Modulo 15G – Ciò che non è nel testo non è nel mondo


Un riferimento extra-testuale è un elemento informativo collocato fuori dal testo, fuori dal mondo della pagina.

L’immagine in copertina e il titolo del tuo libro sono riferimenti extra-testuali; il tuo nome, sotto il titolo, è un riferimento extra-testuale; la sintesi della storia, in seconda di copertina, è un riferimento extra-testuale, come lo è la recensione entusiasta scritta nella fascetta gialla intorno al volume; la dedica che occupa l’intera prima pagina e l’esergo in seconda sono altri riferimenti extra-testuali ancora.

Ma è un riferimento extra-testuale anche ciò che formalmente si trova  dentro la pagina, e ne rappresenta sostanzialmente un elemento estraneo.
 
Quando piazzi in alto sulla pagina l’indicazione del luogo e dell’epoca in cui si svolge la storia, stai usando un riferimento extra-testuale. Quando fai precedere la storia da una mappa del territorio, o dalla genealogia dei personaggi, stai usando un riferimento extra-testuale. Quando ricorri a delle immagini per separare le scene, anziché ai classici tre asterischi, stai usando un riferimento extra-testuale. Quando inserisci delle note a piè di pagina, per spiegare il significato di alcune parole o chiarire il ruolo dei personaggi, stai usando un riferimento extra-testuale.

Chiaro cos’è un riferimento extra-testuale? È tutto ciò che sta sostanzialmente fuori dalla pagina, che non ha una strettissima attinenza con la storia narrata dentro la pagina.

Per uno scrittore – per lo scrittore puro, per lo scrittore dio creatore – i riferimenti extra-testuali non hanno alcun valore: quod non est in actis non est in mundo è un caposaldo del diritto processuale, e la sua versione artistica potrebbe essere ciò che non è nel testo, non è nel mondo della pagina.
 
Però non farmi dire quel che non dico, ripetendo meccanicamente le mie parole.
 
Io non dico – non potrei mai dire – che tutti i riferimenti extra-testuali sono privi di valore artistico. È ovvio, ad esempio, che il titolo del libro va scelto con grande cura, affinché ne riassuma al meglio il contenuto, e al tempo stesso pungoli la curiosità e invogli ad acquistarlo: è per far questo ci vuole arte. Così come ci vuole arte – a più forte ragione – per ideare e realizzare l’immagine di copertina, al punto che ormai è diventata una professione a sé. Scrivere il cosiddetto pitch – un riassunto accattivante della storia – è un’arte (e ancor di più ne è richiesta per un elevator pitch, una sintesi del tuo romanzo che possa esprimersi nel tempo di una corsa in ascensore). Anche la scelta di eventuali piccole immagini per separare le scene (da usare al posto degli anonimi tre asterischi o degli spazi bianchi) richiede sensibilità artistica. Chi lo nega? Non certo io.

Quel che dico, e su cui ti invito a riflettere, è altro: e precisamente il fatto che uno scrittore non si affida mai agli elementi extra-testuali per sostenere la qualità della sua storia e della sua scrittura; gli elementi extra-testuali – titolo, copertina, pitch, … – arriveranno dopo a dare una mano all’opera; sono temporalmente successivi alla sua creazione; possono abbellirla e valorizzarla, ma non ne modificano il valore artistico intrinseco. Espresso in negativo: non si può invocare ciò che sta fuori dal testo, per sostenere o giustificare ciò che nel testo non funziona, perché ciò che non è nel testo non è nel mondo (della pagina).
 
E poi ci sono invece i riferimenti extra-testuali che sono errori, semplicemente errori, punto e basta.

Inserire una mappa del luogo in cui si svolge la storia è una confessione di incapacità e di idiozia: siccome non conosci il tecnicismo per restituire il senso di luogo al lettore, e per di più sei così stupido da aver creato un luogo incredibilmente complicato da rendere con precisione, hai sublimato la tua ignoranza e la tua stupidità piazzando una bella figura a inizio libro, che dovrebbe chiarire tutto al lettore e sovrascrivere magicamente la tua ignoranza e la tua stupidità.
 
La mappa del monastero, all’inizio del romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco.
Umberto Eco può farlo, tu no. Perché non sei Umberto Eco.
Umberto Eco sfrutta il più prepotente dei riferimenti extra-testuali
– il suo nome: Umberto Eco –
 per beneficiare di tutti gli altri riferimenti extra-testuali possibili.
Ma tu non sei Umberto Eco, quindi non puoi spendere il tuo nome,
perché il tuo nome non dice niente a nessuno.
Perciò fai la cortesia di evitare questa stupidata.

Indicare il tempo e il luogo della storia in cima alla pagina, nella speranza di trasferire realmente il lettore in quel tempo e in quel luogo, è un atteggiamento di una ingenuità imbarazzante, che denuncia tutta l’incapacità dello scrittore di mettersi nei panni del lettore, o peggio, di non aver mai letto nulla con la necessaria sensibilità.
 
