Modulo 23B – I ATTO

 
Il Primo Atto – paradossalmente – è il più semplice e il più complicato da realizzare.

È il più semplice, perché è massimamente guidato, come puoi intuire dalla quantità di punti nodali presenti nel tratto iniziale dell’arco: sbagliare il Primo Atto è impossibile, o se preferisci, ti ci devi mettere di impegno per commettere degli errori.

Ma il Primo Atto è anche il più complicato: visto che tutti, proprio tutti, sanno scrivere un buon Primo Atto, tu non puoi limitarti a eseguire il compitino; sarebbe come presentarsi a un esame universitario tra i più semplici, con la prospettiva di strappare un 18; e noi, qui, vogliamo almeno un 28, se non direttamente un 30 e lode.

Ti rinnovo quindi l’invito a preservare la percezione della complessità delle cose, a non ridurre i concetti a frasette o paroline – anche quando sarò obbligato a esprimerli con frasette e paroline, per esigenze di sintesi – a tenere sempre presenti le sfumature e le interconnessioni.

In tre parole: non essere pigro.
 
O quanto meno non essere pigro adesso, nel Primo Atto. Se proprio vuoi cedere alla pigrizia, fallo nel Terzo Atto, quando ormai il lettore è arrivato alla fine e la storia la concluderà comunque (per poi magari rammaricarsi del finale: “peccato: era iniziata alla grande e si è sciupata alla fine). Ma se la storia suona meh già all’inizio, allora è finita: perché il lettore tiepido ti abbandonerà.
 
Fai in modo che almeno l’inizio sia spettacolare, perché il controllo che avrai sull’inizio non lo ritroverai più nel seguito dell’arco. Vorrà dire  – alle brutte  –  che il lettore amerà l’inizio e non il finale (per sua natura più aleatorio, in dipendenza di ciò che è accaduto lungo l’arco). Pazienza. Succede in tante cose della vita, in fondo.
 

Ti proporrò quanti più esempi possibili e ne inventerò bell’apposta a seconda del concetto da spiegare.
 
Preferisco un percorso variegato a uno più lineare che usa un solo esempio da sviluppare lungo tutta la spiegazione, perché l’unicità dell’esempio di riferimento significherebbe creare un’intera storia da zero, il che sarebbe disfunzionale rispetto alla finalità didattica.
 
Le analisi delle singole storie le troverai all’interno del modulo 24.
 

Status quo ed empatia

La presentazione dello status quo del film Million dollar baby, proposta da Wikipedia:
“Los Angeles, primi anni 2000. Frankie Dunn è un anziano manager di boxe
che ha passato tutta la vita in una vecchia palestra di periferia, satura di odori acri e permanenti,
prima come pugile e poi come allenatore e manager.
Per colpa del carattere chiuso e scorbutico, indurito da una vita difficile,
ha come unico amico Scrap, un ex pugile nero, rimasto cieco ad un occhio per un pugno sul ring
durante un incontro che Frankie avrebbe potuto interrompere.
Scrap gestisce con Frankie la palestra,
occupandosi anche dei lavori più umili, come la pulizia dei bagni.
Frankie coltiva una singolare passione per la lingua gaelica,
che cerca di imparare leggendo William Butler Yeats,
e ha un difficile rapporto con la religione:
da anni si reca giornalmente a messa
e continua ad assillare il reverendo Horvak coi suoi dubbi sulla fede.
Frankie spera che la fede e Dio lo aiutino a recuperare il rapporto con la sua unica figlia, Kathy,
che lo ha ripudiato molti anni prima.
Lui non si perdona di aver interrotto e, forse, perduto per sempre il legame con la figlia,
alla quale scrive da anni varie volte alla settimana lettere
che puntualmente ritornano per posta indietro, senza che vengano aperte”.

Il tratto iniziale dall’arco (dal punto di avvio sino all’incidente scatenante) è lo status quo.

La parola latina status quo significa ciò che era prima. Prima di cosa? Prima che inizi la storia vera e propria, ovvio: senza la conoscenza del prima non si può capire il senso di ciò che è successo dopo.
 
Lo status quo è anche chiamato situazione di normalità, e sfruttiamo l’occasione per familiarizzare con un concetto generale che tornerà di continuo: la normalità – e non solo la normalità – è sempre relativa al personaggio.

 
Per una ragazzina di sedici anni sarà normale andare a scuola, uscire con le amiche, avere una tresca con un ragazzino come lei, vivere dei conflitti con i genitori (tutte situazioni standard, stabili nel tempo e nello spazio, a cui poi andranno aggiunti i dettagli specifici del periodo storico di riferimento, perché la normalità di una sedicenne del 2023 non è la normalità di una sedicenne del 1980).

Per un uomo tra i trenta e i quarant’anni, sposato, con dei figli piccoli, sarà normale andare in ufficio durante la settimana lavorativa, giocare a calcetto con gli amici il giovedì sera, lasciare qualche volta i figli dalla madre per uscire un sabato sera con la moglie, andare con tutta la famiglia al cinema la domenica pomeriggio.

Per Rocco Siffredi sarà normale passare la giornata sul set di un film porno (è così normale che Rocco Siffredi afferma di non aver mai concepito nessun altro lavoro, perché “non riuscirei mai ad alzarmi la mattina, se dovessi fare qualcosa di diverso da quello che faccio”).

Per un calciatore professionista sarà normale trascorrere le giornate al campo di allenamento, trovarsi la domenica in uno stadio che ora lo incita (quando la sua squadra gioca in casa) e ora la insulta (quando gioca fuori), presentarsi in sala-stampa per rispondere alle domande di giornalisti, e guadagnare svariati milioni di euro l’anno.

Ogni personaggio ha la sua normalità.

Non vi è dubbio che, se viste da fuori, alcune “normalità” appariranno “più speciali” di altre, ma – attenzione! – tu non vuoi, non devi, vedere la vita da fuori il personaggio: tu sei il protagonista, quella è la tua vita, che per definizione vivi dal di dentro e non osservi certo dall’esterno, e nella tua normalità non c’è proprio nulla di speciale.
 
Ognuno considera normale la situazione in cui si trova, e valuta il mondo da quella posizione di normalità, qualunque essa sia.
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.

Le parole di Mariangela Tarì esprimono il concetto come meglio non si potrebbe, nel loro apparente cortocircuito.

Mariangela parla di persone “baciate dalla normalità”, ma di regola si parla di persone “baciate dalla fortuna”, e quella “normalità” va perciò vista in controluce, attraverso la lente della buona sorte. La frase corretta sarebbe “baciate dalla fortuna di essere normali”.

Ma in cosa consiste questa “fortuna”? All’atto pratico, nell’aver sorteggiato una palla bianca da un’urna che conteneva 9.999 palle bianche e 1 nera. E dove mai sarebbe la fortuna, il “gran culo”? È successo semplicemente quel che tutti si aspettavano che accadesse: è uscita una palla bianca.

Solo che lei, Mariangela, ha sorteggiato l’unica palla nera – la figlia con la sindrome di Rett, 1 caso su 10.000 nascite – e quella palla nera è diventata la sua normalità, rispetto alla quale la normalità delle 9.999 palle bianche appare un gran culo.

Ti è chiaro il concetto? Quando sei dentro il personaggio, quando ti sei davvero calato dentro di lui, la normalità non ha mai nulla di speciale.
 
Non hai capito, vero? Proviamo così.


Quindicimila euro al mese, divisi per tre figli tra i 10 e i 18 anni, fanno cinquemila euro mensili per il “mantenimento” di ciascuno di loro.

E ora, dimmi, quanti ragazzi per vivere decentemente hanno bisogno di cinquemila euro al mese? Cinquemila euro – in una famiglia cosiddetta “normale” – a volte non si raggiungono nemmeno sommando gli stipendi di papà e mamma per più mesi consecutivi, e con quel denaro deve viverci tutta la famiglia, non un ragazzino solo.

Cinquemila euro al mese è probabile che la più parte delle persone non li vedrà mai, neanche dopo lauree, master, dottorati, specializzazioni, due lingue straniere parlate fluentemente ed eccellenti competenze informatiche. E però cinquemila euro al mese a marmocchio non bastano per “mantenerlo”, per assicurargli una vita “normale”.
 
Perché la normalità – appunto – dipende dal personaggio: cosa è normale, e cosa no, è funzione della prospettiva da cui si osservano le cose.

Se ancora non hai capito, se vedi in questa linea d’argomentazione solo un blocco di sofismi, allora abbiamo un problema: torna al modulo 0 e ripeti il corso daccapo.
 
E quando ritornerai qui, se ancora non sei convinto, la procedura rimane la stessa: tornare al modulo 0 e ripetere tutto di nuovo, fin quando non ti sembrerà ovvio che la normalità dipende dal personaggio.
 
È normale trascorrere 8 ore al giorno a fare un lavoro che si detesta?
E quale stipendio sarebbe normale per considerare normale sopportarlo?
È normale provare sentimenti per una persona dello stesso sesso?
O per un bambino? O per un animale?
Ed è normale desiderare di fare sesso con un bambino o un animale?
E normale andare in ferie 15 giorni allanno, tutti nello stesso periodo?
È normale rifarsi il seno, le labbra, allungarsi il pene, tatuarsi, bucarsi con il piercing?
È normale viaggiare fino all’altra parte del mondo?
È normale comprare dei pezzi di animali morti conservati in un frigorifero al supermercato?
È normale trascorrere delle ore attaccati al proprio i-Phone?
È normale fare star buono il bambino al ristorante mettendogli davanti un videogioco?
È normale accalcarsi alle porte di un centro commerciale  per approfittare del Black Friday?
È normale arrabbiarsi quando si è in auto, in coda,
in compagnia di centinaia di altri automobilisti che fanno la stessa cosa che fai tu,
e che si arrabbiano con te solo perché esisti?
È normale fare migliaia di chilometri per andare a pregare una statua ritenuta sacra?
O per andare a vedere dei quadri esposti in un museo?
È normale alzarsi presto per andare a correre o a pedalare?
È normale piangere mentre si guarda un film?
È normale tirare dritto davanti al barbone che ti chiede una moneta?
È normale litigare sui social con degli sconosciuti?
È normale voler avere sempre lultima parola?
È normale eccitarsi guardando un film porno?
È normale considerare normale la guerra?
È normale venir meno alla parola data?
È normale…
 
 
 
… è normale tutta questa fatica e tutto questo lavoro di squadra,
per una colazione che si riduce a qualche goccia di uovo?
Sì, per la famiglia Croods è normale, anzi normalissimo.

“Normale” non è un giudizio di valore su una data situazione.

“Normale” è la constatazione di un dato di fatto.

“Normale” è tutto ci che non sorprendere il personaggio, che non lo meraviglia, che non gli suscita nessuna sensazione inusuale perché già se lo attende, perché si aspetta che accada.
 
Proprio per ciò – per la mancanza di sorpresa, di meraviglia – la normalità ha un problema: rischia di essere noiosa.

Sì, d’accordo, lo abbiamo già detto: alcune “normalità”, vista da fuori, ci sembrano tutt’altro che noiose, ma è proprio questo errore di prospettiva – vederle da fuori – a conferirgli una dimensione speciale che in realtà non possiedono.

Quando le cose le guardi da dentro il personaggio – come devi fare, se vuoi scrivere bene – la normalità ti apparirà… normale, quindi noiosa, qualunque essa sia.

Estratto da “Tentativi, scacchi, fallimenti”, prefazione di Paolo di Paolo,
al volume Per scrivere bene imparate e nuotare.
 
Il tuo caterpillar – per abbattere il muro della noia, nello status quo – si chiama empatia.
 
Devi creare empatia verso il personaggio, e lo devi fare per almeno due ragioni.
 
Primo, perché nello status quo, non essendoci nulla di straordinario, hai solo l’empatia a tenere il lettore incollato alla pagina.
 
Secondo, perché non importa quanto fantastica-super-fantastica sia la tua storia, se prima non crei la dimensione che mi fa vivere con te l’avventura che c’è dentro di me, per cantarlo con Heather Parisi.


L’empatia è la capacità di porsi in modo immediato nello stato d’animo dell’altro,
senza nessun filtro critico, senza alcun giudizio preliminare,
semplicemente capendo la situazione e accettandola per com’è.
Poche chiacchiere e zero stronzate, quando parliamo di empatia.
Io sono da sempre un tifoso della Roma, lo sono ancora,
e posso dire di essere stato, per almeno quarant’anni, un’ultrà giallorosso.
Per molto tempo mi sono definito “un romano nato a Catania”,
e le domeniche passate in Curva Sud, nei miei dieci anni di abbonamento,
le ricordo ancora con una dolcezza, una felicità e una malinconia infinite,
anche se erano anni calcisticamente bui, deludenti, senza significati.
Per cantarlo con Marco Conidi,
cosa sei per me, spiegarlo non è facile,
una parola sola, tu sei la Roma.
Sei il primo gioco che facevo da bambino,
e che ci gioco ancora, tu sei la Roma.
Ricordo che quandero ragazzino
e dare calci alle paure.
Ci sono stati giorni amari che
cavevo solamente te e poco altro per star bene.
Ceri tu e qualche amico in più,
quante volte in un tuo abbraccio
ho preso coraggio!♬
Io sono romanista, e di conseguenza odio la Lazio.
Non mi basta vedere la Roma vincere. Voglio pure vedere la Lazio perdere.
Ma c’è una squadra che odio più della Lazio, o forse è l’unica che odio davvero
(perché verso la Lazio, alla fine, provo solo un’esasperata rivalità campanilistica).
L’odio vero lo provo verso la Juventus, perché la Juventus non è solo una squadra di calcio:
la Juventus è la trasfigurazione calcistica del Male, la concretizzazione di tutto ciò che è sbagliato.
Tutte le volte che mi ricordo che la Juventus detiene il record di finali perse di Champions League,
è come se l’Universo tenesse vivo in me un messaggio di speranza:
il Male potrà pure fare parecchia strada, ma non riuscirà mai ad arrivare sino in fondo.
E il mondo, allora, mi sembra un posto migliore.
Questo sono io, nella mia prospettiva di vecchio ultrà della Roma.
Eppure io riesco a empatizzarre col dolore e la fierezza della ragazza juventina
che tra le lacrime distende la sciarpa col nome della sua squadra, del suo amore,
a pochi minuti dalla conclusione dell’ennesima finale di Champions League andata a puttane.
Empatizzo con lei, senza filtro, senza il giudizio su cosa sia la Juve per me,
perché quel gesto – alzare e distendere la sciarpa  l’ho compiuto anch’io decine di volte,
e conosco bene quell’orgoglio che si fa strada tra la rabbia:
♫thirty years of hurt, never stoppped me dreaming♬, come cantano i The Lightning Seeds.
Questa ragazza non mi sta simpatica, proprio per nulla, e però empatizzo con lei,
perché la capisco nel profondo e non giudico la sua squadra. 
Se io rinuncio a me stesso, alla mia esteriorità, fosse solo per un attimo,
se dimentico tutte le volte che ho alzato il dito medio
cantando juventino ciuccia-piselli di tutta quanta la famiglia Agnelli,
e trattengo l’unica cosa che devo trattenere e che ha senso trattenere,
– e cioè il mio “essere tifoso” spogliato dai colori di appartenenza,
lo stato d’animo dell’essere tifoso senza riferimento a una squadra specifica 
allora, a tutti gli effetti, io sono quella ragazza, io sono lì con lei,
a distendere la sua sciarpa, a piangere le sue lacrime, a urlare il suo dolore.
Questo è ciò che ti è richiesto in generale per empatizzare:
devi spogliarti di te stesso, metterti a nudo.
Rinuncia a tutto ciò che sta in superfice (l’equivalente di essere un ultrà della Roma”)
e trattieni il nucleo comune a tutti gli esseri umani (l’equivalente “dell’essere tifoso”).
E se non sei in grado di farlo in quell’ambiente protetto che è il mondo della pagina,
come puoi dare a intendere di essere una persona comprensiva e tollerante nel mondo reale?
 
Non c’è un unico segreto per creare l’empatia, ma molti” – osserva Will Storr – “Le storie operano su svariati sistemi cerebrali evoluti e un bravo narratore saprà attivare tali reti proprio come un direttore d’orchestra: un piccolo acuto di oltraggio morale qui, una fanfara di status là, un tintinnio d’identificazione tribale, un rullo di minaccioso antagonismo, uno squillo di genio, il suono distorto della pulsione sessuale, un crescendo di ingiusta sventura, il dissonante mormorio dell’interrogativo drammatico posto e riproposto in modi sempre nuovi: tutti strumenti grazie ai quali potranno essere attirate e circuite frotte di cervelli”.

Provare empatia – poche chiacchiere e zero stronzate – significa capire perché il personaggio fa quel che fa, dice quel che dice, pensa quel pensa, percepisce quel che percepisce e si comporta come si comporta.

È ovvio – quindi – che solo la storia nel suo complesso potrà condurci pian piano a empatizzare col protagonista, o per dirlo in negativo, che non è possibile creare empatia meccanicamente, dall’esterno della storia.
 
Però si può costruire uno sfondo narrativo che predisponga a empatizzare, che minimizzi la distanza tra il lettore e il protagonista, a prescindere dalle specificità della storia.

E almeno in questo sfondo – nel suo processo di costruzione – non c’è nulla di magico, misterioso, imprevedibile o incontrollabile; lo si costruisce con regole precise, semplici da enunciare ma da attuare con attenzione, perché si tratta pur sempre di alta chirurgia, di cucire lo stato d’animo del lettore con le ragioni del personaggio.
 
Già, il personaggio. Perché l’empatia la si prova verso di lui, verso il personaggio “Punto di Vista”, verso il protagonista; e i modi di costruzione dell’empatia variano al variare della tipologia di protagonista che hai tra le mani.
 
È invalsa la distinzione – a fini didattici – tra personaggi “buoni”, “neutri” e “cattivi”. Non c’è nulla di male nell’esprimersi così – per intendersi al volo e velocizzare la discussione – purché questo modo di esprimersi non falsi le regole del gioco e venga sempre percepito per quel che è: una mera convenzione di linguaggio utile a capirsi rapidamente.
 
Perché – a esprimersi con rigore – i protagonisti “neutri” o “cattivi” non esistono: il protagonista è sempre buono, chiunque esso sia.
  
 
 
Matteo Messina Denaro – il mafioso Matteo Messina Denaro, il capo dei capi di Cosa Nostra – è un cattivo.

Ah, sì? E perché lo definisci “cattivo”? Perché lo stai guardando da fuori, e guardandolo da fuori lo stai giudicando col tuo sistema di valori.

Ma tu non devi scrivere guardando le cose da fuori. Tu devi scrivere dal di dentro del personaggio, percepire il personaggio come lui si percepisce.
 
