Modulo 18F – Il luogo è un personaggio

 
Spazio e tempo sono le coordinate fondamentali per inquadrare le nostre esperienze; e siccome questo è un manuale di scrittura e sceneggiatura, e non un trattato di Fisica, possiamo sicuramente approcciare allo spazio e al tempo con le nostre intuizioni più immediate, con tanti cari saluti ad Albert Einstein.

Spazio e tempo, dunque, in sintesi senso di luogo: la prima esigenza di ogni scrittura è localizzare il lettore, precisare dove e quando è collocato all’interno del mondo della pagina.

E come si fa?

Come si trasferisce il lettore sullo scoglio di Quarto accanto a Garibaldi, su un’astronave aliena da sabotare, nello spogliatoio di una squadra di calcio prima di una finale, o su una scialuppa dopo un naufragio, quando lui, il lettore, è bellamente svaccato sul divano di casa col tuo libro in mano?

Precisiamo anzitutto cosa non fare.
  

Wow! Sì, sì, sento proprio di stare a Philadelphia, il 28 agosto 1793,
perché l’autore ha scritto “Philadelphia, 28 agosto 1793”.
Sì, sono proprio lì: a Philadelphia, il 28 agosto 1793… wow!
  
Le parole realizzerebbero la più impressionante delle stregonerie, se avessero il potere di trasportarci nel tempo e nello spazio, semplicemente nominando tempo e spazio.

Congress Hall, Philadelphia, 28 agosto 1793.

Genova, Quarto, 11 maggio 1860.

Milano, Piazzale Loreto, 29 aprile 1945.

Roma, Via Fani, 16 marzo 1978.

Roma, spogliatoi dello Stadio Olimpico, 30 maggio 1984.
 
Østerbro, 12 luglio 1995

New Jork, Twin Tower, 11 settembre 2001.
 
Stella Dromeda, coordinate 12:45:91, 28 marzo 5632 dell’antico calendario.

Quale effetto si spera di ottenere con questi mezzucci?
 
Basterebbe pensare a tutte le volte che, da lettore, l’indicazione esplicita del luogo e del tempo ti ha lasciato freddo, insensibile: non è certo leggendo “Congress Hall, Philadelphia, 28 agosto 1793” – o qualunque altra coordinata spazio-temporale – che hai dimenticato di essere sul divano di casa o in autobus verso il lavoro o sulla panchina di un parco.

Se creare il senso di luogo fosse così facile – nomina tempo e luogo, et voilà, tempo e luogo si materializzeranno nella testa del lettore – in cosa mai consisterebbe l’arte della scrittura?

E anche ammesso che le indicazioni “Milano, Piazzale Loreto, 29 aprile 1945” o “New Jork, Twin Tower, 11 settembre 2001” evochino delle immagini – per il gran numero di volte che hai visto quei giorni rappresentati in tv – sarebbe comunque un’evocazione tecnicamente sbagliata, perché basata sulla confusione tra scrittura e cinema, tra un media dove c’è una telecamera esterna che inquadra il luogo e uno dove ci sono solo gli occhi del personaggio a vedere le cose.
 
Ilenia Zodiaco demolisce
Come Anima Mai, di Rossana Soldano.
Dal minuto 9.18 al minuto 10.22:
“Ci troviamo a Cambridge, ma vi assicuro che potrebbe benissimo essere Tor Vergata,
o Roma Tre, la Statale di Milano, o qualunque altra università vi venga in mente.
Ci potremmo trovare ovunque, perché tanto le descrizioni in questo libro non esistono…
Volete sapere come è fatta una stanza? Non lo saprete mai, vivrete con questo dubbio.
Ecco perché vi dico che potrebbe essere ambientato dappertutto;
potrebbe essere su una navicella, che sta andando su Marte, per quanto si possa capire.
Cioè: il fatto stesso che ogni paragrafo inizia con la data e il luogo dove questa cosa è ambientata,
vi fa capire che ce n’era bisogno, perché altrimenti nessuno avrebbe capito dove siamo,
che cosa sta succedendo, perché dalla scrittura questo non emerge”.

C’è solo da temere da un autore che avvia la sua storia con un riferimento extra-testuale su luogo e tempo, perché neanche troppo implicitamente sta ammettendo di non sapere ciò di cui sta scrivendo, di non avere sufficienti informazioni per restituire il senso di luogo al lettore, o di averle senza però saperle trasmettere (il che equivale di fatto a non averle).

Voler localizzare il lettore con un riferimento extra-testuale è una scelta disfunzionale che tradisce pure pigrizia e incuria; e quando si scende per questa china si può serenamente arrivare a scrivere un’assurdità del genere.
 
Agrigento, 25 maggio 1858

Già, peccato solo che il 25 maggio 1858 esisteva Girgenti, e non Agrigento.

Lettera da Napoli a Girgenti, del 25 maggio 1858.

Qual è allora il modo tecnicamente corretto per la creazione del senso di luogo?

Devi sempre aver presente – prima di tutto e sopra a tutto – che la scrittura non è il cinema.
 
Il problema del senso di luogo quasi non esiste al cinema, perché al cinema le cose si vedono, e un’inquadratura di un paio di secondi è già sufficiente a far capire all’istante tutto quel che serve capire sul dove e sul quando.

Ma in scrittura non c’è nulla, se non parole sulla pagina, che arrivano una alla volta, una dopo l’altra, secondo una stretta e inviolabile sequenzialità: in scrittura la simultaneità non esiste – se non come illusione – perciò, peggio che inutile, è stupido ricercarla, nel tentativo infantile di scimmiottare il cinema.

Quindi? Che fare?

Conviene distinguere – a livello didattico – tra luoghi standard e non-standard, anche se la distinzione è solo di grado, non di natura, e si può procedere da un luogo indubbiamente standard sino a uno indubbiamente non-standard, senza mai incontrare un fosso da aggirare o uno steccato da superare.

Luoghi standard

Un luogo standard è un luogo del mondo reale con cui si presume che la maggioranza delle persone abbia grande familiarità: una stanza d’ufficio, una sala d’aspetto di uno studio medico, la cucina di casa, un ristorante, un parco, un’aula di scuola, una spiaggia, lo spogliatoio di una palestra, e via così.

Come si restituisce il senso di luogo al lettore, se parliamo di luoghi standard? Semplice: si fa compiere un’azione al personaggio, o gli si fa avere una percezione sensoriale, caratteristica del luogo in cui si trova, specifica di quel luogo, e al limite possibile solo in quel luogo.

Prendiamo l’attacco del racconto Fabiana.

 

Dove siamo? Non ci sono dubbi: siamo in una scuola. Tecnicamente: il personaggio ha avuto una percezione sensoriale uditiva (mattoncino [PSU]) che si può avere solo in una scuola (“campanella” e “ricreazione” sono parole assolutamente caratterizzanti).

