MODULO 8 – Parola d’ordine numero uno: “Simulare”

 
Il mondo della pagina è reale, popolato da esseri reali, quale ne sia l’origine.

Che i personaggi siano presi a prestito in tutto o in parte dalla nostra realtà, che siano di pura invenzione dell’autore o che rappresentino entità fantastiche o aliene, e che la storia sia ispirata in misura più o meno accentuata a eventi realmente accaduti nel nostro mondo, è del tutto irrilevante.
 
Perché lo scrittore – quanto meno al pronti-su-via – beneficia sempre della sospensione dell’incredulità, all’interno del patto narrativo: io, lettore, fingo che sia tutto vero, mi suggestiono per accettare la verità di quel che leggerò; tu, scrittore, devi però fare in modo che io possa seriamente credere che sia tutto vero.

E il lettore potrà davvero credere a tutto, senza limiti: crederà a una curiosa riforma del diritto di successione e a un testamento bizzarro (come nel racconto L’eredità); all’improbabile orgasmo di una ragazza presa con violenza (L’ultimo caffè); a uno sfigato così tonto da farsi fregare sistematicamente al poker (Poker d’assi); alla possibilità di rimanere a bordo di una nave da crociera anche oltre il periodo di prenotazione (Come viaggiare gratis).

Il lettore può credere a qualunque cosa, ma non crederà mai a nulla che non possa simulare quando legge.

Dalla comprensione profonda di questo fatto, peraltro elementare, dipende tutto il resto.

Il mondo è tutto ciò che accade” – scrive Wittgenstein, nel suo Trattato Logico-Filosofico – “il mondo è la totalità dei fatti, il mondo è determinato dai fatti”.
 
Va rimarcata la scelta di  Wittgenstein di presentare il mondo in una dimensione dinamica, come “ciò che accade” tempo per tempo, e non in termini statici, come “ciò che è” a un dato istante: sequenze di fatti, di eventi che accadono, di cose che succedono, che possiamo conoscere e sperimentare, e quindi simulare (quando le leggiamo).

Il mondo – qualunque mondo, reale o della pagina – è tutto ciò che accade, e tutto ciò che accade deve essere simulabile.
 
Ci conforta il parere di uno scrittore di lungo corso, semmai ne avessimo bisogno: “una storia è qualcosa che accade” in un’ambientazione che può essere “fisica, mentale, spirituale”, con l’ulteriore qualifica che deve accadere “a qualcuno al quale avete finito per affezionarvi”, “senza l’intrusione dell’autore”.

Estratto dalla “Introduzione” di John D. MacDonald ad A volte ritornano, di Stephen King.
 
La lettura di narrativa funziona così, per simulazione: gli occhi leggono parole, il cervello simula quelle parole.

Fuffi si avvicina alla quercia e alza una zampa.

I tuoi occhi hanno letto questa frase, ma il tuo cervello ha immaginato un cane (di piccola taglia) nell’atto di fare pipì. Giusto? Sì, giusto.

O forse no, nel senso che i lettori più esigenti e raffinati del blog potrebbero aver piacere di vederci chiaro, è proprio il caso di dire.


La risposta cerebrale alla lettura – ciò che accade al nostro cervello quando leggiamo una storia – ha assunto il rango di un capitolo di neuroscienze: sono disponibili – e di facile reperimento – numerosi lavori specialistici, anche se non ancora sistematizzati in corpo teorico consistente e completo.

Ogni volta che si avvia un programma di ricerca, in tutti i campi di studio, lo si fa sulla scia di intuizioni piuttosto semplici, a volte di autentiche suggestioni, che il programma può convalidare o confutare, rifinire o emendare.

Affermare che la frase:

Fuffi si avvicina alla quercia e alza una zampa.

ha creato l’immagine di un cane che fa pipì nella testa del lettore, è una cosa che suona ragionevole; ma sarebbe tutt’altro discorso, sul piano scientifico, se questa intuizione la si riuscisse a inchiodare in una risonanza magnetica funzionale.

Una frase così semplice, presa stand-alone, potrà pure produrre un micro-film mentale nitido, ma cosa ci assicura che la nostra pellicola continuerà a srotolarsi con la stessa nitidezza man mano che si procederà nella lettura, all’interno di una narrazione progressivamente più complessa in cui tutto è altamente interconnesso? E se fossimo tutti vittime – è il caso di dirlo – di una illusione ottica?