E – guarda un po’ – lui si percepisce come un buono, per la semplice ragione che tutti noi ci percepiamo buoni, non certo perfetti, questo no, ma buoni sì, o almeno complessivamente buoni. Nessuno – proprio nessuno – vede e definisce sé stesso come un cattivo, perché tutti noi – proprio tutti – abbiamo le nostre buone ragioni per fare quel che facciamo (anche quando può non essere così facile comunicarle agli altri).

Matteo Messina Denaro deve per definizione apparirti buono, se stai scrivendo di lui, e quindi se sei diventato lui e lo misuri non con la tua metrica valoriale ma con la sua.
 
E se tu sei lui – come devi esserlo, se ne stai scrivendo – allora anche tu, come lui, non capirai proprio i motivi per cui tua figlia ce l’ha con te. Perché? Per quale ragione? Cosa hai fatto di male? Sei sempre stato un papà così amorevole e premuroso. Dove mai avresti sbagliato? Proprio non capisci.

Dal Corriere della Sera del 26 settembre 2023: cuore di papà Matteo…

Chiunque sia psicologicamente sano si considererà l’eroe della propria esistenza” – scrive Will Storr – “Persino gli assassini e coloro che compiono atti di violenza in famiglia riescono a trovarsi giustificazioni morali, spesso dichiarando di aver subito provocazioni intollerabili. Uno studio condotto su un campione di detenuti ha evidenziato che anche in questi soggetti la tendenza all’eroicizzazione del sé si mantiene in larga misura intatta. I detenuti si consideravano al di sopra della media in una serie di tratti pro-sociali, tra cui gentilezza e moralità. […]. È proprio la certezza dei personaggi di essere dalla parte del giusto, di essere moralmente superiori, a conferire loro un potere incredibile. I grandi drammi spesso nascono da uno scontro tra narrative eroicizzanti in conflitto, ovvero quella del protagonista, e quella del suo acerrimo nemico. Quelle percezioni morali della realtà appaiono inappuntabili ai rispettivi detentori, eppure sono distruttivamente antinomiche. Ci troviamo di fronte a mondi neurali che finiranno inevitabilmente per affrontare una lotta all’ultimo sangue”.
 
Abbraccia la complessità della vita e sforzati di restituirne il senso nel modo più chiaro possibile. Stai lontano dai bei discorsi, dalle belle parole, dalle frasi a effetto. Sei uno scrittore, un dio creatore, non un Massimo Gramellini qualunque.

“Il caffè” di Massimo Gramellini, 20 gennaio 2023.




Estratto da Il Corriere della Sera del 27 settembre 2023
Aspetto un nuovo “caffè” di Gramellini, per sapere cosa ne pensa ora di Lorenza.
 
Tutti i protagonisti – quando sono visti dal di dentro, come si devono vedere – appariranno buoni. Perché tu, autore, dio creatore, scrivendo di loro stai per definizione capendo le loro ragioni.

Altro, poi, è ricordarsi che là fuori c’è un pubblico che di primo acchito li percepirà cattivi, e quindi serviranno delle accortezze tecniche affinché questa percezione immediata non pregiudichi l’empatia; ma il personaggio, quando ne scrivi, ti deve sempre apparire buono, nel senso che ne stai a ogni momento comprendendo a fondo le ragioni.

Parleremo di personaggi “buoni”, “neutri” e “cattivi” sempre tra virgolette, per ricordare che le tre parole sono solo convenzioni di linguaggio, e non rispecchiano l’interiorità del personaggio (la quale è sempre positiva, sempre buona, e come tale deve essere percepita quando se ne scrive).
 
 
Nessuno – ma proprio nessuno – vede sé stesso come un cattivo:
nemmeno un membro delle Bestie di Satana,
nemmeno un calciatore che si vendeva le partite della squadra in cui giocava
(e di cui si dichiarava persino tifoso).
 
Se la linea d’argomentazione ti sembra un sofisma, allora abbiamo un problema: torna al modulo 0 e ripeti tutto il corso daccapo; la procedura ormai la conosci.
 
Mantieniti vigile sulla natura delle cose:
un conto è trovarsi dentro il personaggio,
e quindi vederlo sempre e comunque come un “buono”;
altro è ricordarsi che i lettori all’inizio lo percepiranno come “cattivo”,
e serve allora smorzare questa loro naturale prima impressione.
 
La base comune di costruzione dell’empatia è in tre regole, tarate sui protagonisti “buoni” (e che richiedono degli adattamenti per i protagonisti “neutri” e “cattivi”).

Un protagonista empatico è:
 
competente
 
proattivo

sottoposto a sofferenza ingiusta
 

Competenza: il tuo protagonista deve essere bravo nel fare ciò che il contesto e le situazioni in cui si trova gli richiedono di fare.

Espresso in negativo: non vuoi protagonisti svampiti, mister “uh, non c’avevo proprio pensato” e signorine “chi sono, dove sono?”; non vuoi gente che perde il treno per ascoltare una canzone alla radio; non vuoi persone che vanno a sbattere contro un albero perché hanno seguito con lo sguardo il volo di una farfalla.

Però chiariamoci: essere competenti non significa necessariamente essere dei fenomeni.

Prendiamo ad esempio una ragazzina sedicenne. Cosa ci si aspetta da lei? Fondamentalmente che vada bene a scuola e non dia ai genitori più preoccupazioni di quelle che una normale sedicenne può dare.

D’accordo. Ma queste richieste generali vanno ora tradotte in situazioni concrete, visualizzabili. Tu come declineresti la richiesta dell’andare bene a scuola? Cosa vuol dire – in concreto, in pratica – andare bene a scuola?
 
Viene da dire “avere bei voti”, una media tra il 7 e l’8, e magari sbilanciata verso l’8. È innegabile che una ragazzina con una media prossima all’8 vada bene a scuola. Ma riesci a immaginare soluzioni alternative, che siano narrativamente più interessanti?

Vediamo un po’.

La nostra ragazzina potrebbe tendenzialmente avere la sufficienza piena (tra 6 e 6,5) in gran parte delle materie, e magari qualcosa in più (7) in una o due materie minori. Non sembra un fenomeno, in assoluto. Ma a te non interessano le situazioni assolute e astratte. Tu vivi e scrivi di situazioni relative e concrete.

E – guarda un po’ – la nostra ragazzina si trova in una classe sbalestrata: i più oscillano tra il 4 e il 5, e la loro più grande ambizione è strappare un 4½ nella speranza che in sede di scrutinio sia arrotondato a 5, e quel 5 venga poi alzato a 6 perché… perché sì, dai; c’è poi una frazione, neppure tanto piccola, di anime perse e irrecuperabili, gente che marina la scuola quando c’è un compito in classe e si rifiuta di essere interrogata quando viene chiamata, vivendo il tutto col sorriso, senza la minima apprensione; c’è anche uno spicchio di classe che viaggia su una sufficienza più o meno stentata, e da ultimo “il secchione”, uno soltanto, con la media del 7 già nel primo quadrimestre.

Praticamente la mia classe, al primo anno di scuola superiore (e, no, non ero io il secchione, e ti sfido anzi a collocarmi in questo marasma).

In questo contesto la ragazzina apparirà oltremodo competente, pur senza esserlo in senso assoluto. Per molti versi la apprezzeremo di più rispetto a una che avesse la media dell’8 in una classe in cui la maggioranza ha la media dell’8, e la media dell’8 è quindi la normalità. Perché occorre essere molto presenti a sé stessi, a quell’età, per non cadere nell’equivoco che nel regno degli orbi chi ha un occhio è un gran signore, e quindi vuoi mettere quanto sono figa col mio 4½, quando c’è tanta gente con una sfilza di 2?

Altro esempio: il calciatore professionista.

Non deve per forza essere un mix tra Pelé, Maradona e Cristiano Ronaldo. Può anche essere un semplice “portatore d’acqua”, uno di quei centrocampisti che svolge un lavoro oscuro, di rottura del gioco avversario per far ripartire la propria squadra, un giocatore a là Oriali per intenderci, nato senza i piedi buoni, lavorare sui polmoni come cantava Ligabue nella sua dedica.

Ti dirò di più: non deve neppure essere un titolare. Può benissimo essere una riserva, che trascorre gran parte delle domeniche in panchina, senza neppure togliersi la tuta. Perché non è questo il punto.

La rilevanza è tutta nel fatto che lo vedremo puntuale a ogni allenamento; e lo vedremo allenarsi come se il mister potesse dargli una maglia da titolare ogni domenica, anche se razionalmente sa che non è così; e la domenica lo vedremo sì in panchina, ma interessato alla partita come se in campo ci fosse lui; e – neanche a dirlo – quelle volte che dovesse entrare in campo, a sostituire un compagno, lo vedremo impegnarsi al massimo nel fare bene il suo compito, per quanto sia oscuro o per quanto risicato sia il tempo concessogli.
 
 
Roma, 27 maggio 2001, Stadio Olimpico, terz’ultima di campionato.
La Roma è in testa alla classifica, e sta pareggiando 1 a 1 contro il Milan.
La Lazio sta vincendo 1 a 0 contro l’Inter, e si è portata al secondo posto,
scavalcando la Juventus, a soli 3 punti dalla Roma capolista.
Nei minuti di recupero, però, arriva il pareggio dell’Inter, la Lazio torna terza,
e la Roma mantiene inalterato il suo distacco di 4 punti dalla Juve, a due giornate dal termine.
E qui vedi la meravigliosa esultanza di Eusebio Di Francesco al pareggio dell’Inter,
pur avendo trascorso l’intera partita in panchina (come testimoniato dalla pettorina verde):
una di quelle cose che ti fanno entrare un giocatore nel cuore, anche se non è un fenomeno
(osserva, per contrasto, quanto sia invece rilassato Lupatelli – il pelato barbuto –
che rimane addirittura con le mani in tasca).
 
 
 
Questo è ciò che ci si aspetta da un calciatore:
che pianga le tue lacrime, che urli il tuo dolore.
Di là del risultato.
 
L’indicazione è sempre la stessa, e tornerà di continuo: non essere pigro, non adagiarti sulla prima idea che ti è balzata in testa, perché la prima idea, se non è tecnicamente sbagliata, di sicuro è pesantemente subottimale. E lo è per un motivo preciso: il tuo cervello non ti vuole bene, e ti manda la prima scemenza che trova nel suo deposito di idee, pur di liberarsi dell’incombenza che gli hai assegnato. Perciò tu devi rigettare sempre la prima soluzione, non appena arriva, non dargli tempo di sedimentarsi, perché altrimenti, poi, sarà impossibile rimuoverla. E la tua storia sarà una merda.

Se non sei in grado di immaginare nulla, oltre la prima soluzione, significa che non conosci l’argomento di cui stai scrivendo. E se non sai di cosa stai scrivendo, si può sapere cosa stai scrivendo?
 

Proattività: il tuo protagonista deve agire, dare la chiara sensazione che stia facendo tutto ciò che è in suo potere per prendere in mano le redini della sua vita e condurla laddove desidera.

Espresso in negativo: non vuoi protagonisti passivi, fermi immobili ad aspettare che “accadano cose”, per poi magari lagnarsi quando le cose che accadono non sono gradite, e loro non hanno fatto nulla per indirizzarle diversamente.

La regola è: molte azioni, poche lamentale.
 
A lamentarsi, eventualmente, potranno essere gli altri personaggi – sempre con ragionevolezza – affinché risaltino meglio le qualità del tuo protagonista. Ma il protagonista deve fare estrema attenzione a lamentarsi, e sicuramente non si può lamentare nello status quo, perché lo status quo è la sua normalità, nello status quo la storia è appena iniziata – anzi, a esprimersi con rigore, deve ancora iniziare – e cosa gli potrà mai esser successo di così atroce, in così breve tempo, in una situazione di normalità, da giustificare una lamentela?
 
 
Non lamentarti! Agisci!
 
Se il tuo calciatore resta ogni domenica in panchina, nonostante il suo atteggiamento esemplare in allenamento, la prima reazione non può essere “gne, gne, mi impegno tanto e il mister non mi fa giocare mai, gne, gne… mister brutto e cattivo”. La prima reazione sarà – ad esempio – rimanere sul campo d’allenamento, quando tutti i suoi compagni sono sotto la doccia, per migliorare quel “tocco di palla” su cui ha consapevolezza di essere deficitario.

Far lamentare il personaggio per motivi vaghi o futili, o addirittura senza una ragione precisa, è la dimostrazione che non lo conosci, che non conosci il tuo protagonista, il protagonista di cui stai scrivendo: non sai cosa fargli fare, dire o pensare, e allora lo fai lamentare.
 
Però – ti prego – non farmi dire quel che non dico, semplicemente ripetendo le mie parole.

Non ho detto che il tuo protagonista non si possa lamentare in assoluto. Ho detto che serve mantenere la percezione della realtà, prima di far lamentare il personaggio, che il diritto alla lamentela va conquistato: il protagonista può lamentarsi – e in un certo senso deve lamentarsi – solo quando si sono cumulate così tante cose sgradevoli da legittimare le sue lamentale, da proporzionare alla sgradevolezza di ciò che lo ha colpito, e se possibile un filo sotto.

Perché tu non vuoi protagonisti lamentosi, ma nemmeno degli stoici; non vuoi delle pentole di fagioli che borbottano di continuo, ma non vuoi neppure ritrovarti tra le mani un Giobbe redivivo.
 
Il test della lamentela è implacabile: se le lamentele non sono perfettamente proporzionate alle sofferenze subite – e meglio ancora, ti ripeto, un filo sotto-proporzionate – vuol dire che non conosci il tuo protagonista. E se non conosci il tuo protagonista, si può sapere di cosa stai scrivendo?
 

Pausa.

Eseguiamo un test, per verificare quanto hai appreso sin qui, dal modulo 0 fino ad ora.

Perché imponiamo i requisiti di competenza e proattività alla costruzione dell’empatia verso il protagonista?
 
Diciamolo meglio: perché competenza e proattività, più che requisiti in senso stretto, sono prerequisiti, caratteristiche che il tuo protagonista dovrebbe avere “di serie”?

Perché?

Dai, su: ce la puoi fare!

Ma è ovvio, no?

Perché nel mondo reale, nella vita vera – a parità di altre condizioni – tutti noi ci sentiamo spontaneamente più vicini alle persone competenti e proattive che non ai coglionazzi lamentosi.

Si potrebbe anzi dire che nulla ci indispettisce di più dell’avere a che fare con un coglionazzo lamentoso.

Sentirlo borbottare di continuo per ogni cosa, dalla più minuta sino ai massimi sistemi, e a volte persino su cose a lui favorevoli ma non così tanto come vorrebbe (per lui non lo sono mai abbastanza) e comunque senza mai muovere un dito, non dico sui massimi sistemi, ma nemmeno sulle pratiche spicciole di ogni giorno (che sarebbero sotto il suo controllo se solo volesse), ebbene, questo atteggiamento della minchia ci trasmette un senso di esasperazione che ci spinge ad allontanarcene quanto prima.

Quante ne conosci di persone così? Tante, troppe. Perché già una è sufficiente a snervarti.

Competenza e proattività non sono il cappello e la sciarpa, accessori estetici gradevoli da esibire e magari utili in qualche senso recondito.
 
Competenza e proattività sono i boxer e i calzini, un vincolo implicito, che rimane nascosto come boxer e calzini, ma a cui nessun autore può venir meno nel progettare il protagonista, così come non c’è nessuno, per quanto rozzo e incurante di sé, che non si premuri di rinnovare boxer e calzini, per averli costantemente puliti.

Competenza e proattività non sono i modi di disporre le posate a tavola in una cena di gala, di cui alla fine uno può anche infischiarsi, ché tanto cosa vuoi che accada se il coltello sta a destra o a sinistra.
 
Competenza e proattività sono il “buongiorno” quando si entra a casa delle persone e il “buonasera” quando si va via: il minimo di cui un dio creatore deve rifornire il suo personaggio.


E veniamo all’ultimo requisito, all’unico requisito in senso stretto, in senso proprio: la sofferenza ingiusta.

Non servono molte spiegazioni teoriche: nulla ci colpisce, e ci impressiona così profondamente, come un evento negativo che si abbatte su una persona buona e le infligge un dolore immeritato, una sofferenza ingiusta.

Andiamo piuttosto ai casi pratici: riesci a immaginare una possibile sofferenza ingiusta per la nostra ragazzina sedicenne?

Ti leggo nel pensiero, sai?
 
Facciamole scoprire che il suo fidanzatino la tradisce con la sua migliore amica.
 
Fenomenale! Mi chiedo perché tu sia ancora qui a leggere il blog, anziché a redigere il tuo curriculum da inviare a Hollywood.
 
Cosa abbiamo detto? Che la prima soluzione, se non è sbagliata, è comunque subottimale. Ne devi sempre immaginare una seconda, e se non ci riesci, se non sai andare oltre la prima soluzione, vuol dire che non sai di cosa stai parlando.

Siamo in aula, nel mezzo del compito in classe di matematica. La nostra ragazzina è disturbata costantemente dalla sua migliore amica, che reclama aiuto. Questa amica appartiene alla striscia liminare, galleggia tra il 5 e il 6, ma è una tipa sveglia, e lo sanno tutti (compagni di classe e professori). Tanto è sveglia che ora trova più comodo cercare la complicità della nostra protagonista, piuttosto che impegnarsi a risolvere da sola il compito. E la nostra protagonista la aiuta come può, con gesti evocativi, mimando le parole, e appena possibile passandole dei fogliettini.
 
La professoressa, in cattedra, sfoglia una rivista e scrolla l’i-Phone e di quando in quando solleva lo sguardo per passare in rassegna la classe, per vigilarla. E, tra un sguardo e l’altro, le due amiche vengono beccate in una dinamica che – accidenti! – lascia intendere che sia la nostra ragazzina a chiedere aiuto all’amica (e non viceversa come effettivamente è).

La professoressa si imbestialisce e d’istinto impone il ritiro del compito alla ragazzina; le bastano però pochi secondi per realizzare la sproporzione della misura punitiva, e tuttavia rimane imbestialita; rimprovera entrambe le ragazze, ma la sua invettiva resta indirizzata principalmente alla nostra protagonista; se le becca di nuovo – dice – i compiti verranno ritirati a tutt’e due, e il suo tono suona come una diffida all’amica della ragazzina dall’aiutarla nuovamente (sic!); e a ogni modo fa presente che terrà conto dell’episodio, quando correggerà i compiti.