E che scuola è? Elementare, media o superiore? E – se fosse una scuola superiore – è un liceo o un istituto tecnico? E – se fosse un liceo – è un classico, uno scientifico o un linguistico?

Calma. La scrittura non è il cinema, in scrittura le cose non arrivano tutte assieme – non possono arrivare tutte assieme – ma una alla volta, parola dopo parola.

La scrittura è sequenziale, sulla pagina possiamo dire solo una cosa per volta, ma intanto – in neanche mezzo rigo – abbiamo fatto capire di trovarci in una scuola.
 
Proseguiamo.

 
Poche righe hanno delineato la situazione con tutta e sola la precisione necessaria.
 
Probabilmente siamo in un liceo scientifico, ma se pure fossimo in un istituto tecnico-industriale (che ai miei tempi aveva lo stesso programma di matematica di uno scientifico) la cosa sarebbe irrilevante. Ogni lettore potrà immaginare quel che desidera, perché scientifico o tecnico-industriale non ha grande importanza ai fini della storia, e sugli aspetti marginali, di contorno, il lettore può essere lasciato libero di raffigurarsi ciò che vuole. Interessa solo che abbia visualizzato un’aula scolastica e abbia inteso che si parla di una classe del quarto o quinto anno.

Fatto: abbiamo settato il luogo.

Ti anticipo l’attacco del racconto Entanglement che troverai alla fine del modulo.


Qui ancora meglio: siamo in una scuola (con ogni probabilità superiore) e il nostro personaggio è sicuramente un professore di italiano.

Fatto: abbiamo settato luogo e personaggio.

Amplieremo la prospettiva quando parleremo delle scene narrative, ma intanto richiama alla memoria l’iceberg di Hemingway: fai compiere un’azione al personaggio, o fagli avere una percezione sensoriale, che restituisca un senso di luogo anche solo largamente approssimato, e poi fai arrivare altri dettagli – uno alla volta, in modo naturale e dinamico, senza ammassare informazioni, senza velleità cinematografiche – che diano colore all’ambientazione e la qualifichino nella misura in cui è necessario per lo sviluppo della storia.

Voglio stressare l’indicazione di base: fai compiere un’azione al personaggio (usa un mattoncino [A]) oppure fagli avere una percezione sensoriale (usa un mattoncino [PS]) per creare il senso di luogo.

I pensieri (mattoncino [P]) e i dialoghi (mattoncino [D]) non sono proibiti, ma spesso si rivelano subottimali, rispetto alla creazione del luogo: si finisce col mettere in testa al personaggio delle considerazioni artefatte, o col fargli pronunciare battute troppo recitate, nel tentativo di far passare informazioni utili al lettore per localizzarlo.

E poi pensieri e dialoghi non sono mattoncini visualizzabili, e tu vuoi invece solleticare la fantasia del lettore con dettagli concreti, vividi, che di regola si veicolano meglio con le azioni e le percezioni.
 
Te lo ripeto: non è proibito settare il luogo con dialoghi e pensieri, ma è di gran lunga più complicato, e a ogni modo è una scelta finalizzata più che altro a creare il cosiddetto hook; rischi di combinare dei bei disastri, senza un’adeguata sensibilità, quindi almeno all’inizio non farlo; prediligi le azioni e le percezioni, due mattoncini più stabili e sicuri.

Se conosci davvero il luogo – se sai di cosa stai scrivendo – non dovresti avere difficoltà a selezionare i dettagli migliori (che più di altri sono capaci di evocarlo) e disporli nell’ordine ottimale (per massimizzare la partecipazione e l’immersione del lettore).

Luoghi non-standard

Non esiste una linea di confine ben marcata tra luoghi standard e non-standard: un luogo è tanto più non-standard quanto meno lo si può ritenere familiare alla maggioranza.

Un rifugio antiatomico, ma anche solo il caveau di una banca, sono luoghi non-standard: chi li ha mai visti, nella realtà?
 
Una sala operatoria è già più ambigua. Se tutto quel che ne sai – come ti auguro – viene da film e serie tv, allora, per te, è sicuramente un luogo non-standard. Se invece qualche volta ci sei entrato come paziente, in uno stato vigile, allora forse ne ricorderai alcune caratteristiche, ma rimane comunque un luogo fuori dall’ordinario. E se invece sei un chirurgo, allora per te è un luogo standard. Rimane però il fatto che – per la maggioranza dei lettori – la sala operatoria non è un ambiente familiare.

Quando abbandoni i luoghi sicuramente standard, è fondamentale che tua abbia piena consapevolezza di quanto non-standard sia il luogo che stai maneggiando, e precisamente di cosa puoi considerare gratis, e di cosa invece devi ritenere a pagamento, nella tua ambientazione.

Vediamolo su un caso elementare.

Hai collocato il tuo personaggio nella sua cucina, e la scena ce lo mostra davanti ai fornelli, impegnato nella preparazione di una ricetta (magari un piatto avvelenato per la suocera, perché in ogni scena deve esserci un conflitto o una prospettiva di conflitto). A un tratto il personaggio apre il frigo. Qualche lettore potrà forse sorprendersi? Ovvio che no. Tu hai collocato il personaggio in una cucina, davanti ai fornelli, ma l’ambientazione “cucina” incorpora automaticamente anche l’elemento “frigo”. Tutti sanno che in cucina c’è un frigo – o comunque se lo aspettano, non sono sorpresi di trovarlo – quindi, se il nostro personaggio è in cucina, nessuno si meraviglierà nel vedergli aprire il frigo, anche se il frigo sino a quel momento non è mai stato nominato. Il “frigo” è gratis, nell’ambientazione “cucina”, quindi puoi farlo apparire in scena quando vuoi, quando ti serve, perché il lettore sa già che c’è, anche se non glielo hai detto.

Ben altro sarebbe se il nostro personaggio, davanti ai fornelli, intento a preparare la pietanza avvelenata per la suocera, a un certo punto accarezzasse un’iguana. C’è un’iguana in cucina? E da dove è sbucata fuori? In cucina – di regola – non ci sono iguane. L’elemento “iguana” non è come l’elemento “frigo”, non può apparire all’improvviso. L’iguana non è gratis, l’iguana è a pagamento: se la vuoi inserire, allora devi costruire una scena che la introduca esplicitamente, che ce la presenti e ne spieghi la presenza; e solo allora – solo dopo averla opportunamente introdotta – potrai fare in modo che il personaggio l’accarezzi.

Esplora a fondo la tua ambientazione, riesaminala criticamente, chiediti sempre cosa è gratis e cosa è a pagamento, nel luogo che hai deciso di creare. Fai attenzione: è un attimo a far sbucare un’iguana dalla credenza, senza rendersene conto.

