Modulo 23B – I ATTO
Il Primo Atto – paradossalmente – è il più semplice e il più complicato da realizzare.
È il più semplice, perché è massimamente guidato, come puoi intuire dalla quantità di punti nodali presenti nel tratto iniziale dell’arco: sbagliare il Primo Atto è impossibile, o se preferisci, ti ci devi mettere di impegno per commettere degli errori.
Ma il Primo Atto è anche il più complicato: visto che tutti, proprio tutti, sanno scrivere un buon Primo Atto, tu non puoi limitarti a eseguire il compitino; sarebbe come presentarsi a un esame universitario tra i più semplici, con la prospettiva di strappare un 18; e noi, qui, vogliamo almeno un 28, se non direttamente un 30 e lode.
Ti rinnovo quindi l’invito a preservare la percezione della complessità delle cose, a non ridurre i concetti a frasette o paroline – anche quando sarò obbligato a esprimerli con frasette e paroline, per esigenze di sintesi – a tenere sempre presenti le sfumature e le interconnessioni.
In tre parole: non essere pigro.
O quanto meno non essere pigro adesso, nel Primo Atto. Se proprio vuoi cedere alla pigrizia, fallo nel Terzo Atto, quando ormai il lettore è arrivato alla fine e la storia la concluderà comunque (per poi magari rammaricarsi del finale: “peccato: era iniziata alla grande e si è sciupata alla fine”). Ma se la storia suona meh già all’inizio, allora è finita: perché il lettore tiepido ti abbandonerà.
Ti proporrò quanti più esempi possibili e ne inventerò bell’apposta a seconda del concetto da spiegare.
Status quo ed empatia
La parola latina status quo significa ciò che era prima. Prima di cosa? Prima che inizi la storia vera e propria, ovvio: senza la conoscenza del prima non si può capire il senso di ciò che è successo dopo.
Lo status quo è anche chiamato situazione di normalità, e sfruttiamo l’occasione per familiarizzare con un concetto generale che tornerà di continuo: la normalità – e non solo la normalità – è sempre relativa al personaggio.
Per un uomo tra i trenta e i quarant’anni, sposato, con dei figli piccoli, sarà normale andare in ufficio durante la settimana lavorativa, giocare a calcetto con gli amici il giovedì sera, lasciare qualche volta i figli dalla madre per uscire un sabato sera con la moglie, andare con tutta la famiglia al cinema la domenica pomeriggio.
Per Rocco Siffredi sarà normale passare la giornata sul set di un film porno (è così normale che Rocco Siffredi afferma di non aver mai concepito nessun altro lavoro, perché “non riuscirei mai ad alzarmi la mattina, se dovessi fare qualcosa di diverso da quello che faccio”).
Per un calciatore professionista sarà normale trascorrere le giornate al campo di allenamento, trovarsi la domenica in uno stadio che ora lo incita (quando la sua squadra gioca in casa) e ora la insulta (quando gioca fuori), presentarsi in sala-stampa per rispondere alle domande di giornalisti, e guadagnare svariati milioni di euro l’anno.
Ogni personaggio ha la sua normalità.
Non vi è dubbio che, se viste da fuori, alcune “normalità” appariranno “più speciali” di altre, ma – attenzione! – tu non vuoi, non devi, vedere la vita da fuori il personaggio: tu sei il protagonista, quella è la tua vita, che per definizione vivi dal di dentro e non osservi certo dall’esterno, e nella tua normalità non c’è proprio nulla di speciale.
Le parole di Mariangela Tarì esprimono il concetto come meglio non si potrebbe, nel loro apparente cortocircuito.
Ma in cosa consiste questa “fortuna”? All’atto pratico, nell’aver sorteggiato una palla bianca da un’urna che conteneva 9.999 palle bianche e 1 nera. E dove mai sarebbe la fortuna, il “gran culo”? È successo semplicemente quel che tutti si aspettavano che accadesse: è uscita una palla bianca.
Solo che lei, Mariangela, ha sorteggiato l’unica palla nera – la figlia con la sindrome di Rett, 1 caso su 10.000 nascite – e quella palla nera è diventata la sua normalità, rispetto alla quale la normalità delle 9.999 palle bianche appare un gran culo.
Ti è chiaro il concetto? Quando sei dentro il personaggio, quando ti sei davvero calato dentro di lui, la normalità non ha mai nulla di speciale.
E ora, dimmi, quanti ragazzi per vivere decentemente hanno bisogno di cinquemila euro al mese? Cinquemila euro – in una famiglia cosiddetta “normale” – a volte non si raggiungono nemmeno sommando gli stipendi di papà e mamma per più mesi consecutivi, e con quel denaro deve viverci tutta la famiglia, non un ragazzino solo.
Cinquemila euro al mese è probabile che la più parte delle persone non li vedrà mai, neanche dopo lauree, master, dottorati, specializzazioni, due lingue straniere parlate fluentemente ed eccellenti competenze informatiche. E però cinquemila euro al mese a marmocchio non bastano per “mantenerlo”, per assicurargli una vita “normale”.
Sì, d’accordo, lo abbiamo già detto: alcune “normalità”, vista da fuori, ci sembrano tutt’altro che noiose, ma è proprio questo errore di prospettiva – vederle da fuori – a conferirgli una dimensione speciale che in realtà non possiedono.
Quando le cose le guardi da dentro il personaggio – come devi fare, se vuoi scrivere bene – la normalità ti apparirà… normale, quindi noiosa, qualunque essa sia.
Ah, sì? E perché lo definisci “cattivo”? Perché lo stai guardando da fuori, e guardandolo da fuori lo stai giudicando col tuo sistema di valori.
Ma tu non devi scrivere guardando le cose da fuori. Tu devi scrivere dal di dentro del personaggio, percepire il personaggio come lui si percepisce.
Matteo Messina Denaro deve per definizione apparirti buono, se stai scrivendo di lui, e quindi se sei diventato lui e lo misuri non con la tua metrica valoriale ma con la sua.
Abbraccia la complessità della vita e sforzati di restituirne il senso nel modo più chiaro possibile. Stai lontano dai bei discorsi, dalle belle parole, dalle frasi a effetto. Sei uno scrittore, un dio creatore, non un Massimo Gramellini qualunque.
Aspetto un nuovo “caffè” di Gramellini, per sapere cosa ne pensa ora di Lorenza.
Altro, poi, è ricordarsi che là fuori c’è un pubblico che di primo acchito li percepirà cattivi, e quindi serviranno delle accortezze tecniche affinché questa percezione immediata non pregiudichi l’empatia; ma il personaggio, quando ne scrivi, ti deve sempre apparire buono, nel senso che ne stai a ogni momento comprendendo a fondo le ragioni.
Parleremo di personaggi “buoni”, “neutri” e “cattivi” sempre tra virgolette, per ricordare che le tre parole sono solo convenzioni di linguaggio, e non rispecchiano l’interiorità del personaggio (la quale è sempre positiva, sempre buona, e come tale deve essere percepita quando se ne scrive).


Un protagonista empatico è:
sottoposto a sofferenza ingiusta
Competenza: il tuo protagonista deve essere bravo nel fare ciò che il contesto e le situazioni in cui si trova gli richiedono di fare.
Espresso in negativo: non vuoi protagonisti svampiti, mister “uh, non c’avevo proprio pensato” e signorine “chi sono, dove sono?”; non vuoi gente che perde il treno per ascoltare una canzone alla radio; non vuoi persone che vanno a sbattere contro un albero perché hanno seguito con lo sguardo il volo di una farfalla.
Però chiariamoci: essere competenti non significa necessariamente essere dei fenomeni.
Prendiamo ad esempio una ragazzina sedicenne. Cosa ci si aspetta da lei? Fondamentalmente che vada bene a scuola e non dia ai genitori più preoccupazioni di quelle che una normale sedicenne può dare.
D’accordo. Ma queste richieste generali vanno ora tradotte in situazioni concrete, visualizzabili. Tu come declineresti la richiesta dell’andare bene a scuola? Cosa vuol dire – in concreto, in pratica – andare bene a scuola?
Vediamo un po’.
La nostra ragazzina potrebbe tendenzialmente avere la sufficienza piena (tra 6 e 6,5) in gran parte delle materie, e magari qualcosa in più (7) in una o due materie minori. Non sembra un fenomeno, in assoluto. Ma a te non interessano le situazioni assolute e astratte. Tu vivi e scrivi di situazioni relative e concrete.
E – guarda un po’ – la nostra ragazzina si trova in una classe sbalestrata: i più oscillano tra il 4 e il 5, e la loro più grande ambizione è strappare un 4½ nella speranza che in sede di scrutinio sia arrotondato a 5, e quel 5 venga poi alzato a 6 perché… perché sì, dai; c’è poi una frazione, neppure tanto piccola, di anime perse e irrecuperabili, gente che marina la scuola quando c’è un compito in classe e si rifiuta di essere interrogata quando viene chiamata, vivendo il tutto col sorriso, senza la minima apprensione; c’è anche uno spicchio di classe che viaggia su una sufficienza più o meno stentata, e da ultimo “il secchione”, uno soltanto, con la media del 7 già nel primo quadrimestre.
Praticamente la mia classe, al primo anno di scuola superiore (e, no, non ero io il secchione, e ti sfido anzi a collocarmi in questo marasma).
In questo contesto la ragazzina apparirà oltremodo competente, pur senza esserlo in senso assoluto. Per molti versi la apprezzeremo di più rispetto a una che avesse la media dell’8 in una classe in cui la maggioranza ha la media dell’8, e la media dell’8 è quindi la normalità. Perché occorre essere molto presenti a sé stessi, a quell’età, per non cadere nell’equivoco che nel regno degli orbi chi ha un occhio è un gran signore, e quindi vuoi mettere quanto sono figa col mio 4½, quando c’è tanta gente con una sfilza di 2?
Altro esempio: il calciatore professionista.
Non deve per forza essere un mix tra Pelé, Maradona e Cristiano Ronaldo. Può anche essere un semplice “portatore d’acqua”, uno di quei centrocampisti che svolge un lavoro oscuro, di rottura del gioco avversario per far ripartire la propria squadra, un giocatore a là Oriali per intenderci, ♫nato senza i piedi buoni, lavorare sui polmoni♬ come cantava Ligabue nella sua dedica.
Ti dirò di più: non deve neppure essere un titolare. Può benissimo essere una riserva, che trascorre gran parte delle domeniche in panchina, senza neppure togliersi la tuta. Perché non è questo il punto.