E la nostra ragazzina? Ferma e zitta, non un fiato. Subisce lo shampoo della professoressa, e una volta finito, con un gesto inequivocabile della mano, fa capire all’amica di piantarla, di non disturbarla più, perché non avrà più alcun aiuto. Si rimette a testa bassa sul foglio a quadretti, determinata a eseguire tutti i gli esercizi a regola d’arte, affinché la professoressa – compiti alla mano – si renda ben conto chi è la ladra e chi la derubata.
 
Analizziamo la situazione.

Osserva anzitutto come l’amica della ragazzina non sia una sbalestrata; al contrario, ha la fama di una in gamba, solo che è maledettamente svogliata; però, quando ci si mette, se ci si mette, non ha bisogno di nessuno; peccato che ondeggi parecchio, che a volte ci si mette e più spesso no, e però i numeri per andare bene li avrebbe tutti. Questa qualificazione è fondamentale, per legittimare la sensazione della professoressa che sia lei ad aiutare la ragazzina (se fosse stata una tipa in stile “4½ e sto”, la dinamica non poteva essere equivocata).

Nota poi il comportamento della ragazzina: sembra passivo, se ci limitiamo all’esteriorità, ma interiormente non lo è affatto. La reazione spontanea sarebbe stata la difesa della propria posizione: spiegare alla professoressa che non era lei a chiedere aiuto, ma il contrario. E invece la nostra ragazzina, nel rimanere in silenzio, dimostra un eccellente dominio di sé, e se vogliamo una stretta coerenza, perché sai bene a quali rischi ti stai esponendo, se accetti di aiutare una compagna durante un compito in classe, e non puoi tirarti indietro se poi quei rischi si manifestano, perché sarebbe da codardi. E noi non vogliamo protagonisti codardi; noi vogliamo comportamenti eroici, proprio come quello della nostra ragazzina (accentuato dal fatto che l’amica si guarda bene dal confessare la verità, per scagionarla).

Anche perché – fai attenzione – cosa accadrebbe se la ragazzina volesse dire la verità? La sua legittima difesa potrebbe assumere un tono esasperato e sconfinare nella lamentela. E noi non vogliamo lamentele, o almeno non vogliamo lamentele sproporzionate alla situazione, e comunque non vogliamo vedere il protagonista piagnucolare.

Noi vogliamo eroi, la ragazzina a suo modo è un’eroina, e però – osserva – sembra di sentire la voce di Gabriella Ferri in sottofondo:
 
Se stai in bolletta noi t’aiutamo,

però da micchi nun ce passamo…
♬ 

Perché, amica mia, io ti aiuto pure, in tutti i modi possibili, ma non sono una minchiona; perciò ora ti arrangi da sola; forse, chissà, se  tu avessi detto la verità alla professoressa, allora avrei continuato ad aiutarti, ma non ora, non dopo il tuo silenzio traditore; perché io sono sì un’eroina, ma non una minchiona.

Ancora un’osservazione, per concludere: la professoressa non si sta accanendo sulla ragazzina senza motivo; la professoressa sta svolgendo il suo lavoro, sorvegliare gli studenti a tutela del corretto svolgimento del compito in classe; ciò che ha visto la legittima a pensare che sia la ragazzina a copiare dall’amica, e quindi, dal suo punto di vista, dal punto di vista della professoressa, è giusto rimproverarla e minacciarla di sanzioni; la sofferenza ingiusta che la professoressa infligge alla protagonista non è una sofferenza ingiusta perché sì (perché sei nata per soffrire e allora soffri e non ti lagnare); è una sofferenza ingiusta nella prospettiva della ragazzina (e del lettore che ha empatizzato con lei) ma è più che giustificata dal punto di vista della professoressa, convinta che sia lei, la ragazzina, a voler fare la furba.

Ti è chiaro come si ragiona, quando si vuole infliggere una sofferenza ingiusta al protagonista?

Sì, sì, ho capito!
 
E allora, dai, proponimi una sofferenza ingiusta per il calciatore panchinaro.

Facciamo che il nostro calciatore, dopo aver trascorso tante domeniche in panchina, finalmente gioca una partita da titolare, ma, ahimè, si rompe tibia e perone, oppure il crociato: che ingiustizia!

Interessante. Dico davvero. Ora ci ragiono e poi ti faccio sapere. Tu intanto torna al modulo 0 e ripeti la procedura che ormai conosci.

Cosa ti ho detto? Che la prima soluzione è subottimale, quando non è sbagliata. E questa soluzione – questo tipo di sofferenza ingiusta che hai immaginato per il calciatore – è proprio sbagliata. Perché è sproporzionata e crea quell’effetto di commiserazione che spesso sfocia nel comico: in allenamento dai il 101% e non giochi mai, e quell’unica volta che giochi, ti infortuni gravemente; e che cazzo! Fatti benedire, amico mio…

Tu vuoi che il lettore empatizzi col personaggio, non che lo compatisca.

La tua squadra – la squadra del tuo calciatore – si sta giocando una partita fondamentale per la salvezza contro una diretta concorrente (abituati a pensare in termini di “cose che devono essere difese”, come la permanenza nella massima serie, e non a “cose che devono essere conquistate”, come uno scudetto). Non è una partita decisiva, da dentro o fuori, ma vincerla significherebbe dare una sterzata alla classifica, senza contare il benefico effetto psicologico con cui affrontare le partite successive.

E la tua squadra la sta vincendo: è passata in vantaggio nei minuti iniziali, ha amministrato bene il gioco, e avuto un paio di buone occasioni per andare sul due a zero e chiudere la partita.

Ora, però, le cose si sono complicate: dalla metà del secondo tempo la squadra ha “abbassato il baricentro”, ha arretrato sempre più il suo gioco, sotto una pressione avversaria crescente, alla ricerca del pareggio.

Siamo all’83°, mancano meno di dieci minuti alla fine, più l’eventuale recupero, e il numero “8” si sbraccia verso la panchina: batte una mano sul polpaccio, scuote la testa, fa capire di essersi infortunato; riesce ancora a stare in piedi e a correre, sì, ma non ha più la reattività necessaria, e sicuramente gli manca la prestanza fisica richiesta da un contesto di gioco ad alta tensione.

Dalla panchina il mister lo sprona a tenere duro, ché in fondo manca poco alla fine. Il numero “8” sbuffa, scuote di nuovo la testa: proprio non ce la fa. Il mister fa segno al tuo protagonista panchinaro di alzarsi e riscaldarsi: dovrà sostituire il numero “8” ormai allo stremo.

E il tuo calciatore panchinaro scatta in piedi e inizia a correre avanti e indietro a bordo campo, a saltare, a fare stretching: tra poco toccherà a lui. Solo pochi minuti, è vero, ma accidenti che minuti! Sono i minuti in cui ci si giocherà il tutto per tutto, e lui ne farà parte.

Siamo all’85° e il mister ancora non si decide a chiamare il cambio. Il tuo protagonista si toglie il giacchetto della tuta. Non potrà mancare ancora molto al suo ingresso. Compie quelle che ritiene essere le ultime accelerazioni prima di entrare, e lancia un’occhiata al mister, che però ha lo sguardo fisso sul campo. Il tempo passa: siamo all’87°.

Il numero “8” sbaglia un appoggio, un avversario conquista palla e trova un varco verso la porta, seguito dai compagni. Una triangolazione veloce mette in crisi la difesa, e l’attaccante lascia partire un rasoterra che scheggia il palo. Cazzo! Un errore banale a centrocampo, un passaggio sbagliato del numero “8”, stava per costare il pareggio avversario: pochi centimetri più in qua, e sarebbe stata la fine; il contraccolpo psicologico sarebbe stato micidiale.

Può bastare così: il mister si decide a chiamare il cambio. Le operazioni tecniche di comunicazione assorbono ancora un po’ di tempo, e quando l’assistente di linea solleva il display con i numeri di maglia coinvolti nel cambio – esce il numero “8”, entra il numero “17” – il cronometro è ormai prossimo al 90°.

Il numero “8” zoppica vistosamente, impiega una vita a uscire dal campo; è così stremato – e anche scoglionato, per non esser stato sostituito prima – da non avere nemmeno la forza e la voglia di “dare il cinque” al nuovo entrato, al tuo protagonista, com’è tipico quando c’è una sostituzione.

Vengono comunicati i minuti di recupero: 3.

Poco più di tre minuti sono tutto quel che è rimasto al tuo protagonista. Farà in tempo a toccare un paio di palloni e a spezzare una ripartenza avversaria, in una di quelle giocate sì decisive, ma di cui in pochi capiscono l’importanza.

Arriva il triplice fischio finale. Molti giocatori cadono a terra, esausti; altri si abbracciano, esultano verso la curva degli ultrà; qualche pacca sulla spalla arriva anche a lui, al tuo protagonista, ma è davvero difficile sentirsi parte della festa.

Si è rischiato il pareggio, prima di vedere in campo il tuo protagonista. Il mister in realtà lo apprezza pure, ma il numero “8” rimane un giocatore chiave per i suoi schemi, il migliore a “rompere” il gioco avversario. Possibile, però, che lo preferisca anche quando è infortunato e chiede il cambio? Questo non è giusto, e sicuramente non lo è verso chi in allenamento dà sempre tutto sé stesso, e ora meriterebbe di giocare.
 
Lascio a te come esercizio – a completamento della mia interpretazione finale – il riesame dell’intera scena per coglierne gli elementi portanti, sulla falsariga del mio commento al caso della ragazzina.
 
 
Nel riesame che vorrai fare degli esempi della ragazzina e del calciatore, ti invito a notare l’attenzione messa nel creare delle situazioni verosimili e realistiche, ordinarie ma anche ricche di sfumature, di piccoli e pur decisivi dettagli, senza mai cedere alla soluzione più piatta e banale, senza mai cadere in quello che io chiamo lo “schema Cenerentola”.

Cos’hanno in comune Cenerentola, Candy Candy, Dolce Remì, Heidi, Lovely Sara, Belle e Sebastien? Hanno perso i genitori. Loro come tanti altri personaggi simili.

Ovvio. I bambini sono i personaggi “buoni” per eccellenza, a un personaggio buono bisogna infliggere una sofferenza ingiusta, e per un bambino-buono non vi è sofferenza ingiusta più grande della perdita dei genitori. Fatto: empatia creata.

Esiste sempre – qualunque sia la storia – la possibilità di applicare lo “schema Cenerentola”, cioè di infliggere al tuo personaggio una sofferenza ingiusta facile-facile, stereotipata, cliché, già vista n volte, e che rivedremo ora per la volta n+1.

Ma tu non vuoi – non dovresti – comportarti così: perché una volta scelta la soluzione più semplice, e quindi smarrite le sfumature di significati, ti ritroverai poi a gestire tutta la storia per automatismi, trasmettendo un senso di straniamento a qualunque lettore tiepido.

Ti è stato detto che il personaggio non si deve lamentare, e così Cenerentola non si lamenta mai, ma proprio mai, neanche quando – per realismo – tutti si aspettano almeno uno sbuffo o un sospiro.

Ti è stato detto che il personaggio deve soffrire ingiustamente, e così, dopo la morte dei genitori, tu piazzi Cenerentola con una matrigna e delle sorellastre che la maltrattano perché… già, perché? Boh! Perché sì. Perché sono kattive-kattivissime.
 
È la stessa sorte di Candy Candy, quando viene adottata. Qualcuno ha mai capito perché Iriza e Neil – sorellastra e fratellastro – sembrano avere come unico scopo nella vita quello di torturarla? Forse perché anche loro sono kattivi-kattivissimi.

Non è un caso che queste dinamiche estreme si ritrovino in opere destinate ai bambini – e forse è bene che sia così, perché ai bambini servono categorie nette, per distinguere all’istante i “buoni” dai “cattivi” – ma è un attimo ad applicare gli stessi schemi semplicistici anche a storie destinate a un pubblico adulto, che non le apprezzerebbe affatto.

Ragiona a fondo sul tuo personaggio, e sulla situazione che sta vivendo, per individuare l’esatta sfumatura di sofferenza ingiusta da infliggergli, perché la sofferenza ingiusta è un abito sartoriale, cucito su misura, e non vestito prêt-à-porter da acquistare ai saldi.

Spero ti sia chiaro. Altrimenti, torna al modulo 0 e ricomincia tutto daccapo.
 

Sin qui ci siamo sempre riferiti – in modo esplicito o implicito – a personaggi cosiddetti “buoni”.

Non esiste una definizione di personaggio “buono”, nel senso che il suo “essere buono” – o moralmente giusto – lo si presume: il protagonista del mondo della pagina nasce senza peccato originale, è “buono” per definizione, a meno di esplicite indicazioni contrarie.

Possiamo anche dire che “essere buono” fa parte del settaggio standard, di quelle cose che lo scrittore non deve preoccuparsi di precisare, perché date già per scontate dal lettore. L’accortezza, semmai, va fornita in negativo: presta attenzione a non far apparire “cattivo” o “neutro” un personaggio che immagini “buono”, facendogli pensare, dire o fare delle cose sconvenienti, che possano indurre il lettore a privarlo del suo presunto status di “buono”.

E se invece lo status di “buono” glielo volessimo togliere consapevolmente, per creare – ad esempio – un personaggio “neutro”?

Non esiste un catalogo di soluzioni preconfezionate, e la risposta  è sempre la stessa: devi conoscere il tuo personaggio e – se lo conosci davvero –  allora troverai sicuramente gli elementi migliori per comunicare il suo “essere neutro”.

Spesso si usa l’espediente della professione, perché – diciamolo francamente – alcune professioni hanno qualcosa di intrinsecamente ambiguo, di indecifrabile, che tiene il lettore in uno stato intermedio, di sospensione del giudizio. L’avvocato, ad esempio.

Che mestiere curioso, non trovi? Interamente basato sulla rovesciabilità delle coscienze, sull’invertibilità delle opinioni, sulla sovversione dei sistemi valoriali, sull’accomodamento ottico nella visione dei fatti. Con quale trasporto emotivo, quale tono di sincerità e quale salda convinzione, l’avvocato si diffonde nella sua arringa in un caso controverso! Ma da dove attinge tutto quello sdegno, quelle certezze, quella collera? Com’è possibile assumere una posizione o la sua inversa, orientarsi in un senso o nel suo opposto, e ribaltare con un giro di manovella tutte le verità, tutti i valori, tutti i significati, a seconda che il campanello del suo ufficio sia stato premuto dall’uno o dall’altro contendente?

È il suo lavoro, si dirà. Giusto, è il suo lavoro, e nessuno può rimproverargli di svolgere un lavoro lecito, riconosciuto, e addirittura indispensabile; e però rimane – ineliminabile – la percezione di un lavoro borderline, di quelli che obbligano a continui esami di coscienza, non sempre superati come si dovrebbe.

È probabile che il lettore indietreggi di un passo, se lo metti di fronte a un protagonista che svolge la professione dell’avvocato: è probabile che lo percepisca come un personaggio “neutro” e non più “buono”.
 
 
Oskar Schindler: un esempio di personaggio “neutro”.
 
Oskar Schindler è il classico esempio di personaggio neutro e – osserva – anche qui si gioca molto sulla sua professione.
 
Chi era Oskar Schindler? In rete troverai tutte le informazioni, e poi suppongo che tu abbia visto il film Schindler’s List, quindi sai perfettamente di chi e di cosa stiamo parlando.
 
Qui la facciamo semplice.
 
Oskar Schindler era un imprenditore, che come ogni imprenditore – passato, presente e futuro – aveva il problema di minimizzare i costi, e mica vorrai fargliene una colpa, giusto?

Oskar Schindler aveva poi rapporti stretti con le Schutzstaffel, meglio conosciute come “SS”, l’organizzazione paramilitare della Germania nazista. Gliene vuoi fare una colpa? Qualunque imprenditore – passato, presente e futuro – si sforza di stringere rapporti con quelle che, al momento, sono le istituzioni del paese in cui opera.

Oskar Schindler non ci appare come un “buono”, ma non si può neanche dire che sia un “cattivo”. È semplicemente preoccupato del suo tornaconto, si preoccupa di sé, come fa ognuno di noi, in fondo.

Oskar Schindler è un personaggio “neutro”.

E cosa fa questo personaggio “neutro”? Si carica sulle spalle – tra pericoli e incertezze – la sofferenza ingiusta di personaggi moralmente giusti (gli ebrei perseguitati dai nazisti).

Hai colto lo slittamento logico? La sofferenza ingiusta non colpisce più direttamente il protagonista, che essendo “neutro” non riuscirebbe a far scattare l’empatia, ma – fermi restando i (pre)requisiti della competenza e della proattività – è il protagonista a chiamare a sé l’insofferenza ingiusta di altri, a prendersi in carico la sofferenza ingiusta di personaggi moralmente giusti per condividerla e alleviarla, a prezzo di sacrifici, rischi e perdite.
 
E l’occasione è utile per concettualizzare il meccanismo di formazione dell’empatia e poterlo così interiorizzare al meglio.
 
L’empatia obbedisce allo stesso principio compositivo della nitroglicerina: l’acido nitrico e la glicerina sono singolarmente di moderata pericolosità, ma la loro combinazione produce la dinamite; però servono entrambe le sostanze, l’acido nitrico e la glicerina assieme, proprio come per l’empatia servono simultaneamente l’essere moralmente giusti e sottoposti a sofferenza ingiusta, e se uno dei due ingredienti viene meno, allora la magia svanisce. 
 
Tutte le volte che vien meno la configurazione standard “personaggio buono + sofferenza ingiusta” si deve perciò ripristinarla per altre vie, portando sulle spalle del protagonista la sofferenza ingiusta di altri personaggi buoni (come avviene il protagonista “neutro”) o conferendogli una connotazione relativa di “giustezza morale” (come avviene col protagonista “cattivo”).
 
Giovanni Brusca (a sinistra) e Bernardo Provenzano (a destra):
l’anima sanguinaria e l’anima ragionevole di Cosa Nostra.
 
Già, i cosiddetti “cattivi”. Come si fa a empatizzare con loro? Come si possono capire i loro moventi e le loro azioni?
 
Un “cattivo” lo si qualifica in fretta, perché i concetti generali di “bene” e “male” sono sufficientemente differenziati nel percepito comune, e se parliamo di mafiosi, ladri, uomini violenti, pedofili e dittatori, siamo sicuramente parlando di figure “cattive”.

Ma come si fa a entrare dentro a una personalità che suscita ribrezzo al solo pensiero di chi è e di cosa è capaci di fare?

Qui la faccenda si fa complessa, non certo nella regola formale – di per sé, al solito, semplice da enunciare – ma nella sua “messa in posa”, perché un errore di millimetri può davvero far saltare tutto.

Competenza e proattività devono esserci sempre, anche se diventano molto più difficili da gestire.