Beh?! Che c’è? Cos’hai da guardare?
Non hai mai visto un’iguana in cucina?

Dovresti già intravedere il cumularsi di problemi via via che ci si sposta da un luogo standard a uno non-standard: in un luogo standard è (quasi) tutto gratis, in un luogo non-standard è (praticamente) tutto a pagamento.

Ti può bastare nominare i “fornelli” affinché il lettore aggiunga da sé, in automatico, il “frigo”, il “forno”, la “cappa”, la “credenza”, il “lavandino”, gli “scaffali con le spezie”, i “guanti da cucina”, la “lavastoviglie” e un’infinità di altri elementi che potrai richiamare all’occorrenza senza averli presentati prima. Proprio come in Fabiana è stata creata una scuola con “campanella” e “ricreazione”: una volta che il lettore sa di trovarsi in una scuola, un luogo decisamente standard, non sarà sorpreso nel veder apparire tutte le cose che di regola si trovano in una scuola.

Ma se ti trovi in un secondary world tipico del fantasy, o su un’astronave, o nel mezzo di un’esplorazione di un pianeta alieno, o anche solo nel caveau di una banca, non ti basta dare un solo elemento (l’equivalente dei “fornelli” nella cucina) per generare in automatico tutti gli altri (“forno”, “credenza”, “scolapiatti”, “frigo”, etc.) e tutto va creato con grande accortezza. Già la semplice azione o percezione iniziale – l’equivalente della campanella della ricreazione – può diventare problematica. Difficilmente ti basteranno una o due parole (“campanella”, “ricreazione”, “fascio di temi”, “cattedra”) a generare tutto il contesto nella mente del lettore. Detto altrimenti: l’immaginazione del lettore non può venirti in aiuto, e quindi sei tu che devi andare verso di lei.

Due principî di scrittura diventano cogenti, massimamente vincolanti, quando ci si muove in luoghi non-standard.

Il primo: non solo in scrittura le cose arrivano pian piano, una alla volta, ma l’ordine con cui arrivano è determinante. Non basta dire “l’ho scritto”, se ciò che hai scritto arriva troppo tardi o troppo presto rispetto a quando doveva arrivare. La scrittura è l’arte di rispettare gli appuntamenti, la capacità di collocare le informazioni esattamente nel punto in cui massimizzano il loro significato, né prima né dopo, e se si parla di ambientazioni non-standard è davvero richiesta una precisione chirurgica per non creare degli effetti di straniamento nel lettore.

Il secondo: in scrittura il lettore è strutturalmente in deficit di informazioni (rispetto al personaggio, al luogo, e allo scrittore che li ha creati) e tutta l’abilità sta nel far sì che il deficit informativo non gli provochi fastidio. La bravura dello scrittore è nel distrarre il lettore da ciò che non sa – nel non fargli pensare a ciò che ancora non sa e che scoprirà solo dopo – tenendo la sua attenzione concentrata altrove. E, di nuovo, se si parla di ambientazioni non standard, è fondamentale calamitare l’interesse del lettore verso altro, per non fargli pesare la gradualità della localizzazione.

E qualsiasi cosa tu stia facendo, qualunque sia il luogo in cui ti muovi, standard o non-standard, con tutte le loro sfumature, non dimenticarti mai del settaggio standard.
 

Settaggio standard

Ognuno di noi porta con sé un deposito di idee, di suggestioni, di immagini, di collegamenti, che sono il precipitato di tutta la propria esistenza. Questo deposito è ciò su cui lo scrittore fa affidamento per suscitare la partecipazione del lettore al testo, per immergerlo nella storia; è il gancio tra il lettore e il mondo della pagina; fai attenzione a non trasformalo in boomerang.

Il “mondo di cose che ognuno porta dentro di sé” – per dirlo con Pirandello – o semplicemente “il deposito”, definisce il settaggio standard.

Il settaggio standard è quel meccanismo che ti porta a evocare un’intera scuola, non appena leggi “campanella” e “ricreazione”; e il settaggio standard ti porta a localizzare la scuola nel tempo presente – oggi, anno 2023 – se nel testo non vi sono informazioni, esplicite o implicite, di segno contrario; il quando – a meno di controindicazioni – è sempre oggi, di default, quindi non serve precisarlo, perché ci pensa già il settaggio standard a farlo.
 
Mi rigiro nel letto, Lucrezia dorme ancora: una ciocca bionda le attraversa il seno.
 
Lucrezia è una donna, ovvio; con ogni probabilità sta dormendo su un fianco; e sicuramente ha dei capelli molto lunghi.
 
D’accordo, ma… chi è il “Punto di Vista”?
 
Perché, vedi, con tutta l’apertura mentale e la gender-fluidità che il lettore può avere, se nel letto c’è una Lucrezia, allora accanto a lei – settaggio standard – si aspetta di trovare un Marco, un Fabio o un Ivan, e non già una Beatrice o una Valentina; e se invece – guarda un po’ – c’è proprio una Beatrice o una Valentina, allora l’informazione deve arrivare all’istante, non lo si può scoprire solo a fine pagina, o addirittura oltre, quando per tutto il tempo di lettura il settaggio standard aveva portato a immaginare un Marco o un Fabio.

Il lettore si avvicina al testo con il suo settaggio standard e lo mette all’opera molto prima di quanto tu possa credere, perché nessuno può rapportarsi al mondo della pagina senza immaginare qualcosa – se preferisci: un lettore tiepido abbandona la lettura, se non può simulare in modo sufficientemente ricco e articolato – e quindi, che lo si voglia o no, a un certo punto il lettore “forzerà la scena”, la completerà a modo suo, proprio perché per proseguire nella lettura ha bisogno di “immaginare cose”.

Rimani vigile, perché è sempre alto il rischio che il lettore inizi a immaginare elementi estranei alla tua storia e alla tua ambientazione, e si ritrovi poi nella sgradevolissima situazione di dover riconfigurare tutto, quando arriveranno nuove informazioni.

Il settaggio standard può essere il tuo migliore amico, ma può trasformarsi in una serpe, se non sai come prenderlo. Il rischio c’è sempre, persino quando maneggi i luoghi standard, ad esempio se gli elementi che hai scelto sono compatibili con una molteplicità di ambientazioni, e il settaggio standard orienta verso un luogo diverso da quello che tu hai immaginato.

Il campanile rintocca fin dentro ai miei sogni e mi risveglio ai piedi del letto, nuda, adagiata su un lenzuolo di plastica nero che mi avviluppa i piedi. Porto i palmi al viso, pochi giri di corda sottile intrecciano una coppia di legature alla schiava sui polsi, una più lenta dell'altra. Il Padrone è gentile con me, ha ornato la mia vergogna.