La rilevanza è tutta nel fatto che lo vedremo puntuale a ogni allenamento; e lo vedremo allenarsi come se il mister potesse dargli una maglia da titolare ogni domenica, anche se razionalmente sa che non è così; e la domenica lo vedremo sì in panchina, ma interessato alla partita come se in campo ci fosse lui; e – neanche a dirlo – quelle volte che dovesse entrare in campo, a sostituire un compagno, lo vedremo impegnarsi al massimo nel fare bene il suo compito, per quanto sia oscuro o per quanto risicato sia il tempo concessogli.
Se non sei in grado di immaginare nulla, oltre la prima soluzione, significa che non conosci l’argomento di cui stai scrivendo. E se non sai di cosa stai scrivendo, si può sapere cosa stai scrivendo?
Espresso in negativo: non vuoi protagonisti passivi, fermi immobili ad aspettare che “accadano cose”, per poi magari lagnarsi quando le cose che accadono non sono gradite, e loro non hanno fatto nulla per indirizzarle diversamente.
La regola è: molte azioni, poche lamentale.

Far lamentare il personaggio per motivi vaghi o futili, o addirittura senza una ragione precisa, è la dimostrazione che non lo conosci, che non conosci il tuo protagonista, il protagonista di cui stai scrivendo: non sai cosa fargli fare, dire o pensare, e allora lo fai lamentare.
Non ho detto che il tuo protagonista non si possa lamentare in assoluto. Ho detto che serve mantenere la percezione della realtà, prima di far lamentare il personaggio, che il diritto alla lamentela va conquistato: il protagonista può lamentarsi – e in un certo senso deve lamentarsi – solo quando si sono cumulate così tante cose sgradevoli da legittimare le sue lamentale, da proporzionare alla sgradevolezza di ciò che lo ha colpito, e se possibile un filo sotto.
Perché tu non vuoi protagonisti lamentosi, ma nemmeno degli stoici; non vuoi delle pentole di fagioli che borbottano di continuo, ma non vuoi neppure ritrovarti tra le mani un Giobbe redivivo.
Pausa.
Eseguiamo un test, per verificare quanto hai appreso sin qui, dal modulo 0 fino ad ora.
Perché imponiamo i requisiti di competenza e proattività alla costruzione dell’empatia verso il protagonista?
Perché?
Dai, su: ce la puoi fare!
Ma è ovvio, no?
Perché nel mondo reale, nella vita vera – a parità di altre condizioni – tutti noi ci sentiamo spontaneamente più vicini alle persone competenti e proattive che non ai coglionazzi lamentosi.
Si potrebbe anzi dire che nulla ci indispettisce di più dell’avere a che fare con un coglionazzo lamentoso.
Sentirlo borbottare di continuo per ogni cosa, dalla più minuta sino ai massimi sistemi, e a volte persino su cose a lui favorevoli ma non così tanto come vorrebbe (per lui non lo sono mai abbastanza) e comunque senza mai muovere un dito, non dico sui massimi sistemi, ma nemmeno sulle pratiche spicciole di ogni giorno (che sarebbero sotto il suo controllo se solo volesse), ebbene, questo atteggiamento della minchia ci trasmette un senso di esasperazione che ci spinge ad allontanarcene quanto prima.
Quante ne conosci di persone così? Tante, troppe. Perché già una è sufficiente a snervarti.
Competenza e proattività non sono il cappello e la sciarpa, accessori estetici gradevoli da esibire e magari utili in qualche senso recondito.
Competenza e proattività non sono i modi di disporre le posate a tavola in una cena di gala, di cui alla fine uno può anche infischiarsi, ché tanto cosa vuoi che accada se il coltello sta a destra o a sinistra.
Non servono molte spiegazioni teoriche: nulla ci colpisce, e ci impressiona così profondamente, come un evento negativo che si abbatte su una persona buona e le infligge un dolore immeritato, una sofferenza ingiusta.
Andiamo piuttosto ai casi pratici: riesci a immaginare una possibile sofferenza ingiusta per la nostra ragazzina sedicenne?
Ti leggo nel pensiero, sai?
Siamo in aula, nel mezzo del compito in classe di matematica. La nostra ragazzina è disturbata costantemente dalla sua migliore amica, che reclama aiuto. Questa amica appartiene alla striscia liminare, galleggia tra il 5 e il 6, ma è una tipa sveglia, e lo sanno tutti (compagni di classe e professori). Tanto è sveglia che ora trova più comodo cercare la complicità della nostra protagonista, piuttosto che impegnarsi a risolvere da sola il compito. E la nostra protagonista la aiuta come può, con gesti evocativi, mimando le parole, e appena possibile passandole dei fogliettini.
La professoressa si imbestialisce e d’istinto impone il ritiro del compito alla ragazzina; le bastano però pochi secondi per realizzare la sproporzione della misura punitiva, e tuttavia rimane imbestialita; rimprovera entrambe le ragazze, ma la sua invettiva resta indirizzata principalmente alla nostra protagonista; se le becca di nuovo – dice – i compiti verranno ritirati a tutt’e due, e il suo tono suona come una diffida all’amica della ragazzina dall’aiutarla nuovamente (sic!); e a ogni modo fa presente che terrà conto dell’episodio, quando correggerà i compiti.
E la nostra ragazzina? Ferma e zitta, non un fiato. Subisce lo shampoo della professoressa, e una volta finito, con un gesto inequivocabile della mano, fa capire all’amica di piantarla, di non disturbarla più, perché non avrà più alcun aiuto. Si rimette a testa bassa sul foglio a quadretti, determinata a eseguire tutti i gli esercizi a regola d’arte, affinché la professoressa – compiti alla mano – si renda ben conto chi è la ladra e chi la derubata.
Osserva anzitutto come l’amica della ragazzina non sia una sbalestrata; al contrario, ha la fama di una in gamba, solo che è maledettamente svogliata; però, quando ci si mette, se ci si mette, non ha bisogno di nessuno; peccato che ondeggi parecchio, che a volte ci si mette e più spesso no, e però i numeri per andare bene li avrebbe tutti. Questa qualificazione è fondamentale, per legittimare la sensazione della professoressa che sia lei ad aiutare la ragazzina (se fosse stata una tipa in stile “4½ e sto”, la dinamica non poteva essere equivocata).
Nota poi il comportamento della ragazzina: sembra passivo, se ci limitiamo all’esteriorità, ma interiormente non lo è affatto. La reazione spontanea sarebbe stata la difesa della propria posizione: spiegare alla professoressa che non era lei a chiedere aiuto, ma il contrario. E invece la nostra ragazzina, nel rimanere in silenzio, dimostra un eccellente dominio di sé, e se vogliamo una stretta coerenza, perché sai bene a quali rischi ti stai esponendo, se accetti di aiutare una compagna durante un compito in classe, e non puoi tirarti indietro se poi quei rischi si manifestano, perché sarebbe da codardi. E noi non vogliamo protagonisti codardi; noi vogliamo comportamenti eroici, proprio come quello della nostra ragazzina (accentuato dal fatto che l’amica si guarda bene dal confessare la verità, per scagionarla).
Anche perché – fai attenzione – cosa accadrebbe se la ragazzina volesse dire la verità? La sua legittima difesa potrebbe assumere un tono esasperato e sconfinare nella lamentela. E noi non vogliamo lamentele, o almeno non vogliamo lamentele sproporzionate alla situazione, e comunque non vogliamo vedere il protagonista piagnucolare.
Noi vogliamo eroi, la ragazzina a suo modo è un’eroina, e però – osserva – sembra di sentire la voce di Gabriella Ferri in sottofondo:
però da micchi nun ce passamo… ♬
Perché, amica mia, io ti aiuto pure, in tutti i modi possibili, ma non sono una minchiona; perciò ora ti arrangi da sola; forse, chissà, se tu avessi detto la verità alla professoressa, allora avrei continuato ad aiutarti, ma non ora, non dopo il tuo silenzio traditore; perché io sono sì un’eroina, ma non una minchiona.
Ancora un’osservazione, per concludere: la professoressa non si sta accanendo sulla ragazzina senza motivo; la professoressa sta svolgendo il suo lavoro, sorvegliare gli studenti a tutela del corretto svolgimento del compito in classe; ciò che ha visto la legittima a pensare che sia la ragazzina a copiare dall’amica, e quindi, dal suo punto di vista, dal punto di vista della professoressa, è giusto rimproverarla e minacciarla di sanzioni; la sofferenza ingiusta che la professoressa infligge alla protagonista non è una sofferenza ingiusta perché sì (perché sei nata per soffrire e allora soffri e non ti lagnare); è una sofferenza ingiusta nella prospettiva della ragazzina (e del lettore che ha empatizzato con lei) ma è più che giustificata dal punto di vista della professoressa, convinta che sia lei, la ragazzina, a voler fare la furba.
Ti è chiaro come si ragiona, quando si vuole infliggere una sofferenza ingiusta al protagonista?
Facciamo che il nostro calciatore, dopo aver trascorso tante domeniche in panchina, finalmente gioca una partita da titolare, ma, ahimè, si rompe tibia e perone, oppure il crociato: che ingiustizia!
Interessante. Dico davvero. Ora ci ragiono e poi ti faccio sapere. Tu intanto torna al modulo 0 e ripeti la procedura che ormai conosci.
Cosa ti ho detto? Che la prima soluzione è subottimale, quando non è sbagliata. E questa soluzione – questo tipo di sofferenza ingiusta che hai immaginato per il calciatore – è proprio sbagliata. Perché è sproporzionata e crea quell’effetto di commiserazione che spesso sfocia nel comico: in allenamento dai il 101% e non giochi mai, e quell’unica volta che giochi, ti infortuni gravemente; e che cazzo! Fatti benedire, amico mio…
Tu vuoi che il lettore empatizzi col personaggio, non che lo compatisca.
La tua squadra – la squadra del tuo calciatore – si sta giocando una partita fondamentale per la salvezza contro una diretta concorrente (abituati a pensare in termini di “cose che devono essere difese”, come la permanenza nella massima serie, e non a “cose che devono essere conquistate”, come uno scudetto). Non è una partita decisiva, da dentro o fuori, ma vincerla significherebbe dare una sterzata alla classifica, senza contare il benefico effetto psicologico con cui affrontare le partite successive.
E la tua squadra la sta vincendo: è passata in vantaggio nei minuti iniziali, ha amministrato bene il gioco, e avuto un paio di buone occasioni per andare sul due a zero e chiudere la partita.