Un personaggio è competente e proattivo se prende l’iniziativa e fa bene quel che gli è richiesto di fare, ma  nel caso di un “cattivo”, esattamente, cosa si dovrebbe mostrare? Quanto è bravo a organizzare attentati e rapine, a spacciare droga, ad arricchirsi illecitamente, a violentare donne o a tenere buono il suo popolo con le minacce? Ovviamente no. La sua competenza e la sua proattività vanno attentamente qualificate, le scelte vanno compiute con una cura straordinariamente maggiore del normale.

Così come diventa problematico concepire situazioni di sofferenza ingiusta.

Se il personaggio viene colpito alla schiena da una pallottola delle forze dell’ordine durante una rapina in banca, e finisce su una sedia a rotelle a causa di una lesione vertebrale, sicuramente andrà incontro a una grande sofferenza – sia fisica che psichica – che però si è interamente procurato da solo, nel senso che è conseguenza diretta delle sue azioni criminose, e quindi non può certo essere “ingiusta” (e potrebbe anzi suscitare pensieri del tipo “ben ti sta, visto la merda che sei”, che sono esattamente l’anti-empatia).
 
Sono tutti punti di grande rilevanza – che richiamano l’importanza di scrivere solo di ciò che si conosce, per poter scegliere i dettagli migliori, i più adatti allo scopo – ma la sfida tecnica più impegnativa si gioca sull’abilità di far apparire il personaggio come “buono” rispetto al sistema valoriale (negativo) in cui si trova inserito.

In rete troverai tutte le informazioni che desideri sui mafiosi Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano. Qui, al solito, facciamola semplice.

Giovanni Brusca era soprannominato u verru (il porco) o anche lo scannacristiani  (e non credo ti serva la traduzione).

Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato lautobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”.

Questo è Giovanni Brusca, scarcerato Il 31 maggio 2021, dopo soli 25 anni di reclusione, grazie a una legge voluta proprio da Falcone sul trattamento dei cosiddetti “collaboratori di giustizia”.

E ora veniamo a Bernardo Provenzano, il capo dei capi dell’organizzazione mafiosa, a partire dal 1995 e fino al suo arresto, l’11 aprile 2006.

Era anche lui un mafioso, anche lui col suo bel curriculum di omicidi e stragi, ma…

Ma.

C’è un “ma”, che di certo non cambia tutto, ma sicuramente cambia abbastanza per le nostre finalità.

Dopo l’arresto di Totò Riina, nel 1993, Provenzano operò da mediatore tra le diverse correnti mafiose, tra chi voleva proseguire la stagione delle stragi – Giovanni Brusca in testa – e chi invece sosteneva l’opportunità di una pausa. Non è chiaro quale fosse la posizione di Provenzano, ma c’è da credere a Salvatore Cancemi quando dice che Provenzano impose che gli attentati – se proprio non si potevano evitare – dovevano avvenire fuori dalla Sicilia, “in continente”, come diciamo noi siciliani.

Dopo l’arresto nel 1995 di Leoluca Bagarella, esponente di spicco del partito stragista, Provenzano ebbe campo libero e avviò un nuovo corso di Cosa Nostra: la cosiddetta strategia della sommersione, per rendere invisibile l’organizzazione mafiosa, non destare più l’attenzione delle istituzioni e tornare a curare in tranquillità gli affari correnti.

Se vuoi la mia opinione, se proprio ci tieni a saperla, credo che Provenzano sia stato l’interprete più autentico dello spirito di Cosa Nostra: uno Stato dentro lo Stato, con un suo corpo di polizia (forse un filo più aggressivo rispetto alla polizia ordinaria) un suo apparato giudiziario (forse un filo più sbrigativo rispetto al nostro) un suo sistema amministrativo e fiscale (forse un filo più efficiente rispetto a quello a cui siamo abituati) e quindi, in definitiva, un potere costituito che si rapporta agli altri poteri nelle forme e nei modi con cui tipicamente i centri di potere entrano in contatto, forme e modalità di regola pacifiche, e solo al limite, all’estremo, basate sulla forza.

Non puoi dire – se conosci un minimo la storia della Mafia – che Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano sono la stessa cosa, soltanto perché entrambi – tout court – erano mafiosi.

Giovanni Brusca è un conto, Bernardo Provenzano un altro, sebbene entrambi appartenessero a Cosa Nostra. E allora – se adeguatamente presentati, nel mondo della pagina – Bernardo Provenzano apparirà “buono” rispetto a Giovanni Brusca, e quindi suscettibile di ricevere una sofferenza ingiusta, per creare empatia.

Capisci, però, quanto sia delicata questa costruzione narrativa: tutto si gioca sul misurare Bernardo Provenzano con il metro di Giovanni Brusca, e calibrare questa metrica è un esercizio di raffinatezza che spesso non fa presa sulle capacità umane, ma che quando riesce dà origine ad autentici capolavori.
 
la versione cinematografica di Provenzano e Brusca
– della ragionevolezza e della ferocia, all’interno di un’organizzazione mafiosa
 e l’esempio per eccellenza di come un “cattivo” (Don Vito) 
possa risultare più affascinante di qualsiasi altra figura,
quando viene costruito a regola d’arte.
 
Il problema principale, quando si scrive di “cattivi”, è che ci sarà sempre la tentazione di togliersi d’impaccio con le esagerazioni, magari giustificandole col solito slogan – privo di valore artistico – “le cose sono andate proprio così”.

Se Bernardo Provenzano è un “buono” rispetto a Giovanni Brusca, se misuri la bontà di Provenzano in unità di cattiveria di Brusca, allora sarai sempre tentato di rendere Brusca oltremodo cattivo – di inasprire il metro di riferimento – per far apparire “sufficientemente buono” Provenzano.

Sì, è vero. Brusca era u verru, il porco. Brusca ha sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Salvatore Di Matteo, un mafioso pentito che l’organizzazione aveva deciso di punire. Giuseppe Di Matteo fu rapito quando aveva 13 anni e giustiziato quando ne aveva 15, dopo due anni di prigionia. E sia. Stiamo parlando di mafia e di mafiosi, non di frati francescani. Va bene. Ma perché scioglierlo nell’acido? Non potevi limitarti a ucciderlo… e basta? No. Lo dovevi sciogliere nell’acido, lo dovevi. Ma perché?
 
Un lettore può pure capire (e accettare) che all’interno di un’organizzazione mafiosa vi siano vendette trasversali: in fondo – a guardare la cosa da dentro, e non da fuori – si sta semplicemente eseguendo la sentenza di un tribunale. Possiamo capire che quelli che noi chiamiamo “collaboratori di giustizia” o “pentiti”, loro li vedano semplicemente come dei traditori; possiamo capire che i traditori devono essere puniti; e possiamo pure capire che la punizione sia atroce; ma uccidere un ragazzino di quindici anni, figlio di un traditore, ci appare già il massimo della crudeltà, e non ne possiamo sopportare ancora, proprio no.

Se il tuo personaggio scioglie un bambino nell’acido – quando si sarebbe potuto limitare a ucciderlo e basta – io, lettore tiepido, non ti seguo più. Perché tu, autore, dio creatore, sei a tutti gli effetti ricaduto nello “schema Cenerentola”: stai creando un personaggio che, a tutti gli effetti, è l’equivalente della matrigna e delle sorellastre di Cenerentola, di ciò che Irina e Neil sono per Candy Candy.

E non me ne frega un cazzo importa che “nella realtà le cose sono andate proprio così”. Perché il dato di realtà ha valore narrativo solo se funziona anche dentro la pagina, se è recepibile dalla logica costruttiva del mondo della pagina. Ma di una realtà confusa, contraddittoria, rumorosa, insensata, indecifrabile, e col solo merito di essere… la realtà, nessuno scrittore sa cosa farsene.

Il mio suggerimento – se proprio hai deciso di avere un protagonista “cattivo” – è di prendere perfettamente le misure, di calibrare il metro al millimetro, di renderlo oltremodo preciso.

E se realizzi di non essere in grado di farlo, se ti rendi conto di aver creato un personaggio fantoccio, kattivo-kattivissimo-kattivo-perché-sì, solo per far apparire buono il protagonista, allora, dammi retta, rinuncia. Ci fai più bella figura, davvero.
 
 
Il gioco è fatto, quando hai creato l’empatia. Perché empatizzare col personaggio significa tifare per il personaggio, e nel tifo è implicita una spiccata componente emotiva che tiene incollati alle sorti di ciò che per cui si sta tifando, a prescindere dal resto. Quindi, nel momento in cui il tuo personaggio inizierà a inanellare errori  – come accadrà nel Secondo Atto – il lettore sarà comunque con lui, a tifare per lui, a preoccuparsi, temere, sperare, gioire, e soffrire con lui.

Attenzione, però. A differenza del tifo per una squadra di calcio – quello sì indistruttibile, perché nella vita solo due cose non si cambiano: la mamma e la squadra – il tifo per il personaggio è sempre a rischio.

L’empatia, una volta costruita, non può essere lasciata al suo destino, perché l’empatia non è localizzata in un punto, ma diffusa lungo tutto l’arco. Esistono l’incidente scatenante, la chiamata all’azione, il midpoint e l’esperienza di morte come snodi dell’arco, momenti precisi in cui avvengono eventi precisi, ma non esiste il “momento dell’empatia”. L’empatia è – deve essere – ovunque.

Non smettere mai di mostrare la competenza e la proattività del tuo personaggio, non smettere mai di sottoporlo a sofferenze ingiuste, ma ovviamente abbi cura di intervallare gli eventi rilevanti, di variarli per tipologie e intensità, di far prendere respiro al lettore, di non ingozzarlo. Altrimenti – se gli somministri competenza, proattività e sofferenza a getto continuo – finirai col renderlo insensibile anche alle caratteristiche più straordinarie del tuo personaggio.

Ancora due parole sulla sofferenza ingiusta, il principio attivo dell’empatia.

Può non essere così facile, o naturale, infliggerla già nello status quo. Se ci riesci, bene. Se non ci riesci – se la tua storia non si presta naturalmente ad accoglierla già dalle scene iniziali – allora rinuncia, non inserirla “a forza bruta”. Punta tutto su competenza e proattività.

In casi estremi puoi anche accontentarti di non pregiudicare l’empatia, di non far comportare il tuo personaggio in modo smaccatamente contrario ai principî che ne costituiscono il fondamento, per rinviare il processo costruzione alle scene successive. Sembra poco, ma a volte è già tanto.

Incidente scatenante


Le scene iniziali dell’opera sono dedicate a presentare il personaggio – a farlo conoscere nel suo ambiente naturale, nella sua vita ordinaria – con l’obiettivo di favorirne l’empatia.

Lo status quo deve avere termine piuttosto in fretta, perché – ripetiamolo – la normalità non ha mai grandi motivi di interesse. Costruisci l’empatia nella misura in cui le prime scene della tua opera te ne offrono l’opportunità – ma senza essere pigro – e passa veloce al primo punto nodale dell’arco: l’incidente scatenante.

L’incidente scatenante è un evento che irrompe nella vita del protagonista, di cui il protagonista sicuramente si accorge, ma che non vive come qualcosa di strettamente personale.
 

Tranquilli, tanto non piove…
 
Il tuo protagonista è un funzionario ministeriale della Russia di Putin. Vivrà la sua normalità da funzionario pubblico russo (documentati: non mutuare acriticamente la normalità di un impiegato pubblico italiano a quella di uno russo) che avrai mostrato nello status quo, ricercando le migliori condizioni per l’empatia.

Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo invade l’Ucraina. Il tuo personaggio chiaramente se ne accorge, e ne sarà colpito: il suo paese è in guerra, per l’amor del cielo, la cosa non può certo lasciarlo indifferente! 

D’accordo, la sua Russia è in guerra, e la cosa ha una rilevanza generale. Ma a livello spicciolo, di vita di ogni giorno, a lui cosa cambia? La guerra si combatterà esclusivamente sul territorio ucraino, nessuno verrà mai a bombardare Mosca – figurarsi! – e poi la guerra è roba da soldati, professionisti in mimetica addestrati a maneggiare bombe e mitragliatrici, e non tocca certo i funzionari pubblici dediti a mandare avanti la burocrazia.

La guerra è un evento in sé tremendo, di cui il personaggio si accorge e di cui magari non farà altro che parlare con i familiari, gli amici e i colleghi, ma che di fatto non sposta nulla nella sua vita. Lui continuerà a fare quel che ha sempre fatto sino a quel momento. Ci penseranno i soldati a difendere la grande Russia dall’arroganza della NATO. 
 
 
Il tuo personaggio è un impiegato di un ente privato che assomiglia più a un carrozzone ministeriale che non a una realtà imprenditoriale (potrebbe trattarsi di un ente che una volta era pubblico, poi è diventato para-statale e infine è stato privatizzato, ma che inevitabilmente conserva la sua mentalità originaria). E tuttavia proprio la sua “inefficienza” lo rende appetibile. Il business è valido, sicuro, anche se gravato da un’organizzazione incapace di stare al passo coi tempi (per il retaggio del suo passato). C’è parecchio potenziale inespresso, a un esame spassionato dei bilanci e a un’analisi accurata dei mercati di sbocco. La società passa così di mano, viene acquisita da una cordata cinese.

Non si fatica a immaginare l’agitazione tra i dipendenti: chissà cosa accadrà adesso, quali progetti avranno mai questi signori con gli occhi a mandorla, se chiuderanno alcuni dipartimenti, se ne apriranno altri, e cosa ne sarà di noi…

Tutti parlano dei cinesi, della nuova proprietà, perché è impossibile non parlarne. Ma è gossip, chiacchiericcio, più che una vera e propria discussione. E il tuo personaggio non ha voglia di prestarsi al “bla-bla-bla”.

Lo possiamo immaginare come un Checco Zalone in Quo vado, ma in una versione reale, verosimile, ripulita dagli aspetti macchiettistici. È uno che si sente al sicuro, sempre e comunque, tanto più che la stessa situazione l’ha già vissuta cinque anni fa, quando l’azienda passò dalla storica proprietà italiana a un gruppo americano. Stesso copione anche allora: tanto rumore, tante chiacchiere… e poi? Poi, niente. Il cambio di proprietà aveva impattato solo sulle alte sfere, il top management era cambiato, le macro-strategie di posizionamento sul mercato pure, ma tutte le annunciate innovazioni procedurali erano rimaste lettera morta, e per il tuo personaggio – e per tutti quelli intorno a lui – nulla era mutato nel day-by-day, come tutti avevano iniziato a dire per atteggiarsi.

Che “il padrone” sia un italiano, un americano o un cinese, cosa vuoi che cambi per la massa di impiegati? Il lavoro rimane lo stesso, lo stipendio continua ad arrivare puntuale. Potrà pure essere cambiato tutto, ma le poche cose che contano rimangono invariate sotto ogni cielo.

Italiani prima, americani dopo, cinesi ora, e domani magari giapponesi, d’accordo; ma ci sarà sempre una sensazione di déjà-vu, di cose già viste e sperimentate, da cui non c’è nulla da temere.


Ti è chiaro cos’è un incidente scatenate?

È un evento che irrompe nella vita del protagonista, che il protagonista nota senz’altro e a cui può anche dedicare attenzione e interesse, ma che di fatto non altera la sua normalità e non sembra avere conseguenze nemmeno in prospettiva.

L’incidente scatenante in Million dollar baby, secondo Wikipedia:
“Questo lento incedere dei giorni viene interrotto da due fatti:
il suo allievo migliore, Big Willie, passa sotto il controllo di un altro manager
ben più interessato agli affari che allarte pugilistica.
Così Willie ottiene subito l'incontro per il titolo mondiale, troppo a lungo rifiutato da Frankie
per paura di perderlo, e lo vince grazie agli insegnamenti del vecchio allenatore.
Poi un altro evento cambierà per sempre la vita di Frankie e di Scrap.
Un giorno, Maggie Fitzgerald, una ragazza che lavora come cameriera,
figlia poverissima dellAmerica rurale, si iscrive in palestra
con il coraggioso intento a 31 anni di diventare una pugile professionista
e la volontà di affrontare ogni sacrificio”.
C’è un errore in questa ricostruzione.
Wikipedia parla di “due fatti” che vengono a interrompere
il “lento incedere dei giorni” del protagonista (lo status quo).
È un modo di esprimersi privo di senso, perché l’incidente scatenante è uno e un solo evento,
e precisamente quello che, citando ancora Wikipedia, “cambierà per sempre la vita di Frankie”, 
cioè l’arrivo di Maggie, la cameriera che vuole diventare una pugile.
L’altro evento – il tradimento del suo pugile migliore – appartiene allo status quo,
ed è congegnato davvero con grande e apprezzabile maestria, 
perché sulle prime appare come una sofferenza ingiusta per il protagonista
(saranno altri a prendersi il merito del suo lavoro svolto sul pugile)
ma al tempo stesso lascia intravedere anche il suo difetto fatale
(che per poco non gli farà rovinare i rapporti con la ragazza).
 
 
 
L’incidente scatenante nel film I Croods.
Nessun membro della famiglia Croods lo sa ancora, né lo può immaginare,
ma l’incontro tra Hip e Guy cambierà per sempre papà Croods e di conseguenza tutta la famiglia.
 
 
 
La transizione dallo status quo all’incidente scatenante, nel film
L’attimo fuggente.
È un esempio magistrale di costruzione narrativa, che può replicarsi in scrittura,
se solo ci si prende il tempo per ragionare a dovere.
Osserva – e apprezza – con quanta rapidità viene comunicata la situazione normalità:
si è scelto di avviare l’opera con il primo giorno di scuola,
e perciò è assolutamente realistico che il rettore tenga un discorso introduttivo,
con cui di fatto si restituisce il senso di tutta l’ambientazione.
E poi osserva i volti dei ragazzi e il loro atteggiamento, da cui traspare una sofferenza di fondo
– esplicitata nel caso dei più piccoli – che ce li fa subito entrare nel cuore.
Abbiamo capito tutto quel che c’è da capire nel giro di pochissimi minuti.
Non serve tirarla oltre e si può passare direttamente all’incidente scatenante:
la presentazione del professor Keating.
Nessuno dei ragazzi del collegio – in quel momento – 
immagina che la propria vita sarà ribaltata dal ripetuto contatto con Keating. 
 
Tutto va bene, o quasi…
 
Hello Battista, che c’è di nuovo,

cos’è accaduto? Dite un po’!

Voglio sapere che cosa trovo

quando al castel ritornerò…

 
 
Tutto va ben, Madama la Marchesa,

va tutto ben, va tutto ben.

Però l’attende forse una sorpresa

che dir non posso fare a men:

un incidente banal, meschino,

è morto il suo bel cavallino;

a parte ciò, Madama la Marchesa,

va tutto ben, va tutto ben…



Chiamata all'azione

 
Una storia – sul piano formale, a livello base – è una sequenza di eventi in cui è ben riconoscibile un meccanismo di causa-effetto: ogni evento è la conseguenza di uno o più eventi precedenti e a sua volta diventa causa di eventi successivi, e via così sino alla fine.
 