Guardiamo – per focalizzare il punto con un’analogia – al problema di stabilire se gli animali sappiano o no contare: un filone di esperimenti dimostrò che una scimmia particolarmente intelligente, di nome Sarah, se opportunamente istruita riusciva a contare… fino a 5.
 
Estratto da La voglia di studiare – Che cos’è e come farsela venire, di Massimo Piattelli Palmarini. 
 
Si rimane perplessi. “Saper contare fino a x” è un’affermazione priva di significato, perché nel saper contare è implicita la consapevolezza di un potere illimitato: se so contare fino a x, allora so contare anche fino a x+1, qualunque sia x, perché saper contare significa scrivere la sequenza “1, 2, 3, …” e saper prolungarla arbitrariamente, saper cosa mettere al posto dei puntini sin dove si desidera.
 
Si arrivò a capire che le scimmie – per quanto intelligenti e indirizzate – non contavano, ma subitizzavano.

Subitizzare è la capacità di riconoscere le quantità a colpo d’occhio, senza contarle. Se vedo tre bicchieri su un tavolo, subitizzo: capisco subito, all’istante, che sono tre, non appena cadono sotto il mio sguardo. Se invece i bicchieri fossero trenta, allora dovrei contarli uno a uno, per sapere quanti sono.

Ci si può pure allenare a subitizzare sempre meglio, a individuare quantità sempre più grandi a colpo d’occhio, ma ben presto si raggiunge un limite, e oltre una certa soglia – piuttosto bassa – non è proprio possibile andare, a meno di casi rari e comunque del tutto fuori dall’ordinario.
 

Ci sono persone affette da handicap mentali, anche molto gravi,
a cui Madre Natura ha donato capacità  straordinarie di subitizzazione,
forse a titolo di risarcimento per ciò di cui li ha privati.
I gemelli di cui parla Oliver Sacks, 
nella raccolta di casi clinici L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello –
sono probabilmente l’esempio più noto e sorprendente.
 
Cogli sicuramente da solo la distanza siderale tra il dire che una scimmia sa contare (e ha quindi un potere infinito) e dire che può essere istruita a subitizzare (che rimane una facoltà limitata, circoscritta).

E se in scrittura ci trovassimo in una situazione simile? Se la nitidezza di visualizzazione della frase:
 
Fuffi si avvicina alla quercia e alza una zampa.

non fosse altro che l’equivalente della subitizzazione?
 
Il cervello potrà pure essere in grado di “chiamare” singoli frame per creare un micro-filmato (proprio come la scimmia subitizza) ma come possiamo esser certi che sia capace di reggere un intero film?

Esistono d’altra parte individui affetti dalla cosiddetta afantasia, l’incapacità di visualizzare in testa persino la più grossolana e sgranata delle immagini. E se sulle lunghe distanze, tipiche di un libro, fossimo un po’ tutti affetti strutturalmente da una forma di afantasia?

Perfino dettagli che in pura teoria dovrebbero risultare estremamente rilevanti nonché immutabili durante la storia, non vengono recepiti in questo modo dal cervello durante la lettura” – mi ha fatto notare una lettrice del blog – “Ricordo di aver letto, nel libro Cosa vediamo quando leggiamo, di Peter Mendelsund, che gli occhi di Emma Bovary cambiano spesso colore durante lo svolgimento della storia (sono azzurri, marroni, nerissimi) e la domanda se davvero questi dettagli descrittivi siano ‘importanti’ per il lettore sorge spontanea. Il lavoro di Mendelsund mette a fuoco un punto importante: siamo davvero sicuri che le micro immagini che costruiamo nella nostra mente durante la lettura siano assimilabili a fotografie, a fotogrammi impressi in una ‘pellicola’ cerebrale? La risposta è no, non ne siamo affatto sicuri, e anzi le recenti scoperte ci indurrebbero a riconsiderare tutta la faccenda”.

Sono dubbi leciti, che diventano questioni di grande rilevanza teorica, con pesanti risvolti pratici; il loro contenuto altamente specialistico mal si concilia però con un manuale che alla fine – per quanto ricco e corposo – vuol essere una guida pratica. Magari, in una espansione successiva, valuterò se aggiungere un’appendice in cui accogliere quest’argomento e altri simili, con tutti i loro tecnicismi.

