Modulo 15A – Vuoi scrivere bene? Fai sesso sotto la doccia!

Piove

Allungo il braccio sull’altro lato del letto: niente, non cè nessuno. Apro gli occhi, colpisco il cuscino, una, due, tre volte. Dove cazzo sei? Lo scrosciare della doccia mi dà la risposta.

Mi prendo il cazzo duro in mano, richiudo gli occhi e lo stringo. La mano va su e giù. Il rumore dell’acqua s’interrompe, mi fermo anch’io. Avrà finito? Naaa… figurati! Si starà insaponando. Capirai! Con quelle tette potrebbe starci tutta la mattina, ogni volta se ne va una confezione di bagnoschiuma. Mi sego, stringo le palle. O forse avrà iniziato dalla fighetta: ma non le dà fastidio strusciarsela con quelle unghie così affilate? Lo sciabordio ricomincia, e pure la mia mano riparte. Vabbè, ho capito: tocca alzarsi.

Barcollo fuori dalla camera, mi sfilo i boxer e li lascio cadere per terra, tolgo pure la maglietta e la getto per aria. Ho il cazzo di marmo e le palle gonfie: sempre così quando non sborro prima di dormire; ma ora vedi che ti combino, zoccoletta.

Entro in bagno e scosto la tenda della doccia. Elisa lancia un urlo e incrocia le braccia per coprirsi le tettone. Sorrido.

«Embè?! Ti vergogni?»

«Scemo! Mi hai spaventata.»

Con un passo le sono addosso, l’acqua calda mi bagna la testa.

Le abbasso le braccia e piazzo le mani su quelle due montagne. Fantastiche, sembrano un culo. Chiudo gli occhi, con la lingua le pennello i capezzoli duri. 
Gliele stringo, scappano dappertutto. «Ce le hai troppo grosse, troppo 

Ride, afferra il cazzo e lo sega. «Ma se non fai altro che infilarlo in mezzo!» Sega più veloce. «Tu morirai di spagnolette.
»

La spingo all’angolo della cabina, fuori dal getto d’acqua. «Avevo voglia di una pompa, e tu non c’eri.»

«Povero cucciolo!» Mi stringe il viso tra le manine. «Ora mi faccio perdonare.»

Con le unghie mi artiglia le spalle, bacia il petto, la pancia, l’ombelico, graffiandomi lungo i fianchi. La afferro per i capelli e la riporto su.

«Io non perdono
 io punisco.»

Mi inginocchio e le do uno slinguata da sotto a sopra sulla fighetta liscia. Ulula e ride.

«Se questa è la punizione… accomodati!» Mi spinge il viso in mezzo alla gambe.

Chiudo l’acqua, le agguanto il culo e infilo la lingua. Dio, che spettacolo! La sorca di una pischella ha proprio tutto un altro sapore!

Agito la lingua dentro quel paradiso, i suoi gemiti crescono di intensità, si fanno più acuti. Gliela avvolgo tutta in bocca e la succhio. Urla e preme più forte. Infilo tutta la lingua, tocco ogni angolo che mi è possibile. I suoi miagolii fanno da colonna sonora alla mia esplorazione. Godi puttana, godi…

Mi stacco per riprendere fiato. Quanto cazzo è bella! Gonfia, grossa, liscia: completamente un’altra storia! Le infilo il dito medio, glielo ruoto tutto intorno, lo piego e lo distendo, gli faccio fare su e giù.

Mi blocca la mano. «Fermo! Voglio sdilatarmi io…»

Guida il movimento dal mio polso con lentezza esasperante, lunghi sospiri si alternano con brevi strilli. Cazzo, di questo passo non la finiamo più. Alzo il ritmo, ma mi blocca un’altra volta.

«Fermo, ho detto!» Chiude gli occhi e ansima «Voglio fare da sola…» Lo spinge tutto dentro. «Bello il mio giocattolino in carne e ossa, un piccolo dildo tutto per me…»

Puttana che sei! Mi fiondo sulla fighetta, la titillo con la punta della lingua.

Lancia un urlo. «Cazzo! Così vengo, se fa così mi fai venire, mi fai venire…»

E vieni troia, vieni!