Le storie ci attraggono –  ci coinvolgono, ci restano nel cuore – perché danno risalto ai nessi di causa-effetto, perché è la catena causale a governare lo sviluppo degli eventi: “la questione non è soltanto che le scene non basate sul rapporto causa-effetto tendono a risultare noiose – scrive Will Storr – “Le trame che giocano troppo liberamente con questo meccanismo rischiano di confonderci, perché non parlano la stessa lingua del cervello. Ecco che cosa intendeva dire Aline Brosh McKenna, sceneggiatrice del film Il diavolo veste Prada, quando ha dichiarato: «Tutte le scene devono essere collegate da un ‘perché’, non da un ‘e poi’». Il nostro cervello non va molto d’accordo con gli e poi. Se succede qualcosa adesso e poi ci ritroviamo dentro un auto, in un parcheggio, con una donna che ha appena visto pugnalare qualcuno, e poi nel 1977 con un topo che si aggira in un Mothercare, e poi c’è un vecchio che intona canti marinareschi in un frutteto infestato da fantasmi… be’, forse l’autore vuole metterci un po’ troppo alla prova”. 
 
L’alea, l’incertezza, la (s)fortuna hanno un ruolo ancillare, in una buona storia. Non sarà mai possibile eliminarle del tutto – e non è neppure desiderabile: si avrebbe un processo deterministico straniante, irreale – ma in una buona storia non sono mai gli effetti casuali a determinare il corso degli eventi.

Riprendiamo l’esempio della ragazzina e dell’amica che confabulano durante il compito in classe di matematica. La professoressa le becca. È stata sfortuna? Sì, in definitiva. Il caso ha voluto che la professoressa sollevasse lo sguardo e lo puntasse su di loro proprio nel momento più concitato della loro collaborazione illecita. Se vogliamo dire che le due amiche sono state “sfortunate”, diciamolo pure. Ma se trascorri gran parte delle due ore del compito a bisbigliare, mimare formule e passarti bigliettini, non puoi sorprenderti se “a un certo punto” vieni beccata.

Abituati a pensare in termini di cause e di effetti, e di effetti che a loro volta diventano cause di altri effetti e così via, perché la storia deve avere una logica riconoscibile al senso comune (e non può certo andare avanti a colpi di culo e botte di sfiga).

L’incidente scatenante è un evento – plausibile, ragionevole, che ci può ben stare nello status quo – che avvia una sequenza di altri eventi, il cui sbocco sarà la chiamata all’azione.

La chiamata all’azione è quell’evento – conseguenza degli eventi innescati dall’incidente scatenante – in cui la storia diventa personale: è quel momento in cui il protagonista realizza che la palla di neve dell’incidente scatenante, a monte, è rotolata giù per il pendio, ingrandendosi a ogni giro, sino a provocare una valanga che sta per venirgli addosso. 
 
Ops… mi sa che piove, mi sa…
 
Il 24 febbraio 2022, il tuo funzionario russo ha assistito sconvolto all’entrata in guerra del suo paese, e nei giorni successi ne ha parlato di continuo con familiari, amici e colleghi: si può dire che il conflitto con l’Ucraina abbia monopolizzato le sue giornate.

Ha manifestato tutta la sua preoccupazione per il futuro, si è lasciato andare a numerose e malinconiche riflessioni sulla precarietà e l’imprevedibilità della vita, e si è pure addentrato in ragionamenti sottili sulle conseguenze della guerra sull’economia mondiale; ma poi, giunto al termine di tutta questa raffinata filosofia, ha ripreso la sua vita di sempre con la stessa tranquillità di prima, come se nessuna catastrofe fosse realmente accaduta.

Nulla di ciò che sta accadendo lo sta privando dell’appetito o gli sta sottraendo una sola ora di sonno. Cosa c’è da temere, d’altra parte? La guerra si combatterà in territorio ucraino, e sarà una “guerra lampo”, perché la sproporzione di forze è così evidente che l’esito è già segnato.
 
O forse no.

Il mondo intero scende in campo in difesa dell’Ucraina, senza entrare direttamente nel conflitto, ma rifornendola di mezzi militari sempre più sofisticati. Kiev tiene botta, e a tratti sembra poter persino passare al contrattacco. Si inizia addirittura a parlare di riprendersi la Crimea. Più si va avanti più il conflitto Russia-Ucraina prende le apparenze di una terza guerra mondiale mascherata: Russia contro Resto del Mondo, col Resto del Mondo che tiene il suo avamposto in Ucraina.

Le cose si complicano. Quel che nelle previsioni doveva essere un conflitto di qualche settimana, al più di un paio di mesi, si sta rivelando un evento di proporzioni ogni giorno più grandi, che sta mettendo la Russia in affanno. Le perdite – di uomini e mezzi – si cumulano e raggiungono livelli di guardia.

Una mattina il funzionario ministeriale si sveglia dopo le sue belle otto ore di sonno filato, si prepara un caffè e dal suo i-Phone va sul sito della Izvestija, l’equivalente del nostro Corriere della Sera. E trasecola: Santa Madre Russia ha disposto l’arruolamento di tutta la popolazione maschile tra i 20 e i 50 anni, abile al servizio militare.
 
Tutto cambia, per il funzionario: dalla giacca e la cravatta alla mimetica, dalle scartoffie alla mitragliatrice. Ora sì che la guerra è diventata un fatto personale.
  
Puoi creare da te, a questo punto, la chiamata all’azione per l’impiegato dell’ente privato dallo stile ministeriale.

La nuova proprietà cinese potrebbe disporre ad esempio il trasferimento della sede legale da Roma a Milano, perché vuole trovarsi nella città simbolo dell’imprenditoria italiana, ma anche per mandare un messaggio a tutta la compagine: da oggi si cambia.

E insieme alla sede legale potrebbe trasferire a Milano anche gran parte delle strutture operative. A Roma rimarranno soltanto un ufficio di rappresentanza e dei servizi minori, più che altro per venire incontro alle richieste sindacali di tutela della fascia più anziana dei dipendenti (che avrebbe problemi nel trasferimento).

E ora cosa farà il tuo protagonista? Accetterà il trasferimento o si licenzierà? Comunque dovrà agire. Il passaggio di proprietà, dagli americani ai cinesi, è diventato un fatto personale, un evento che tocca la sua vita di ogni giorno.

Ho capito! La chiamata all’azione è il momento in cui l’incidente scatenante rivela le sue conseguenze pratiche sulla vita del protagonista. Ma – per curiosità – il protagonista può rifiutare la chiamata? Il funzionario russo non potrebbe scegliere la diserzione?

Bravo, bella domanda: finalmente ragioni a dovere.

Riflettiamo, e per riflettere a modo sarà il caso di mettere in pausa la discussione sul mondo della pagina, per tornare al mondo reale, alla vita vera, nella realtà di ogni giorno.

Se stai studiando come dovresti, allora avrai realizzato che numerose esperienze della tua vita sono state segnate da un incidente scatenante e da una correlata chiamata all’azione: a meno che tu non abbia trascorso l’intera esistenza sotto un albero a meditare – soluzione peraltro consigliatissima – sarai sicuramente andato incontro, almeno una volta, alla rottura di un equilibrio (incidente scatenate) che di li a poco ti ha imposto di prendere l’iniziativa (chiamata all’azione) per ripristinare un nuovo equilibrio.
 
E ogni volta che la vita ti chiama all’azione, tu hai sempre – in linea di principio – la possibilità di rifiutare, di alzarti dal tavolo e scegliere di non giocare.

Quando Pietro, in fuga, incontra Gesù e gli chiede “quo vadis?”, per sentirsi rispondere “a Roma, a farmi crocifiggere un’altra volta”, in quel momento – che rappresenta la sua chiamata all’azione, l’invito a smetterla di scappare e a iniziare ad agire, che qui vuol dire accettare con gioia il martirio e poi la morte – in quel preciso momento, dicevo, Pietro ha ancora la libertà di rifiutare la chiamata, di ignorare le parole di Gesù e continuare a scappare (sostanzialmente di rimanere nella sua normalità).

Tu puoi sempre dire “passo” – almeno in teoria – ma non puoi pensare di “passare la mano” senza andare incontro a conseguenze.

Vuoi scappare? Non vuoi consegnarti ai romani? Fallo. Scappa pure. E poi? Morirai comunque, un giorno. Dalla morte puoi scappare oggi o domani, non per sempre. L’ultima carta della vita la getta sempre lei, Sorella Morte. E cosa succederà, nel giorno della tua morte, se nel giorno della chiamata all’azione hai scelto il rifiuto?

Hai voluto evitare una “piccola sofferenza” – e sì, credimi, morire crocifisso a testa in giù era proprio una “piccola sofferenza” – e adesso? Dove sei adesso, Pietro? Probabilmente in quel luogo che i cristiani chiamano “inferno” e che nelle filosofie orientali corrisponde a uno dei reami inferiori del Saṃsāra. E ci sei non già perché qualcuno ti ci ha mandato per punirti, ma perché hai scelto volontariamente di andarci, nel momento in cui hai rifiutato la chiamata all’azione. La legge del karma è ferrea: se ti succede qualcosa – qualunque cosa, qui o altrove – è solo perché hai creato le condizioni affinché ti accadesse, perché nulla può accaderti se tu non vuoi, perché l’Universo non potrà mai colpirti se tu non gliene dai occasione.

Ora sei all’inferno, Pietro, perché hai scelto liberamente di rifiutare la chiamata, e sai qual è il grande problema dell’inferno? Non già che sia un inferno (questo è il meno) bensì la maledetta difficoltà a venirne fuori.

I reami demoniaci hanno il potere di trattenerti al loro interno, perché per chiamarsene fuori servirebbe razionalizzare la sofferenza, metterla in prospettiva, darle un significato, tutte cose tanto più difficili quanto più la sofferenza è grande, e siccome ogni angolo dei reami del diavolo è impregnato di sofferenza, e non sembra esservi spazio per stati d’animo diversi dalla sofferenza, nessuno sa bene cosa fare per riacquistare quel dominio di sé che solo può condurre alla salvezza.

E poi c’è un discorso di “tempi”, se così vogliamo dire: l’unità temporale dei reami demoniaci non è il giorno, ma il secolo, a voler esprimere il concetto con le metriche umane. Quel che qui sulla Terra è un intervallo temporale di “un giorno”, lì, all'inferno, è un secolo e forse di più. E che secolo, Pietro mio! Un secolo di pena continua, di sofferenza ininterrotta.

Quanto hai fatto bene, Pietro, ad accettare la chiamata all’azione a consegnarti ai romani e ad auto-infliggerti la crocifissione a testa in giù, perché ti ritenevi indegno di morire come il Maestro!
 
 
È normale – per Pietro – vedere il Sole sorgere, ma non sapere se lo vedrà anche tramontare.
È perseguitato dai romani, e questa è la sua normalità, con cui convive attraverso la fuga.
Può sembrare una situazione tremenda, vista da fuori,
ma per lui che la vive in prima persona è tutto ordinario:
non c’è nulla che lo sorprenda, nelle concitate dinamiche di ogni giorno.
L’incontro con Gesù è la chiamata all’azione nell’arco di trasformazione di Pietro,
o meglio, incidente scatenante e chiamata all’azione collassano qui nello stesso punto.
Questa sovrapposizione tra incidente scatenante e chiamata all’azione
non è un errore progettuale, ma è una soluzione sconsigliata, per almeno tre motivi.
Primo: mancanza di realismo. Secondo: ammissione di pigrizia. Terzo: rinuncia all’ironia drammatica.
Nella vita vera, nel mondo reale, esiste di regola una dinamica inerziale negli eventi,
che deve essere rispettata in fase di scrittura, nel mondo della pagina,
se non si vuole apparire pigri e svogliati agli occhi di un lettore tiepido.
E poi – di là di tutto – la separazione tra incidente scatenante e chiamata all’azione
crea in automatico dell’ironia drammatica, una spinta a proseguire nella fruizione dell’opera.
Il lettore-spettatore intuisce che l’incidente scatenante finirà col toccare il protagonista nel vivo
(laddove il protagonista ancora lo ignora o non lo immagina neppure)
e perciò è invogliato a sapere come – per quali vie – l’evento diventerà un fatto personale.
Tieni sempre separato l’incidente scatenante dalla chiamata all’azione nel progettare le tue storie,
senza cedere all’indolenza, senza giustificare scelte subottimali
con la formuletta stupida “nella realtà le cose sono andate così”. 

Il personaggio non può rifiutare la chiamata all’azione, e non tanto perché se la rifiuta il tuo meraviglioso romanzo – sorpresa! – finisce a pagina 10 (anziché svilupparsi lungo le 350 pagine che avevi programmato); non può rifiutare la chiamata perché rifiutare la chiamata significa alzarsi dal tavolo da gioco e lasciare sul piatto qualcosa a cui si tiene molto, che si ha a cuore, che non si vuole perdere; e ciò non è realistico.

Semmai, se vuoi, puoi introdurre la variante di un rifiuto iniziale, col sottointeso che la chiamata si ripresenterà, e stavolta in termini perentori e più drammatici.

Il tuo funzionario russo rifiuta la chiamata (alle armi) e sceglie la diserzione? E sia. Ma non puoi pensare che Santa Madre Russia faccia spallucce e dica “vabbè, ha disertato, pazienza”. I disertori verranno cercati uno a uno e – stanne certo – saranno stanati tutti. E, una volta trovati, saranno i primi a essere spediti al fronte, a diventare “carne da cannone”, ché tanto cosa vuoi che sia se muore un disertore? E se – 1 probabilità su 1000 – Santa Madre Russia non riuscisse a tirarti fuori dal buco dove ti sei rinchiuso, se proprio riuscirai a evitare la chiamata, sappi che una squadra paramilitare sta già bussando a casa della tua famiglia, per chiedere a tua moglie e ai tuoi figli di “rendere conto” – diciamo così – della tua diserzione. Perciò diserta pure, se vuoi. E poi sopportane le conseguenze.
 
La chiamata all’azione di Million dollar baby, nella descrizione di Wikipedia:
“Maggie chiede a Frankie di essere il suo allenatore, ma l’uomo in un primo momento rifiuta.
Poi, davanti all’incredibile insistenza e ostinazione della ragazza, cambia idea
e decide di prenderla sotto la propria ala protettiva”.
 
 
 
La chiamata all’azione nel film I Croods.
Nonna Croods:“Ma dove… siamo?”
Papà Croods: “Non lo so, non ne sono sicuro… giù, in un posto più in basso.
Ma una cosa è certa: non possiamo più tornare indietro” 
C’è una finezza che merita di essere rilevata.
Uno dei modi per obbligare il personaggio a rispondere alla chiamata
è nel negargli la possibilità materiale di rifiutarla,
contrapponendogli un ostacolo di tipo ambientale (come avviene nel film I Croods).
Se ben progettato, e attuato con cura, è un modo elegante di fare del luogo un personaggio.
 
Per riassumere.

L’incidente scatenante è l’ennesimo ghiacciaio che si scioglie al Polo Nord, di cui senti parlare al telegiornale, commentando la notizia con sconforto, domandanti dove andrà a finire il pianeta se si continua così.

La chiamata all’azione è… che cazzo ci fa tutta questacqua nel mio giardino?

Momento determinante e difetto fatale

 
Il tuo personaggio – in un modo o nell’altro – ha accettato la chiamata, è “entrato nell’avventura”, si trova nel “nuovo mondo”, in un “mondo sconosciuto”,  come si dice per enfatizzare il passaggio da una situazione stabile a una turbolenta, e segnalare il vero e proprio inizio della storia.

Il “nuovo mondo” può essere diverso in tutto e per tutto rispetto al vecchio (pensa al tuo funzionario russo: dalla giacca e la cravatta alla tuta mimetica, dal computer alla mitragliatrice) oppure dalle sembianze esteriori simili al precedente, ma immerso in ben altro clima (pensa all’impiegato che si è trasferito da Roma a Milano: gli uffici sono pur sempre uffici, ma Milano non è Roma, e l’aria che si respira è tutt’altra).

In questo “nuovo mondo” il protagonista è chiamato ad agire, a fare qualcosa.
 
Il problema è che le sue prime azioni saranno totalmente fallimentari, a causa di una zavorra che inconsciamente si porta dietro, e di cui dovrà appunto diventare consapevole lungo la storia, per rimuoverla e arrivare alla “vittoria”.

Questa zavorra si chiama difetto fatale ed è ciò che dà un significato drammatico all’intera vicenda: tutte le storie – in soldoni – ci parlando del difetto fatale, del suo superamento (negli archi eroici) o del mancato superamento (negli archi tragici) con tutte le associate conseguenze.

Cos’è un difetto fatale? È anzitutto un difetto. 
 
E cos’è un difetto? Calma e ragioniamo, ché la prima risposta è sempre sbagliata.

La parola “difetto” l’associamo a un tratto caratteriale intrinsecamene negativo, a un modo di fare censurabile di per sé, sempre e comunque. 
 
Ma da cosa nasce questa associazione? In pratica dal confronto fra il tratto caratteriale e un sistema di valori preassegnato e immodificabile (determinato dell’educazione ricevuta, dalle esperienze vissute, dai condizionamenti dell’ambiente in cui viviamo).
 
Se ti è stato inculcato che “l’egoismo è male” e “l’altruismo è bene”; se con l’atteggiamento tipico del bias da conferma ti sono stati mostrati diversi casi in cui l’egoismo ha condotto a conseguenze negative e l’altruismo a conseguenze positive; se l’ambiente in cui vivi ha fatto dell’egoismo uno stigma sociale e dell’altruismo un motivo di vanto, ecco che vedrai nell’egoismo una manifestazione difettosa dell’animo umano, e nell’altruismo invece un pregio, sempre e comunque, a prescindere.
 
Ebbene: devi radere al suolo questa visione “assoluta” delle cose e costruirne una “relativa”, se vuoi realizzare delle buone storie.

Un difetto è un difetto solo ed esclusivamente perché crea problemi specifici in una circostanza specifica a un personaggio specifico, perché mette nei guai quel particolare personaggio in quella precisa situazione di vita.
 
Sei abituato a pensare all’altruismo come a un pregio e all’egoismo come un difetto, e in astratto tutti possiamo concordare su queste associazioni. Ma nel mondo della pagina, come nel mondo reale, non si vive di astrazioni. Nella specifica situazione in cui ti trovi, dato il particolare contesto in cui sei collocato, cos’è che ti crea problemi, che ti impedisce di agire come dovresti? L’altruismo o l’egoismo? Se l’altruismo crea problemi, allora l’altruismo è un difetto. Se l’egoismo ti permette di far filare tutto liscio, l’egoismo è un pregio. E viceversa.