Il fetore di immondizia mi punge il naso e una nota di ammoniaca lo spinge dritto in fondo alle narici fino a sfondarmi il palato, gli odori si impastano all’amaro che ho in bocca. Spremo l'interno delle guance, sanno di frutta matura, appiattisco la lingua a drenare una stilla di sputo che brucia come wasabi quando la ingoio. Il choker preme la gola e mi fulmina un ricordo di stanotte, la pace dell'ultimo respiro mozzato dalla morsa delle sue mani. Il Padrone ha fiducia in me, mi insegna il senso della misura.
 
Mi scollo dal sudario impermeabile che ha sigillato la carne con gli umori della nostra sessione: siedo. Un moschettone è agganciato all'anello del choker, seguo il tragitto della corda rossa tagliare il soppalco, passare per la carrucola appesa alle travi del soffitto, stringersi per due volte alla ringhiera e finire a penzoloni sul primo gradino. Mi appoggio al bordo del letto con una mano e cerco il mio riflesso in direzione dello specchio verticale.

Questo testo è un esempio di una pagina complessivamente ben scritta, ma con alcuni errori; è la situazione migliore, sul piano didattico.

Qui dobbiamo peraltro limitarci alle considerazioni sul senso di luogo (lascio il resto a te, per esercizio).

Il campanile rintocca fin dentro ai miei sogni e mi risveglio ai piedi del letto, nuda, adagiata su un lenzuolo di plastica nero che mi avviluppa i piedi.  

Dove siamo? C’è un “piedi del letto” che suggerisce all’istante la presenza di un letto, e un letto – di regola – si trova nella camera da letto. Potremmo quindi essere in una camera da letto. O forse no. Magari siamo in una camera d’albergo, ipotesi immediatamente successiva alla localizzazione standard. O forse – ma ci credo poco – il lettore non ha ancora fatto scattare nessun settaggio, non completa la scena in alcun modo, e si mantiene egli stesso nella vaghezza: sa che c’è un letto, ma non immagina null’altro a parte il letto, vede solo “un letto immerso nel vuoto” (ma, ti ripeto, ci credo poco).
 
Porto i palmi al viso, pochi giri di corda sottile intrecciano una coppia di legature alla schiava sui polsi, una più lenta dell’altra. Il Padrone è gentile con me, ha ornato la mia vergogna.

Il fetore di immondizia mi punge il naso.

A tre righe di distanza dai “piedi del letto” compare un “fetore di immondizia”.
 
Chi ha immaginato una camera da letto (o d’albergo) si trova ora in difficoltà. Come fa esserci fetore di immondizia in una camera destinata a dormire? Allora questo letto non è dove pensavo che fosse…
 
Il lettore comincia a farsi domande, ma il lettore non dovrebbe mai farsi domande, o almeno non di questo tipo: va bene suscitare curiosità con elementi un po’ misteriosi, ma tutti gli elementi devono concordare tra loro, non possono entrare in dissonanza, come accade invece con l’accoppiata tra “(piedi del) letto” e “fetore di immondizia”.
 
Dove ci sono letti – di regola – non c’è fetore di immondizia. Quindi dove siamo?

… e una nota di ammoniaca lo spinge dritto in fondo alle narici fino a sfondarmi il palato, gli odori si impastano all’amaro che ho in bocca. Spremo l’interno delle guance, sanno di frutta matura, appiattisco la lingua a drenare una stilla di sputo che brucia come wasabi quando la ingoio. Il choker preme la gola e mi fulmina un ricordo di stanotte, la pace dell'ultimo respiro mozzato dalla morsa delle sue mani. Il Padrone ha fiducia in me, mi insegna il senso della misura.
 
Mi scollo dal sudario impermeabile che ha sigillato la carne con gli umori della nostra sessione: siedo. 
 
Un moschettone è agganciato all’anello del choker, seguo il tragitto della corda rossa tagliare il soppalco, passare per la carrucola appesa alle travi del soffitto, stringersi per due volte alla ringhiera e finire a penzoloni sul primo gradino.

Serve arrivare tra la dodicesima e la tredicesima riga per veder comparire in un colpo solo tutti gli elementi di luogo specifici – “soppalco”, “travi del soffitto”, “ringhiera”, “primo gradino” – che ora, e solo ora, ci restituiscono la sensazione di un probabile open-space, di un loft o di qualche altro luogo simile.

Tredici righe per avere un’idea precisa del luogo, col rischio di aver indotto parecchi lettori a riconfigurare la scena, e la certezza di aver lasciato tutti gli altri (per me, pochi) nella vaghezza della localizzazione.

It doesn’t work.

Quando ci si muove in luoghi non-standard l’impegno primario è trasmettere quanto più velocemente possibile l’idea di luogo non-standard. Può sembrare tautologico, ma non lo è. Anzi, per molti versi è tutto qui.

Se siamo in un loft, o in un open-space, il primo elemento di luogo a comparire sulla scena non può essere il letto, perché ci sono troppe ambientazioni più verosimili di un loft o di un openspace che si associano all’elemento “letto”. Serve qualcosa che faccia capire di trovarsi in un luogo non-standard. Non importa – al limite – se il lettore non capisce subito dove si trova; è sufficiente che scarti subito l’ipotesi di un luogo standard, che intuisca di trovarsi un luogo non-standard, e saranno poi gli elementi successivi a confermare la sua intuizione e via via a delinearla con maggior precisione, fino a visualizzar il luogo corretto.
 
Pure, finché vi è incertezza sul luogo (ma non sul fatto che sia non-standard) serve una narrazione particolarmente avvincente, emozionante, che monopolizzi l’attenzione del il lettore e non gli faccia pesare più di tanto il fastidio di non sapere esattamente dove si trova (e qui il racconto usato come esempio ha sicuramente un potenziale notevole).
 

Il luogo è un personaggio

Spero che sin qui ti sia sembrato tutto naturale e semplice.

Perché la parte difficile viene ora.
 

Estratto dalla “Lezione 3 – Ma è possibile scrivere qualcosa di nuovo?”, di Giuseppe Pontiggia.
 
L’ambientazione, la scenografia, lo sfondo – le “parti strutturali”, come le chiama Pontiggia – non sono pratiche burocratiche da sbrigare nel minor tempo possibile, per potersi poi dedicare “alle cose serie”, alla storia in sé. L’ambientazione, la scenografia, lo sfondo sono parti integranti della storia, con lo stesso rango dei personaggi: il luogo è un personaggio, per dirlo con uno slogan. 
 
Pontiggia ci stimola a “provare per la cornice lo stesso interesse che si prova”, ad esempio, “per il dialogo”, a concepire il luogo come un elemento “interno all’azione”, quindi suscettibile di indirizzarla.
 
Altrimenti si rischia di annoiare il lettore, e se il lettore si annoia è probabile che la sua attenzione sia distolta dalle innumerevoli distrazioni che sempre lo insidiano, e quindi che smetta di leggere.