Smanetta il mio polso, la mia lingua corre su e giù.

«Così vengo, vengo!»

La figa pulsa, mi stritola il dito. Brava troia, così, così: sbrodola tutta! Lecco ancora, gli strofino sopra il naso. Profumo di sorca fresca e bagnata: spettacolo!

Mi appoggia la manina sulla fronte per allontanarmi. «Ba-basta
… lasciamela stare» Ha il fiatone, sbuffa. «Lasciamela, basta…»

Stringe il polso e tira giù, il dito sfila via dalla figa tra mugolii d
insofferenza. Le gambe le tremano, ansima, storce gli occhi e mi accarezza la nuca.

«Me l’hai distrutta, me l’hai…»

Le allargo le gambe e l’afferro per le cosce. Alzo la testa, metto il petto in fuori, davanti alla figa.

«Piscia!»

Strabuzza gli occhi. «Eh!?»

«Piscia!» Le stringo un capezzolo. «Dai, piscia!»

Scuote la testa, sbatte le ciglia, si passa la mano sul viso per scostare i capelli.

Le tiro il capezzolo, glielo storco.

«Ahi! Smettila, mi fai male!»

Tiro più forte. «E allora piscia, troia…»

Deglutisce, ansima, ha uno sguardo spiritato.

Allarga la figa con due dita e s’inarca verso di me. «N-no… non mi viene, non ci riesco.»

Le stringo entrambi i capezzoli più forte che posso. Lancia un grido, allento la presa.

«Piscia troia, piscia!»

Apro la doccia, il primo getto d’acqua fredda sulla schiena mi fa tremare. Diventa tiepida, calda, bollente. La richiudo.

«Adesso ci riesci? Dai, pisciami addosso!»

Chiude gli occhi, fa esercizi di respirazione e con le dita spalanca la figa. Si inarca. «E-eccola…»

Dalla figa zampilla oro liquido, mi colpisce il petto, lo brucia e cola giù. Le stringo il culo, la porto a me, lecco ogni goccia. Oh, cazzo, Finalmente una che non si fa troppi problemi!

Balzo in piedi, la giro di spalle e le infilo il cazzo. Con questa sì che mi ci diverto davvero. L’afferro per le cosce, sferro colpi decisi, regolari, le tettone ballano al ritmo dei suoi gridolini. La cappella s’ingrossa, la sborra mi sale. Fanculo, devo rallentare. Mi fermo.

Si volta e sorride. «Rilassati… ora ti scopo io.» Muove il culo avanti e dietro, lo fa oscillare.

Fanculo! Così è anche peggio.

Faccio due passi indietro, Elisa si piega in avanti, stende le braccia e appoggia le mani sulle maioliche. Ondeggia e mi fissa con gli occhi stretti.

«Ti piace?»

Le sorrido, ansimo. Cazzo, sei meglio di una danzatrice del ventre. Mi mordo le labbra, butto via l’aria. Sta diventando una sofferenza… voglio sborrare.

Assesta un colpo secco con cui se lo pianta tutto dentro. «Ti piace, sì?» Ride e dà un altro gran colpo, la figa mi sbatte sulle palle. «
Ti è piaciuta la mia pioggia, sì?»

Fanculo, troia! Lo tiro fuori di scatto, con una manata la giro verso di me e con un’altra la faccio inginocchiare. Le punto il cazzo in faccia, appena due colpi e il primo getto le va in fronte, altri due schizzi colpiscono gli occhi e scendono giù per le guance. Mi sego, il cazzo sputa un
’altra volta, glielo appoggio in fronte e le ultime gocce calano sul nasino. Una maschera biancastra le ricopre il viso.

Serra gli occhi, alza le mani. «Oddio
ma quanta ne avevi?»

Le sbatto il cazzo su una guancia. «Tutta quella che non mi hai fatto uscire ieri.» Glielo sbatto sull’altra. «Più quella di questa mattina.»

Si pulisce il viso col palmo della mano, la scrolla per mandar via la sborra. Agguanta il cazzo e riempie la cappella di bacetti, con l’altra mano massaggia le palle, le gratta.

«Mi fa impazzire quando non riesci a trattenerti.» Stampa un bacio rumoroso sulla cappella.