Non si danno mai giudizi assoluti sul profilo caratteriale del personaggio, ma solo relativi, e precisamente relativi alle implicazioni del suo profilo caratteriale sulle possibilità di compiere le azioni necessarie per “vincere” (e vedremo presto cosa vuol dire “vincere”, all’interno della storia).

Di più: una storia ben congegnata la riconosci perché ciò che ora – nel “nuovo mondo”, dopo la chiamata all’azione – chiamiamo difetto fatale, nello status quo rappresentava un eccellente sistema di sopravvivenza.

Poniamo che il tuo impiegato dell’ente privato avesse sviluppato negli anni il tipico atteggiamento ministeriale di chi fa quel che gli è richiesto di fare, e lo fa bene, a modo, con scrupolo, senza però mai prendere iniziative, senza nessuna intraprendenza. E questa sua caratteristica – diciamo “remissiva” – era sempre stata apprezzata dai capi, perché i capi volevano esattamente questo: qualcuno che eseguisse gli ordini senza discutere, ché se ognuno si mette a dire la sua, se tutti pensano di avere diritto di parola, si fa solo un gran casino e non si conclude nulla.

E tutto – in effetti – andava a meraviglia, per il tuo protagonista: era molto apprezzato dai capi diretti, che ne parlavano sempre bene ai loro superiori; e così lui era sempre in prima linea quando si dovevano decidere le promozioni e le assegnazioni dei bonus; la “remissività” era a tutti gli effetti un pregio, perché permetteva di vivere alla grande.
 
Ma ora – con la proprietà cinese – le cose sono cambiate. Brainstorming è diventata la parola ricorrente: negli uffici, nei corridoi, al bar, a mensa, e persino nei bagni. Ora ci si aspetta un contributo da parte di tutti, nessuno escluso, e che sia un contributo valido, che può essere accettato o rifiutato, ma comunque meritorio di discussione. Brainstorming non significa “ognuno si senta libero di sparare la sua cazzata”. Brainstorming è una procedura seria e rigorosa, e chi non sa stare al gioco, è meglio che impari in fretta, sennò gli conviene a guardarsi intorno. Ciò che prima (nello status quo) era un piede schiacciato sull’acceleratore, ora (nel “nuovo mondo”, dopo la chiamata all’azione) è diventato un freno a mano tirato.
 
Il tuo protagonista – nel “nuovo mondo”, dopo la chiamata all’azione – ha dunque un difetto.
 
E perché questo difetto lo qualifichiamo “fatale”? Perché è suscettibile di metter il protagonista in casini progressivamente più gravi, se non viene rimosso: più si va avanti nella storia, più il protagonista sprofonderà nella merda a causa del suo difetto, e finirà fatalmente col “perdere” se non lo rimuoverà (e capiremo tra poco cosa voglia dire “perdere”, all’interno della storia).

Il difetto fatale è la sorgente da cui sgorga la storia.
 
Pensaci: se il protagonista non avesse alcun difetto rispetto al “nuovo mondo”  – o, il che è lo stesso, se fosse in grado di riadattarsi all’istante al “nuovo mondo”, senza problemi – quale sarebbe l’elemento di novità? Saremmo semplicemente transitati da una situazione di normalità a un’altra: una banale ricalibrazione “a costo zero”.

Dal prologo del libro (e del film) I Croods.
“I Croods ce l’hanno fatta, grazie a mio padre.
Lui è forte e segue le regole che dipinge sui muri della caverna:
IL “NUOVO” È MALE, LA CURIOSITÀ È MALE, USCIRE DI NOTTE È MALE.
In pratica, tutto quello che è divertente è male. Benvenuti nel mio mondo.
Ma questa è la storia di come tutto è cambiato in un istante.
Perché noi non sapevamo che il nostro mondo stava ormai per finire,
e non c’erano regole dipinte nella nostra caverna che potessero prepararci a questo”.
Il senso dell’avventura è comunicato in modo esplicito (il che non è un esempio di eleganza)
ma rende perfettamente la natura dell’esperienza che si andrà a vivere:
non c’è nulla – nello status quo – che possa aiutare il protagonista 
a cavarsela dopo la chiamata all’azione – nel nuovo mondo
se non la sua capacità, e prima ancora la volontà, di intraprendere un percorso di cambiamento.
 
Il personaggio ha dunque un difetto, e per di più fatale, ed è questo difetto fatale a condizionare il suo agire, a impedirgli di comportarsi nel modo “giusto” – nel senso di “idoneo rispetto all’obiettivo da conseguire” – e a porlo in situazioni via via più intricate, ad elevato contenuto drammatico.
 
Per dirlo con le parole di David Mamet – regista, sceneggiatore e drammaturgo, vincitore del Pulitzer – “dovete sempre partire da questo sacrosanto presupposto: la scena deve risultare drammatica. Quindi, dovrà prendere le mosse da un problema che l’eroe è costretto ad affrontare, e culminare con il suo rendersi conto di essere con le spalle al muro o che esiste un’altra soluzione”.
 
Il personaggio non fallisce perché è sfortunato (la sfortuna quasi non esiste nella pagina) o perché il mondo è cattivo e ingiusto o per chissà quale altra stramba ragione.
 
Il personaggio fallisce (principalmente) a causa del suo difetto fatale, vale a dire per una causa che può rimuovere, che è nelle sue facoltà rimuovere, se trova la forza di farlo.

Il problema, però, è che cambiare è dura” – osserva Will Storr – “Le nostre imperfezioni – soprattutto gli errori che facciamo in merito al mondo degli umani e a come vivere con successo al suo interno – non sono semplicemente idee relative a questo e a quello, il che ci permetterebbe di individuarle facilmente e scrollarcele di dosso. Sono profondamente connaturate ai nostri modelli allucinatori. Le imperfezioni che ci caratterizzano fanno parte della nostra percezione, del nostro modo di sperimentare la realtà. E questo non potrà che rendercele, in larga misura, invisibili.

Correggere le nostre imperfezioni presuppone, anzitutto, di riuscire a vederle. Quando veniamo messi in discussione, spesso ci rifiutiamo di riconoscerle. Gli altri ci accuseranno di ‘negare l’evidenza’. E a ragione: noi non le non vediamo proprio. Anche se riuscissimo a vederle, ci appariranno quasi sempre non come difetti, bensì come virtù.
[…].

Individuare e riconoscere le nostre imperfezioni, e di conseguenza cambiare ciò che siamo, richiede di demolire la struttura stessa della nostra realtà per poterla ricostruire in una forma nuova e migliorata. Non è facile. Anzi. È doloroso e disturbante. Spesso combatteremo con tutte le nostre forze per opporci a un cambiamento così radicale. Ecco perché definiamo un ‘eroe’ chi ci riesce
”.
 
L’arco di trasformazione – in questo passaggio tecnico – rivela il suo valore educativo, pedagogico: non dare la colpa ad altri, se le cose non vanno come desideri, perché se le cose non girano come vuoi, è principalmente colpa tua; quindi smetti di inveire contro il destino cinico e baro, alza il culo, e fammi vedere il tuo valore anche fuori dalla zona di conforto della tua precedente situazione di normalità.
 

Il momento determinante è quel passaggio della storia dove il lettore capisce – senza incertezze, senza ambiguità – qual è il difetto fatale del protagonista.

E qui si pone un problema tecnico: il lettore non potrà mai capire quale sia il difetto fatale del protagonista, in un punto preciso della storia, se non lo ha già intravisto prima, a più riprese, e possa quindi fare 2+2 una volta arrivato al momento determinate (realizzare cioè, anche solo inconsciamente, che il difetto fatale del protagonista è – ad esempio – “la remissività”).

Il difetto fatale, a rigore, occorre percepirlo già nello status quo – quando magari non rappresenta neanche un difetto, ma addirittura un pregio – e consolidarlo man mano, dall’incidente scatenante alla chiamata all’azione, sino a vederlo esplodere nel momento determinante.

Questa traiettoria comunicativa è la soluzione tecnicamente più elegante, ma anche la più complessa da realizzare, e comunque sempre aperta a margini di incertezza. Il lettore capirà – anche solo inconsciamente – qual è il difetto fatale del protagonista? Sarai riuscito a metterlo in condizione di fare 2+2 quando arriverà la scena che codifica il momento determinante? Il dubbio di aver mancato il bersaglio c’è sempre e non si può mai eliminare del tutto.

In molte sceneggiature, anche nelle migliori, ci si toglie dall’imbarazzo nel modo più semplice possibile, che non sarà un esempio di eleganza, però ha il pregio di smazzar via ogni ambiguità: il difetto fatale viene dichiarato in una battuta di dialogo.
  
La dichiarazione del difetto fatale in Luca.
“So qual è il problema: hai un Bruno in testa!
Già, capita anche a me:
Alberto non ce la fai, Alberto ti fai male, Alberto non vorrai mangiarlo…’
Luca, è semplice: non ascoltare quel babbeo di Bruno!”.
 
 
 
La dichiarazione del difetto fatale nel film Codice d’onore.
“Lei è un tale vigliacco…
non è possibile che le lascino portare quell’uniforme”.
 
 
 
La dichiarazione del difetto fatale in Rocky.
“Sei una scamorza, e questa è una palestra, non un posto di ristoro…
Il fegato ce l’hai, ma quando combatti sembri uno scimmione,
l’unica cosa buona è che non ti hanno mai rotto il naso.
Beh, tieniti il tuo nasetto… e quel poco di cervello che ti resta”.
 
 
 
 La dichiarazione del difetto fatale in
Ritorno al futuro.
“So cosa stai per dire Marty, e hai ragione, hai ragione…
ma tu lo sai… che non sono molto bravo a difendermi”.
 
 
 
La dichiarazione (di una sfumatura) del difetto fatale nel film L’attimo fuggente.
“Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso.
C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli.
Farsi espellere dalla scuola non è coraggioso, è stupido, perché perderebbe delle occasioni d’oro”.
 
 
 
La dichiarazione (di una sfumatura) del difetto fatale nel film L’attimo fuggente.
Neil Perry: Vieni alla riunione?
Todd Anderson: Non lo so. Forse
Neil Perry: Non te ne frega niente di quello che dice Keating, vero?
Todd Anderson: In che senso?
Neil Perry: Tu sei dei nostri! II sangue dovrebbe ribollirti, tu invece non ne hai affatto.
Todd Anderson: Vuoi che esca dalla setta?
Neil Perry: No, non lo voglio! Ma devi passare all’azione, non puoi starci solo a parole
Todd Anderson: Senti, apprezzo i tuoi consigli, ma io non sono come te
Quando parli tu, gli altri ascoltano. Per me è diverso
Neil Perry: Non potresti cambiare?
Todd Anderson: No! Non lo so. Il punto è un altro.
Tu non ci puoi fare niente, quindi lasciami in pace. So badare a me stesso, va bene?
Neil Perry: No
 
 
 
La dichiarazione del difetto fatale in
Coach Carter
“Da quello che vedo sei un ragazzo molto confuso e pieno di paura. 
Qual è la tua paura più profonda? Di non essere all’altezza?”
 
 
 
La dichiarazione del difetto fatale nel romanzo La cittadella.
 
D’accordo: il tuo protagonista ha un difetto fatale.

E come si costruisce questo difetto fatale?

Posso dirti innanzitutto cosa non fare: non confondere – non ti azzardare a confondere – l’inizio con la fine.

Ritorna alle modalità di formulazione della premessa: sono qualitativamente le stesse con cui si costruisce il difetto fatale.

Così come la premessa è la sintesi estrema di un’analisi rigorosa, estesa, approfondita e sistematica, allo stesso modo il difetto fatale viene riassunto in una parola soltanto a conclusione di un’esplorazione a 360 gradi della personalità del tuo protagonista.

Non dire “il difetto fatale è la remissività” (o l’egoismo o la generosità o vedi tu che altro) illudendoti di aver smarcato la pratica. Perché il difetto fatale non è una pratica burocratica di cui liberarsi il prima possibile, per poter poi scrivere, scrivere, scrivere.

Il difetto fatale è la sorgente da cui sgorga la storia, senza difetto fatale non c’è nessuna storia, quindi il difetto fatale va conosciuto in tutte le sue sfumature. E non per ragioni accademiche o filosofiche, ma per motivi maledettamente pratici. Perché la storia – in soldoni – ci parlerà dei continui e problematici tentativi di rimozione del difetto fatale, e il difetto fatale non lo rimuovi così, di botto, in un colpo solo, ma passo dopo passo, una strato dopo l’altro – come sbucceresti un carciofo – per cui a ogni momento è cruciale sapere quali sfumature del difetto fatale sono ancora presenti (e condizionano quindi negativamente la visione del mondo e le azioni correlate) e quali invece sono state rimosse (e non zavorrano più il tuo protagonista). 
 
Non serve a nulla dire “il difetto fatale del mio protagonista è l’egoismo” se poi non sai stilare all’istante una lista di almeno dieci situazioni diverse in cui l’egoismo dà segni visibili di sé, se non sai mostrare una varietà di casi concreti in cui l’egoismo si manifesta e diventa quindi osservabile.
 
 
Il giocatore “218” di Squid Game: un ottimo esempio di costruzione di un profilo caratteriale.

Ragionare a fondo sulle innumerevoli e variegate conseguenze pratiche del difetto fatale significa equipaggiarsi in vista della scrittura del Secondo Atto. Espresso in negativo: senza una conoscenza profonda del difetto fatale non riuscirai materialmente a scrivere il Secondo Atto.
 
Torna al modulo 18D, per ripassare come tradurre i  tratti generali di un personaggio in un modello comportamentale effettivamente osservabile, e riadatta il tutto al difetto fatale.


Le storie ci piacciono perché capiamo tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi.
E quindi sarebbe bello capire anche da dove proviene il difetto fatale,
intravederne le origini, le cause, le motivazioni. 
Perché il tuo personaggio è egoista? Cosa lo ha reso tale?
Quale educazione, quali frequentazioni, quali esperienze?
Sarebbe bello se il lettore lo capisse, o anche solo lo intuisse,
perché in una storia ben fatta si capisce sempre da dove provengono le cose.
È un tocco di grande eleganza far intravedere la provenienza del difetto fatale,
offrire al lettore-spettatore dell’opera – libro, film o serie tv che sia
una “generosa esposizione di indizi sul perché i protagonisti si comportano in un determinato modo”,
 per dirlo con le parole di Will Storr.
Ma va da sé che la  “generosa esposizione” è da intendersi nella logica dell’iceberg:
1/8 di cose ben scelte e ben scritte, per evocare i 7/8 sommersi.
Vale per tutto, e quindi anche per l’origine del difetto fatale,
per le sue cause prime, che non puoi certo mostrare interamente nei loro 8/8
(perché ciò significherebbe scrivere in parallelo la biografia del personaggio).
Devi pizzicare quell’ottavo di cose – nel suo passato – che restituisca il senso del tutto,
e mostrarle nel presente narrativo della storia nel modo più naturale possibile.
E, al solito, resisti alla pigrizia.
Non saturare gli 8/8 delle origini del difetto fatale con un solo evento,
così da poterlo mostrare nella sua interezza
e far dire al lettore “ah, ecco perché è egoista: ora tutto si spiega”.
Nulla ha una solo causa, tutto dipende da una molteplicità di fattori,
e qui servono intelligenza e abilità per riuscire a restituirne il senso della cosa.
Se all’origine del difetto fatale vi sono “n” eventi, ma ognuno di essi ha importanza “1/n”
– se le cause del difetto fatale sono “democratiche”, se “uno vale uno” –
sarà maledettamente complicato ricostruirne la genesi, 
tenuto conto che sulla pagina si possono scrivere solo 1/8 di cose.
Quindi, se da un lato nessun evento, da solo, può spiegare il difetto fatale,
dall’altro deve però esservi una gerarchia tra gli eventi alla base del difetto fatale,
di cui si possa dare una conveniente rappresentazione sulla pagina.
In sintesi:
alla base del difetto fatale ci sono “n” cause; 
non tutte hanno la stessa importanza, alcune pesano di più, altre meno;
nessuna delle “n” cause può però, da sola, spiegare tutto;
bisogna dunque attraversarle trasversalmente,
basandosi sulle principali, ma senza trascurare le secondarie,
in modo da restituirne la migliore approssimazione possibile,
in quell’ottavo di cose che si scriveranno sulla pagina.
Questo lavoro oscuro si rivelerà fondamentale nel Secondo Atto,
quando il difetto fatale dovrà essere rimosso, se si vuole che il protagonista arrivi alla vittoria.
Perché quel che ora chiamiamo “difetto fatale”, e dobbiamo smontare, sta lì da una vita,
accompagna il protagonista da sempre, e quindi non sarà facile rimuoverlo.
Noi, ora, lo chiamiamo “difetto fatale” e lo vediamo sotto una luce fosca, 
ma forse, in passato, ha rappresentato il fulcro del sistema di sopravvivenza del personaggio,
e magari ha pure tenuto a bada le sue paure, i timori e dei conflitti irrisolti,
lo ha protetto, in senso ampio, per gran parte della sua vita.
Capisci da solo che abbandonarlo non sarà per nulla facile.
 
 
 

Il sistema di valori della famiglia Croods è basato sull’aver paura
– “la paura ci tiene in vita” è il leitmotiv del padre –
e ha funzionato alla grande per lungo tempo,
tant’è che i Croods sono gli unici a esser sopravvissuti.
“Aver paura” è un pregio, nello status quo,
ma si rivelerà uno stato d’animo insostenibile,
quando la famiglia sarà catapultata nel nuovo mondo.

Primo punto di svolta e posta in gioco

 
Riepiloghiamo.

La normalità del protagonista è stata spezzata dall’incidente scatenante; lui, il tuo protagonista, al principio non ha colto la rilevanza dell’evento; ovviamente se n’è accorto, e magari ha pure attirato la sua attenzione, ma non l’ha percepito come come un evento suscettibile di stravolgere la sua vita di ogni giorno; l’incidente scatenate ha però provocato un altro evento che ne ha causato un altro ancora, sino ad arrivare alla chiamata all’azione, quando il personaggio ha realizzato che tutta la faccenda lo tocca nel vivo; il personaggio – in un modo o nell’altro – risponde alla chiamata, e si ritrova catapultato in un “nuovo mondo” – che non conosce affatto o non conosce come dovrebbe o non conosce come crede di conoscere – e in cui comunque è impreparato a vivere a causa di un difetto fatale (che non sa di avere, ma di cui ben presto intuirà la presenza, a causa dei disastri a cui andrà incontro).