Estratto dalla “Lezione 3 – Ma è possibile scrivere qualcosa di nuovo?”, di Giuseppe Pontiggia.

Vanessa sospetta che la sua amica e collega Laura abbia una storia con suo marito. Laura ha intuito i sospetti di Vanessa. Non sappiamo se Laura abbia o no una storia col marito di Vanessa, fatto sta che le due donne sentono entrambe la necessità di parlarsi.

Dove le farai incontrare per chiarirsi, in quale luogo?

Chi non sa scrivere la fa semplice. Che è importa del luogo? Il luogo è solo uno sfondo d’ambientazione. Possono parlarsi al telefono, per strada, in ufficio, in palestra… non importa! È solo il dialogo a essere rilevante. Godetevi il dialogo e non pensate al luogo, che sta lì solo perché ci deve stare, perché un luogo deve pur esserci, ma qui, nella mia storia, non è poi così rilevante.

Uno scrittore sa che le cose sono più complesse. Il luogo è (come se fosse) un personaggio, che interagisce con i personaggi propriamente detti, ne condiziona le possibilità espressive e crea ogni volta una scena diversa che indirizza diversamente la storia.

Le due amiche si chiariscono in ufficio, alle macchinette del caffè. Questo è un luogo a “bassa temperatura”. Nessuna delle due vuol dare spettacolo, fare la figura della pazza o diventare oggetto del gossip dei colleghi nelle settimane successive. Il dialogo avrà un tono e un contenuto mediato dal luogo in cui si svolge, coerente con il luogo, e le azioni stesse delle due donne saranno limitate dal luogo in cui avvengono.

Le due amiche si chiariscono nello spogliatoio della palestra, magari dopo una seduta di allenamento che le ha sovraeccitate. E magari era l’ultima seduta del turno serale, per cui organizzerai le cose in modo che nello spogliatoio ci siano solo loro due. La narrazione si svolge ora in un luogo ad “alta temperatura”, il dialogo può essere più aspro, diretto, così come – per dire – una delle due potrebbe lanciare un asciugamano in faccia all’altra in segno di rabbia. La scena è completamente diversa e condiziona in modo decisivo il seguito della storia.

È un pregiudizio molto diffuso che lo scrittore debba fare concessioni alla struttura, ma nessuno lo può costringere a perdere di qualità, di intensità, di forza, nel suo percorso”, ci ricorda Pontiggia.

È stupido – dico io – declassare il luogo a un semplice sfondo: perché si perde un personaggio, e per di più un personaggio sui generis, come se uno scacchista rinunciasse volontariamente ai due Cavalli.

Chiediti sempre se, come e in che misura il luogo sta interagendo con la narrazione, quanto sia “interno all’azione”, per dirlo con Pontiggia.
 
Se un saluto tra lui e lei può avvenire indifferentemente alla stazione Termini di Roma, o nella stazione di Taormina-Giardini, se possiamo passare dall’una all’altra senza di fatto alterare uno solo dei mattoncini narrativi che formano la storia, allora non siamo né a Termini né a Taormina né in nessun’altra stazione: siamo a Nowhere Land, una terra di nessuno destinata a rimanere orfana fintantoché non diventerà “interna all’azione”, e che non smetterà di esser incolore, insapore e inodore solo perché tu – dall’esterno – rassicuri il lettore di trovarsi nella stazione di Taormina e non a Termini.
 
Se stai scrivendo una scena ambientata in una stazione,
e davvero non riesci a differenziare tra Termini e Taormina,
se tutto ciò che accade in scena potrebbe accadere ugualmente bene in una stazione come nell’altra,
se la stazione – con le sue particolarità – non interferisce con quel che sta accadendo,
allora, in tutta sincerità, dovresti riconsiderare seriamente
le tue capacità artistiche in fatto di scrittura di narrativa.
 
Dopodiché – è ovvio – servono buon senso e pragmatismo.
 
Non sempre riuscirai a fare del luogo un personaggio così attivo come vorresti e come dovrebbe essere, e qualche “tessuto connettivo” privo di “importanza espressiva” a volte sarà inevitabile.
 
Ma tu devi comunque sforzarti di evitarlo, perché se non ha importanza per te, autore, a più forte ragione non l’avrà per il lettore, e ogni tuo calo di attenzione nella scrittura sarà amplificato in fase di lettura, e il calo d’attenzione è la prima causa di fuga dal mondo della pagina.

 

Entanglement

Smisto il fascio di temi sulla cattedra, alla ricerca di quello di Clarissa. Ruben Rambaldi stocca la legna come nessun altro nelluniverso. Eccolo! Lo afferro e scendo dalla pedana.

Passeggio tra le file di banchi, con la testa china sul foglio. Questa crepa è marcia. Spezza il ciocco in due, getta ciascuna metà sul proprio mucchio. Vedrai che ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra. Senza saperlo. Meraviglioso! Solo chi ha capito può concepire un’immagine così.

Sul muro è comparso un “CHI AMA LA FIGA METTA UNA RIGA”, in rosso, con tante linee sotto sino al pavimento. Questa è opera di Franck, sicuro: vediamo se deve ripetere la maturità pure quest’anno.

Giro intorno all’ultimo banco, e risalgo verso la cattedra attraversando le altre due file. I miei passi si fanno lenti e rumorosi.

«È matto,» bisbiglia Anna alle mie spalle.

Mi blocco. «Giotti, ti ho sentita!»

«Scusi, professore.»

Proseguo fino al primo banco della fila centrale: c’è un portapenne a forma di orso, sopra un quaderno con un orso in copertina, accanto a una matita con una testa di orso all’estremità. Roberta spalanca gli occhioni e mi sorride
. La ricambio allo stesso modo, a specchio. 

Poso il tema di Clarissa vicino al quaderno con l’orso e lancio un’occhiata a Silvia.

«Lenzini, interrogata.»

Scatta in piedi, si scrolla il caschetto biondo e si sistema il colletto della camicetta blu. Con una mano stira alla bell’e meglio la gonna a quadrettoni rossi e neri.

Sospiro e le sorrido. «Allora, Lenzini, il pianeta Terra—»

«Sì, professore! La Terra è il terzo pianeta in ordine di distanza dal Sole e il più grande dei pianeti terrestri del sistema solare, sia per massa sia per diametro. Sulla sua superficie—»

La interrompo agitando le mani. «Io sono il professore di italiano, non di scienze, caso mai in questi cinque anni non te ne fossi accorta.»

Abbassa la testa, mortificata.

«Quel che volevo sapere, Lenzini…» Ma come fa questa qui ad avere nove in tutte le materie? «Quel che volevo sapere era una cosa molto più semplice: la Terra è ferma o si muove?»