Qui – al nostro entry-level – dobbiamo seguire una linea pragmatica, di massima semplicità.

 
Che il mondo sia buono, o malvagio, o semplicemente stupido, che la vita sia fatta per esser goduta o spesa come un dovere, o magari soltanto subìta come un fastidio che cesserà, che abbia un senso o nessun senso, che il mondo dipenda da un ordine o sia prodotto dal caso, che consista tutto nella sua apparenza o nasconda un significato ed un compimento altrove, queste son affermazioni fondamentali, indimostrabili, eppure assolute per ciascuno di noi”.

In molte le cose della vita – ci ricorda Prezzolini, nel suo Saper leggere – ci sono affermazioni fondamentali, indimostrabili, eppure assolute; ma noi, qui, ci ritroviamo con vantaggi significativi, rispetto a questa posizione estrema.
 
“Gli occhi leggono, il cervello visualizza” è ben di più di una verità indimostrata e indimostrabile, da accettare senza discutere; traduce ciò che anche solo inconsciamente proviamo a fare ogni volta che ci accostiamo alla lettura di narrativa; è corroborata da numerosi studi empirici e nessuna evidenza è riuscita sinora a confutarla (per quante zone d’ombra possano ancora rimanere).

Ne potremmo pure discutere nel merito, ma… sappiamo farlo? Quanti noi, qui, hanno sufficienti conoscenze neuro-scientifiche da imbarcarsi in una discussione seria sull’argomento? Nessuno, ovviamente.

Se provassimo a seguire questa linea, finiremo probabilmente col fare due cose.

La prima: scrivere la trecentesima recensione di Reading Stories Activates Neural Representations of Visual and Motor Experiences, uno studio del 2009 di Nicole Speer, citato come uno dei più completi e precisi sugli effetti della lettura sul cervello.

Questa immagine è l’equivalente dellicona del santino nel portafoglio

La seconda: scrivere la trecentesima recensione del libro La scienza dello storytelling di Will Storr, la migliore analisi a oggi disponibile sul cervello umano come “processore di storie”.
 
Io ti suggerisco caldamente di leggerlo.
Anzi no: fa pure come vuoi.
Poi però non dire che non te lo avevo suggerito.

Ma siccome, appunto, ci sono già 299 recensioni tutte uguali – al netto della punteggiatura – è inutile aggiungere la trecentesima; e a più forte ragione non ha senso proporre una rassegna della letteratura esistente (che puoi recuperare da solo, in rete, con una paziente ma non difficile ricerca).
 
Qui faremo altro: daremo pure alle nostre controparti scettiche tutto il vantaggio che desiderano, toglieremo valore alla nostra posizione innalzandola formalmente – ma declassandola intellettualmente – a livello di postulato.
 
Il metodo del postulare quello che vogliamo ha molti vantaggi” – annotava sarcasticamente Bertrand Russell – “Sono gli stessi di un furto sul lavoro onesto”.

Ci siamo quindi volutamente messi in una posizione intellettuale apparentemente complicata da difendere, sebbene – come hai visto – avessimo abbondanza di argomentazioni per sostenere la nostra tesi. O meglio: abbiamo scelto una posizione che richiede una linea di difesa eterodossa, diversa dall’ordinario.

Perché – chiariamolo – i postulati non sono dogmi: chiediamo sì di accettarli senza dimostrazione, ma non significa – a differenza dei dogmi – che non si possano discutere (e anzi la loro analisi critica è uno dei passaggi cruciali di ogni costruzione formale).
 
Trasformiamo pure “gli occhi leggono, il cervello visualizza” in un postulato, d’accordo, e discutiamolo pure.
 
Quale postulato sarebbe, se stessimo parlando di matematica? Io non avrei dubbi: il quinto della Geometria Euclidea.

Il quinto postulato – il postulato delle parallele, nella versione popolare – afferma che assegnata una retta e fissato un punto esterno ad essa, esiste una e una sola retta passante per il punto fissato e parallela alla retta data.

Suona ovvio –  così, a intuito – perché non sembra poter essere altrimenti, perché proprio non riusciamo a vedere altre rette parallele oltre all’unica che si afferma esistere.