Ora, però, le cose si sono complicate: dalla metà del secondo tempo la squadra ha “abbassato il baricentro”, ha arretrato sempre più il suo gioco, sotto una pressione avversaria crescente, alla ricerca del pareggio.
Siamo all’83°, mancano meno di dieci minuti alla fine, più l’eventuale recupero, e il numero “8” si sbraccia verso la panchina: batte una mano sul polpaccio, scuote la testa, fa capire di essersi infortunato; riesce ancora a stare in piedi e a correre, sì, ma non ha più la reattività necessaria, e sicuramente gli manca la prestanza fisica richiesta da un contesto di gioco ad alta tensione.
Dalla panchina il mister lo sprona a tenere duro, ché in fondo manca poco alla fine. Il numero “8” sbuffa, scuote di nuovo la testa: proprio non ce la fa. Il mister fa segno al tuo protagonista panchinaro di alzarsi e riscaldarsi: dovrà sostituire il numero “8” ormai allo stremo.
E il tuo calciatore panchinaro scatta in piedi e inizia a correre avanti e indietro a bordo campo, a saltare, a fare stretching: tra poco toccherà a lui. Solo pochi minuti, è vero, ma accidenti che minuti! Sono i minuti in cui ci si giocherà il tutto per tutto, e lui ne farà parte.
Siamo all’85° e il mister ancora non si decide a chiamare il cambio. Il tuo protagonista si toglie il giacchetto della tuta. Non potrà mancare ancora molto al suo ingresso. Compie quelle che ritiene essere le ultime accelerazioni prima di entrare, e lancia un’occhiata al mister, che però ha lo sguardo fisso sul campo. Il tempo passa: siamo all’87°.
Il numero “8” sbaglia un appoggio, un avversario conquista palla e trova un varco verso la porta, seguito dai compagni. Una triangolazione veloce mette in crisi la difesa, e l’attaccante lascia partire un rasoterra che scheggia il palo. Cazzo! Un errore banale a centrocampo, un passaggio sbagliato del numero “8”, stava per costare il pareggio avversario: pochi centimetri più in qua, e sarebbe stata la fine; il contraccolpo psicologico sarebbe stato micidiale.
Può bastare così: il mister si decide a chiamare il cambio. Le operazioni tecniche di comunicazione assorbono ancora un po’ di tempo, e quando l’assistente di linea solleva il display con i numeri di maglia coinvolti nel cambio – esce il numero “8”, entra il numero “17” – il cronometro è ormai prossimo al 90°.
Il numero “8” zoppica vistosamente, impiega una vita a uscire dal campo; è così stremato – e anche scoglionato, per non esser stato sostituito prima – da non avere nemmeno la forza e la voglia di “dare il cinque” al nuovo entrato, al tuo protagonista, com’è tipico quando c’è una sostituzione.
Vengono comunicati i minuti di recupero: 3.
Poco più di tre minuti sono tutto quel che è rimasto al tuo protagonista. Farà in tempo a toccare un paio di palloni e a spezzare una ripartenza avversaria, in una di quelle giocate sì decisive, ma di cui in pochi capiscono l’importanza.
Arriva il triplice fischio finale. Molti giocatori cadono a terra, esausti; altri si abbracciano, esultano verso la curva degli ultrà; qualche pacca sulla spalla arriva anche a lui, al tuo protagonista, ma è davvero difficile sentirsi parte della festa.
Si è rischiato il pareggio, prima di vedere in campo il tuo protagonista. Il mister in realtà lo apprezza pure, ma il numero “8” rimane un giocatore chiave per i suoi schemi, il migliore a “rompere” il gioco avversario. Possibile, però, che lo preferisca anche quando è infortunato e chiede il cambio? Questo non è giusto, e sicuramente non lo è verso chi in allenamento dà sempre tutto sé stesso, e ora meriterebbe di giocare.
Cos’hanno in comune Cenerentola, Candy Candy, Dolce Remì, Heidi, Lovely Sara, Belle e Sebastien? Hanno perso i genitori. Loro come tanti altri personaggi simili.
Ovvio. I bambini sono i personaggi “buoni” per eccellenza, a un personaggio buono bisogna infliggere una sofferenza ingiusta, e per un bambino-buono non vi è sofferenza ingiusta più grande della perdita dei genitori. Fatto: empatia creata.
Esiste sempre – qualunque sia la storia – la possibilità di applicare lo “schema Cenerentola”, cioè di infliggere al tuo personaggio una sofferenza ingiusta facile-facile, stereotipata, cliché, già vista n volte, e che rivedremo ora per la volta n+1.
Ma tu non vuoi – non dovresti – comportarti così: perché una volta scelta la soluzione più semplice, e quindi smarrite le sfumature di significati, ti ritroverai poi a gestire tutta la storia per automatismi, trasmettendo un senso di straniamento a qualunque lettore tiepido.
Ti è stato detto che il personaggio non si deve lamentare, e così Cenerentola non si lamenta mai, ma proprio mai, neanche quando – per realismo – tutti si aspettano almeno uno sbuffo o un sospiro.
Ti è stato detto che il personaggio deve soffrire ingiustamente, e così, dopo la morte dei genitori, tu piazzi Cenerentola con una matrigna e delle sorellastre che la maltrattano perché… già, perché? Boh! Perché sì. Perché sono kattive-kattivissime.
Non è un caso che queste dinamiche estreme si ritrovino in opere destinate ai bambini – e forse è bene che sia così, perché ai bambini servono categorie nette, per distinguere all’istante i “buoni” dai “cattivi” – ma è un attimo ad applicare gli stessi schemi semplicistici anche a storie destinate a un pubblico adulto, che non le apprezzerebbe affatto.
Ragiona a fondo sul tuo personaggio, e sulla situazione che sta vivendo, per individuare l’esatta sfumatura di sofferenza ingiusta da infliggergli, perché la sofferenza ingiusta è un abito sartoriale, cucito su misura, e non vestito prêt-à-porter da acquistare ai saldi.
Spero ti sia chiaro. Altrimenti, torna al modulo 0 e ricomincia tutto daccapo.
Sin qui ci siamo sempre riferiti – in modo esplicito o implicito – a personaggi cosiddetti “buoni”.
Non esiste una definizione di personaggio “buono”, nel senso che il suo “essere buono” – o moralmente giusto – lo si presume: il protagonista del mondo della pagina nasce senza peccato originale, è “buono” per definizione, a meno di esplicite indicazioni contrarie.
E se invece lo status di “buono” glielo volessimo togliere consapevolmente, per creare – ad esempio – un personaggio “neutro”?
Non esiste un catalogo di soluzioni preconfezionate, e la risposta è sempre la stessa: devi conoscere il tuo personaggio e – se lo conosci davvero – allora troverai sicuramente gli elementi migliori per comunicare il suo “essere neutro”.
Spesso si usa l’espediente della professione, perché – diciamolo francamente – alcune professioni hanno qualcosa di intrinsecamente ambiguo, di indecifrabile, che tiene il lettore in uno stato intermedio, di sospensione del giudizio. L’avvocato, ad esempio.
Che mestiere curioso, non trovi? Interamente basato sulla rovesciabilità delle coscienze, sull’invertibilità delle opinioni, sulla sovversione dei sistemi valoriali, sull’accomodamento ottico nella visione dei fatti. Con quale trasporto emotivo, quale tono di sincerità e quale salda convinzione, l’avvocato si diffonde nella sua arringa in un caso controverso! Ma da dove attinge tutto quello sdegno, quelle certezze, quella collera? Com’è possibile assumere una posizione o la sua inversa, orientarsi in un senso o nel suo opposto, e ribaltare con un giro di manovella tutte le verità, tutti i valori, tutti i significati, a seconda che il campanello del suo ufficio sia stato premuto dall’uno o dall’altro contendente?
È il suo lavoro, si dirà. Giusto, è il suo lavoro, e nessuno può rimproverargli di svolgere un lavoro lecito, riconosciuto, e addirittura indispensabile; e però rimane – ineliminabile – la percezione di un lavoro borderline, di quelli che obbligano a continui esami di coscienza, non sempre superati come si dovrebbe.
È probabile che il lettore indietreggi di un passo, se lo metti di fronte a un protagonista che svolge la professione dell’avvocato: è probabile che lo percepisca come un personaggio “neutro” e non più “buono”.
Oskar Schindler era un imprenditore, che come ogni imprenditore – passato, presente e futuro – aveva il problema di minimizzare i costi, e mica vorrai fargliene una colpa, giusto?
Oskar Schindler aveva poi rapporti stretti con le Schutzstaffel, meglio conosciute come “SS”, l’organizzazione paramilitare della Germania nazista. Gliene vuoi fare una colpa? Qualunque imprenditore – passato, presente e futuro – si sforza di stringere rapporti con quelle che, al momento, sono le istituzioni del paese in cui opera.
Oskar Schindler non ci appare come un “buono”, ma non si può neanche dire che sia un “cattivo”. È semplicemente preoccupato del suo tornaconto, si preoccupa di sé, come fa ognuno di noi, in fondo.
E cosa fa questo personaggio “neutro”? Si carica sulle spalle – tra pericoli e incertezze – la sofferenza ingiusta di personaggi moralmente giusti (gli ebrei perseguitati dai nazisti).
Hai colto lo slittamento logico? La sofferenza ingiusta non colpisce più direttamente il protagonista, che essendo “neutro” non riuscirebbe a far scattare l’empatia, ma – fermi restando i (pre)requisiti della competenza e della proattività – è il protagonista a chiamare a sé l’insofferenza ingiusta di altri, a prendersi in carico la sofferenza ingiusta di personaggi moralmente giusti per condividerla e alleviarla, a prezzo di sacrifici, rischi e perdite.
L’empatia obbedisce allo stesso principio compositivo della nitroglicerina: l’acido nitrico e la glicerina sono singolarmente di moderata pericolosità, ma la loro combinazione produce la dinamite; però servono entrambe le sostanze, l’acido nitrico e la glicerina assieme, proprio come per l’empatia servono simultaneamente l’essere moralmente giusti e sottoposti a sofferenza ingiusta, e se uno dei due ingredienti viene meno, allora la magia svanisce.
Già, i cosiddetti “cattivi”. Come si fa a empatizzare con loro? Come si possono capire i loro moventi e le loro azioni?
Ma come si fa a entrare dentro a una personalità che suscita ribrezzo al solo pensiero di chi è e di cosa è capaci di fare?
