page, da ogni punto di vista, sia professionale che umano.
La moglie del dottore precisa subito la posizione di subalterno di Andrew e lo invita a rimanere sempre al suo posto, a eseguire le consegne, a non prendere iniziative: “tutto quel che dovete fare voi è di tenere a mente che lavorate per mio marito, e per vostro conto, questo è l’essenziale; se lo tenete a mente, son certa che s’andrà benissimo d’accordo io e voi” (p. 12).
E il trattamento che gli riserva sul piano personale è altrettanto distaccato. Alla prima cena insieme gli fa servire “un osso di pollo freddo, scarsamente munito di polpa”, quando lei consuma invece “una bistecca calda, guarnita di cipolline, e un quartuccio di birra”, col pretesto che è “un poco anemica” (p. 11). Non solo il vitto, ma anche l’alloggio è ai minimi termini: “Non fu la durezza del materasso, bensì la crescente ansietà al riguardo della sua prima cliente che impedì a Manson di riposare” (p. 17). E persino la richiesta di una mezza giornata di riposo diventa una gentile concessione.
Entrò in casa pieno di burbanza. “Sentite, Mrs Page, conformemente alla mia interpretazione delle Norme di Servizio Interno per gli Assistenti Medici Proletari, io ho diritto ad una mezza giornata di libertà all‘anno. Desidero e intendo avvalermene sabato venturo. Vado a Cardiff.”
“Nientemeno, dottore!” Arricciò il naso alla sua richiesta, rilevando tra sé che il suo tono era stato arrogante; lo scrutò con diffidenza, ma poi dichiarò, con un broncetto d’indulgenza: “Oh, be’, credo che possiamo concedervi un permesso.” E, ad un subitaneo pensiero piacevole, allo scopo di indennizzarsi della propria liberalità, fece schioccare le labbra e aggiunse: “A condizione però che mi portiate da Cardiff una scatola di dolci di Parry, siamo intesi?” (p. 57).
E infine – fatto determinante – Mrs Page è avida, insopportabilmente avida, come si era intuito dal principio e come dimostra inequivocabilmente – a prova di scemo – la scena dedicata al pagamento del primo stipendio di Andrew (pp. 23-25).
È stato settato un ambiente in cui nessuno avrebbe piacere a restare, da cui tutti vorrebbero andarsene, avendone l’opportunità.
Ma il nostro Andrew è troppo preoccupato di far bene il proprio lavoro, di imparare la pratica medica sul campo, dopo aver studiato tanto, per star lì a rimuginare su cose sì fastidiose, ma irrilevanti rispetto all’importanza degli obiettivi a cui ambisce.
Una quindicina di giorni più tardi, Joe Morgan venne a vederlo nell’ambulatorio. Il suo modo di fare era portentosamente solenne. Dopo un lungo ed astruso fervorino, perdette la pazienza e sbottò: “Al diavolo le parole, dottore, io non sono un oratore. Ma vogliamo dirvi che non c’è denaro che possa ripagarvi di tutto quello che avete fatto per noi. Tuttavia, ad ogni modo, io e mia moglie vi preghiamo di accettare da noi questo piccolo regalo.” E con un impulsivo gesto balordo gli cacciò un foglietto di carta tra le mani.
Era un assegno di cinque ghinee, che Manson stette, pensieroso, a contemplare qualche secondo. I Morgan, pur considerati come una coppia temperante ed ordinata, eran ben lungi dall‘essere agiati. Questa somma, alla vigilia del loro espatrio, con le ingenti spese da fronteggiare, rappresentava senza fallo un grave sacrificio da parte loro; una nobile generosità. Commosso, Manson disse: “Non posso accettarlo, Joe.”
“Dovete, dottore, dovete!” insisté Joe, con gravità, richiudendo la sua mano su quella del medico, “se no ci offendete mortalmente. È un dono che facciamo personalmente a voi; non è per il dottor Page. È da anni che Page percepisce le mie quote, e non l’ho mai disturbato una volta. Page è molto ben pagato. Questo è un regalo esclusivo per voi, mi capite?”