Si scambia uno sguardo con Anna, che fa spallucce. Serra le labbra, fissa la lavagna piena di formule matematiche, come se la risposta si trovasse li. Forse pensa a una domanda a trabocchetto, malfidata com’è.

«Allora Lenzini, com’è questa Terra, ferma o in movimento?»

Libera un lungo sospiro. «I-in… in movimento, professore.» Si schiarisce la voce con un colpo di tosse. «I movimenti sono di due tipi: di rivoluzione e di rotazione» Prende fiato e sicurezza. «Il moto di rivoluzione è il movimento che la Terra compie intorno al Sole in un anno solare, 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi, per la precisione, il moto di rotazione invece…»

Oh, non c’è niente da fare, questa non distingue tra un professore e l’altro, per lei siamo tutti una cosa sola, intrecciati, uniti.

«… dura 23 ore, 56 minuti e 4 secondi, e viene definito giorno siderale, perché—»

La stoppo con un cenno della mano. «Va bene così Lenzini, puoi sederti.»

Anna le sorride, sussurra qualcosa e le scarica una serie di pacche sulle spalle per complimentarsi.

Che coppia ’ste due, sembrano davvero separate alla nascita, ma ancora unite da qualcosa di invisibile.

Mi avvicino al loro banco. «Giotti, la tua amica, qui accanto a te, dice che la Terra è in movimento, intorno al Sole e addirittura su sé stessa.»

«Se lo dice Silvia, sarà senz’altro vero.»

Ridono soddisfatte, insieme, con la stessa frequenza, con la stessa altezza del suono della risata: davvero una persona sola. Guccini doveva avere in testa qualcosa di simile, quando cantava del ghigno dei primi della classe.

«E dimmi, Giotti, tu hai forse la sensazione di vivere su una palla che si muove su sé stessa e intorno al Sole?»

Strabuzza gli occhi, neanche le avessi prospettato chissà quale mistero di meccanica quantistica. Spinge gli occhiali sul naso con l’indice, con uno sguardo di traverso cerca la complicità di Silvia, che sotto il banco le stringe la mano. Davvero una persona sola.

Pare terrorizzata, le sorrido per tranquillizzarla. «La Terra si muove, lo ha detto la Lenzini e quindi sarà senz’altro così.» Allargo il sorriso più che posso. «Ma la tua sensazione, la tua immediata percezione sensoriale, qual è? Quella di una Terra in movimento o di una Terra ferma?»

Niente da fare, resta muta e sospettosa. Capirai! Questa è come quella: malfidata allo stesso modo.

Chiamo a raccolta tutta la dolcezza che mi è possibile. «Giotti, in questo momento, proprio mentre la Terra gira intorno al Sole e su sé stessa, tu, che stai su questa Terra indubbiamente in movimento, hai forse la sensazione di muoverti e di girare? Di trovarti sopra una qualche fenomenale attrazione di Disneyland?»

Bussano alla porta, il bidello Jordan entra in aula con una carpetta verdognola sotto il braccio. Dalla camicia mezza aperta gli fuoriesce una foresta di peli bianchi.

«A professo’! Ce sta ’na circolare der preside su a disinfestazione.»

Con due passi sono da lui. «Scusi Jordan, davvero eh, non se ne abbia a male…» Lo afferro per il braccio magrolino e flaccido per riportalo verso l’uscita. «Non abbiamo tempo per le comunicazioni su a disinfestazione, davvero.» Mi piazzo in mezzo alla porta, nella speranza che colga il messaggio. «Vada prima nelle altre classi…» Lo allontano ancora un po’ e indietreggio di un passo. «E torni qui solo quando ha finito il giro, d’accordo?»

«Eh sì, professo’, sete tutti bboni a fa così. Nun c’avete mai ’n cazzo de rispet—»

Gli chiudo la porta in faccia, la classe mi osserva divertita.

Okay, ricominciamo.

Anna finge di cercare qualcosa nello zaino, probabilmente per evitare il mio sguardo; Silvia mi scruta con aria sospettosa. Meglio lasciar stare, non vorrei che sembrasse una questione personale.

Mi sistemo davanti alla fila centrale, vicino al banco di Roberta. Accanto al tema di Clarissa si è materializzato un foglio a quadretti col disegno di due orsi avvinghiati tra loro. Roberta mi sorride come al suo solito e io ricambio come al solito. Lasciamola pure nel suo mondo orsacchiottoso.

Passo in rassegna la classe con uno sguardo veloce. «Allora, stavamo cercando di capire se la Terra è ferma o in movimento.»

Dall’ultimo banco Franck alza la mano. Chino la testa e mi stropiccio gli occhi, magari quando li riapro l
’avrà abbassata, c’avrà ripensato e non vorrà dire più nulla. Macché! Ha disteso l’intero braccio e lo sta facendo oscillare, per richiamare la mia attenzione. Sospiro.

«Si, Franck, dì pure.»

«No, ecco, che siccome si parla di questo argomento, no… ecco, ci avrei, una domanda, una cosa, che non ho capito, mai, molto bene, no, ecco…»

Non c
’è niente da fare, questo parla come scrive: con le virgole a cazzo.

«Franck, il braccio puoi anche abbassarlo.»

Lo tira giù e si gratta la guancia ricoperta da una barba sfatta. «Ecco, no, perché, io non ho mai capito, no, ma se la Terra è tonda, come tutti, dicono, perché allora, quelli che stanno, al capo opposto, no, non stanno, no, con la testa, in giù?»

L’aula esplode in una risata, la riporto all’ordine battendo il pungno sul banco di Roberta.

«Ridiamo con te Franck, okay? Con te, non di te.» E forse sarà il caso di far passare la voglia di ridere a tutti.

Nell’armadio dovrebbe ancora esserci un mappamondo. Fammi contrallare un po’. Sì, eccolo.

Lo afferro e ritorno davanti al banco di Roberta. Il mio sguardo alla classe si fa minaccioso.

«Allora, questa è la Terra.» Alzo il mappamondo come un trofeo, affinché tutti lo vedano bene. «Chi, tra voi, saprebbe dare una risposta a Franck?» Appoggio il mappando sopra il disegno degli orsi e lo faccio roteare. Lo blocco di scatto e punto il dito sul polo nord. «Se una formica si trovasse qui, e percorresse il tragitto verso il basso…» il dito viaggia sul mappamondo sino al polo sud. «… arrivata qui sarebbe in effetti capovolta. Come si spiega?»

Silvia e Anna alzano insieme le mani, nello stesso istante, alla stessa altezza. Sul viso gli si dipinge la stessa espressione di autocompiacimento.

Ma come devo fare con queste due? O forse dovrei dire con Silvianna?