Glielo infilo in bocca, lo ciuccia: dai, sì, puliscilo tutto…

La tiro via per i capelli. «Basta!
» Ansimo. «Ora lasciamelo tu in pace.»

Non molla la presa, la sua manina ricomincia a segare. «Ti stai calmando, si?» Stringe le palle e spara una raffica di bacetti lungo tutto il cazzo. «Quand’è così, a metà e metà, sembra un serpentone.» Ride di questa scemenza, accompagno la sua risata per assecondarla.

«Dai, lasciamelo…»
 
Strofina la fessura della cappella sulla punta del capezzolo, porta il braccio di sotto per tenerle unite e alzate, gli passa sopra il cazzo, se lo sbatte forte e mi sorride.

Le accarezzo la testa. Cazzo, quanto vorrei…   
 
Lascia andare il cazzo e abbandona le braccia lungo i fianchi: sospira. Si appoggia al rubinetto della doccia per tirarsi su. La rimetto in ginocchio spingendola sulla spalla, le palpitazioni del cuore mi irrigidiscono. Prendo il cazzo in mano.

Elisa mi fissa accigliata «Stai bene, sì? Tutto a pos»

Il fiotto di pioggia la fa gridare come l’avesse trafittasgrana gli occhi, li serra e tappa anche la bocca. Dirigo il flusso per inondarle le tette, il cuore martella all’impazzata, l’ultimo rivolo lo indirizzo sul suo bel visino.

Ho la pelle d’oca, mi gira la testa, traballo. Appoggio le spalle sulle maioliche per tenermi in piedi.

Elisa ansima. Si alza e mi abbraccia per il collo, le nostre lingue si intrecciano.

Sorride a occhi chiusi. «Puoi farmi tutto, Ivan
 tutto!» Stringe la mia coscia tra le gambe, si irrigidisce, trema. «Tutto!»

Mi si affloscia di botto tra le  braccia. la stringo a me e le accarezzo la testa. Che spettacolo che sei, piccola mia…
 
Riempio la mano di bagnoschiuma, il profumo di cocco invade l’aria. Le insapono le tette, i fianchi, le braccia. Passo sulle guance e la fronte. Verso altro bagnoschiuma e vado alla schiena. Apro l’acqua, il solito primo getto freddo ci fa sobbalzare, il bagnoschiuma le scende lungo il corpo.

Ride, mi bacia con la lingua e se la passa intorno alle labbra. «Puoi farmi tutto
»

Col dito medio le stuzzico il buchetto del culo.
 

Piove è un non-racconto, o se preferisci, un racconto pornografico: non per i suoi espliciti contenuti sessuali, ma perché sprovvisto di significati, perché non restituisce nessun messaggio al lettore, e sta lì solo per offrirgli un piacere forte e immediato.
 
Piove – ne accennavamo a conclusione del modulo 2 – è pornografico come lo sono tutti i (non) racconti che, pur non avendo nulla a che fare col sesso, sono comunque scritti senza uno scopo preciso, e il più delle volte solo per baloccarsi con della pseudo-poesia messa in prosa, per dare al lettore il piacere di un’orgia di parole auliche e raffinate. È pornografica – ricordiamolo – ogni scrittura priva di un messaggio e finalizzata solo a mettere in circolo un po’ di adrenalina, qualunque sia il soggetto su cui si appunta.

È possibile trasformare un non-racconto in una scena? Ovvio che sì. E come si fa, nel presupposto che sia ben scritta? Semplice: la si inserisce in una storia più estesa, dove possa acquistare un suo significato in relazione alle altre scene con cui va a connettersi.

Poniamo che Ivan non dia più segni di sé da diversi giorni: non si presenta al lavoro, nessuno dei familiari o degli amici lo ha più visto, non risponde alle mail, il telefono è spento e il citofono di casa suona a vuoto.

La polizia decide di forzare la porta della sua abitazione e il povero Ivan viene trovato nel suo letto, nudo, incappucciato, con gambe e braccia divaricate, a formare una “X” umana, e i polsi agganciati alla spalliera del letto con delle manette. Un gioco erotico finito male, penserà il commissario incaricato delle indagini.

