Modulo 15C – Sento di sentire, provo a camminare


Ci sono tre classi di verbi – di percezione, di pensiero e d’intenzione – da tenere fuori dai propri testi, se non si vuol cadere in errori banali, ma proprio per ciò segnalatori di una scrittura acerba; c’è poi un’altra classe – i verbi di movimento – da usare con un minino d’accortezza, per le stesse ragioni.

Verbi di percezione

Luca aprì il cassetto e vide un portafoglio, un diario e una cravatta. Prese il diario e scappò.

Quante ne hai scritte o lette di frasi così? Tante, troppe. Sai cosa dimostra questa frase? Che non sei entrato nel personaggio, che non sei Luca. E se tu per primo – tu scrittore, dio creatore di Luca – non sei diventato Luca, come puoi sperare che questa immedesimazione avvenga nel lettore?

Vogliamo diventare Luca? Apriamo il cassetto. Cosa c’è dentro? Un portafoglio, una cravatta e un diario. Ripetiamolo: un portafoglio, una cravatta e un diario. Di nuovo: un portafoglio, una cravatta e un diario. Non c’è alcun vide. E allora perché lo scrivi, se non c’è?
 
Luca aprì il cassetto, afferrò il diario tra il portafoglio e la cravatta, e scappò via.

Un’altra categoria di scrittura, una scrittura senza verbi di percezione, un mondo dove siamo diventati Luca, abbiamo aperto il cassetto, preso il diario segreto, e siamo scappati via verso chissà dove. 
 
I verbi che esprimono percezioni sensoriali non si usano perché non servono, perché non aggiungono nulla e non comunicano niente. Infilare un verbo percettivo dentro un mattoncino [PS] è sempre e solo un errore: significa ingolfarlo, perché si rimarca inutilmente ciò che è ovvio.

Sento un boato.
 
Senti un boato? E serve dirlo? Il boato puoi forse toccarlo, annusarlo, mangiarlo, o vederlo? Il verbo di percezione (“sentire”) associato alla percezione (“il boato”) ha creato una ridondanza insopportabile, perché il boato puoi solo sentirlo, è ovvio che lo senti, e quindi è inutile scriverlo.

Per esasperare l’errore – allo scopo di farlo restare ben impresso – scrivere “sento un boato” legittima pure una frase del tipo “sento di sentire un boato”, che a sua volta legittima la frase “sento di sentire che sto sentendo un boato”, e così via. Cambia solo la magnitudo dello sbaglio, ma la sua natura è sempre la stessa.

Qual è la frase giusta? Qualcosa del tipo:

Un boato mi fa sobbalzare.

Devi coglierne la struttura, di là della frase in sé. Non più la costruzione sbagliata:
 
[verbo di percezione]+[percezione]
 
ma la costruzione corretta:
 
[percezione]+[effetti della percezione sul personaggio]

È così che si ottimizza la comunicazione al lettore della percezione del personaggio, con questa struttura, perché soltanto allora il lettore sobbalzerà insieme personaggio, a seguito del boato.

Non sempre riuscirai a creare l’accoppiata tra la percezione e i suoi effetti sul personaggio, ma rimane fondamentale incastrare la percezione in un flusso narrativo sensato, in cui non ci sarà mai bisogno di usare il verbo percettivo.
 
Stirò il collo: il pendolo alle spalle di Alessandro segnava le quattro passate.

Il personaggio ha stirato il collo per vedere l’orologio a pendolo, e adesso conosce l’ora. Dall’azione (stirare il collo) alla sua conseguenza (la conoscenza dell’ora) senza l’inutile intermediazione del fastidioso verbo di percezione (vedere).
 
Due precisazioni, per evitare equivoci banali.