Abbozzo un sorriso. «Voi lo sapete, ne sono sicuro, però, ecco… non vorrei sentir parlare di gravità o roba simile.» Socchiudo gli occhi, mi stringo nelle spalle e simulo un brivido di disgusto. «Vorrei una spiegazione semplice, intuitiva, che possa capire chiunque.»

Abbassano le mani insieme, all’istante, e confabulano tra loro. Dovrei averle sistemate, spero.

Incrocio lo sguardo di Clarissa. Piega la testa sul banco, la montagna di riccioli castani le copre il volto. Lei forse saprebbe dirlo, se non avesse così il pudore della sua conoscenza.

Afferro il suo tema e lo sventolo per aria. «Questo è il tema di Clarissa Kirk!» Giurerei che i suoi occhi verdi mi stanno fissando da sotto i riccioli. «È Il tema che vi è piaciuto tanto, quando lo abbiamo letto in classe: mi ha lasciato un alone di misteroper un attimo infinito mi ha fatto sognaremolto bello, ben scritto, tutto perfetto.» Lancio occhiate a destra e sinistra, per scovare gli autori dei commenti. «Avete detto proprio così. Ora, però, mi piacerebbe sapere cosa avete capito davvero.»

Scorro il dito sulla prima pagina per ritrovare quella meraviglia di frase. Eccola! «Spezza il ciocco in due, getta ciascuna metà sul proprio mucchio. Vedrai che ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra. Senza saperlo.»

Dov’era quell’altra frase stupenda? Alla fine, mi pare. Apro il foglio protocollo, vado al fondo della terza facciata. «Non potrebbe esistere mezzo albero. Tu non lo vedi ma è intero, solo che la sua metà non è qui, gira intorno a un altro cerchio e in un altro tempo.»

Tamburello con le dita sul banco, a un ritmo di guerra. «Allora: cosa ha voluto comunicarci Kirk, esattamente?»

La classe si ammutolisce.

Ho addosso gli occhi di tutti, nessuno fiata. Proviamo a stimolarli un po’.

«Loredana, tu cosa ne pensi?»

«Che Clarissa è fantasiosa,» cinguetta.

Mai quanto con te, però: le tue storie di fate e libellule restano inarrivabili, struggenti capolavori di commovente lirismo, davvero.

Davide stringe il braccio a Loredana e annuisce, tira il petto in fuori e mi sorride. Vuol essere interpellato anche lui, a quanto sembra. Gli faccio cenno di aspettare, la sua colata di miele e zucchero può attendere.

«Ti sento dopo, Marchese. Prima mi interessava il parere di Fellini».

Fabrizo si scosta il ciuffo dalla fronte, sbuffa. «Beh, le ultime righe mi hanno ricordato alcune pagine di “Tempo fuor di sesto” di Philip Dick, è piuttosto ovvio, direi.»

Mi stropiccio gli occhi sospirando. Possibile non riesca mai a esprimere un pensiero autentico?

«Grazie Fellini, prezioso come sempre.»

Silvia agita dei fogli per aria, gli occhi le brillano. «Professore, io avrei elaborato una analisi ravvicinata del testo sul tema di Clarissa.»

Dio, salvaci! «Ottimo Lenzini. Ci dedicheremo un’intera ora la prossima volta.»

«L’ho fatta leggere a mia zia che è anche lei professoressa di italiano e poi alla cugina di di mia madre che insegna filosofia all’università e hanno espresso pareri opposti ma a questo punto vorrei tanto sentire la sua opinione perché magari potrei condurre un approfondimento più strutturato anche per chiarire la fondamentale differenza tra narratore intradiegetico extradiegetico omodiegetico eterodieget—»

«Lenzini!» Le faccio segno di rallentare. «Mettila una virgola ogni tanto, magari fattene prestare un paio da Franck, che ne ha in abbondanza.» Il cuore accelera, un rivolo di sudore mi scende sulla fronte. Lo asciugo con due dita. Cielo che ansia!

Riprendo fiato, il cuore regolarizza i suoi battiti. «Venerdì abbiamo due ore, e ci sarà uno spazio tutto per te, d’accordo?»

Sorride soddisfatta, Anna l’abbraccia e fa partire la solita mitragliata di pacche sulle spalle.

Mi accarezzo la nuca. Giuseppe è inutile interrogarlo, dopo dieci secondi si metterebbe a parlare della Vergine Maria; ma almeno lui è sincero; Andrea è innamorato perso di Clarissa, non sarebbe attendibile; Paola finirebbe col parlare di sé stessa, come al solito; Bruno e Giampiero
vabbè, lasciamo perdere.

Scuoto la testa. Che desolazione.

Franck si regge il capoccione con tutte e due le due mani, lo sguardo assente, fisso sul pavimento. Stai a vedere se non è stato proprio lui a dire la cosa più interes

I lamenti di Roberta scandiscono i suoi colpetti per sfilar via il disegno con gli orsi da sotto il mappamondo. Ha gli occhioni lucidi. «Prof, scusi, ma se non lo tolgo poi si rovina.»

Alzo il mappamondo e lo sposto all’estremità del banco. «Scusami tu, cara.» Lo faccio roteare, una, due, tre volte. «Sapete qual è stato il miglior commento al tema della Kirk?» Blocco di scatto il movimento. «Quello di Franck!»

Franck solleva la testa di colpo. «Eh?! Cosa?! N-non ero distratto, eh! Stavo solo… pensando, sì… pensavo a… a… alle cose, sì… ecco.»

Gli alzo il pollice. «È tutto a posto Franck, tutto a posto.»

Ripongo il mappamondo nell’armadio e vado verso la lavagna. Cancello tutte le formule matematiche: mi serve spazio, voglio scriverlo a lettere cubitali.

Lo stridio del gesso fa ululare la classe.

Torno in cattedra e mi siedo. «Franck è stato perfetto l’altro ieri, quando ha commentato il tema della Kirk: lascia un alone di mistero, che permane anche a leggerlo più volte.» Vedi Frank che quando vuoi ce la fai a esprimerti? «Perché in effetti, col suo tema, la Kirk ci ha portato a contatto con il più profondo mistero dell’universo.»

Indico la lavagna alla classe: ENTANGLEMENT.

«Vuoi darci i dettagli, Kirk?»

Si alza, una montagna di riccioli le scende ben oltre i fianchi, gli orecchini a cerchio dondolano. Sistema la maglietta di Star Trek dentro i jeans, la faccia del dottor Spock si stiracchia e sembra farmi l’occhiolino.

«Devo davvero spiegare il mio tema, professore?» Stringe gli occhi, inclina la testa. Pare sfidarmi. «Mi era sembrato di capire che ogni storia deve raccontarsi da sé» Alza le spalle e rivolge i palmi delle mani in sù, per rimarcare l’ovvio. «Non è questo che ripete sempre? La storia deve raccontarsi da sola, non c’è nessun narratore, meno che mai una spiegazione diretta dell’autore

Le sorrido. Questa ragazza mi mancherà, accidenti se mi mancherà. Speriamo venga trovarmi qualche volta, dopo il diploma.