“Sì, Joe, ho capito,” disse Manson, sorridendo (pp. 69-70).
Andrew accetta l’assegno con un imbarazzo evidente, più per timore che un rifiuto sia interpretato come una mancanza di rispetto, e comunque senza nessun retro-pensiero venale. Tant’è che non lo mette subito all’incasso, ma se ne ricorda solo qualche giorno dopo, incidentalmente, nel passare davanti alla banca.
E qui gli eventi precipitano: il banchiere informa Mrs Page che il dottor Manson ha aperto un conto personale, versando una somma inusuale per un semplice assistente (e Cronin si è premurato di farci sapere – a p. 32 – che Mrs Page e il banchiere sono in rapporti stretti, così da giustificare la confidenza di un’informazione riservata); Mrs Page – avida e malfidata com’è – lo interpreta come un furto ai danni di suo marito (e di fatto a suo danno) e non si fa problemi a esternare malamente il suo pensiero ad Andrew (“Vi credete un dio. Arrivate fra noi e v’immaginate di potervi beccare la clientela del vostro principale invece di servirlo fedelmente. Ora vi siete smascherato. Non siete che un ladro, nient’altro che un ladro!”, p. 77).
Andrew era passato sopra a piccoli e grandi soprusi, ma ora la situazione è qualitativamente diversa; viene accusato di essere un ladro, anzi “nient’altro che un ladro”; viene messa in discussione la sua onestà, la sua integrità morale, la correttezza del suo operato; viene mortificata e degradata la sua persona in tutta la sua interezza, e tutto questo – per Andrew e per noi lettori che ne abbiamo preso le parti, che abbiamo empatizzato con lui – non è più tollerabile.
Il licenziamento condurrà Andrew in un altro luogo, alle prese con altri personaggi, altre situazioni, altri conflitti; e la storia andrà avanti, proseguirà secondo la sua direttrice.
E ora – nel riesaminare con rinnovata consapevolezza la dinamica degli eventi – osserva come tutto è perfettamente incastrato per condurre a quel preciso sbocco (il licenziamento di Andrew): ogni azione genera una o più conseguenze massimamente coerenti con essa (è ovvio che una coppia matura, alla loro prima, insperata gravidanza, si affidi a chi ha dimostrato di essere il miglior medico su piazza; così come è ovvio offrire una somma di denaro di una certa rilevanza, anche se non si è agiati, al medico che ha riportato in vita quello che è e rimarrà il loro unico figlio) e ogni conseguenza diventa a sua volta la causa di un altro evento (è ovvio depositare una somma di denaro in banca) che a sua volta ne provoca altri (il banchiere che fa “la spia” a Mrs Page, che rimane pur sempre la moglie di colui che sulla carta è ancora il medico più autorevole del paese) e tutti perfettamente congruenti con l’ambientazione e i personaggi.
Tutto accade per una ragione, tutto ha uno scopo, tutto è – al tempo stesso – l’effetto di una causa precedente e la causa di un evento successivo, tutti gli eventi si puntellano e si sostengono a vicenda.
Cristina
Chi ha il fetish delle categorizzazioni, e ama quindi ricorrere agli archetipi narrativi, lo definirebbe probabilmente “il mentore” (di Andrew).
A me piace essere più diretto, preciso ed efficace, per non cadere nell’uso gratuito di etichette, che spesso creano più problemi di quelli che risolvono.
Cristina è la personificazione della parte migliore di Andrew: tutto ciò che di buono c’è in Andrew prende corpo, anima e respiro in Cristina, che diventa un personaggio autonomo, indipendente da Andrew, pur rimantenendovi legato.
Cronin lo comunica più volte, in modo esplicito.