Questa contestualizzazione minimale è già sufficiente a giustificare una scena in stile Piove. Perché se il nostro personaggio ha fantasie erotiche spinte, come sembrerebbe dalla posizione in cui è stato rinvenuto il cadavere, allora questa sua caratteristica deve essere stata preventivamente comunicata al lettore, che lo deve aver visto in azione durante una delle sue perversioni. Solo allora siamo giustificati – da scrittori – a mostrarlo come lo stiamo mostrando ora, davanti agli occhi del commissario e del lettore.

Sarebbe sorprendente – di quelle sorprese brutte, sgradevoli – se fino a quel momento, da lettori, non avessimo avuto nessuna avvisaglia delle fantasie sessuali del nostro personaggio, e poi, all’improvviso, ce lo ritrovassimo incappucciato e ammanettato al letto.
 
E non provare a giustificare la cosa col desiderio di creare “un colpo di scena”, di aver cioè volutamente evitato qualsiasi riferimento al sesso fino a quel momento, per poi – ta-ra-ta-tan! – mostrarlo incappucciato e ammanettato. No, no, no, e ancora no.

I “colpi di scena” non esistono in una storia ben progettata, o – diciamo meglio – non esistono colpi di scena infantili e ingenui, che arrivano dal nulla e spiazzano il lettore tiepido. Un “colpo di scena” ben fatto va preparato, disseminando lungo la storia gli elementi informativi necessari a giustificarlo e sostenerlo nel momento in cui si manifesta, ma che il lettore non collega durante la lettura, per riuscirci eventualmente solo dopo, a freddo, a “colpo di scena” avvenuto e a lettura conclusa, quando magari riesaminerà tutta la storia conoscendone già gli sviluppi (vedremo un esempio nel modulo 24L).
 
Più in generale, in una storia ben fatta non esistono eventi inattesi, anche se sulle prime possono sembrare tali. Tutto è concatenato, e tutto deve potersi spiegare col beneficio della retrospettiva, in una storia ben fatta. Se i miracoli di Dio, nel mondo reale, sono implorati da molti con tutte le loro forze, e tuttavia (quasi) mai accordati, i miracoli del dio creatore nel mondo della pagina sono sempre e solo una manifestazione di incompetenza.
 
Ragiona! Chiunque riesce a piazzare nella sua storia un evento stupefacente o miracoloso, senza averne posto le basi. E se ci riesce chiunque, senza sforzo, dove mai sarebbero l’abilità tecnica e il merito artistico?

 
Una scena in stile Piove può comunque inserirsi in (ed essere giustificata da) una storia che non ha nulla a che fare con giochi erotici.

Immagina di avere un personaggio… come lo vogliamo definire? Egoista? Pieno di sé? Preoccupato solo di sé stesso? Un personaggio così – per restare in tema – è un bel “palo nel culo”. Come si fa empatizzare con lui? Come riusciamo, leggendone la storia, a capire le sue ragioni, a condividere i motivi per cui si comporta come si comporta?  Domande impegnative, non c’è che dire. Daremo le risposte al momento opportuno. Per il momento accettiamo il personaggio così com’è: un individualista troppo preso da sé, per curarsi anche solo minimante degli altri.

D’accordo, ma cosa significano tutte queste parole? Egoista, individualista, pieno di sé, concentrato su sé stesso… quindi? Il lettore cosa deve immaginare? La gente – al solito – non se ne va in giro con un cartello al collo con su scritto “sono individualista e concentrato su me stesso”.

Questa caratterizzazione del personaggio – “individualista” – è alta e generale. E tu devi ora portarla a terra, concretizzarla. E come si fa? Semplice: definendo un modello comportamentale del personaggio coerente col suo tratto caratteriale.

Chi è “individualista” ha spesso la tendenza a trattare gli altri come “oggetti”; non capisce che i suoi diritti non sono superiori a quelli di chi gli sta intorno; gli sfugge che ogni persona ha una sua sensibilità, che va rispettata e non è giusto ferire. Abbiamo fatto un passo avanti, nel delineare il personaggio: da “individualista” a “tratta gli altri come oggetti”.