Qui la faccenda si fa complessa, non certo nella regola formale – di per sé, al solito, semplice da enunciare – ma nella sua “messa in posa”, perché un errore di millimetri può davvero far saltare tutto.
Competenza e proattività devono esserci sempre, anche se diventano molto più difficili da gestire.
Così come diventa problematico concepire situazioni di sofferenza ingiusta.
In rete troverai tutte le informazioni che desideri sui mafiosi Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano. Qui, al solito, facciamola semplice.
Giovanni Brusca era soprannominato u verru (il porco) o anche lo scannacristiani (e non credo ti serva la traduzione).
“Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”.
Questo è Giovanni Brusca, scarcerato Il 31 maggio 2021, dopo soli 25 anni di reclusione, grazie a una legge voluta proprio da Falcone sul trattamento dei cosiddetti “collaboratori di giustizia”.
E ora veniamo a Bernardo Provenzano, il capo dei capi dell’organizzazione mafiosa, a partire dal 1995 e fino al suo arresto, l’11 aprile 2006.
Era anche lui un mafioso, anche lui col suo bel curriculum di omicidi e stragi, ma…
Ma.
C’è un “ma”, che di certo non cambia tutto, ma sicuramente cambia abbastanza per le nostre finalità.
Dopo l’arresto di Totò Riina, nel 1993, Provenzano operò da mediatore tra le diverse correnti mafiose, tra chi voleva proseguire la stagione delle stragi – Giovanni Brusca in testa – e chi invece sosteneva l’opportunità di una pausa. Non è chiaro quale fosse la posizione di Provenzano, ma c’è da credere a Salvatore Cancemi quando dice che Provenzano impose che gli attentati – se proprio non si potevano evitare – dovevano avvenire fuori dalla Sicilia, “in continente”, come diciamo noi siciliani.
Dopo l’arresto nel 1995 di Leoluca Bagarella, esponente di spicco del partito stragista, Provenzano ebbe campo libero e avviò un nuovo corso di Cosa Nostra: la cosiddetta strategia della sommersione, per rendere invisibile l’organizzazione mafiosa, non destare più l’attenzione delle istituzioni e tornare a curare in tranquillità gli affari correnti.
Se vuoi la mia opinione, se proprio ci tieni a saperla, credo che Provenzano sia stato l’interprete più autentico dello spirito di Cosa Nostra: uno Stato dentro lo Stato, con un suo corpo di polizia (forse un filo più aggressivo rispetto alla polizia ordinaria) un suo apparato giudiziario (forse un filo più sbrigativo rispetto al nostro) un suo sistema amministrativo e fiscale (forse un filo più efficiente rispetto a quello a cui siamo abituati) e quindi, in definitiva, un potere costituito che si rapporta agli altri poteri nelle forme e nei modi con cui tipicamente i centri di potere entrano in contatto, forme e modalità di regola pacifiche, e solo al limite, all’estremo, basate sulla forza.
Non puoi dire – se conosci un minimo la storia della Mafia – che Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano sono la stessa cosa, soltanto perché entrambi – tout court – erano mafiosi.
Giovanni Brusca è un conto, Bernardo Provenzano un altro, sebbene entrambi appartenessero a Cosa Nostra. E allora – se adeguatamente presentati, nel mondo della pagina – Bernardo Provenzano apparirà “buono” rispetto a Giovanni Brusca, e quindi suscettibile di ricevere una sofferenza ingiusta, per creare empatia.
Capisci, però, quanto sia delicata questa costruzione narrativa: tutto si gioca sul misurare Bernardo Provenzano con il metro di Giovanni Brusca, e calibrare questa metrica è un esercizio di raffinatezza che spesso non fa presa sulle capacità umane, ma che quando riesce dà origine ad autentici capolavori.
Se Bernardo Provenzano è un “buono” rispetto a Giovanni Brusca, se misuri la bontà di Provenzano in unità di cattiveria di Brusca, allora sarai sempre tentato di rendere Brusca oltremodo cattivo – di inasprire il metro di riferimento – per far apparire “sufficientemente buono” Provenzano.
Sì, è vero. Brusca era u verru, il porco. Brusca ha sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Salvatore Di Matteo, un mafioso pentito che l’organizzazione aveva deciso di punire. Giuseppe Di Matteo fu rapito quando aveva 13 anni e giustiziato quando ne aveva 15, dopo due anni di prigionia. E sia. Stiamo parlando di mafia e di mafiosi, non di frati francescani. Va bene. Ma perché scioglierlo nell’acido? Non potevi limitarti a ucciderlo… e basta? No. Lo dovevi sciogliere nell’acido, lo dovevi. Ma perché?
Se il tuo personaggio scioglie un bambino nell’acido – quando si sarebbe potuto limitare a ucciderlo e basta – io, lettore tiepido, non ti seguo più. Perché tu, autore, dio creatore, sei a tutti gli effetti ricaduto nello “schema Cenerentola”: stai creando un personaggio che, a tutti gli effetti, è l’equivalente della matrigna e delle sorellastre di Cenerentola, di ciò che Irina e Neil sono per Candy Candy.
E non
Il mio suggerimento – se proprio hai deciso di avere un protagonista “cattivo” – è di prendere perfettamente le misure, di calibrare il metro al millimetro, di renderlo oltremodo preciso.
E se realizzi di non essere in grado di farlo, se ti rendi conto di aver creato un personaggio fantoccio, kattivo-kattivissimo-kattivo-perché-sì, solo per far apparire buono il protagonista, allora, dammi retta, rinuncia. Ci fai più bella figura, davvero.
Il gioco è fatto, quando hai creato l’empatia. Perché empatizzare col personaggio significa tifare per il personaggio, e nel tifo è implicita una spiccata componente emotiva che tiene incollati alle sorti di ciò che per cui si sta tifando, a prescindere dal resto. Quindi, nel momento in cui il tuo personaggio inizierà a inanellare errori – come accadrà nel Secondo Atto – il lettore sarà comunque con lui, a tifare per lui, a preoccuparsi, temere, sperare, gioire, e soffrire con lui.
Attenzione, però. A differenza del tifo per una squadra di calcio – quello sì indistruttibile, perché nella vita solo due cose non si cambiano: la mamma e la squadra – il tifo per il personaggio è sempre a rischio.
L’empatia, una volta costruita, non può essere lasciata al suo destino, perché l’empatia non è localizzata in un punto, ma diffusa lungo tutto l’arco. Esistono l’incidente scatenante, la chiamata all’azione, il midpoint e l’esperienza di morte come snodi dell’arco, momenti precisi in cui avvengono eventi precisi, ma non esiste il “momento dell’empatia”. L’empatia è – deve essere – ovunque.
Non smettere mai di mostrare la competenza e la proattività del tuo personaggio, non smettere mai di sottoporlo a sofferenze ingiuste, ma ovviamente abbi cura di intervallare gli eventi rilevanti, di variarli per tipologie e intensità, di far prendere respiro al lettore, di non ingozzarlo. Altrimenti – se gli somministri competenza, proattività e sofferenza a getto continuo – finirai col renderlo insensibile anche alle caratteristiche più straordinarie del tuo personaggio.
Ancora due parole sulla sofferenza ingiusta, il principio attivo dell’empatia.
Può non essere così facile, o naturale, infliggerla già nello status quo. Se ci riesci, bene. Se non ci riesci – se la tua storia non si presta naturalmente ad accoglierla già dalle scene iniziali – allora rinuncia, non inserirla “a forza bruta”. Punta tutto su competenza e proattività.
In casi estremi puoi anche accontentarti di non pregiudicare l’empatia, di non far comportare il tuo personaggio in modo smaccatamente contrario ai principî che ne costituiscono il fondamento, per rinviare il processo costruzione alle scene successive. Sembra poco, ma a volte è già tanto.
Incidente scatenante
Le scene iniziali dell’opera sono dedicate a presentare il personaggio – a farlo conoscere nel suo ambiente naturale, nella sua vita ordinaria – con l’obiettivo di favorirne l’empatia.
Lo status quo deve avere termine piuttosto in fretta, perché – ripetiamolo – la normalità non ha mai grandi motivi di interesse. Costruisci l’empatia nella misura in cui le prime scene della tua opera te ne offrono l’opportunità – ma senza essere pigro – e passa veloce al primo punto nodale dell’arco: l’incidente scatenante.
L’incidente scatenante è un evento che irrompe nella vita del protagonista, di cui il protagonista sicuramente si accorge, ma che non vive come qualcosa di strettamente personale.

Tranquilli, tanto non piove…
Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo invade l’Ucraina. Il tuo personaggio chiaramente se ne accorge, e ne sarà colpito: il suo paese è in guerra, per l’amor del cielo, la cosa non può certo lasciarlo indifferente!
D’accordo, la sua Russia è in guerra, e la cosa ha una rilevanza generale. Ma a livello spicciolo, di vita di ogni giorno, a lui cosa cambia? La guerra si combatterà esclusivamente sul territorio ucraino, nessuno verrà mai a bombardare Mosca – figurarsi! – e poi la guerra è roba da soldati, professionisti in mimetica addestrati a maneggiare bombe e mitragliatrici, e non tocca certo i funzionari pubblici dediti a mandare avanti la burocrazia.
La guerra è un evento in sé tremendo, di cui il personaggio si accorge e di cui magari non farà altro che parlare con i familiari, gli amici e i colleghi, ma che di fatto non sposta nulla nella sua vita. Lui continuerà a fare quel che ha sempre fatto sino a quel momento. Ci penseranno i soldati a difendere la grande Russia dall’arroganza della NATO.
Non si fatica a immaginare l’agitazione tra i dipendenti: chissà cosa accadrà adesso, quali progetti avranno mai questi signori con gli occhi a mandorla, se chiuderanno alcuni dipartimenti, se ne apriranno altri, e cosa ne sarà di noi…
Tutti parlano dei cinesi, della nuova proprietà, perché è impossibile non parlarne. Ma è gossip, chiacchiericcio, più che una vera e propria discussione. E il tuo personaggio non ha voglia di prestarsi al “bla-bla-bla”.
Lo possiamo immaginare come un Checco Zalone in Quo vado, ma in una versione reale, verosimile, ripulita dagli aspetti macchiettistici. È uno che si sente al sicuro, sempre e comunque, tanto più che la stessa situazione l’ha già vissuta cinque anni fa, quando l’azienda passò dalla storica proprietà italiana a un gruppo americano. Stesso copione anche allora: tanto rumore, tante chiacchiere… e poi? Poi, niente. Il cambio di proprietà aveva impattato solo sulle alte sfere, il top management era cambiato, le macro-strategie di posizionamento sul mercato pure, ma tutte le annunciate innovazioni procedurali erano rimaste lettera morta, e per il tuo personaggio – e per tutti quelli intorno a lui – nulla era mutato nel day-by-day, come tutti avevano iniziato a dire per atteggiarsi.