Sebbene Cristina ora occupasse più che mai i suoi pensieri, tutto il contesto di questi pensieri aveva cambiato carattere. Non si sentiva più sperso, ma felice, ilare, pieno di speranza. Il cambio di prospettiva si rifletté nel suo lavoro. Era abbastanza giovane da poter creare di sana pianta nella sua fantasia una situazione, costante, nella quale Cristina lo osservava nell’atto di esercitare la sua professione, rilevava la diligenza del suo metodo, lo scrupolo dei suoi esami, lo lodava per la meticolosa accuratezza della sua diagnosi. Quando sentiva la tentazione di sbrigare una visita, di arrivare ad una conclusione senza aver ascultato il petto del paziente, la respingeva pensando: “Dio, no! Cosa penserebbe Cristina se mi vedesse!” […]. Nel suo idealismo collegava Cristina alla propria ambizione, faceva di lei un addizionale incentivo del grande assalto che sferrava contro le posizioni dell’ignoto (p. 49).
Si prometteva di non diventare mai trasandato, mercenario, di non saltare mai a conclusioni affrettate, di non scrivere mai “la ricetta dell’altra volta”. Si proponeva di indagare sempre, di “essere scientifico”, d’essere insomma degno di Cristina” (p. 50).
Cristina esercitava su di lui una benefica influenza stabilizzatrice. Era una donna pratica, supremamente positiva e alla buona, del tutto priva di civetteria. Sovente andava da lei in uno stato di irritazione o di preoccupazione, e ne veniva via calmo e sereno. Sapeva il modo di ascoltare, tranquillamente, attentamente, quello ch’egli aveva da dirle, e di fare poi i suoi pacati commenti, che di solito erano intonati, non solo, ma anche divertenti. Aveva un senso umoristico frizzante. E non lo adulava mai (p. 56).
Lei non rispondeva. Cadde un silenzio, durante il quale egli si trasferì alla finestra, ad ammirare il panorama deserto. Poi si voltò, e aveva un ruga verticale tra i sopraccigli. “Ma perché non potrei, Tina, per qual ragione non potrei studiare queste lingue, solo per poter tentare gli esami?”
Mandando all’aria tutti i suoi arnesi, ella saltò dal letto per gettarglisi nelle braccia. “Era questo che volevo sentirti dire! Qui ti riconosco. Chissà che io non possa aiutarti in questo. Non dimenticare che la tua vecchia è una maestra giubilata.”
Discussero tutta la giornata, abbozzando piani di azione. Sgombrarono il salotto, relegando Trollope, Cechov e Dostoevskij in una delle camere chiuse. E quella sera Andrew andò a scuola da Cristina. Così la sera seguente. E le successive (p. 144).
Cristina era in salotto. La vista della sua pallida faccia statuaria gli diede un gran brivido. Oh, come avrebbe voluto sentirsi domandare, con l’antica sollecitudine, come avesse trascorse le ore lontano da lei! Ma Cristina disse soltanto, con quella sua voce uguale, priva di tono: “Hai avuto una giornata lunga. Vuoi una tazza di tè prima dell’ambulatorio?”
Andrew rispose. “Niente ambulatorio stasera.”
Cristina lo guardò. “Ma è sabato, il giorno di massima frequenza.”
Per tutta risposta egli scrisse su un foglio di carta: Oggi l’ambulatorio è chiuso, e andò ad affiggerlo all’esterno della porta. Adesso il suo cuore pulsava così forte che pareva volesse scoppiare. Quando tornò, trovò Cristina più pallida di prima, gli occhi pieni di apprensione, e si sentì domandare, con una voce sorda: “Cos’è successo?”
Allora, roso da un’angoscia inesprimibile, Andrew proruppe in un grido: “Cristina!”. Tutto quello che aveva da dire era contenuto in quell’unico nome. Poi piangendo si gettò in ginocchio ai suoi piedi (p. 319).