Devi quindi costruire delle situazioni (scrivere delle scene) in cui sia massimamente chiara l’attitudine del personaggio a trattare gli altri come oggetti.
 
Potrebbe essere una situazione lavorativa, col nostro personaggio che stressa i suoi collaboratori, e magari è persino infastidito dai loro diritti – come un giorno di ferie – perché da lì a poco ci saranno le promozioni da funzionario a dirigente, e lui, funzionario, vuole assolutamente lo scatto di grado, mostrando ai capi la qualità del lavoro della sua squadra. Non pensa minimamente al male che sta causando ai suoi collaboratori; è concentrato su sé stesso, sulla sua promozione, e non capisce altro. Ora sì che il lettore sa cosa immaginare, cosa vedere, del nostro personaggio “individualista”.

È un’idea, magari non tanto originale, ma è un’idea. Oppure… ma sì, oppure lo puoi mettere sotto la doccia a fare sesso, in una scena in stile Piove. Anche qui ci viene restituita l’immagine di un personaggio (Ivan) interamente concentrato su sé stesso, sul proprio piacere, sin dalle righe inziali, e di un altro personaggio (Elisa) trattato come un oggetto, che deve addirittura “pisciare a comando”, e viene per così dire “punito” se non lo fa. Il lettore – di nuovo – vede e capisce.

Questo è il modo con cui un personaggio prende vita e diventa credibile, vero, reale, tridimensionale: fissandone i tratti caratteriali e poi traducendoli in un modello di comportamento fatto di azioni, pensieri, parole e percezioni – i cinque mattoncini narrativi – coerenti con quei tratti.
 
 
Non esiste una scena sbagliata in sé, come non esiste una stonatura, se non in relazione alle altre note.

La scena è giusta o sbagliata, appropriata o fuori luogo, utile o inutile, solo in rapporto alle altre scene a cui si lega, in relazione ai suoi obiettivi immediati e di lungo termine, agli scopi stabiliti per la narrazione.

Estratto dalla “Lezione 21 – Il nome come la cravatta”, di Giuseppe Pontiggia.
 
Non solo una nota da sola non è nulla, ma non è nulla nemmeno vicina ad altre note (avresti solo una melodia, non un brano)” – ha avuto la gentilezza di spiegarmi una lettrice del blog – “Diventa qualcosa se quelle note stanno su un pentagramma, e a sinistra del pentagramma è esplicitata una chiave (comunemente le chiamiamo chiave di violino, chiave di basso e così via, anche se è poco corretto). Allora sì, sapendo in che chiave (di ‘do’, ad esempio) e in che registro siamo (baritonale, ad esempio) possiamo dire con assoluta certezza qual è il ‘senso’ della nota nel brano”.

La stessa situazione si ritrova in scrittura. Non solo una scena da sola non ha significato, e servono altre scene – “il pentagramma” – per conferirgliene uno, ma il suo significato cambia in relazione al posto occupato nella storia, all’ordine di presentazione di tutte le scene – alla “chiave”, per proseguire nell’analogia musicale – ed è solo allora che se ne può capire il “senso” all’interno della narrazione.

Riassumendo: se sei impegnato nella scrittura di una storia – racconto o romanzo – allora è ovvio che presterai massima attenzione alla realizzazione di ogni singola scena, e per il momento non serve dirti altro (ci rivedremo ai moduli 22 e 23, sulle modalità di progettazione delle scene e delle storie); ma se invece non hai ancora per la testa o tra le mani una storia ben delineata, allora ti suggerisco di scrivere comunque delle singole scene, sia come esercizio preliminare (in vista del modulo 22) sia perché – se saprai sceglierle con un minino di attenzione, in base ai tuoi interessi – potrebbero tornarti utili in futuro, nel momento in cui la tua storia dovesse prendere una forma sufficientemente precisa, in cui la singola scena potrà acquisire un suo significato.

Scrivi pure singole scene, lasciandoti guidare dal tuo gusto, dai tuoi interessi, da ciò che senti di esser capace di rappresentare con efficacia sulla pagina, ma scrivile sempre al meglio di cui sei capace, senza risparmiarti, senza il retro-pensiero deleterio di poter allentare gli standard di scrittura perché “tanto è solo una scena”.