La prima: non confondere i verbi percettivi con i verbi d’azione che coinvolgono le percezioni: sbirciare, spiare, scrutare, fissare, lanciare un’occhiata – per dirne alcuni – esprimono azioni compiute dal personaggio con piena consapevolezza, intenzionalmente, e quindi si possono riportare sulla pagina. Questi verbi – a rigore – sono mattoncini [A] e non [PS]. Chiediti sempre se il personaggio ha piena consapevolezza di ciò che sta facendo, o se invece percepisce le cose all’istante, senza il filtro della sua coscienza, per discriminare tra verbi d’azione e verbi di percezione.
 
La seconda: il divieto d’utilizzo di verbi percettivi vale solo per il cosiddetto personaggio “Punto di Vista”. Siamo in uno di quei casi in cui l’apprendimento rivela il suo meccanismo circolare, per cui per capire ciò di cui si parla “adesso” dovresti già conoscere ciò che verrà “dopo”. Vediamo però di chiarirlo nel modo più semplice, con una frase estrapolata dal racconto Vita da editor.
 
Alessandro sistemò quel cumulo di carta sulla scrivania e lo osservò come fosse un escremento di Byron.

L’uso di osservò rispetta o trasgredisce il divieto di utilizzo dei verbi di percezione? Se il “Punto di Vista” fosse Alessandro  – se la storia venisse mostrata dalla prospettiva di Alessandro, se vedessimo il mondo attraverso di lui – allora il divieto sarebbe trasgredito: i verbi percettivi non possono mai associarsi al personaggio portatore del “Punto di Vista”.
 
Ma il “Punto di Vista” – in Vita da editor – è Matteo: noi conosciamo il mondo attraverso i sensi e la psicologia di Matteo, l’autore che sottopone i suoi scritti ad Alessandro, l’editor. E Matteo vede Alessandro che osserva il cumulo di carta. Non possiamo scrivere vede, ma dobbiamo scrivere ciò che vede, e Matteo vede Alessandro che osserva, quindi osservò è lecito perché riferito a un altro personaggio che cade sotto il campo visivo del “Punto di Vista”.
 
Annotiamo per completezza che ciò che Matteo vede (Alessandro che osserva) viene subito reinterpretato soggettivamente come se Alessandro avesse davanti agli occhi gli escrementi del suo gatto Byron. Siamo chiaramente in presenza di una percezione psicologica (mattoncino [PP]), una situazione in cui la realtà oggettiva (Alessandro che osserva un cumulo di carta) viene trasfigurata in base alla psicologia del “Punto di Vista” e della situazione in cui si trova (Alessandro è come se osservasse gli escrementi di Byron).

Verbi di pensiero

I verbi di pensiero sono tutti quei verbi che – con varie sfumature – esprimon l’attività cerebrale del personaggio: pensare, ragionare, riflettere, intuire, capire, congetturare, concludere

Possiamo rivenderci in blocco le argomentazioni già svolte per i verbi percettivi: i verbi di pensiero non servono, sono inutili, non aggiungono nulla.

Noi pensiamo, e la conseguenza materiale del nostro pensare è la formulazione di un flusso di pensiero, che è la sola informazione rilevante da riportare sulla pagina.

Noi pensiamo, e non pensiamo di pensare, quindi frasi del tipo penso che – se non sono collocate in una battuta di dialogo, nel mattoncino [D] – sono sbagliate.


Questo testo è una sequenza di pensieri decontestualizzati, quindi non è narrativa.
Ma se pure volessimo accettare il cosiddetto “flusso di coscienza”,
rimane il fatto che l’uso di tutti quei “penso” è inutile, e quindi dannoso.
Scrivi direttamente ciò che pensi, senza dirmi che “pensi di pensare a…”.
Quindi, giusto per capirci, scriverai qualcosa del tipo:
“I libri sono il modo meno invadente di curare il creato,
i libri sono anarchia, il mio modo di rompere le regole…”. 
 

Verbi di intenzione

I verbi di intenzione esprimono la volontà di compiere una specifica azione, talvolta ostacolata, intralciata o resa di difficile realizzazione.
 
Il bambino prova a [tenta di] camminare
 
Cosa vuol dire, esattamente? Cosa vede il personaggio? E, di conseguenza, cosa deve immaginare il lettore?