Se non ci fosse stata Cristina, se la parte migliore di Andrew non fosse stata clonata in un personaggio a sé stante, acquisendo una sua autonomia e indipendenza dal personaggio da cui proviene, allora sarebbe stato impossibile per Andrew trarsi in salvo, riacquistare la necessaria lucidità per reindirizzare correttamente in suo processo di cambiamento. Perché il rumore del mondo è destinato a prevalere, quando la parte migliore di noi rimane sepolta dentro di noi, quando non ne abbiamo una percezione materiale, tangibile, quando non possiamo né vederla né toccarla, ma ne avvertiamo a malapena un eco sempre più flebile. È sin troppo facile tacitare quella vocina che ci sussurra di fare la cosa giusta, fintantoché il tutto rimane a livello di fraseggio interiore.
E invece Cristina c’è: è un personaggio in carne e ossa, di cui Andrew può vedere (sperimentare) la gioia e il dolore, il sorriso e il pianto, la tenerezza e l’indifferenza, il calore e la freddezza; Cristina è un termometro preciso della situazione, che impedisce di auto-convincersi che le cose stiano andando tutto sommato bene, quando in realtà stanno precipitando; sono il viso di Cristina, i suoi occhi, il tono della sua voce, le sue parole, i suoi gesti e i suoi atteggiamenti a dirti inequivocabilmente come stanno le cose; e quel viso, quegli occhi, quella voce, quelle parole, quei gesti, quegli atteggiamenti non puoi controllarli a tuo piacimento, accomodarli o mistificarli, ma solo registrali; puoi rifiutarli, respingerli o sforzarti di ignorarli – come Andrew fa per gran parte del tempo (da p. 211 a p. 319) – ma non puoi soggiogarli, non puoi assoggettarli ai tuoi sofismi, perché si tratta di cose che stanno fuori da te, eppure a te legate come l’immagine di uno specchio a chi ci si riflette.
Per la prima volta da varie settimane, la guardò effettivamente in faccia mentr’ella con gli occhi bassi esaminava l’elenco che aveva in mano. Malgrado l’ottusità dei propri sensi fu colpito dal cambiamento che notò in lei. Aveva un’espressione calma, stereotipata; gli angoli della bocca accennavano all’ingiù. Nei suoi occhi era una mestizia di morte.
Seduto alla scrivania dinanzi al libro mastro, sentì in un fianco una fitta acuta che lo spingeva a parlare. Ma non ne ebbe il tempo. Cristina aveva preso a leggere l’elenco.
Egli veniva trascrivendo sul mastro i dati man mano che Cristina li enunciava, segnando una croce per le visite, un circoletto per le consultazioni, tirando le somme delle sue iniquità. Quando Cristina ebbe finito, egli osservò, con una voce che suonò ironica solo ai suoi propri orecchi: “Be’, vediamo quanto quest’oggi.” Ma non si sentì la forza di calcolare il totale. Cristina uscì. La udì salire in camera, richiudere piano la porta. Era solo. Dove vado? in nome di Dio, dove vado? D’un tratto il suo sguardo cadde sulla borsa di tabacco piena zeppa di monete. Con mossa isterica la prese e la scaraventò in un angolo. Cadde con un tonfo sordo. Poi si alzò. Sentiva mancargli il respiro. Uscì nel cortile; fondo pozzo di tenebra sotto le stelle. S’appoggiò vacillando al muro e prese a vomitare (pp. 311-312).
Perché – vedi – soltanto i fatti contano, e soltanto i fatti debbono contare. Perché noi siamo quel che facciamo, per dirlo con Leonardo Sciascia: le intenzioni (specialmente se buone) e i rimorsi (specialmente se giusti) ognuno dentro di sé può giocarseli come vuole (fino alla disintegrazione, alla follia) ma un fatto è un fatto, e non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario.