La impegna di più un set contro Lendl o un set contro McEnroe?”. La domanda del giornalista Roberto Gervaso trovò la più spettacolare delle volée di rovescio di Björn Borg. “Mi impegna tutto, anche un set con mio nonno”.

Tu devi essere il Björn Borg della scrittura: non conta se stai giocando contro Lendl o McEnroe, o semplicemente contro tuo nonno; non importa se stai scrivendo il tuo romanzo per sottoporlo a una casa editrice, magari a una big, o se ti trovi alle prese con una singola scena; devi essere accurato, scrupoloso, preciso, e dare sempre il meglio di cui sei capace, qualunque situazione tu stia vivendo con la scrittura.
 
Il diavolo si sforza di vincerci nelle cose piccole…” – metteva in guardia San Vittore – “… affinché possa trovarci pronti nelle grandi”.

Se fai concessioni sulle cose piccole, ti troverai impreparato davanti alle grandi. Se invece vivi le cose piccole come se fossero di importanza immensa, le cose grandi non ti sembreranno più così grandi e difficili, quando arriveranno.

Non dire “fa niente se questa scena non è scritta al meglio, tanto è solo una scena isolata; quando scriverò il mio romanzo per Mondadori, allora sì che farò sul serio”. Perché non funziona così, non ha mai funzionato così, perché non può funzionare così.
 
Sciatteria chiama sciatteria, e precisone chiama precisone, qualunque sia il contesto in cui ti trovi. Non sarà la possibilità di pubblicare con Mondadori a farti impegnare di più – così, all’improvviso – se il massimo impegno non è nel frattempo diventato il tuo abito mentale, una seconda natura. Anche perché – a stretta logica – in che modo scrivere male o benino potrà mai aiutarti a scrivere bene?
 
 
Anche il tuo difetto è la disattenzione, e mi tocca riprenderti negli stessi termini con cui Tabori rimprovera il suo allievo, nel romanzo La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig.

Anch’io, come Tabori, “quando parlo di attenzione, intendo qualcosa di molto più grande di quanto comunemente si pensi”.
 
E anche tu, mutuando l’esempio dei sacerdoti maya, dovresti scrivere come se un tuo solo sbaglio potesse far precipitare l’astro del sole, come se “la posta in gioco fosse la tua stessa vita”, o peggio, “quella delle persone che ti sono più care”.
 
Tutto il resto – la tecnica e lo stile, il flusso narrativol’impostazione della scenal’arco di trasformazione  – diventa superfluo, se viene a mancare questa forma di attenzione.
 
E sto parlando ovviamente di una scrittura di livello superiore, di un gioco da grandi scrittori, non delle squallide esibizioni che infestano le piattaforme on-line.


E se la causa di tante cose brutte che accadono nel mondo fosse proprio la tua disattenzione nello scrivere? C’hai mai pensato? Dovresti. O almeno dovresti rapportarti così alla scrittura: chi ti può assicurare che il tuo atteggiamento svogliato e approssimativo verso il mondo della pagina non provochi delle catastrofi nel mondo reale?

Devi sempre scrivere al meglio di cui sei capace, sempre, anche se stai solo scrivendo Piove.

Appunti sparsi


Chi sono, dove sono, cosa voglio (modulo 22).  Il primo obiettivo dell’incipit è far capire – quanto più rapidamente possibile, con tutta la precisione consentita dalle frasi iniziali – chi è il personaggio, dove si trova e qual è il suo obiettivo. Perché è una rottura di coglioni fastidioso – e rischia di diventare straniante – non sapere chi sia il personaggio e dove si trova, dopo addirittura dieci righe di racconto, magari solo perché l’autore si è voluto baloccare con le parole (e quando l’autore prende questa china, il lettore non capisce chi è il personaggio, dove si trova e cosa vuole… neppure quando è arrivato alla fine del racconto!). In Piove capiamo tutto nel giro di pochissime righe. Dopodiché, d’accordo, quel che il personaggio vuole non sarà nulla di grande, buono e giusto, ma questo giudizio di valore non ha alcun peso artistico. Conta solo che il lettore abbia focalizzato subito la situazione. Osserva come “ciò che il personaggio vuole” non viene spiattellato sulla pagina. Che Ivan ha voglia di scopare lo si capisce – indirettamente, ma in modo lampante – da ciò che fa e dai pensieri che colorano le sue azioni. Non essere pigro nel comunicare gli obiettivi del personaggio, non vomitarli sulla pagina, non trasformare il tuo personaggio in un bambino lagnoso: “gne, gne, voglio scopare, gne, gne…”.