“Provare a”, “tentare di” – e altre espressioni analoghe – non corrispondono a nulla di simulabile con precisione (e tu – al solito – non vuoi che una frase sia interpretabile in n-mila modi diversi; ciò che è scritto sulla pagina deve essere perfettamente simulabile; è solo ciò che non scrivi che può essere immaginato dal lettore come meglio desidera, ma sempre in coerenza con ciò che hai scritto).

Ciò che il personaggio vede sarà – ad esempio – un bambino che barcolla, fa qualche passo, cade, piange, si rialza, fa ancora qualche passo, si appoggia a una sedia, se ne stacca, cammina ancora. Questo vede il personaggio e questo va riportato sulla pagina (se è rilevante ai fini della storia) come percezione visiva all’interno del mattoncino [PS] ([PSV], per la precisione).

Quel “prova a camminare”, al più, sarà una rielaborazione soggettiva della percezione fisica, una percezione psicologica, un mattoncino [PP], ma ora capisci perché nel modulo 10 ti invitavo a prestare attenzione all’uso di questo mattoncino: perché è facile abusarne, cadere vittime della pigrizia, e giustificare ogni cosa dicendo “eh, ma questa è una percezione psicologica, quindi va bene”.

Ti mostro un passaggio ripreso dal testo effettivo di un autore, a cui ho fatto un editing.

Beccheggio avanti e indietro col busto, perdo l’equilibrio, tento di aggrapparmi al tavolino ma urto il collo di una bottiglia. Strike! Non ne rimane in piedi nemmeno una. Quante birre mi sono scolato?

Cosa significa “tento di aggrapparmi?”. Il cervello umano non è in grado di simulare situazioni indeterminate o d’incertezza. O ti aggrappi o non ti aggrappi, e in mezzo non c’è nulla di visualizzabile.
 
Ho invitato l’autore a ragionare meglio sulla scena, a entrare nel personaggio, a vivere la situazione da dentro il personaggio, a simularla nella sua testa come se dovesse recitarla, e non riprenderla da fuori con una telecamera. Si trattava, in fondo, di rispondere a una semplice domanda: come mi sento, quando mi alzo dal divano intontito da una sbornia?

Mi gira la testa, le gambe cedono, chino in avanti il busto, appoggio il palmo della mano sul tavolino e urto una delle bottiglie col gomito: non ne rimane in piedi nessuna.

Ora sì che ci siamo. Nessun “tento di aggrapparmi”, ma il flusso di eventi come effettivamente percepito dal personaggio. Aver ragionato sulla scena, sulla situazione effettiva vissuta dal personaggio, ha fatto compiere un balzo a livello stilistico.

Ti invito a notare una sottigliezza che da sola restituisce il senso del diverso atteggiamento mentale: l’autore ha eliminato la parola strike.
 
Ovvio: il pensiero strike si addice a un contesto scherzoso, divertente, oppure a un personaggio così auto-ironico da ridere di sé stesso in una situazione dove ha rovesciato delle bottiglie di birra a casa sua, combinando un macello. Ma in una situazione simile, di regola, non si ha voglia di ridere e scherzare, non viene da pensare strike; piuttosto si hanno pensieri di stizza oppure si resta col cervello vuoto.
 
Aver ragionato sulla scena, sul personaggio, su come si sentirebbe realmente il personaggio in quella situazione, ha conferito realismo e migliorato la scrittura, perché alla fine il realismo della narrazione e la qualità della scrittura sono le due facce della stessa medaglia.

Un’ultima precisazione su un verbo borderline: iniziare.

L’espressione inizia a segnala un cambiamento di stato: inizia a piovere ci dice che prima non pioveva e ora cadono le prime gocce (con l’aspettativa che pioverà per un po’); Marco inizia a legare i cordoni ci comunica l’azione del personaggio di legare delle corde, e lascia intendere che l’operazione durerà un po’, che richiede del tempo, che non è immediata (altrimenti sarebbe Marco lega le corde); puoi creare da solo altri esempi di situazioni dove si ha un cambio di stato che induce a pensare a una certa estensione temporale di ciò che sta accadendo in scena.