Che “il padrone” sia un italiano, un americano o un cinese, cosa vuoi che cambi per la massa di impiegati? Il lavoro rimane lo stesso, lo stipendio continua ad arrivare puntuale. Potrà pure essere cambiato tutto, ma le poche cose che contano rimangono invariate sotto ogni cielo.
Italiani prima, americani dopo, cinesi ora, e domani magari giapponesi, d’accordo; ma ci sarà sempre una sensazione di déjà-vu, di cose già viste e sperimentate, da cui non c’è nulla da temere.
È un evento che irrompe nella vita del protagonista, che il protagonista nota senz’altro e a cui può anche dedicare attenzione e interesse, ma che di fatto non altera la sua normalità e non sembra avere conseguenze nemmeno in prospettiva.
e la volontà di affrontare ogni sacrificio”.
C’è un errore in questa ricostruzione.
♫ Hello Battista, che c’è di nuovo,
cos’è accaduto? Dite un po’!
Voglio sapere che cosa trovo
quando al castel ritornerò… ♬
va tutto ben, va tutto ben.
Però l’attende forse una sorpresa
che dir non posso fare a men:
un incidente banal, meschino,
è morto il suo bel cavallino;
a parte ciò, Madama la Marchesa,
va tutto ben, va tutto ben… ♬
Chiamata all'azione
Riprendiamo l’esempio della ragazzina e dell’amica che confabulano durante il compito in classe di matematica. La professoressa le becca. È stata sfortuna? Sì, in definitiva. Il caso ha voluto che la professoressa sollevasse lo sguardo e lo puntasse su di loro proprio nel momento più concitato della loro collaborazione illecita. Se vogliamo dire che le due amiche sono state “sfortunate”, diciamolo pure. Ma se trascorri gran parte delle due ore del compito a bisbigliare, mimare formule e passarti bigliettini, non puoi sorprenderti se “a un certo punto” vieni beccata.
Abituati a pensare in termini di cause e di effetti, e di effetti che a loro volta diventano cause di altri effetti e così via, perché la storia deve avere una logica riconoscibile al senso comune (e non può certo andare avanti a colpi di culo e botte di sfiga).
La chiamata all’azione è quell’evento – conseguenza degli eventi innescati dall’incidente scatenante – in cui la storia diventa personale: è quel momento in cui il protagonista realizza che la palla di neve dell’incidente scatenante, a monte, è rotolata giù per il pendio, ingrandendosi a ogni giro, sino a provocare una valanga che sta per venirgli addosso.
Le cose si complicano. Quel che nelle previsioni doveva essere un conflitto di qualche settimana, al più di un paio di mesi, si sta rivelando un evento di proporzioni ogni giorno più grandi, che sta mettendo la Russia in affanno. Le perdite – di uomini e mezzi – si cumulano e raggiungono livelli di guardia.
Una mattina il funzionario ministeriale si sveglia dopo le sue belle otto ore di sonno filato, si prepara un caffè e dal suo i-Phone va sul sito della Izvestija, l’equivalente del nostro Corriere della Sera. E trasecola: Santa Madre Russia ha disposto l’arruolamento di tutta la popolazione maschile tra i 20 e i 50 anni, abile al servizio militare.
La nuova proprietà cinese potrebbe disporre ad esempio il trasferimento della sede legale da Roma a Milano, perché vuole trovarsi nella città simbolo dell’imprenditoria italiana, ma anche per mandare un messaggio a tutta la compagine: da oggi si cambia.
E insieme alla sede legale potrebbe trasferire a Milano anche gran parte delle strutture operative. A Roma rimarranno soltanto un ufficio di rappresentanza e dei servizi minori, più che altro per venire incontro alle richieste sindacali di tutela della fascia più anziana dei dipendenti (che avrebbe problemi nel trasferimento).
E ora cosa farà il tuo protagonista? Accetterà il trasferimento o si licenzierà? Comunque dovrà agire. Il passaggio di proprietà, dagli americani ai cinesi, è diventato un fatto personale, un evento che tocca la sua vita di ogni giorno.
Ho capito! La chiamata all’azione è il momento in cui l’incidente scatenante rivela le sue conseguenze pratiche sulla vita del protagonista. Ma – per curiosità – il protagonista può rifiutare la chiamata? Il funzionario russo non potrebbe scegliere la diserzione?
Bravo, bella domanda: finalmente ragioni a dovere.
Riflettiamo, e per riflettere a modo sarà il caso di mettere in pausa la discussione sul mondo della pagina, per tornare al mondo reale, alla vita vera, nella realtà di ogni giorno.
Se stai studiando come dovresti, allora avrai realizzato che numerose esperienze della tua vita sono state segnate da un incidente scatenante e da una correlata chiamata all’azione: a meno che tu non abbia trascorso l’intera esistenza sotto un albero a meditare – soluzione peraltro consigliatissima – sarai sicuramente andato incontro, almeno una volta, alla rottura di un equilibrio (incidente scatenate) che di li a poco ti ha imposto di prendere l’iniziativa (chiamata all’azione) per ripristinare un nuovo equilibrio.
E ogni volta che la vita ti chiama all’azione, tu hai sempre – in linea di principio – la possibilità di rifiutare, di alzarti dal tavolo e scegliere di non giocare.
Quando Pietro, in fuga, incontra Gesù e gli chiede “quo vadis?”, per sentirsi rispondere “a Roma, a farmi crocifiggere un’altra volta”, in quel momento – che rappresenta la sua chiamata all’azione, l’invito a smetterla di scappare e a iniziare ad agire, che qui vuol dire accettare con gioia il martirio e poi la morte – in quel preciso momento, dicevo, Pietro ha ancora la libertà di rifiutare la chiamata, di ignorare le parole di Gesù e continuare a scappare (sostanzialmente di rimanere nella sua normalità).
Tu puoi sempre dire “passo” – almeno in teoria – ma non puoi pensare di “passare la mano” senza andare incontro a conseguenze.
Vuoi scappare? Non vuoi consegnarti ai romani? Fallo. Scappa pure. E poi? Morirai comunque, un giorno. Dalla morte puoi scappare oggi o domani, non per sempre. L’ultima carta della vita la getta sempre lei, Sorella Morte. E cosa succederà, nel giorno della tua morte, se nel giorno della chiamata all’azione hai scelto il rifiuto?
Hai voluto evitare una “piccola sofferenza” – e sì, credimi, morire crocifisso a testa in giù era proprio una “piccola sofferenza” – e adesso? Dove sei adesso, Pietro? Probabilmente in quel luogo che i cristiani chiamano “inferno” e che nelle filosofie orientali corrisponde a uno dei reami inferiori del Saṃsāra. E ci sei non già perché qualcuno ti ci ha mandato per punirti, ma perché hai scelto volontariamente di andarci, nel momento in cui hai rifiutato la chiamata all’azione. La legge del karma è ferrea: se ti succede qualcosa – qualunque cosa, qui o altrove – è solo perché hai creato le condizioni affinché ti accadesse, perché nulla può accaderti se tu non vuoi, perché l’Universo non potrà mai colpirti se tu non gliene dai occasione.
Ora sei all’inferno, Pietro, perché hai scelto liberamente di rifiutare la chiamata, e sai qual è il grande problema dell’inferno? Non già che sia un inferno (questo è il meno) bensì la maledetta difficoltà a venirne fuori.
I reami demoniaci hanno il potere di trattenerti al loro interno, perché per chiamarsene fuori servirebbe razionalizzare la sofferenza, metterla in prospettiva, darle un significato, tutte cose tanto più difficili quanto più la sofferenza è grande, e siccome ogni angolo dei reami del diavolo è impregnato di sofferenza, e non sembra esservi spazio per stati d’animo diversi dalla sofferenza, nessuno sa bene cosa fare per riacquistare quel dominio di sé che solo può condurre alla salvezza.
E poi c’è un discorso di “tempi”, se così vogliamo dire: l’unità temporale dei reami demoniaci non è il giorno, ma il secolo, a voler esprimere il concetto con le metriche umane. Quel che qui sulla Terra è un intervallo temporale di “un giorno”, lì, all'inferno, è un secolo e forse di più. E che secolo, Pietro mio! Un secolo di pena continua, di sofferenza ininterrotta.
Quanto hai fatto bene, Pietro, ad accettare la chiamata all’azione a consegnarti ai romani e ad auto-infliggerti la crocifissione a testa in giù, perché ti ritenevi indegno di morire come il Maestro!
Il personaggio non può rifiutare la chiamata all’azione, e non tanto perché se la rifiuta il tuo meraviglioso romanzo – sorpresa! – finisce a pagina 10 (anziché svilupparsi lungo le 350 pagine che avevi programmato); non può rifiutare la chiamata perché rifiutare la chiamata significa alzarsi dal tavolo da gioco e lasciare sul piatto qualcosa a cui si tiene molto, che si ha a cuore, che non si vuole perdere; e ciò non è realistico.
Semmai, se vuoi, puoi introdurre la variante di un rifiuto iniziale, col sottointeso che la chiamata si ripresenterà, e stavolta in termini perentori e più drammatici.
Il tuo funzionario russo rifiuta la chiamata (alle armi) e sceglie la diserzione? E sia. Ma non puoi pensare che Santa Madre Russia faccia spallucce e dica “vabbè, ha disertato, pazienza”. I disertori verranno cercati uno a uno e – stanne certo – saranno stanati tutti. E, una volta trovati, saranno i primi a essere spediti al fronte, a diventare “carne da cannone”, ché tanto cosa vuoi che sia se muore un disertore? E se – 1 probabilità su 1000 – Santa Madre Russia non riuscisse a tirarti fuori dal buco dove ti sei rinchiuso, se proprio riuscirai a evitare la chiamata, sappi che una squadra paramilitare sta già bussando a casa della tua famiglia, per chiedere a tua moglie e ai tuoi figli di “rendere conto” – diciamo così – della tua diserzione. Perciò diserta pure, se vuoi. E poi sopportane le conseguenze.
Papà Croods: “Non lo so, non ne sono sicuro… giù, in un posto più in basso.
C’è una finezza che merita di essere rilevata.