Avevi fatto una domanda intelligente, nella sezione dedicata alla chiamata all’azione: il personaggio può rifiutare la chiamata?

Sì: il personaggio – in astratto, in teoria – può rifiutare la chiamata; ma non lo fa (o al più può farlo la prima volta, non la seconda) non tanto o non solo perché se rifiuta la chiamata non c’è nessuna storia (e – senza storia – tu non venderai milioni di copie del tuo romanzo); il personaggio finisce per accettare la chiamata all’azione perché rifiutarla significherebbe perdere qualcosa a cui tiene molto.

Rifiutare la chiamata all’azione significa perdere la posta in gioco, laddove la posta in gioco va invece difesa contro tutto e tutti, lottando contro tutto e tutti, e in primis contro sé stessi, contro il proprio difetto fatale che è la causa principale che la mette in pericolo.

Poche chiacchere e zero stronzate, quando parliamo di posta in gioco.

L’unica lettera con l’80 centesimi del Governo Provvisorio di Parma:
l’oggetto più raro della filatelia classica italiana e una delle gemme filateliche mondiali.
È di proprietà della famiglia Bolaffi da oltre mezzo secolo
e al centro di un episodio di folklore tramandato dalla tradizione orale.
Sul finire degli anni ’70 un collezionista offre un miliardo di lire a Giulio Bolaffi, pur di averla.
E la risposta del capo di casa Bolaffi restituisce in un colpo tutti i significati impliciti nella lettera:
“Ingegnere, io non voglio offendere il suo denaro; lei, però, non offenda i miei francobolli”.
 
Non starò qui a parlarti della magia del collezionismo, perché ho già stilato altrove il “Manifesto dei Collezionisti”.
 
Mi limito a stressare un punto decisivo: il denaro, nel collezionismo, è condizione necessaria (come lo è dappertutto) ma largamente insufficiente  (a differenza di ciò che avviene dappertutto).

Ammettilo: ci sono decine, centinaia di oggetti, che ti guardano ammiccanti dalle vetrine o dallo schermo del computer, come le troie di un bordello. Sono lì per te, a disposizione. Puoi averle quando vuoi. Ti serve solo il denaro. Magari ora non ne hai a sufficienza, e ti tocca sbavare sulla vetrina o sullo schermo, ma se un giorno riuscissi ad averne abbastanza, allora l’oggetto si materializzerà all’istante accanto a te, il suo possesso sarà garantito.
 
Funziona così per tutto, dappertutto, tranne che nel collezionismo.

Gli oggetti da collezione non sono disponibili on demand. Puoi pure avere la possibilità di aggiungere zeri a piacere ai tuoi assegni, ma l’oggetto da collezione non è lì a tua disposizione. Devi attenderlo, e l’attesa – il saper aspettare con fiducia e determinazione, senza lasciarsi tentare da altro – è un esercizio di auto-controllo tra i più difficili in assoluto.

C’è un pozzo di frasi, citazioni e aforismi che celebrano il raggiunto possesso di un oggetto da collezione  come il ricongiungimento con una persona amata, ma soprattutto ci sono innumerevoli episodi storici di per sé esplicativi degli sconvolgimenti emotivi indotti dal collezionismo.

1496. Isabella d’Este sarà pur stata una delle dame più raffinate del suo tempo, ma la sua natura appetitosa, il suo insaciabile desiderio di cose antique, la sua smania per cose rare et excellenti, la spinsero per tutta la vita a bussare con insistenza alle porte dei collezionisti, ad approfittare del loro bisogno di denaro, a saccheggiare gli eredi, a tenere atteggiamenti di rara improntitudine pur di arrivare per prima, perché le cose ne sono più care quanto più presto le havemo.

1626. Nasce Cristina di Svezia, la femminuccia scambiata per maschio per il suo clitoride pronunciato, la regina virile, senza trono, insofferente verso la sua condizione di donna. Intelligente, colta, spregiudicata, sessualmente all'avanguardia. Collezionista rapace, anche quando pressata da ristrettezze economiche: la sua cupidigia era nota in tutte le corti europee, la sua brama di possesso trascendeva ogni principio morale.

1650. La testa di Carlo Stuart d’Inghilterra non ha ancora smesso di rotolare accanto ai piedi del boia, e la sua spettacolare collezione è già preda degli emissari di altri Re collezionisti, inviati a Londra a contendersi quei tesori di arte romana, rinascimentale e barocca, messi assieme in oltre vent’anni di appassionate e meticolose ricerche. Perché il collezionista è un predatore, le collezioni dei rivali sono territori di caccia inavvicinabili, e l’abilità è invaderli per primo, quando l’imprevisto li rende finalmente accessibili.

1742. Il Ducato di Modena è in bancarotta. Il Duca Francesco III d’Este da un lato, Re Augusto III di Polonia dall’altro, e in mezzo la collezione del Duca, di cui il Re conservava invidiosi ricordi da quando l’aveva ammirata trent'anni prima. La collezione trasloca da Modena a Dresda, tra firme false e intrighi di corte. Il Ducato è salvo, e vivrà ancora per poco più d’un secolo, sino al 1859, per poi finire fagocitato dal Regno di Sardegna. La collezione, invece, è persa per sempre.

1796. Napoleone riceve un curioso comando, nel corso della sua Campagna d’Italia. “Cittadino generale, il Direttorio esecutivo è convinto che per voi la gloria delle belle arti e quella dell’armata ai vostri ordini siano inscindibili. Questa gloriosa campagna deve sommare allo splendore dei trionfi militari l’incanto consolante e benefico dell’arte. Il Direttorio esecutivo vi esorta pertanto a cercare, riunire e far portare a Parigi tutti i più preziosi oggetti”. Quella sofisticata associazione – tra la materialità delle conquiste militari e il sottile piacere dell’arte – sarà l’ossessione del Generale divenuto Imperatore, e le razzie napoleoniche – nel giudizio dello storico Paul Wescher – diventeranno “il più grande spostamento di opere darte della storia”.

1938-1941. Hitler stila l’elenco delle opere d’arte di origine tedesca in mano ai Paesi occupati dai nazisti. Ordina requisizioni in Austria e Polonia, e poi in Francia e in Olanda. Rispolvera il progetto napoleonico di un museo europeo di capolavori, per farne il piedistallo della razza superiore a cui affidare il ricordo di sé. Una fitta rete di antiquari rastrella le opere più belle e famose, pagando i collezionisti con visti di espatrio e il rilascio di familiari deportati.

1952-1954. Il movimento dei “Liberi Ufficiali” compie un colpo di Stato in Egitto, nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1952. Le forze armate occupano i Ministeri, le stazioni radio e i presidi militari. Il Cairo è in mano loro. Re Faruk abdica il 26 luglio, il Generale Naghib diventa il Capo del Governo. L’anno dopo tramonta la monarchia e sorge la repubblica. Ci si può anche rassegnare alla perdita di un Regno, ma non a quella di una collezione. Re Faruk, dall’esilio, tenta con ogni mezzo di rientrare in possesso dei suoi amati francobolli, messi all'asta nel febbraio del 1954 dal neonato Governo, e tra cui era presente una delle due lettere col 3 lire del Governo Provvisorio di Toscana. La causa legale non sortisce effetti, però il messaggio rimane: toglietemi il Regno, ma non i miei francobolli.
 
Le collezioni sono cerchi magici in cui trovano riparo emozioni e sentimenti, scrigni che custodiscono persone ancor prima che oggetti, ma rappresentano anche bottini di guerra, segni di supremazia, mezzi di umiliazione del vinto. Parafrasando Mao Tsé-Tung, l’acquisto di un oggetto da collezione non è un pranzo di gala, un’opera letteraria, un disegno o un ricamo; non lo puoi realizzare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con la stessa dolcezza e cortesia; l’acquisto di un oggetto da collezione è una conquista, un atto di violenza col quale un collezionista ne rovescia un altro.

Sì, collezionare è un gioco sofisticato, per intenditori, riservato ad anime colte e raffinate, ma questo gioco mostra al fondo il furore indomabile degli spiriti sanguinari.
 

 
Il tuo protagonista è il più celebrato collezionista di francobolli degli Antichi Stati Italiani, ormai da oltre un decennio. La sua collezione conquista medaglie d’oro sempre più grandi e pesanti, ogni volta che viene esposta in una manifestazione internazionale. Il mondo del collezionismo filatelico è ai piedi del tuo collezionista, lo venera come un dio terreno.

Da qualche anno, però, si è affacciata sulla scena una nuova figura: un industriale ben fornito di denaro, anche lui con una passione smodata per la filatelia classica. Non badando a spese, con l’ausilio dei migliori mercanti su piazza, e in tempi ragionevoli rispetto alle lunghe attese imposte dal collezionismo, è riuscito a metter su una collezione notevole, sempre più apprezzata ogni volta che viene esposta.

Nell’internazionale di Londra si è andati a un soffio dal sorpasso: 98/100 il punteggio assegnato al collezionista storico, 96/100 quello riconosciuto al nuovo rampollo.

Mancano tre mesi alla mondiale di New Jork, e il tuo protagonista – il collezionista storicamente celebrato da tutti, il dio in terra – è venuto a sapere che il suo rivale è in trattativa per l’acquisto dell’unica lettera con l'80 centesimi del Governo Provvisorio di Parma, una delle gemme filateliche mondiali, fuori mercato da oltre mezzo secolo.

Se il suo rivale arriverà a mettere le mani sull’80 centesimi di Parma, per lui sarà finita; si vedrà scalzato dal trono, e potrebbe addirittura essere dimenticato da tutti, davanti a un simile colpo di mano.

Questo non deve succedere. Se davvero l’80 centesimi di Parma è finalmente in vendita, dopo oltre mezzo secolo, lui deve assolutamente mettergli le mani sopra prima del suo avversario.
 



Il tuo protagonista è un collezionista di francobolli degli Antichi Stati Italiani. La passione gli è venuta da bambino, trasmessa dal padre, un grande appassionato di filatelia classica, con grandi disponibilità finanziarie, e un sogno da realizzare: possedere tutte le più grandi rarità, non già per esporle ed essere premiato o acclamato, ma solo per la sua intima soddisfazione.

E il tuo protagonista – il figlio del grande collezionista – a dirla tutta non è che fosse realmente travolto dalla passione filatelica. Aveva piuttosto una venerazione per il padre, e di qualunque cosa il padre si fosse appassionato, lui lo avrebbe seguito nella stessa direzione. Anche lui è un esperto di francobolli antichi, anche lui si entusiasma a parlarne e si emoziona nel possederli, ma è principalmente l’aggancio col padre a renderli degli oggetti speciali, unici.

Il padre è a un passo dal coronare il suo sogno, ha raccolto tutte le più grandi rarità degli Antichi Stati, e gliene manca solo una: la lettera con l’80 centesimi di Parma.

Ha espresso un desiderio, in punto di morte: il figlio dovrà acquistare quella lettera, se mai ne avesse la possibilità, e portare così a compimento quel che era il suo grande desiderio – suo, del padre – fin da bambino. E il figlio – che ha sempre venerato il padre – gli ha promesso che lo farà.

Dopo alcuni anni dalla morte del padre, negli ambienti collezionistici inizia a circolare con insistenza una voce: l’80 centesimi di Parma uscirà in asta, e pare che vi siano almeno due grandi collezionisti pronti a contenderselo senza badare a spese.

Se davvero l’80 centesimi di Parma dovesse andare in asta, per lui – per il nostro protagonista – non ci sarebbero possibilità. Bisogna assolutamente mettere le mani sull’80 centesimi, prima che la casa d’asta disponga la vendita pubblica.
 
 
Dovresti aver avvertito  – a intuito, a buon senso – una differenza decisiva tra le due storie. Entrambe – esteriormente – hanno al centro l’80 centesimi di Parma, ed entrambi i protagonisti – il collezionista famoso da un lato, il figlio del collezionista defunto dall’altro – vogliono entrarne in possesso, ma… dai, su, sorprendimi: completa la frase.

Qual è la differenza tra i due protagonisti? Vogliono entrambi la stessa cosa, lo stesso oggetto, ma… cos’è che li differenzia, e che fa tutta la differenza, ai fini della storia?
 
È una domanda in stile “di che colore era il cavallo bianco di Napoleone”: ce la puoi fare.

I due protagonisti si differenziano per il movente, per la ragione che li spinge a lottare.

Il collezionista famoso vuol entrare in possesso dell’80 centesimi per difendere la sua posizione di centralità all’interno del mondo filatelico: si sente auto-realizzato, ma ora questa piacevole sensazione è sotto l’attacco di un rivale che vuole spodestarlo dal trono.

Il figlio del collezionista defunto vuole l’80 centesimi per onorare l’impegno preso col padre in punto di morte: se non riuscisse a mantenere la promessa, allora sentirebbe di aver perso il rispetto del genitore, senza possibilità di riconquistarlo.

Ti invito a notare un fatto fondamentale: entrambi i protagonisti difendono ciò che già posseggono.
 
Il collezionista famoso è ancora il Re della Filatelia, ma rischia di non esserlo più. Il figlio del collezionista ha sempre avuto il rispetto del padre, ma ora teme che possa idealmente venir meno. La conquista dell’80 centesimi è solo un’azione esterna strumentale a difendere ciò che internamente già si possiede: l’autorealizzazione in un caso, il rispetto nell’altro.
 
“Autorealizzazione” e “rispetto” sono ciò per cui i due protagonisti stanno lottando nelle rispettive storie: “autorealizzazione” e “rispetto” sono le rispettive poste in gioco.

E dall’esempio si può ora risalire alla sua concettualizzazione:
  • la posta in gioco è ciò per cui il protagonista sta lottando;
  • la posta in gioco non è un oggetto, una persona o un fatto; la posta in gioco è l’interpretazione di un oggetto, di una persona, di un fatto; è l’insieme di valori e significati che il protagonista carica su un oggetto, una persona o un fatto;
  • la posta in gioco si difende, non si conquista (e se hai la sensazione che il protagonista voglia conquistare qualcosa, è solo perché la conquista gli serve a difendere ciò che già possiede).
È ovvio che un concetto di così grande rilevanza non può essere lasciato alla libera codificazione del singolo autore. Serve formalizzarlo, e la formalizzazione più naturale e rigorosa la si ha mutuando alla narrativa la cosiddetta piramide di Maslow.

Hai studiato la piramide di Maslow? Ti avevo detto di farlo nei moduli 14 e 18A.
Non ho intenzione di spiegarti argomenti già abbondantemente illustrati in rete.
Quindi, se non l’hai già fatto, ora sei obbligato: studia la piramide di Maslow!
Studia la piramide di Maslow, perché assegnare una posta in gioco
significa scegliere un livello della piramide e precisarne il sotto-livello
– FISIOLOGIA-sopravvivenza; SICUREZZA-salute;
APPARTENENZA-amicizia; STIMA-rispetto; AUTOREALIZZAZIONE-creatività 
e quindi dove pensi di andare, cose pensi di poter scrivere, se conosci la piramide di Maslow? 

Storie esteriormente simili (come nell’esempio dei collezionisti) e addirittura la stessa storia (sì, la stessa storia) avranno un’impostazione e una dinamica totalmente diverse – sul piano concreto della sequenza di scene da progettare e scrivere – a seconda della posta in gioco prescelta, del gradino della piramide sul quale è stato collocato l’obiettivo del personaggio.

La storia sotto i tuoi occhi (la superficie delle cose) è irrilevante quando ne vuoi dare un giudizio artistico: leggere narrativa (o guardare film o serie tv) mainstream, fantasy, thriller, di fantascienza militare, oppure rosa o gialli, è solo un fatto di (insindacabili) gusti personali; ma a te interessa scovare  “quel che c’è sotto”, quando analizzi l’opera.

E, in senso inverso, ognuno deve sentirsi libero di scrivere ciò che vuole – purché conosca l’argomento, s’intende – senza scrupoli o remore di cimentarsi in generi “fuori moda” o di prendere posizioni politicamente scorrette; la rilevanza – sul piano tecnico, artistico – sta tutta e sola nell’esistenza di una posta in gioco che il lettore possa percepire, anche solo inconsciamente.

Ti leggo nel pensiero, sai? So cosa ti frulla in testa. Dai, dillo pure. Non mi offendo, tranquillo.

Le mie storie di collezionisti ti sembrano minchiate galattiche, per quanto mi sia sforzato di nobilitarle.
 
Ma davvero – mi dirai – c’è gente disposta ad azzuffarsi per dei piccoli rettangolini di carta colorata, vecchi di secoli, per sentirsi autorealizzata o preservare il rispetto di chi ama? Sul serio? Sembra tutto così astruso, incomprensibile, oscuro.

Hai ragione. Ma il problema non è l’80 centesimi di Parma. Il problema è il gradino della piramide.
 
La posta in gioco non è un oggetto, una relazione o un fatto. La posta in gioco è l’interpretazione di un oggetto, di una relazione, di un fatto, e quanto più questa interpretazione si fa sofisticata tanto più complesso diventa comunicarla.
 
Tu vedi solo una vecchia lettera affrancata con due vecchi francobolli, ma… cosa vede il protagonista, poniamo il figlio del collezionista defunto?
 
Vede – e rivive – tutte le discussioni col padre intorno a quella lettera, divenuta un elemento catalizzatore di tante altre e variegate riflessioni, davanti a un camino con un buon bicchiere di vino rosso in mano; e il tuo protagonista, poi, ricorda il luogo, il giorno e l’ora in cui – parlando dell’80 centesimi di Parma – è successo che… ; tiene memoria di un articolo scritto a quattro mani col padre sull’80 centesimi di Parma, pubblicato sulla più prestigiosa rivista filatelica nazionale, che ha richiesto mesi di studio e di viaggi insieme, alla ricerca di informazioni di prima mano e ancora inedite; e in quei viaggi e in quelle ricerche è successo che… 
 
Vede tutto questo e tanto altro ancora, il tuo protagonista, e tutto questo – e tanto altro ancora – viene ora caricato, riversato, sulla possibilità di entrare finalmente in possesso della lettera con l’80 centesimi di Parma; e sì, sono d’accordo, non è per nulla facile trasferire questo caleidoscopio emozionale dal protagonista al lettore.

Sarebbe tutto molto più semplice se il nostro protagonista fosse prigioniero in un campo di concentramento e volesse scappare: la posta in gioco sarebbe la sopravvivenza, che lui già possiede (ora è vivo) e deve però difendere organizzando la fuga dal campo (la conquista della libertà è funzionale a rimanere vivo). Tutti capirebbero al volo, senza difficoltà, cosa stia accadendo in una situazione simile. Nessuno avrebbe difficoltà a far propri i motivi per cui il protagonista fa quel che fa. Ma questa facilità di allineamento degli stati d’animo tra lettore e protagonista – l’immediatezza con cui avviene – è spiegata tutta e solo dall’essersi collocati sul gradino più basso della piramide (bisogni fisiologici) e di averne scelto la declinazione standard (sopravvivenza).
 