Cristina è lì a richiamare costantemente i fatti ad Andrew, e quando Cronin ci dice che “la loro riconciliazione fu il più mirabile evento che fosse loro capitato dal giorno che s’erano innamorati” (p. 315) sta in pratica glorificando il ricongiungimento di Andrew con la parte migliore di sé, nella consapevolezza che tutto il male compiuto non è comunque stato inutile, perché era per quel male che si doveva passare per rendere il legame indissolubile.
Ma lui non aveva pace. “Come ho potuto arrivare fino a questo passo?” gemeva, senza posa. “Ero matto, Tina, o che cos’è stato? Non riesco a capire. Io mettermi con quella mafia, dopo aver conosciuto Danny e Hope! Meriterei la forca.”
Cristina cercava di consolarlo. “Tutto è accaduto con tanta precipitazione, caro. Chiunque sarebbe stato travolto.”
“No, ma sul serio, Tina! Mi pare d’impazzire, a ripensarci. E quanto devi aver sofferto tu! Meriterei la tortura prima della forca.”
Cristina sorrise, sorrise effettivamente. Era una meraviglia, per Andrew, rivedere la sua faccia spoglia di quella glaciale indifferenza che da tanto tempo simulava: tenera, contenta, sollecita di lui. Pensò: siamo vivi di nuovo (p. 315).
Mettiamola in negativo: Cristina non sta lì soltanto per aggiungere una sotto-trama romantica alla storia, per soddisfare i lettori che si aspettano di trovarla (e ci restano male se non c’è) anche se poi la sotto-trama romantica non gioca alcun ruolo nel processo di trasformazione del personaggio.
Cristina è il cuore della storia: se togli Cristina – se privi la storia dell’amore tra Andrew e Cristina – non c’è più nessuna storia da raccontare.
Cristina è cruciale per lo sviluppo della storia, ma anche lei deve rispettare la regola a cui sono assoggettati tutti i personaggi diversi dal protagonista: sparire, uscire di scena, quando non servono più.
Una volta che Andrew ha ritrovato sé stesso – e abbiamo certezza che non si smarrirà più – il personaggio di Cristina ha assolto il suo compito e va congedato.
E il congedo avviene nel modo più traumatico – con la morte – un po’ perché non c’è alternativa, e un po’ perché così si aggiunge drammaticità (con una ulteriore sofferenza ingiusta per il personaggio) e si creano i presupposti per miscelare – nel finale – aspetti positivi e negativi, com’è tipico delle grandi storie.
È un’incidente – viene investita da un tram (pp. 334-335) – e gli incidenti si presentano sempre come eventi casuali, sfortunati, laddove noi sappiamo che il caso, l’alea e la (s)fortuna hanno un ruolo marginale in ogni storia ben fatta.
E infatti Cronin si premura di creare tutte le condizioni per attutire l’effetto del puro caso: è sera, è tardi, i negozi stanno per chiudere, e Cristina deve sbrigarsi se vuole trovarne uno ancora aperto per compare il formaggio che piace tanto ad Andrew; e poi la vediamo mortificata, agitata e frettolosa.
Gli sottrasse il piatto prima che potesse servirsi. “Son qui a far la sentimentale, invece di pensare a te, digiuno e affamato. Bella moglie d’un lavoratore!” Diede un’occhiata alla pendola. “Ho giusto il tempo di arrivare da Frau Schmidt prima che chiuda.”
“No, Tina, lascia andare. Non voglio.”
“Sì, sì, tu sta’ zitto. Voglio io. Il Liptauer ti piace, tu piaci a me, dunque vado a prendertelo.” E fu fuori dalla stanza prima che lui potesse protestare di nuovo.
Andrew seguì con l’orecchio i suoi passetti frettolosi nell’anticamera, la udì richiudere la porta di strada.