Inizia a non è un’espressione vietata, però rimani guardingo sul suo utilizzo.
 
Anna iniziò a studiare

Cosa vuol dire? Possiamo mostrare l’inizio dello studio? Ovvio che sì.
 
Anna prese il libro dallo zaino e lo lanciò sulla scrivania, la tazzina e il piattino vibrarono. Raccolse i capelli in uno chignon e frugò nel portapenne. Tirò fuori una matita e un righello, un evidenziatore giallo e uno arancione. Sorseggiò il caffè e aprì a pagina 254.

5.3 L’equazione delle onde unidimensionali. 5.3.1 Condizioni iniziali e al bordo.

Sospirò e mandò giù un altro sorso.
 
Un uccellino cinguettava sul davanzale della finestra. Anna sorrise e chiuse gli occhi. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Scosse la testa e impugnò la matita.

“La (5.10) si chiama equazione delle onde (unidimensionale). Il coefficiente c (che d’ora in poi riterremo costante) ha le dimensioni di una velocita ed e infatti la velocita della perturbazione…

Se l’inizio dello studio è rilevante per la storia, allora va mostrato nei suoi atti concreti, rispetto al messaggio che si vuol mandare (in questo caso una certa indolenza); se invece non lo è, allora c’è da valutare la sua eliminazione (non serve scrivere iniziò a studiare).
 

Verbi di movimento

I verbi di movimento comunicano gli spostamenti dei personaggi: camminare, correre, attraversare, salire, scendere

I verbi di movimento non sono vietati, e non c’è motivo di proibirsi il loro uso, però bisogna fare attenzione a non inanellarne troppi di seguito, perché si rischia di creare un effetto videogioco.

Esco dall’ascensore, percorro il corridoio, giro a sinistra, torno indietro. Accidenti! Mi sa che ho sbagliato piano. Salgo le scale, apro la porta, percorro il nuovo corridoio. Dove sarà la mia stanza?


Un eccesso di verbi di movimento in sequenza – in questo caso plateale – rischia di far apparire il personaggio come un omino telecomandato, come se fosse dentro un videogioco e qualcuno lo stesse guidando dall’esterno.
 
Gli spostamenti del personaggio dovrebbero essere comunicati per lo più attraverso le sue percezioni sensoriali, le azioni e i pensieri – i mattoncini [PS], [A], [P] – perché raramente, nel mondo reale, prestiamo attenzione ai nostri movimenti, ai movimenti in sé, e siamo attratti piuttosto da ciò che quel movimento ci porta a percepire, fare o pensare.
 
Se sto correndo, ho piena consapevolezza del movimento – della corsa, dell’atto del correre – e sarà di conseguenza giustificato scrivere una frase del tipo “corro verso la fermata dell’autobus”; ma se sto attraversando il corridoio di un albergo in cui non sono mai stato, alla ricerca della mia stanza, allora difficilmente il mio movimento sarà al centro dei miei pensieri, e la mia attenzione sarà per lo più rivolta all’ambiente circostante, per cui il movimento dovrebbe risultare implicito nel flusso di azioni, percezioni e pensieri, da articolare in modo che comunichino la dinamica della scena.

Uno scampanellio mi annuncia l’arrivo al piano, le porte dell’ascensore si aprono. La moquette rossa attenua il rumore dei miei passi lungo il corridoio, file di statue greche, a destra e a sinistra, mi accompagnano nel cammino. Oh, questo non è un albergo: è una reggia! A questo giro mi è andata di culo.
 
La targhetta dorata sul muro segnala le stanze da 912 a 922. Tiro fuori la mia chiave: 936. Mi sa che ho sbagliato a girare. Affretto il passo in direzione contraria.

Chiaro, sì?

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