Conflitto (modulo 22). Una scena senza conflitto è merda non è una scena. Il conflitto – un desiderio che incontra un’opposizione e lotta per superarla – ci vuole sempre. Anche se scrivi solo di scopate.


Il luogo è un personaggio (modulo 18F)
. È una cazzata sbagliato, e comunque pesantemente subottimale, rendere il luogo un semplice sfondo, che può essere cambiato a piacimento senza alterare nulla nella storia. Il luogo è un personaggio, che interagisce con gli altri personaggi e ne condiziona pensieri e azioni. Te lo immagini un pissing ambientato dentro una macchina o in una camera da letto? Non che sia impossibile – tutto è possibile, figurarsi! – ma se orchestri un pissing in una macchina o in una camera da letto, il solito lettore tiepido si bloccherà per farsi domande  – ma questi due sono scemi o cosa? non gli dà fastidio l’odore di pipì in macchina? e poi questa macchina quanto deve essere vecchia e malandata, per pisciarci dentro così allegramente? – e tu non vuoi che il lettore si ponga domande durante la lettura. Il luogo “doccia” – in Piove – non può essere cambiato a piacere (in una “macchina”, in una “camera da letto” o in altro) senza condizionare pesantemente la dinamica della scena, perché luogo e personaggi devono interagire, anche solo implicitamente, e se il luogo diventa invece solo uno sfondo d’ambientazione – alterabile a piacere, senza conseguenze sullo sviluppo della scena – allora ti sei messo in una situazione che dovevi invece evitare.

Ancora sul senso di luogo (modulo 18F), e sui riferimenti extra-testuali (modulo 15G)“Sorca” e “pischella” sono due termini di chiarissima provenienza romana, e tuttavia sufficientemente conosciuti in tutta Italia. Così come, di base, se leggiamo di una persona che si sveglia in un letto – e non sappiamo nient’altro – il cosiddetto settaggio standard ci porterà a immaginare che il personaggio sia a casa sua e che è mattina. Aiutati quindi con questi piccoli espedienti, per localizzare gli eventi. E a ogni modo non scrivere mai, in alto a destra sulla pagina – ma di fatto fuori dal testo narrativo  cose del tipo “Roma, 24 aprile 2023, ore 8.22, casa di Ivan”.

Qui e ora, da un “Punto di Vista” (modulo 18A). È una rottura di coglioni fastidioso essere sballottati da un personaggio all’altro, da un luogo all’altro, nel giro di poche righe, con la tecnica obsoleta del narratore onnisciente o addirittura con lo scrittore che si rivolge direttamente al lettore. Piove è tutto “qui e ora”, mostrato attraverso un’alternanza di azioni, pensieri, percezioni e dialoghi, il tutto filtrato dal “Punto di Vista” di Ivan.

Tettona (modulo 8). È una rottura di coglioni fastidioso avere difficoltà nel tradurre le parole in immagini, solo perché lo scrittore pigro ha dato per scontato delle cose che non lo sono. Leggo tettona, e cosa devo immaginare? Una quarta o un’ottava? Una dichiarazione esplicita della misura di reggiseno non serve a nulla, perché non corrisponde a nulla di visualizzabile (oltre a essere innaturale, nel flusso della storia). Allora ci si lavora intorno. “Potrebbe insaponarsele tutta la mattina, ogni volta consuma un’intera confezione di bagno schiuma”. Esagerazioni? No, semplicemente la realtà soggettivizzata dal “Punto di Vista” (Ivan), che ci fa capire che devono essere grosse. Scopriamo poi che “sembrano un culo” (così diamo un contraltare fisico alla soggettivazione del personaggio) e che se le stringi “scappano dappertutto”. Ora, e solo ora, il lettore sa cosa immaginare. Ora, e solo ora, Elisa è una tettona.