Quando è stata l’ultima volta che leggendo semplicemente “Nørrebro, 12 agosto 1995”, ti sei sentito al centro del cuore multiculturale di Copenaghen, tra la tomba di Hans Christian Andersen e i laghi dalla stazione di Nørreport, in un’estate di metà anni novanta?
 
Cosa? Come dici? Che non c’è mai stata un’ultima volta? Eppure si pubblicano testi così…
  
Senti proprio di essere a Philadelphia, nella Congress Hall, il 28 agosto 1793, non è vero?
Sì, sì, sì: sei proprio lì, a Philadelphia, il 28 agosto 1793, così, magicamente,
solo perché l’autore ha scritto “Philadelphia, 28 agosto 1793”!
Che macchina del tempo meravigliosa che è la scrittura:
basta scrivere il nome di un luogo e una data, et voilà,
luogo ed epoca si materializzano all’istante, così, per magia.
 Le prime sette righe dell’incipit confermano poi i più tristi presagi. 
L’uomo stava osservando impaziente il profilo oscuro della Congress Hall”.
“Osservare” è un verbo di percezione, e i verbi percettivi sono proibiti perché inutili.
Cosa significa, poi, la parola “impaziente”?
ma solo attraverso ciò che il personaggio dice, fa, pensa e percepisce.
E cosa sarebbe mai “il profilo oscuro della Congress Hall”?
Ciò che vede il personaggio è ciò che deve vedere anche il lettore,
ma se tu scrivi “profilo oscuro della Congress Hall”,
quale edificio – di quale forma, di quali dimensioni, con quali caratteristiche –
dovrebbe mai visualizzare il povero lettore?
E poi: “… quando le campane della Chirst Curch batterono l’ultimo rintocco”.
“Quando” è un avverbio di tempo, e gli avverbi di tempo sono proibiti,
perché alterano la sequenza “qui e ora”, che è un cardine della scrittura moderna.
E, di nuovo, cosa deve visualizzare il lettore quando legge “Chirst Curch”?
Cosa sarebbe cambiato, nella sua immaginazione, se avesse letto “San Patrizio Curch”?
Nulla? Nulla!
E allora a cosa serve scrivere “Chirst Curch”,
se poi non c’è nessuna immagine concreta a cui agganciare queste parole?
“Avvolto nell’oscurità oltrepassò i giardini, attraversò Chestnut Street…”.
Quali giardini? Ci sono dei giardini? Piacerebbe anche al lettore vedere questi giardini.
E cosa mai cambierebbe nel suo film mentale,
se invece di “Chestnut Street” avesse letto “Lombard Street” o qualsiasi altro nome?
Nulla!
E allora è inutile tutta questa precisione formale nel disegnare la città.
Cos’ha questa “Chestnut Street” di particolare, di specifico, di caratteristico,
che si possa riportare sulla pagina per distinguerla da tutte le altre “Street”?
Proseguiamo: “… si fermò davanti al basso edificio in mattoni rossi”.
Cosa vuol dire “basso edificio”?
Torna al modulo 15B, per ripassare i tecnicismi con cui si rendono le misure in narrativa.
E come fa poi a vedere i “mattoni rossi”, se è mezzanotte ed è tutto avvolto nell’oscurità?
Le considerazioni sulla “monumentale Pennsylvania State House” le lascio a te, come esercizio.
 
E veniamo al più assurdo dei riferimenti extra-testuali, con cui si confonde la narrativa con la saggistica, si scambia l’obbligo a evitarlo (in narrativa) con l’obbligo a inserirlo (in saggistica): veniamo alle note a piè di pagina.

La nota a piè di pagina sbalza il lettore fuori dalla pagina, fuori dalla storia, per “spiegargli cose” dall’esterno: è la più aperta e manifesta dichiarazione di fallimento della propria scrittura.
 
È  come se l’autore facesse “psss… psss… psss” nell’orecchio del lettore, per distrarlo dal flusso della storia, perché lui, autore, deve assolutamente dargli informazioni senza le quali può divenire problematico seguire la narrazione. Insomma lo distrae per ricordargli che in ciò che sta leggendo non c’è nulla di “vero” – nel senso tecnico: deve sembrare vero – e che in fondo sono solo parole scritte su una pagina.
 
È un misto di accidia spirituale e incapacità tecnica, apparentemente impossibile da riscontrare in testi reali, ancorché di dilettanti, perché lo scrittore – anche se dilettante – è per definizione attivo e ingegnoso. E invece…


  Eh, siete fatti così: mettete le note a piè di pagina credendovi furbi. Bravi, davvero.
 
 
 
Questa è la dimostrazione che gli errori sono come le ciliegie: uno tira l’altro.
Quando si sono sdoganate le note a piè di pagina per spiegare il significato delle parole,
perché non utilizzarle anche per stilare delle mini-biografie dei personaggi?
Ma certo! Tutto quel che non sai presentare nel testo, buttalo pure a piè di pagina.
Che male c’è?