«Sì Kirk, è così, ma stavolta facciamo un’eccezione.» Pianto i gomiti sulla cattedra, incastro le dita delle due mani e ci appoggio sopra il mento: voglio proprio godermi lo spettacolo. «E magari, visto che ci siamo, almeno tu dicci se la Terra la percepisci ferma o in movimento.»
 
Le scappa un sorrisetto. «La Terra la percepisco ferma come percepisco ferma me stessa, e il paesaggio scorrere via, se guardo fuori dal finestrino di un treno. Se però mi concentro abbastanza, allora riesco ad avvertire anche fisicamente ciò che so già coscientemente: che io sono in movimento e il paesaggio è fermo.»

Brava! Così lo capirebbe anche mia nonna. Con un gesto della mano la invito a continuare.

«Col Sole e la Terra le cose sono più complicate, viste le loro dimensioni. La Terra gira, non c’è dubbio, ma ora non riesco più a oltrepassare le mie immediate percezioni sensoriali: per quanto mi possa concentrare, io vedo il Sole muoversi.»

Distende il braccio, la mano è nuda con unghie corte al naturale. «La mattina lo vedo sbucare fuori dal mare.» Alza il braccio disegnando un quarto di cerchio. «Poi lo vedo alzarsi in cielo.» Resta col braccio sospeso per aria. «E infine lo vedo ritornare da dove è venuto, negli abissi.» Lo lascia cadere per ultimare la traiettoria e mi sorride.

Spalanca le braccia come se volesse accogliere l’inevitabile. «So bene che il Sole è fermo, ma gli occhi mi dicono il contrario, me lo mostrano in movimento. L’occhio lo vede, anche se la mente non lo crede.»

Annuisco quasi ipnotizzato. Questa ragazza è avanti a tutti, ha proprio un altro passo.

«Quindi, Kirk, cosa ne deduciamo?»

«Che i nostri sensi ci ingannano di continuo, e non ci si può far nulla.» Strattona il maglione di Pierfrancesco. «Di che colore è?»
 
Lui si libera della presa, sbuffa. «Smettila, me lo rovini!» Gli passa una mano sopra per togliere le pieghe. «È comunque è magenta, il mio colore preferito.»

«Già. Peccato che il magenta non esiste, che è un’invenzione del cervello per conciliare la sovrapposizione di due colori opposti, il rosso e il blu, a cui non corrisponde nulla di fisico.»

Silvia si picchetta la fronte, ruota il dito intorno alla tempia. Anna sghignazza. Eh sì, certo, stai a vedere che ora la matta è Clarissa.

Batto due colpi decisi sulla cattedra. «Giotti, Lenzini, per favore!»

Silvianna si porta la mano sulla bocca per trattenere una risata. Mi mordo il labbro, libero l’aria dal naso. Oh, ma davvero il ghigno e l’ignoranza dei primi della classe.

«Continua Kirk.»

«Nulla è come ci appare. Sembra pazzesco, lo so, perché i cinque sensi sono la nostra guida nel mondo, e sembrano affidabili, altroché, se siamo arrivati sin qui. Eppure i nostri sensi ci ingannano di continuo, rispetto alla realtà così com’è.»

L’intera classe la fissa come fosse l’ambasciatrice di un mondo misterioso e lontano.

Fissa la lavagna e prende un bel respiro. «E sapete qual è il più grande inganno dei sensi?»

Vai Clarissa
 
«Lo spazio!» Agita le braccia per aria, Pierfrancesco si inclina verso l’esterno per evitare i colpi. «Questo spazio, lo spazio che separa queste tre file di banchi, e poi i banchi dalla cattedra, e la cattedra dalla lavagna, e la lavagna dalla porta, lo spazio che separa ogni cosa dall’altra, ogni persona dall’altra, questo spazio… non esiste! Noi abbiamo solo la sensazione di essere separati—»

Un brusio si diffonde nell’aula e cresce d’intensità. Persino Roberta alza un sopracciglio e fa una smorfia. Batto una nuova serie di colpi sulla cattedra per ristabilire il silenzio, il vociare va ad attenuarsi.

Le faccio cenno di proseguire.

«Cioè i nostri sensi ci dicono questo, che siamo separati, ma sono gli stessi sensi che ci mostrano un Sole in movimento, e che ci ingannano in entrambi i casi: illusione questa, illusione quella. La verità è che il Sole è fermo e lo spazio non esiste. La verità è che siamo tutti collegati, uniti, intrecciati l’uno con l’altro, siamo una cosa sola, siamo…» Chiude gli occhi, scrolla la testa, i riccioli danzano. «
in entanglement

Sorride come se si sentisse davvero parte del tutto.

«Quando accade qualcosa a ciascuno di noi, qualunque cosa, accade qualcosa di simile a tutti gli altri, istantaneamente. I-stan-ta-ne-a-men-te. Spezza il ciocco in due, getta ciascuna metà sul proprio mucchio, ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra. E se non capiamo come ciò possa avvenire, e se non abbiamo questa impressione, è soltanto per un limite dei nostri sensi.»

Solleva la chioma riccioluta e se l
’aggroviglia in una treccia alla bell’e meglio. «Non lo vedi, ma l’albero è intero, solo che la sua metà non è qui. Lui, il ragazzo, non lo vede, ma Rambaldi sì. Perché Rambaldi ha sviluppato così tanto le sue capacità percettive, da oltrepassare le illusioni dei sensi. Rambaldi avverte la rotazione della Terra e vede il Sole fermo.»

Un raggio solare le traccia una striscia obliqua sul corpo.

«Perché il Sole è fermo, anche se ti sembra in movimento; e l’albero è intero, anche se tu non lo vedi, perché lo spazio non esiste, anche se a te sembra che ci sia.»
 
Affila lo sguardo. «E non è fantascienza. È realtà.»
 
Il trillo della campanella annuncia la fine dell’ora.
 
 
 
Il racconto Entanglement si presta a numerose considerazioni, che magari puoi fare da solo, come esercizio.

Qui ne porto all’attenzione una sola, sull’argomento del modulo: il luogo – fosse pure un luogo standard come un’aula scolastica – non può essere abbandonato al suo destino una volta creato; non si può cioè sovraccaricare l’immaginazione del lettore cullandosi del fatto che il luogo è già stato settato all’inizio e perciò non serve altro; più o meno regolarmente – anche per i luoghi standard – è necessario richiamare degli elementi caratteristici, possibilmente attraverso azioni o percezioni dei personaggi, in modo da tenere viva l’ambientazione nella testa del lettore.
 
L’ammonimento generale rimane sempre lo stesso: non essere pigro.

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