Spagnoletta, ditalino, dildo (modulo 8). Ciò che trasforma molti racconti in una rottura di coglioni noia infinita è l’uso di parole che il lettore non è tenuto a conoscere, per quanto ovvie possano sembrare allo scrittore. Prima mostri “la cosa in azione”, poi, se proprio ci tieni, la battezzi. Prima scrivi “ma se non fai altro che infilarglielo in mezzo” e dopo tiri fuori il termine tecnico “morirai di spagnolette” (perché il lettore non è tenuto a sapere cosa sia una spagnoletta). Prima mostri i movimenti del dito di Ivan, dopo fai dire a Elisa “voglio sdilatarmi da sola” (perché il lettore non è tenuto a sapere cosa sia un ditalino). Prima le fai dire “il mio giocattolino in carne e ossa”, e solo dopo “un piccolo dildo” (perché il lettore non è tenuto a sapere cosa sia un dildo).

Ivan e Elisa (modulo 18D). Quanti anni hanno? Da quanto si conoscono? Che rapporto c’è tra i due? Il testo non lo dice, ma il sotto-testo sì o comunque lo lascia intendere con buona approssimazione. Ivan è presumibilmente più grande di Elisa (“la sorca di una pischella ha tutto un altro sapore”) si conoscono da poco (“con questa mi ci diverto”, “tu puoi farmi tutto”: i due hanno ancora tanto da sperimentare) e lei è più coinvolta (“puoi farmi tutto” versus “zoccoletta, troia”, ma anche la facilità con cui lei gode e si lascia andare contrapposta a un certo egoismo di lui).

“Prova a”, “tenta di”, “fa per” (modulo 15C). “Prova ad abbassarsi”, “tenta di abbassarsi”, “fa per abbassarsi”. Cosa deve immaginare il lettore? Leggi qui, invece. “Con le unghie mi artiglia le spalle, bacia il petto, la pancia, l’ombelicoOra sì che il lettore visualizza il personaggio che si abbassa.

Gerundio (modulo 15D). “… graffiandomi lungo i fianchi”. Ovvio. Perché il tempo necessario a far passare la bocca dal collo al petto alla pancia e all’ombelico è perfettamente allineato al tempo necessario a far scorrere le unghie lungo i fianchi. Perché questa è una delle funzioni fondamentali del gerundio: creare la simultaneità in un mondo – quello della pagina – dove a rigore le cose possono accadere solo una alla volta.

“-mente” (modulo 15B). In Piove gli avverbi modali compaiono solo nei pensieri e nei dialoghi, perché nel mondo reale in effetti li usiamo quando pensiamo e parliamo; ma non compaiono mai nella descrizione delle azioni, perché il lettore sarebbe impossibilitato a visualizzarli. Usare un avverbio modale per descrivere un’azione è un errore: significa aver scelto le parole sbagliate e volerle salvare con l’avverbio.

Difetto fatale (modulo 23B)
. Il (mancato) superamento del difetto fatale è ciò di cui parla ogni storia, qualunque siano soggetto e trama. Il messaggio contenuto in ogni storia si riduce sempre a sapere cosa accade se il protagonista (non) supera il suo difetto fatale. Poniamo che il difetto fatale di Ivan sia l’egoismo, il pensare solo a sé, l’essere troppo concentrato su sé stesso. Una scena in stile Piove non solo lo comunica in modo meno banale (rispetto a una ambientata sul posto lavoro) ma lascia anche intuire che nella vita sino a quel momento gli è sempre andata bene, perché ha per lo più incontrato persone che si sono sempre sottomesse “volontariamente” ai suoi desideri (magari anche grazie ad altre sue qualità). Pure, una scena a base di sesso, se ben sfruttata, può essere utile per donare un tocco di eleganza all’intera vicenda, perché il rapporto con il sesso – più di altre cose – si presta bene a lasciare intravedere le origini del difetto fatale, le cause che lo hanno creato e il modo con cui si è formato; e sapere “da dove provengono le cose” è un passaggio dirimente per rendere una storia tridimensionale, per farla sembrare vera.

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