L’incidente scatenante è l’ennesimo ghiacciaio che si scioglie al Polo Nord, di cui senti parlare al telegiornale, commentando la notizia con sconforto, domandanti dove andrà a finire il pianeta se si continua così.
La chiamata all’azione è… che cazzo ci fa tutta quest’acqua nel mio giardino?
Momento determinante e difetto fatale
Il “nuovo mondo” può essere diverso in tutto e per tutto rispetto al vecchio (pensa al tuo funzionario russo: dalla giacca e la cravatta alla tuta mimetica, dal computer alla mitragliatrice) oppure dalle sembianze esteriori simili al precedente, ma immerso in ben altro clima (pensa all’impiegato che si è trasferito da Roma a Milano: gli uffici sono pur sempre uffici, ma Milano non è Roma, e l’aria che si respira è tutt’altra).
In questo “nuovo mondo” il protagonista è chiamato ad agire, a fare qualcosa.
Questa zavorra si chiama difetto fatale ed è ciò che dà un significato drammatico all’intera vicenda: tutte le storie – in soldoni – ci parlando del difetto fatale, del suo superamento (negli archi eroici) o del mancato superamento (negli archi tragici) con tutte le associate conseguenze.
Cos’è un difetto fatale? È anzitutto un difetto.
La parola “difetto” l’associamo a un tratto caratteriale intrinsecamene negativo, a un modo di fare censurabile di per sé, sempre e comunque.
Ma da cosa nasce questa associazione? In pratica dal confronto fra il tratto caratteriale e un sistema di valori preassegnato e immodificabile (determinato dell’educazione ricevuta, dalle esperienze vissute, dai condizionamenti dell’ambiente in cui viviamo).
Un difetto è un difetto solo ed esclusivamente perché crea problemi specifici in una circostanza specifica a un personaggio specifico, perché mette nei guai quel particolare personaggio in quella precisa situazione di vita.
Non si danno mai giudizi assoluti sul profilo caratteriale del personaggio, ma solo relativi, e precisamente relativi alle implicazioni del suo profilo caratteriale sulle possibilità di compiere le azioni necessarie per “vincere” (e vedremo presto cosa vuol dire “vincere”, all’interno della storia).
Di più: una storia ben congegnata la riconosci perché ciò che ora – nel “nuovo mondo”, dopo la chiamata all’azione – chiamiamo difetto fatale, nello status quo rappresentava un eccellente sistema di sopravvivenza.
Poniamo che il tuo impiegato dell’ente privato avesse sviluppato negli anni il tipico atteggiamento ministeriale di chi fa quel che gli è richiesto di fare, e lo fa bene, a modo, con scrupolo, senza però mai prendere iniziative, senza nessuna intraprendenza. E questa sua caratteristica – diciamo “remissiva” – era sempre stata apprezzata dai capi, perché i capi volevano esattamente questo: qualcuno che eseguisse gli ordini senza discutere, ché se ognuno si mette a dire la sua, se tutti pensano di avere diritto di parola, si fa solo un gran casino e non si conclude nulla.
E tutto – in effetti – andava a meraviglia, per il tuo protagonista: era molto apprezzato dai capi diretti, che ne parlavano sempre bene ai loro superiori; e così lui era sempre in prima linea quando si dovevano decidere le promozioni e le assegnazioni dei bonus; la “remissività” era a tutti gli effetti un pregio, perché permetteva di vivere alla grande.
Il tuo protagonista – nel “nuovo mondo”, dopo la chiamata all’azione – ha dunque un difetto.
Il difetto fatale è la sorgente da cui sgorga la storia.
“Il problema, però, è che cambiare è dura” – osserva Will Storr – “Le nostre imperfezioni – soprattutto gli errori che facciamo in merito al mondo degli umani e a come vivere con successo al suo interno – non sono semplicemente idee relative a questo e a quello, il che ci permetterebbe di individuarle facilmente e scrollarcele di dosso. Sono profondamente connaturate ai nostri modelli allucinatori. Le imperfezioni che ci caratterizzano fanno parte della nostra percezione, del nostro modo di sperimentare la realtà. E questo non potrà che rendercele, in larga misura, invisibili.
Correggere le nostre imperfezioni presuppone, anzitutto, di riuscire a vederle. Quando veniamo messi in discussione, spesso ci rifiutiamo di riconoscerle. Gli altri ci accuseranno di ‘negare l’evidenza’. E a ragione: noi non le non vediamo proprio. Anche se riuscissimo a vederle, ci appariranno quasi sempre non come difetti, bensì come virtù. […].
Individuare e riconoscere le nostre imperfezioni, e di conseguenza cambiare ciò che siamo, richiede di demolire la struttura stessa della nostra realtà per poterla ricostruire in una forma nuova e migliorata. Non è facile. Anzi. È doloroso e disturbante. Spesso combatteremo con tutte le nostre forze per opporci a un cambiamento così radicale. Ecco perché definiamo un ‘eroe’ chi ci riesce”.
E qui si pone un problema tecnico: il lettore non potrà mai capire quale sia il difetto fatale del protagonista, in un punto preciso della storia, se non lo ha già intravisto prima, a più riprese, e possa quindi fare 2+2 una volta arrivato al momento determinate (realizzare cioè, anche solo inconsciamente, che il difetto fatale del protagonista è – ad esempio – “la remissività”).
Il difetto fatale, a rigore, occorre percepirlo già nello status quo – quando magari non rappresenta neanche un difetto, ma addirittura un pregio – e consolidarlo man mano, dall’incidente scatenante alla chiamata all’azione, sino a vederlo esplodere nel momento determinante.
Questa traiettoria comunicativa è la soluzione tecnicamente più elegante, ma anche la più complessa da realizzare, e comunque sempre aperta a margini di incertezza. Il lettore capirà – anche solo inconsciamente – qual è il difetto fatale del protagonista? Sarai riuscito a metterlo in condizione di fare 2+2 quando arriverà la scena che codifica il momento determinante? Il dubbio di aver mancato il bersaglio c’è sempre e non si può mai eliminare del tutto.
In molte sceneggiature, anche nelle migliori, ci si toglie dall’imbarazzo nel modo più semplice possibile, che non sarà un esempio di eleganza, però ha il pregio di smazzar via ogni ambiguità: il difetto fatale viene dichiarato in una battuta di dialogo.
Il fegato ce l’hai, ma quando combatti sembri uno scimmione,
l’unica cosa buona è che non ti hanno mai rotto il naso.
Beh, tieniti il tuo nasetto… e quel poco di cervello che ti resta”.
“Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso.
Todd Anderson: “In che senso?”
Neil Perry: “Tu sei dei nostri! II sangue dovrebbe ribollirti, tu invece non ne hai affatto.
Todd Anderson: “Vuoi che esca dalla setta?”
Todd Anderson: “Senti, apprezzo i tuoi consigli, ma io non sono come te”
Neil Perry: “Non potresti cambiare?”
Neil Perry: “No”
E come si costruisce questo difetto fatale?
Posso dirti innanzitutto cosa non fare: non confondere – non ti azzardare a confondere – l’inizio con la fine.
Ritorna alle modalità di formulazione della premessa: sono qualitativamente le stesse con cui si costruisce il difetto fatale.
Così come la premessa è la sintesi estrema di un’analisi rigorosa, estesa, approfondita e sistematica, allo stesso modo il difetto fatale viene riassunto in una parola soltanto a conclusione di un’esplorazione a 360 gradi della personalità del tuo protagonista.
Non dire “il difetto fatale è la remissività” (o l’egoismo o la generosità o vedi tu che altro) illudendoti di aver smarcato la pratica. Perché il difetto fatale non è una pratica burocratica di cui liberarsi il prima possibile, per poter poi scrivere, scrivere, scrivere.
Il difetto fatale è la sorgente da cui sgorga la storia, senza difetto fatale non c’è nessuna storia, quindi il difetto fatale va conosciuto in tutte le sue sfumature. E non per ragioni accademiche o filosofiche, ma per motivi maledettamente pratici. Perché la storia – in soldoni – ci parlerà dei continui e problematici tentativi di rimozione del difetto fatale, e il difetto fatale non lo rimuovi così, di botto, in un colpo solo, ma passo dopo passo, una strato dopo l’altro – come sbucceresti un carciofo – per cui a ogni momento è cruciale sapere quali sfumature del difetto fatale sono ancora presenti (e condizionano quindi negativamente la visione del mondo e le azioni correlate) e quali invece sono state rimosse (e non zavorrano più il tuo protagonista).


così da poterlo mostrare nella sua interezza
e far dire al lettore “ah, ecco perché è egoista: ora tutto si spiega”.
Nulla ha una solo causa, tutto dipende da una molteplicità di fattori,
e qui servono intelligenza e abilità per riuscire a restituirne il senso della cosa.
Se all’origine del difetto fatale vi sono “n” eventi, ma ognuno di essi ha importanza “1/n”
– se le cause del difetto fatale sono “democratiche”, se “uno vale uno” –
dall’altro deve però esservi una gerarchia tra gli eventi alla base del difetto fatale,
In sintesi:
alla base del difetto fatale ci sono “n” cause;
basandosi sulle principali, ma senza trascurare le secondarie,
in modo da restituirne la migliore approssimazione possibile,
Il difetto fatale – in definitiva – dà corpo, anima e respiro alla sesta delle ventidue regole della Pixar per una sceneggiatura a regola d’arte. “Con che cosa si sente a suo agio il tuo personaggio? Costringilo a fare il contrario. Sfidalo. Come reagisce?”
Primo punto di svolta e posta in gioco
Riepiloghiamo.
La normalità del protagonista è stata spezzata dall’incidente scatenante; lui, il tuo protagonista, al principio non ha colto la rilevanza dell’evento; ovviamente se n’è accorto, e magari ha pure attirato la sua attenzione, ma non l’ha percepito come come un evento suscettibile di stravolgere la sua vita di ogni giorno; l’incidente scatenate ha però provocato un altro evento che ne ha causato un altro ancora, sino ad arrivare alla chiamata all’azione, quando il personaggio ha realizzato che tutta la faccenda lo tocca nel vivo; il personaggio – in un modo o nell’altro – risponde alla chiamata, e si ritrova catapultato in un “nuovo mondo” – che non conosce affatto o non conosce come dovrebbe o non conosce come crede di conoscere – e in cui comunque è impreparato a vivere a causa di un difetto fatale (che non sa di avere, ma di cui ben presto intuirà la presenza, a causa dei disastri a cui andrà incontro).
Avevi fatto una domanda intelligente, nella sezione dedicata alla chiamata all’azione: il personaggio può rifiutare la chiamata?