Tutta la scena – nella sua semplicità – comunica rapidità, azione serrata, fretta: c’è un confitto tra gli stessi coniugi (con Andrew che minimizza la situazione e Cristina che la enfatizza) e c’è un conflitto contro il tempo (arrivare da Frau Schmidt prima che chiuda, per comprare il formaggio Liptauer che tanto piace ad Andrew); quindi bisogna sbrigarsi fare in fretta, e ci sta – ci può ben stare – che nella corsa verso il negozio si finisca vittime di un incidente, date le premesse.
La scena più bella
Gli infodump oggi sono il marchio del dilatante; dichiarare gli stati di animo, con espressioni del tipo “un’angoscia inesprimibile” (p. 319) oggi fa storcere la bocca a qualunque lettore evolutosi sopra il livello di uno scimpanzé; annunciare una battuta di dialogo, o usare dialogue tag come “disse” e “rispose”, sono scelte che oggi denunciano un ritardo grave nella propria scrittura; e si potrebbe andare avanti così, senza mai incontrare un punto fermo.
Tutto vero. Oggi. Ma all’epoca in cui Cronin scriveva La cittadella, ormai quasi un secolo fa, i riferimenti tecnici erano diversi, e non si può giudicare la scrittura di allora con il metro di ora, non ha senso applicare un determinato set di parametri valutativi (che beneficia di tutti i progressi intervenuti nel frattempo)) ad un testo scritto seguendo altre impostazioni (quando quei parametri non erano noti).
Qualunque critica alla scrittura di Cronin – che prenda a riferimento gli insegnamenti del blog – dimostra solo la scarsa intelligenza di chi la formula.
La prospettiva andrebbe piuttosto ribaltata: sebbene Cronin non sapesse nulla della scrittura dei mattoncini, e dell’armamentario di tecnicismi che la correda, la sua sensibilità artistica lo portava a concepire numerose scene che l’approssimavano in modo spesso soddisfacente.
Quel che per te – aspirante autore del 2023 – è un corpo teorico strutturato e ben definito, per lui – per Cronin, autore del 1937 – erano intuizioni più o meno precise, più o meno fondate e ragionevoli, da tradurre al meglio sulla pagina, secondo la sensibilità e i canoni dell’epoca.
Se dovessi esibire una scena – una sola – a testimoniare l’abilità di Cronin nel dare concretezza al suo sesto senso, non avrei dubbi nell’indicare il pranzo al Plaza (pp. 282-284).
È anzitutto una scena di straordinario impatto emotivo, se viene colto il messaggio del sotto-testo: è il momento in cui la parte peggiore di Andrew (interpretata da Andrew stesso) tenta di prendere il sopravvento sulla sua parte migliore (interpretata da Cristina), il momento in cui Andrew vuol convincere Cristina che entrambi stanno vivendo in un mondo da favola, oltre ogni più scintillante aspettativa, e che tutto andrà ancor più alla grande, se solo lei, Cristina, avrà fiducia in lui.
Cristina impallidisce, le dita le tremano e si accanisce con lo spago: è tutto perfettamente visualizzabile, simulabile senza sforzo nella mente del lettore, e l’esclamazione successiva (“Che bellezza!”) è la sintesi mirabile in cui culminano i gesti e le sensazioni precedenti.
La descrizione del contenuto della scatola è precisa, chiara; va da sé che l’avverbio “squisitamente” è superfluo, ché la forma dell’oggetto viene già restituita dagli altri dettagli (“volpi argentate perfette, foggiate in modo da sembrare una pelle sola”).
L’ordinazione è un altro colpo da maestro. Per Cristina – di cui si avverte già l’insofferenza – un cibo vale l’altro, anche se chiaramente non può dirlo. Delega la scelta a Andrew, ed Andrew per tutta risposta ordina i piatti più costosi, non perché li gradisca davvero, ma per il solo fatto che sono costosi, come traspare da ciò che dice dopo (“Non ce ne intendevamo di questa roba, a Blaenelly, eh?”).
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