Una menzione specifica va riservata all’esergo, a cui è spesso dedicata la prima pagina del libro e a volte addirittura la quarta di copertina.
 

L’esergo è un riferimento extra-testuale: nulla cambierebbe nella tua storia, se lo togliessi; la storia è quella, e quella rimane, con o senza esergo; il valore artistico della tua storia non dipende dall’esergo.

Questo significa che l’esergo è inutile? No. A condizione che tu lo renda utile, e meglio sarebbe dire coerente, sia ex ante (in prospettiva della lettura) che ex post (a lettura conclusa).

L’esergo – visto ex ante – deve rappresentare una porta di ingresso privilegiata nel mondo della pagina, un modo per incuriosire il lettore trasmettendogli la fragranza della storia; lo puoi pensare come il “buon profumino” che senti arrivare dalla cucina, dove mamma e nonna stanno lavorando per te, per la tua felicità.

E se visto ex post – a lettura ultimata – l’esergo deve restituire la sintesi estrema della storia, come se fosse una conchiglia o un guscio di noce capace di contenerla per intero; nell’esergo bisogna ritrovare tutti i passaggi fondamentali della storia, una volta che la storia è conosciuta.

L’esergo, quindi, è sì un riferimento extra-testuale, ma deve porsi in massima continuità con il testo, con i suoi contenuti, di cui rappresenta per così dire “un distillato”, così come avviene per l’immagine in copertina e il titolo.

Attenzione perciò a non svilirlo, a non trasformare l’esergo in una frase tumblr, e peggio ancora in una frasetta idiota tout-court, buttata lì per il gusto infantile di aggiungere spezie a una narrazione che forse inconsciamente si sa essere insipida.
 
È difficile selezionare un esergo appropriato; metterne due è un rischio enorme; da tre in poi, è solo incompetenza; e se vuoi renderti ridicolo, se proprio ci tieni to make an ass of yourself, piazzane uno all’inizio di ogni capitolo.
 
 
Owen King è il figlio di Stephen King
– sì, quello Stephen King lì: quello di IT e Misery non deve morire – 
e quando sei il figlio di Stephen King puoi fare quello che vuoi nel tuo romanzo,
soprattutto se tuo padre, Stephen King, spende il suo nome accanto al tuo.
Ma tu – lettore del blog – fai King di cognome? E tuo padre si chiama Stephen?
Perché “Stephen King” è il più devastante dei riferimenti extra-testuali, che legittima tutti gli altri.
Ma se non hai questa autorizzazione – se non ti chiami Stephen King o anche solo Owen King –
evita di inzeppare il testo di frasette inutili (alcune addirittura auto-citazioni dal romanzo stesso!).
 
 
 
Servono comunque accortezza e buon senso,
anche quando si ha “un nome” che può giustificare – e meglio sarebbe dire far tollerare – ogni libertà,
per non indurre il lettore in uno stato d’animo di progressivo distacco dall’opera.
È ciò che è successo – ad esempio – al blogger di “2000 battute”,
nella lettura dell’opera “Gli imperdonabili” di Cristina Campo:
“il libro si apre con una fotografia […]. È insolito che Adelphi aggiunga fotografie dell’autore,
questa capita subito da principio, a tradimento, non sei preparato […]
e te lo ritrovi davanti in un ritratto […] e quel ritratto ti segue per tutto il libro […].
Io ho continuato a vedere quel volto a fianco di ogni pagina, un fantasma,
una presenza che mi incuteva timore e mi attirava al contempo. […]
questo è stato bizzarro, veramente inusuale,
tante volte ho letto testi che hanno rivelato la mia inadeguatezza,
ma non c’era mai l’autore, anzi un’autrice bellissima, a fianco a guardarmi.
Si crea una situazione imbarazzante, un tormento del cuore e dello spirito.
È impossibile trovare scorciatoie o prendere una via di fuga
se hai Cristina Campo che ti sta osservando”.
E torna, sotto altra forma, l’impegno a essere come Dio nella creazione,
non solo nella realizzazione dell’opera, ma anche nel consegnargli una veste formale. 
 
Quod non est in actis non est in mundo può sembrare limitativo e urtare il senso comune, ma rimane un principio irrinunciabile di civiltà giuridica: non esiste nessuna verità, al di fuori della verità processuale, e la verità processuale si costruisce con gli atti e le carte del processo, con le informazioni a disposizione del giudice, da soppesare sulla bilancia delle norme vigenti.
 
Ciò che non è nelle carte, non è nel mondo, per quanto il mondo là fuori possa strepitare.
 
Estratto da L’esperimento di Pott, di Pitigrilli.
 
Abituati a scrivere senza il retro-pensiero del riferimento extra-testuale, anche quando legittimo; liberati dall’idea che il titolo, la copertina o l’esergo possano completare le mancanze dell’opera; al più la integreranno, aggiungeranno valore, saranno un plus – e comunque serve arte – ma il valore dell’opera dipende solo dall’opera, da ciò che si trova effettivamente sulla pagina, perché ciò che non è nella pagina non è nel mondo.

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