Per contro, più si sale sulla piramide, più si “alza la posta in gioco”, tanto più complicato diventa comunicarla al lettore: perché più si sale e più si vanno a toccare corde dell’animo umano sensibili e delicate, e il rischio di produrre stonature – di risultare sciatti, banali, o addirittura incomprensibili – è via via più alto.
 
La lettura della storia dovrebbe indurre “naturalmente” a capire i motivi per cui ciò che esternamente appare solo come una lettera antica (alla fine soltanto un oggetto) ha così tanta rilevanza per il protagonista, date la sua esperienza, la sua psicologia, la sua interiorità, calate nella specifica situazione che sta vivendo. Il lettore dovrebbe avvertire “naturalmente”, e in modo via via crescente man mano che procede nella storia, i motivi per cui l’80 centesimi di Parma condensa un dramma esistenziale.
 
Ma ovviamente questa “naturalezza” è tutt’altro che naturale, e va costruita a tavolino, mettendo in campo artifici retorici progressivamente più complessi e raffinati, quanto più si sale sulla piramide.
 
Ti porto un esempio che più d’ogni altro può aiutare a capire i problemi indotti dai livelli superiori della piramide: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Qualunque aggettivo aggiungerebbe ben poco al carattere di questi due uomini, col rischio di togliergli molto. La nostra ammirazione è illimitata, sconfina nell’adorazione, nella mitizzazione, ma… tu non vuoi questo genere di reazioni emotive verso il tuo personaggio!

Il lettore deve capire il personaggio – aver chiare le ragioni per cui pensa, dice e fa certe cose – e dimmi, sinceramente, in quanti secondo te capiscono la scelta di Falcone e Borsellino? Il mondo è pieno di magistrati che svolgono bene il proprio lavoro, senza farsi ammazzare. E anche ammesso che ve ne siano alcuni che decidono di imprimere unaccelerata alla propria azione, ammesso pure che alcuni si vogliano prendere rischi maggiori di altri, com’è possibile che non si fermino, quando realizzano che la loro vita è in pericolo?

Sul piano tecnico – nei termini della piramide di Maslow – la scelta di Falcone e Borsellino ha una spiegazione lineare, se vista con i loro occhi, con gli occhi di Falcone e Borsellino, già illustrata nel modulo 18A e che ti riporto qui per tua comodità.
 

 
Questa è l’asettica spiegazione tecnica, ma sei in grado di attuarla, di trasferire lo stato d’animo dal personeggio che vive la situazione al lettore che la simula sulla pagina?

Ai più basta veder traballare una promozione sul lavoro, per rientrare all’istante nei ranghi. E qui parliamo invece di una minaccia alla propria vita che a dirla tutta non è neppure “a rischio”, ma esposta a un infausto destino certo, come sapevano bene entrambi.
 
C’è un veloce scambio di battute tra Borsellino e Falcone – poco conosciuto, di cui mi spiace non riuscire a riportare la versione testuale – che suona più o meno così.

«Giovanni, scusami, ma devi assolutamente farmi una copia dei tuoi dossier.»  

«Perché? Sono già a tua disposizione, quando vuoi.»

«Sì, ma potrebbe essere complicato entrarne in possesso, quando ti uccideranno.»

Sinceramente: in quanti riescono a capire un simile dialogo? Chi è in grado di capire come si possa parlare della morte con così tanta serenità, come la si possa prospettare a qualcun altro come un fatto ovvio, preoccupandosi piuttosto di ciò che verrà dopo per chi resta?
 
Possiamo contemplare Falcone e Borsellino come due esseri superiori, ma in narrativa è richiesto altro: dobbiamo capirli.
 
E credo che in pochi riescano a capirli davvero, ad avere sul serio quella visione della vita oltre la vita che avevano loro.
 
Estratto da Teoria dei Sentimenti Morali, di Adam Smith.
 
È doloroso ma onesto riconoscerlo: tutti noi capiamo più a fondo le ragioni di quello straordinario mafioso inventato che è Don Vito Corleone, che non i moventi di due eroici magistrati del mondo reale come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  
 

“Questo incarico diamolo a Clemence:
voglio gente di affidamento, uomini che non si fanno prendere la mano.
Noi non siamo assassini, anche se quel becchino sembra esserne convinto”
(Don Vito Corleone)
 
 
 
“Come ha fatto la situazione a sfuggirci di mano? Io non lo so.
È tutto così miserabile, così inutile.
Io sono disposto a che le cose ritornino com’erano prima.
Quando mai mi sono rifiutato ad un accomodamento?
Tutti voi mi conoscete.
Quando mai mi sono rifiutato? Solamente una volta. E perché?
Perché questo affare degli stupefacenti, un giorno ci distruggerà, credetemi.
Non è un affare come il gioco, i liquori o le donne,
che è tutta roba che molta gente cerca oggi,
e che è solo proibita solo da pezzi da 90 della Chiesa.
Perfino la polizia, che in passato ha chiuso un occhio per il gioco e per il resto,
si rifiuterà di aiutarci, se ci buttiamo nei narcotici.
Ecco, io speravo che riunendoci qui si potesse ragionare,
e sono sempre pronto a fare tutto quello che è necessario
per trovare una soluzione pacifica a questi problemi”

 
 

“Tu parli di vendetta, ma credi che la vendetta ti restituirà tuo figlio, o mio figlio a me?
Io non voglio vendicare mio figlio ucciso.
Vi prometto e vi giuro, sulla testa dei miei nipotini,
che non sarò io il primo a rompere la pace stipulata oggi”
 
 
 
Se ti capiterà di visitare la Sicilia, e specialmente i paesini,
noterai la presenza di gadget a tema “Il Padrino” in numerosi negozietti.
Non troverai mai – per contro – magliette, portachiavi o tazze da latte
con le immagini di Falcone e Borsellino (per averle devi rivolgerti ad Amazon)
E non si tratta – sia chiaro – di omertà, paura, cultura deviata, o altri luoghi comuni.
Si tratta del fatto – come saprai senz’altro, avendo sicuramente visto il film Il Padrino –
che Don Vito Corleone entra nel cuore di ogni spettatore per la maestria con cui è costruito,
al punto che la Sicilia stessa non solo non si vergogna, ma si fa vanto nell’identificarsi in lui.
 
Il tuo protagonista non va messo su un piedistallo, innalzato, glorificato o beatificato.
 
Il tuo protagonista – prima di tutto e sopra a tutto – va capito, nel suo pensare, percepire, parlare e agire, nei suoi continui tentativi (imperfetti) di difendere la posta in gioco; e diventa tanto più difficile capirlo, quanto più si alza la posta in gioco.
 
Ti invito a riflettere sui problemi di comunicazione impliciti in una posta in gioco dalle apparenze semplici come può essere l’amore: tutti abbiamo sofferto per amore, ma come è difficile capire chi soffre per amore!
 
Mia madre aveva una formula consolatoria standardizzata, quando mi vedeva rabbuiato per una ragazza: “come se in giro ne mancassero di mignotte”. Mamma aveva una visione un filo disincantata delle cose: per lei, l’una valeva l’altra, e tutte erano mignotte. Ma – se pure fosse stato così – come spiegarle che io volevo “proprio quella mignotta” e non un’altra? Cosa aveva di speciale “la mia mignotta”? Le mignotte sono tutte uguali… o no? Vallo a spiegare, vallo a capire.

E ti renderai conto – per quel minimo che vorrai rifletterci – che la visione di mia madre è in fondo il tuo stesso atteggiamento quando ti ritrovi di fronte alle incessanti e inconsolabili pene d’amore di qualcun altro. “Basta! Esci, divertiti, conoscine altre! Mica ce l’avrà solo lei, no?”. Cos’è che cantava Raffaella Carrà? 
 
E se ti lascia, lo sai che si fa?
 
Trovi un altro più bello, che problemi non ha! ♬ 
 
Ma sì, dai: trovane di più belli o belle, sorridi, e smettila di rompere i coglioni.

Il cosiddetto “rischio ’sti cazzi” – ’sti cazzi dell’80 centesimi di Parma, ’sti cazzi degli ideali di Falcone e Borsellino, ’sti cazzi della donna della tua vita… ’sti cazzi… ’sti cazzi… – è sempre in agguato, non appena abbandoni la base della piramide.

I pessimi autori li riconosci dall’assurda convinzione
che più si sale sulla piramide più sia facile coinvolgere il lettore
perché si stanno toccando argomenti grandiosi, se non sacrali.
È esattamente il contrario:
quanto più t’innalzi, tanto più piccolo apparirai a chi non può volare,
e quanto più intenso dovrà essere lo sforzo per portarlo a vedere la vastità del panorama.
Più si sale sulla piramide, più cresce il rischio di risultare sciatti, banali, cliché.
E neppure la più profonda conoscenza dell’argomento – a volte – è di per sé risolutiva.
Molti collezionisti – ad esempio – trovano più comodo e veloce autodefinirsi dei “mattoidi”,
piuttosto che ingegnarsi per trovare il modo migliore di comunicare ciò che li anima.
Io ho dovuto aprire il blog Tesori di carta – che a oggi conta più di 250 post – 
per far capire che nella vita non conta ciò che fai (perché, alla fine, tutto appartiene a Sorella Morte)
ma solo ciò che diventi mentre lo fai (perché quel che diventi ti seguirà ovunque)
e il collezionismo – se correttamente inteso – può essere un modo per divenire persone migliori.
 
 
 
 
Whiplash sarà pure un film a cinque stelle, un successo di critica e di pubblico, ma…
qualcuno ha capito perché per Andrew Neiman – il protagonista –
è così importante diventare uno dei migliori batteristi jazz della sua generazione?
Cosa succede se non lo diventa? Mica muore nessuno, giusto?
E in quanti riescono davvero a capire il discorso (folle) che Andrew fa alla sua ragazza?
Non basta dire “è il suo sogno”, perché tutti abbiamo i nostri sogni,
e se a te sembra una stupidata sognare l’80 centesimi di Parma,
ad altri – legittimamente – può apparire una stupidaggine
accettare tutta la sofferenza che Andrew accetta pur di diventare una batterista.
Fai attenzione!
Tanto più sali sulla piramide di Maslow, quanto più l’aria si fa rarefatta,
e tanto più diventa complicato comunicare efficacemente la posta in gioco.

Il primo punto di svolta – sull’arco – è il momento in cui si capisce qual è la posta in gioco: al primo punto di svolta deve diventare chiaro, cristallino, inequivocabile, per cosa sta lottando il tuo protagonista.

L’approccio più elegante – neanche a dirlo – è comunicare la posta in gioco piano piano, durante lo svolgimento del Primo Atto, e poi blindarla al primo punto di svolta: è tutto il Primo Atto in sé che dovrebbe restituire – implicitamente, per suggestioni continue – il motivo profondo ed essenziale per cui il tuo protagonista sceglie di restare nella storia. La posta in gioco – per dirlo in breve – dovrebbe passare nel sotto-testo.

Ma ovviamente c’è sempre la soluzione opposta, più rapida: comunicarla nel testo, esplicitamente, in una battuta di dialogo.
 
“Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il momento: perché il poeta usa questi versi?
Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi.
Perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza
un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà.
Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi dal passato:
li avete visti mille volte, ma non credo li abbiate mai guardati.
Non sono molto diversi da voi, vero?
Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni come voi, e invincibili, come voi sentite voi.
Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi.
I loro occhi sono pieni di speranza: proprio come i vostri.
Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale?
Perché, vedete, questi ragazzi ora sono concime per i fiori.
Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito.
Coraggio, accostatevi! Ascoltate! Sentite? 
Carpe diem, cogliete l’attimo, ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita”.
La chiamata all’azione e il primo punto di svolta
sembrano collassare nella stessa scena, nel film L’attimo fuggente.
Il professor Keating invita i ragazzi a darsi una mossa
(“cogliete l’attimo, ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita”)
e al tempo stesso chiarisce cosa comporti restare immobili
(“Avranno atteso finché non è stato troppo tardi 
per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale?). 
Questo passaggio, in realtà, è unanticamera comune a tutti i coprotagonisti.
Ogni ragazzo vivrà poi – in modo separato –
la sua chiamata all’azione e capirà pian piano cosa c’è in gioco.
 
Puoi comunicare la posta in gioco in una battuta di dialogo, come spesso lo si fa con il difetto fatale, ma qui è davvero alto il rischio – nel tentativo di essere massimamente chiari – di apparire goffi e artificiosi, di forzare il personaggio in una recitazione pessima.
 
La raccomandazione è sempre la stessa: non essere pigro, non cercare scorciatoie (che nella migliore delle eventualità si rivelano allungatoie, e nella peggiore dei vicoli ciechi).
 
La posta in gioco – in questo senso – è il redde rationem dell’autore: con la gestione della posta in gioco si capisce se il dio creatore conosce davvero il mondo che ha creato e i personaggi che lo popolano.
 
 
Si chiude il sipario sul Primo Atto: quante cose da fare, nel 25% iniziale della storia!

Può esser stato faticoso arrivare sin qui, data la densità di contenuti che hai dovuto assimilare.

Ma ti mancherà – oh, se ti mancherà! – tutta questa precisione nella costruzione della storia.

Perché nel Secondo Atto, quando i vincoli diventeranno massimamente blandi, rimpiangerai – eccome se rimpiangerai – la gran quantità di regole del Primo Atto.

Perché le regole – lo avrai capito – sono lì a proteggerti anzitutto da te stesso, dalla tua fantasia debole, dalle tue intuizioni ingenue, che a ogni momento possono auto-sabotare la tua opera.

Nel Secondo Atto sarai libero come non potrai più esserlo altrove. Non dico che sarai solo con te stesso, perché avrai ancora il supporto di un punto nodale (il midpoint) e di un’indicazione generale (sul triplice conflitto) ma sicuramente la libertà che avrai nel Secondo Atto non la ritroverai più.

E allora potresti fare esperienza della verità più difficile da accettare: scoprire di non sapere cosa farci con tutta questa libertà, scoprire di non avere nessuna storia da raccontare.

Qui, a conclusioni del Primo Atto, mi piace richiamare ciò che ti avevo preannunciato nel modulo 15F, dedicato alla rappresentazione della musica nel mondo della pagina.

Ti riporto l’inizio della parafrasi che una lettrice del blog aveva proposto per un brano di Schuman.

Il brano si apre senza alcun tipo di tensione, l’armonia gira sulla propria tonalità (arpeggi e note di passaggio sulla tonica) senza lasciar presagire alcun movimento, o stato tensivo. Nel secondo periodo poi, con espedienti tecnici (pedale, settime diminuite: lasciamo perdere, sfronda la tecnica) la musica cambia, qualcosa stona, ci stiamo muovendo verso (altro tecnicismo) una tonalità dominante ma minore, che in musica significa che non ci giriamo intorno, ma ci andiamo decisi verso questo cambiamento, e la sensazione all’ascolto è quella di una forza di volontà che catalizza il movimento stesso, il cambio di tonalità è ineluttabile perché voluto dall’armonia e peraltro si cambia verso una tonalità minore, che induce quantomeno ‘tristezza’, o ‘aspettativa di incertezza’ ”.
 
Ti va di vivisezionare questa parafrasi?
 
Iniziamo.

Il brano si apre senza alcun tipo di tensione, l’armonia gira sulla propria tonalità (arpeggi e note di passaggio sulla tonica) senza lasciar presagire alcun movimento, o stato tensivo”.
 
Sembra proprio di essere nello statu quo, non trovi? Anche nello status quo siamo in una situazione “senza alcun tipo di tensione” (di là dei piccoli conflitti strumentali alla costruzione dell’empatia: la ragazzina che aiuta l’amica nel compito in classe, e viene accusata di essere lei a copiare, giusto per capirci). Anche nello status quo – se ci rifletti – non c’è nulla che lasci presagire uno stato di tensione.

Ma poi…

Nel secondo periodo poi, con espedienti tecnici (pedale, settime diminuite: lasciamo perdere, sfronda la tecnica) la musica cambia, qualcosa stona, ci stiamo muovendo verso (altro tecnicismo) una tonalità dominante ma minore, che in musica significa che non ci giriamo intorno, ma ci andiamo decisi verso questo cambiamento, e la sensazione all’ascolto è quella di una forza di volontà che catalizza il movimento stesso, il cambio di tonalità è ineluttabile perché voluto dall’armonia e peraltro si cambia verso una tonalità minore, che induce quantomeno ‘tristezza’, o ‘aspettativa di incertezza’ ”. 
 
Ma poi qualcosa cambia, “qualcosa stona”: qualcosa è successo, anche se non capiamo bene cosa (incidente scatenante), e noi “ci andiamo decisi verso questo cambiamento” (chiamata all’azione), da un lato con una sensazione di tristezza (per il mondo perduto) e dall’altro con un’aspettativa di incertezza (per l’ingresso nel “nuovo mondo”) perché sentiamo anche solo vagamente di essere impreparati ad affrontarlo (momento determinante, difetto fatale) per difendere ciò che ci sta a cuore (primo punto di svolta, posta in gioco).
 
Un così stretto allineamento tra le sensazioni suscitate dalla musica e dalla scrittura – un isomorfismo, direbbero i matematici – non può essere solo un capriccio del demone del caso. Ci deve per forza essere qualcosa di profondo, di strutturale.

Let’s me say: se non avverti nessuna empatia verso un personaggio competente, proattivo e sottoposto a sofferenza ingiusta (status quo); se non temi per lui quando hai capito qualcosa che a lui invece sfugge (incidente scatenante); se il tuo timore non cresce quando si trova obbligato ad agire (chiamata all’azione) perché hai capito che è impreparato ad affrontare ciò che lo attende (difetto fatale) e se questo timore non si trasforma in angoscia quando capisci ciò che perderà semmai dovesse fallire (posta in gioco), se nel tuo animo non si produce tutto ciò, se non si avvia questo meccanismo emotivo, allora ci sono due sole possibilità.

La prima: l’autore ha sbagliato a scrivere il Primo Atto, e – santo cielo! – ci si deve essere messo d’impegno per sbagliarlo, perché tutti – proprio tutti – riescono a scrivere un Primo Atto decente.

La seconda: hai numerosi, gravi e diffusi deficit emotivo-cognitivi, e la scrittura e la sceneggiatura – credimi – sono l’ultimo dei tuoi problemi. Fatti vedere. Da uno bravo, mi raccomando.
 
E nella speranza che l’autore abbia congegnato un buon Primo Atto, e che tu sia complessivamente sano, passiamo al Secondo Atto.

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