Sì: il personaggio – in astratto, in teoria – può rifiutare la chiamata; ma non lo fa (o al più può farlo la prima volta, non la seconda) non tanto o non solo perché se rifiuta la chiamata non c’è nessuna storia (e – senza storia – tu non venderai milioni di copie del tuo romanzo); il personaggio finisce per accettare la chiamata all’azione perché rifiutarla significherebbe perdere qualcosa a cui tiene molto.
Rifiutare la chiamata all’azione significa perdere la posta in gioco, laddove la posta in gioco va invece difesa contro tutto e tutti, lottando contro tutto e tutti, e in primis contro sé stessi, contro il proprio difetto fatale che è la causa principale che la mette in pericolo.
Poche chiacchere e zero stronzate, quando parliamo di posta in gioco.
Ammettilo: ci sono decine, centinaia di oggetti, che ti guardano ammiccanti dalle vetrine o dallo schermo del computer, come le troie di un bordello. Sono lì per te, a disposizione. Puoi averle quando vuoi. Ti serve solo il denaro. Magari ora non ne hai a sufficienza, e ti tocca sbavare sulla vetrina o sullo schermo, ma se un giorno riuscissi ad averne abbastanza, allora l’oggetto si materializzerà all’istante accanto a te, il suo possesso sarà garantito.
Gli oggetti da collezione non sono disponibili on demand. Puoi pure avere la possibilità di aggiungere zeri a piacere ai tuoi assegni, ma l’oggetto da collezione non è lì a tua disposizione. Devi attenderlo, e l’attesa – il saper aspettare con fiducia e determinazione, senza lasciarsi tentare da altro – è un esercizio di auto-controllo tra i più difficili in assoluto.
C’è un pozzo di frasi, citazioni e aforismi che celebrano il raggiunto possesso di un oggetto da collezione come il ricongiungimento con una persona amata, ma soprattutto ci sono innumerevoli episodi storici di per sé esplicativi degli sconvolgimenti emotivi indotti dal collezionismo.
1496. Isabella d’Este sarà pur stata una delle dame più raffinate del suo tempo, ma la sua natura appetitosa, il suo insaciabile desiderio di cose antique, la sua smania per cose rare et excellenti, la spinsero per tutta la vita a bussare con insistenza alle porte dei collezionisti, ad approfittare del loro bisogno di denaro, a saccheggiare gli eredi, a tenere atteggiamenti di rara improntitudine pur di arrivare per prima, perché le cose ne sono più care quanto più presto le havemo.
1626. Nasce Cristina di Svezia, la femminuccia scambiata per maschio per il suo clitoride pronunciato, la regina virile, senza trono, insofferente verso la sua condizione di donna. Intelligente, colta, spregiudicata, sessualmente all'avanguardia. Collezionista rapace, anche quando pressata da ristrettezze economiche: la sua cupidigia era nota in tutte le corti europee, la sua brama di possesso trascendeva ogni principio morale.
1650. La testa di Carlo Stuart d’Inghilterra non ha ancora smesso di rotolare accanto ai piedi del boia, e la sua spettacolare collezione è già preda degli emissari di altri Re collezionisti, inviati a Londra a contendersi quei tesori di arte romana, rinascimentale e barocca, messi assieme in oltre vent’anni di appassionate e meticolose ricerche. Perché il collezionista è un predatore, le collezioni dei rivali sono territori di caccia inavvicinabili, e l’abilità è invaderli per primo, quando l’imprevisto li rende finalmente accessibili.
1742. Il Ducato di Modena è in bancarotta. Il Duca Francesco III d’Este da un lato, Re Augusto III di Polonia dall’altro, e in mezzo la collezione del Duca, di cui il Re conservava invidiosi ricordi da quando l’aveva ammirata trent'anni prima. La collezione trasloca da Modena a Dresda, tra firme false e intrighi di corte. Il Ducato è salvo, e vivrà ancora per poco più d’un secolo, sino al 1859, per poi finire fagocitato dal Regno di Sardegna. La collezione, invece, è persa per sempre.
1796. Napoleone riceve un curioso comando, nel corso della sua Campagna d’Italia. “Cittadino generale, il Direttorio esecutivo è convinto che per voi la gloria delle belle arti e quella dell’armata ai vostri ordini siano inscindibili. Questa gloriosa campagna deve sommare allo splendore dei trionfi militari l’incanto consolante e benefico dell’arte. Il Direttorio esecutivo vi esorta pertanto a cercare, riunire e far portare a Parigi tutti i più preziosi oggetti”. Quella sofisticata associazione – tra la materialità delle conquiste militari e il sottile piacere dell’arte – sarà l’ossessione del Generale divenuto Imperatore, e le razzie napoleoniche – nel giudizio dello storico Paul Wescher – diventeranno “il più grande spostamento di opere d’arte della storia”.
1938-1941. Hitler stila l’elenco delle opere d’arte di origine tedesca in mano ai Paesi occupati dai nazisti. Ordina requisizioni in Austria e Polonia, e poi in Francia e in Olanda. Rispolvera il progetto napoleonico di un museo europeo di capolavori, per farne il piedistallo della razza superiore a cui affidare il ricordo di sé. Una fitta rete di antiquari rastrella le opere più belle e famose, pagando i collezionisti con visti di espatrio e il rilascio di familiari deportati.
1952-1954. Il movimento dei “Liberi Ufficiali” compie un colpo di Stato in Egitto, nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1952. Le forze armate occupano i Ministeri, le stazioni radio e i presidi militari. Il Cairo è in mano loro. Re Faruk abdica il 26 luglio, il Generale Naghib diventa il Capo del Governo. L’anno dopo tramonta la monarchia e sorge la repubblica. Ci si può anche rassegnare alla perdita di un Regno, ma non a quella di una collezione. Re Faruk, dall’esilio, tenta con ogni mezzo di rientrare in possesso dei suoi amati francobolli, messi all'asta nel febbraio del 1954 dal neonato Governo, e tra cui era presente una delle due lettere col 3 lire del Governo Provvisorio di Toscana. La causa legale non sortisce effetti, però il messaggio rimane: toglietemi il Regno, ma non i miei francobolli.
Le collezioni sono cerchi magici in cui trovano riparo emozioni e sentimenti, scrigni che custodiscono persone ancor prima che oggetti, ma rappresentano anche bottini di guerra, segni di supremazia, mezzi di umiliazione del vinto. Parafrasando Mao Tsé-Tung, l’acquisto di un oggetto da collezione non è un pranzo di gala, un’opera letteraria, un disegno o un ricamo; non lo puoi realizzare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con la stessa dolcezza e cortesia; l’acquisto di un oggetto da collezione è una conquista, un atto di violenza col quale un collezionista ne rovescia un altro.
Da qualche anno, però, si è affacciata sulla scena una nuova figura: un industriale ben fornito di denaro, anche lui con una passione smodata per la filatelia classica. Non badando a spese, con l’ausilio dei migliori mercanti su piazza, e in tempi ragionevoli rispetto alle lunghe attese imposte dal collezionismo, è riuscito a metter su una collezione notevole, sempre più apprezzata ogni volta che viene esposta.
Nell’internazionale di Londra si è andati a un soffio dal sorpasso: 98/100 il punteggio assegnato al collezionista storico, 96/100 quello riconosciuto al nuovo rampollo.
Mancano tre mesi alla mondiale di New Jork, e il tuo protagonista – il collezionista storicamente celebrato da tutti, il dio in terra – è venuto a sapere che il suo rivale è in trattativa per l’acquisto dell’unica lettera con l'80 centesimi del Governo Provvisorio di Parma, una delle gemme filateliche mondiali, fuori mercato da oltre mezzo secolo.
Se il suo rivale arriverà a mettere le mani sull’80 centesimi di Parma, per lui sarà finita; si vedrà scalzato dal trono, e potrebbe addirittura essere dimenticato da tutti, davanti a un simile colpo di mano.
Questo non deve succedere. Se davvero l’80 centesimi di Parma è finalmente in vendita, dopo oltre mezzo secolo, lui deve assolutamente mettergli le mani sopra prima del suo avversario.
Il padre è a un passo dal coronare il suo sogno, ha raccolto tutte le più grandi rarità degli Antichi Stati, e gliene manca solo una: la lettera con l’80 centesimi di Parma.
Ha espresso un desiderio, in punto di morte: il figlio dovrà acquistare quella lettera, se mai ne avesse la possibilità, e portare così a compimento quel che era il suo grande desiderio – suo, del padre – fin da bambino. E il figlio – che ha sempre venerato il padre – gli ha promesso che lo farà.
Dopo alcuni anni dalla morte del padre, negli ambienti collezionistici inizia a circolare con insistenza una voce: l’80 centesimi di Parma uscirà in asta, e pare che vi siano almeno due grandi collezionisti pronti a contenderselo senza badare a spese.
Qual è la differenza tra i due protagonisti? Vogliono entrambi la stessa cosa, lo stesso oggetto, ma… cos’è che li differenzia, e che fa tutta la differenza, ai fini della storia?
I due protagonisti si differenziano per il movente, per la ragione che li spinge a lottare.
Il collezionista famoso vuol entrare in possesso dell’80 centesimi per difendere la sua posizione di centralità all’interno del mondo filatelico: si sente auto-realizzato, ma ora questa piacevole sensazione è sotto l’attacco di un rivale che vuole spodestarlo dal trono.
Il figlio del collezionista defunto vuole l’80 centesimi per onorare l’impegno preso col padre in punto di morte: se non riuscisse a mantenere la promessa, allora sentirebbe di aver perso il rispetto del genitore, senza possibilità di riconquistarlo.
Ti invito a notare un fatto fondamentale: entrambi i protagonisti difendono ciò che già posseggono.
- la posta in gioco è ciò per cui il protagonista sta lottando;
- la posta in gioco non è un oggetto, una persona o un fatto; la posta in gioco è l’interpretazione di un oggetto, di una persona, di un fatto; è l’insieme di valori e significati che il protagonista carica su un oggetto, una persona o un fatto;
- la posta in gioco si difende, non si conquista (e se hai la sensazione che il protagonista voglia conquistare qualcosa, è solo perché la conquista gli serve a difendere ciò che già possiede).
Storie esteriormente simili (come nell’esempio dei collezionisti) e addirittura la stessa storia (sì, la stessa storia) avranno un’impostazione e una dinamica totalmente diverse – sul piano concreto della sequenza di scene da progettare e scrivere – a seconda della posta in gioco prescelta, del gradino della piramide sul quale è stato collocato l’obiettivo del personaggio.
La storia sotto i tuoi occhi (la superficie delle cose) è irrilevante quando ne vuoi dare un giudizio artistico: leggere narrativa (o guardare film o serie tv) mainstream, fantasy, thriller, di fantascienza militare, oppure rosa o gialli, è solo un fatto di (insindacabili) gusti personali; ma a te interessa scovare “quel che c’è sotto”, quando analizzi l’opera.
E, in senso inverso, ognuno deve sentirsi libero di scrivere ciò che vuole – purché conosca l’argomento, s’intende – senza scrupoli o remore di cimentarsi in generi “fuori moda” o di prendere posizioni politicamente scorrette; la rilevanza – sul piano tecnico, artistico – sta tutta e sola nell’esistenza di una posta in gioco che il lettore possa percepire, anche solo inconsciamente.
Ti leggo nel pensiero, sai? So cosa ti frulla in testa. Dai, dillo pure. Non mi offendo, tranquillo.
Le mie storie di collezionisti ti sembrano minchiate galattiche, per quanto mi sia sforzato di nobilitarle.
Hai ragione. Ma il problema non è l’80 centesimi di Parma. Il problema è il gradino della piramide.
Tu vedi solo una vecchia lettera affrancata con due vecchi francobolli, ma… cosa vede il protagonista, poniamo il figlio del collezionista defunto?
Sarebbe tutto molto più semplice se il nostro protagonista fosse prigioniero in un campo di concentramento e volesse scappare: la posta in gioco sarebbe la sopravvivenza, che lui già possiede (ora è vivo) e deve però difendere organizzando la fuga dal campo (la conquista della libertà è funzionale a rimanere vivo). Tutti capirebbero al volo, senza difficoltà, cosa stia accadendo in una situazione simile. Nessuno avrebbe difficoltà a far propri i motivi per cui il protagonista fa quel che fa. Ma questa facilità di allineamento degli stati d’animo tra lettore e protagonista – l’immediatezza con cui avviene – è spiegata tutta e solo dall’essersi collocati sul gradino più basso della piramide (bisogni fisiologici) e di averne scelto la declinazione standard (sopravvivenza).
La lettura della storia dovrebbe indurre “naturalmente” a capire i motivi per cui ciò che esternamente appare solo come una lettera antica (alla fine soltanto un oggetto) ha così tanta rilevanza per il protagonista, date la sua esperienza, la sua psicologia, la sua interiorità, calate nella specifica situazione che sta vivendo. Il lettore dovrebbe avvertire “naturalmente”, e in modo via via crescente man mano che procede nella storia, i motivi per cui l’80 centesimi di Parma condensa un dramma esistenziale.
Qualunque aggettivo aggiungerebbe ben poco al carattere di questi due uomini, col rischio di togliergli molto. La nostra ammirazione è illimitata, sconfina nell’adorazione, nella mitizzazione, ma… tu non vuoi questo genere di reazioni emotive verso il tuo personaggio!
Il lettore deve capire il personaggio – aver chiare le ragioni per cui pensa, dice e fa certe cose – e dimmi, sinceramente, in quanti secondo te capiscono la scelta di Falcone e Borsellino? Il mondo è pieno di magistrati che svolgono bene il proprio lavoro, senza farsi ammazzare. E anche ammesso che ve ne siano alcuni che decidono di imprimere un’accelerata alla propria azione, ammesso pure che alcuni si vogliano prendere rischi maggiori di altri, com’è possibile che non si fermino, quando realizzano che la loro vita è in pericolo?
«Giovanni, scusami, ma devi assolutamente farmi una copia dei tuoi dossier.»
«Perché? Sono già a tua disposizione, quando vuoi.»
«Sì, ma potrebbe essere complicato entrarne in possesso, quando ti uccideranno.»
Sinceramente: in quanti riescono a capire un simile dialogo? Chi è in grado di capire come si possa parlare della morte con così tanta serenità, come la si possa prospettare a qualcun altro come un fatto ovvio, preoccupandosi piuttosto di ciò che verrà dopo per chi resta?
“Questo incarico diamolo a Clemence:
voglio gente di affidamento, uomini che non si fanno prendere la mano.
(Don Vito Corleone)
E ti renderai conto – per quel minimo che vorrai rifletterci – che la visione di mia madre è in fondo il tuo stesso atteggiamento quando ti ritrovi di fronte alle incessanti e inconsolabili pene d’amore di qualcun altro. “Basta! Esci, divertiti, conoscine altre! Mica ce l’avrà solo lei, no?”. Cos’è che cantava Raffaella Carrà?
Il cosiddetto “rischio ’sti cazzi” – ’sti cazzi dell’80 centesimi di Parma, ’sti cazzi degli ideali di Falcone e Borsellino, ’sti cazzi della donna della tua vita… ’sti cazzi… ’sti cazzi… – è sempre in agguato, non appena abbandoni la base della piramide.
qualcuno ha capito perché per Andrew Neiman – il protagonista –
è così importante diventare uno dei migliori batteristi jazz della sua generazione?
Cosa succede se non lo diventa? Mica muore nessuno, giusto?
E in quanti riescono davvero a capire il discorso (folle) che Andrew fa alla sua ragazza?
Non basta dire “è il suo sogno”, perché tutti abbiamo i nostri sogni,
e se a te sembra una stupidata sognare l’80 centesimi di Parma,
ad altri – legittimamente – può apparire una stupidaggine
accettare tutta la sofferenza che Andrew accetta pur di diventare una batterista.
Fai attenzione!
Tanto più sali sulla piramide di Maslow, quanto più l’aria si fa rarefatta,
e tanto più diventa complicato comunicare efficacemente la posta in gioco.
L’approccio più elegante – neanche a dirlo – è comunicare la posta in gioco piano piano, durante lo svolgimento del Primo Atto, e poi blindarla al primo punto di svolta: è tutto il Primo Atto in sé che dovrebbe restituire – implicitamente, per suggestioni continue – il motivo profondo ed essenziale per cui il tuo protagonista sceglie di restare nella storia. La posta in gioco – per dirlo in breve – dovrebbe passare nel sotto-testo.
Ma ovviamente c’è sempre la soluzione opposta, più rapida: comunicarla nel testo, esplicitamente, in una battuta di dialogo.
Può esser stato faticoso arrivare sin qui, data la densità di contenuti che hai dovuto assimilare.
Ma ti mancherà – oh, se ti mancherà! – tutta questa precisione nella costruzione della storia.
Perché nel Secondo Atto, quando i vincoli diventeranno massimamente blandi, rimpiangerai – eccome se rimpiangerai – la gran quantità di regole del Primo Atto.
Perché le regole – lo avrai capito – sono lì a proteggerti anzitutto da te stesso, dalla tua fantasia debole, dalle tue intuizioni ingenue, che a ogni momento possono auto-sabotare la tua opera.
Nel Secondo Atto sarai libero come non potrai più esserlo altrove. Non dico che sarai solo con te stesso, perché avrai ancora il supporto di un punto nodale (il midpoint) e di un’indicazione generale (sul triplice conflitto) ma sicuramente la libertà che avrai nel Secondo Atto non la ritroverai più.
E allora potresti fare esperienza della verità più difficile da accettare: scoprire di non sapere cosa farci con tutta questa libertà, scoprire di non avere nessuna storia da raccontare.
Qui, a conclusioni del Primo Atto, mi piace richiamare ciò che ti avevo preannunciato nel modulo 15F, dedicato alla rappresentazione della musica nel mondo della pagina.
Ti riporto l’inizio della parafrasi che una lettrice del blog aveva proposto per un brano di Schuman.
“Il brano si apre senza alcun tipo di tensione, l’armonia gira sulla propria tonalità (arpeggi e note di passaggio sulla tonica) senza lasciar presagire alcun movimento, o stato tensivo. Nel secondo periodo poi, con espedienti tecnici (pedale, settime diminuite: lasciamo perdere, sfronda la tecnica) la musica cambia, qualcosa stona, ci stiamo muovendo verso (altro tecnicismo) una tonalità dominante ma minore, che in musica significa che non ci giriamo intorno, ma ci andiamo decisi verso questo cambiamento, e la sensazione all’ascolto è quella di una forza di volontà che catalizza il movimento stesso, il cambio di tonalità è ineluttabile perché voluto dall’armonia e peraltro si cambia verso una tonalità minore, che induce quantomeno ‘tristezza’, o ‘aspettativa di incertezza’ ”.
Ti va di vivisezionare questa parafrasi?
Iniziamo.
“Il brano si apre senza alcun tipo di tensione, l’armonia gira sulla propria tonalità (arpeggi e note di passaggio sulla tonica) senza lasciar presagire alcun movimento, o stato tensivo”.
Ma poi…
“Nel secondo periodo poi, con espedienti tecnici (pedale, settime diminuite: lasciamo perdere, sfronda la tecnica) la musica cambia, qualcosa stona, ci stiamo muovendo verso (altro tecnicismo) una tonalità dominante ma minore, che in musica significa che non ci giriamo intorno, ma ci andiamo decisi verso questo cambiamento, e la sensazione all’ascolto è quella di una forza di volontà che catalizza il movimento stesso, il cambio di tonalità è ineluttabile perché voluto dall’armonia e peraltro si cambia verso una tonalità minore, che induce quantomeno ‘tristezza’, o ‘aspettativa di incertezza’ ”.
Let’s me say: se non avverti nessuna empatia verso un personaggio competente, proattivo e sottoposto a sofferenza ingiusta (status quo); se non temi per lui quando hai capito qualcosa che a lui invece sfugge (incidente scatenante); se il tuo timore non cresce quando si trova obbligato ad agire (chiamata all’azione) perché hai capito che è impreparato ad affrontare ciò che lo attende (difetto fatale) e se questo timore non si trasforma in angoscia quando capisci ciò che perderà semmai dovesse fallire (posta in gioco), se nel tuo animo non si produce tutto ciò, se non si avvia questo meccanismo emotivo, allora ci sono due sole possibilità.
La prima: l’autore ha sbagliato a scrivere il Primo Atto, e – santo cielo! – ci si deve essere messo d’impegno per sbagliarlo, perché tutti – proprio tutti – riescono a scrivere un Primo Atto decente.
La seconda: hai numerosi, gravi e diffusi deficit emotivo-cognitivi, e la scrittura e la sceneggiatura – credimi – sono l’ultimo dei tuoi problemi. Fatti vedere. Da uno bravo, mi raccomando.
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