Però i matematici sono stati sempre insofferenti verso il quinto postulato, perché la sua formulazione assomiglia più all’enunciato di un teorema che non a una verità da accettare senza discussioni, chiamando in causa delle rette, oggetti geometrici di estensione infinita, impossibili da osservare nella loro interezza.

Per secoli si è tentato di dimostrare il quinto postulato a partire dai primi quattro, e tentativo dopo tentativo si è arrivati a dimostrare che… il quinto postulato  non è dimostrabile, che è indipendente dagli altri quattro, che non ci sarà mai modo di cavarlo fuori, come teorema, da ciò che si è già supposto per vero.

Pazienza, si dirà, teniamocelo come postulato, se proprio non riusciamo a declassarlo a teorema. Senonché le cose sono un filo più complesse. Con un ragionamento tutto sommato semplice, e puramente visivo, si può creare una wonderfull confusing nelle nostre intuizioni più semplici, dando per vero il quinto postulato. Se la cosa ti interessa, la trovi qui.

Estratto da Il teorema del pappagallo, di Denis Guedj.

Puoi ridere anche tu del quinto postulato, insieme alla variegata umanità che si aggira intorno alla libreria parigina “Mille e una pagina”, nel bel romanzo di Guedj.

Ma prima dovresti chiederti, come minimo, dove porta questo atteggiamento non-euclideo: stai davvero sostenendo una posizione intellettuale o solo difendendo un pregiudizio ideologico per puro spirito di contrapposizione?

Perché, sai, neppure in matematica – che gli ignoranti affermano “non essere un’opinione” – esiste quella verità che stai cercando, ma semplicemente una comodità di pensiero e una convenienza d’utilizzo.
 

Estratto da La scienza e l’ipotesi, di Henri Poincarè.

Prima di gettare alle ortiche il nostro equivalente del quinto postulato – “gli occhi leggono, il cervello visualizza” – domandati almeno se ti conviene farlo, cosa hai da guadagnare e cosa rischi di perdere, con la stessa razionalità con cui Pascal scommetteva sull’esistenza di Dio.


Tra il cielo e la terra, fra il finito e l’infinito, fra l’eternità e un istante, non c’è proporzione: sono grandezze incommensurabili, direbbero i matematici. E allora perché sei così ben disposto ad azzardare, per i più futili motivi, il cielo per la terra, l’infinito per il finito, il tutto per il niente?
 
Nell’accettare la verità del nostro quinto postulato – a differenza delle discussioni su internet – hai molto da sperare e poco da temere.
 
Non stiamo comandando nulla a cui sia folle obbedire: la tendenza a visualizzare è innata, ragioniamo naturalmente per immagini, basta pensare che ne creiamo di nostra iniziativa anche per cose che non ne ammettono.

Dio e la Morte.
Tu li hai mai visti?
No, ovviamente.
Eppure li visualizzi lo stesso.

Muoviamo da un’ipotesi già ragionevolissima – data la nostra esperienza di lettura e le indicazioni di base delle neuroscienze – e il nostro impegno sarà allora nel dargli ancora più forza, agendo su ciò che possiamo controllare: la modalità di scrittura.
 
Se “perfino dettagli che in pura teoria dovrebbero risultare estremamente rilevanti nonché immutabili durante la storia, non vengono recepiti in questo modo dal cervello durante la lettura”, allora, forse, conviene interrogarsi sulla possibilità di bypassare il problema attraverso la scrittura, piuttosto che dubitare della capacità del cervello di visualizzare come dovrebbe; conviene cioè aiutare il cervello a visualizzare sempre meglio grazie a una scrittura migliore, che possa restargli più impressa, anziché dichiarare la resa solo perché la nostra tesi non supera tutte le verifiche empiriche.

Se “gli occhi di Emma Bovary cambiano spesso colore durante lo svolgimento della storia” e se questo cambiamento pone la questione “se davvero questi dettagli descrittivi siano importanti per il lettore”, al punto da mettere in dubbio che “le micro immagini che costruiamo nella nostra mente durante la lettura siano assimilabili a fotografie”, allora noi dovremo ribaltare i termini del problema, per depotenziarne i possibili risvolti indesiderati: tutto ciò che scriveremo dovrà essere percepito massimamente importante dal personaggio, e di riflesso per il lettore, perché ciò che è realmente percepito della massima rilevanza si vede meglio e resta meglio impresso in testa.
 
E poi, vedi, al di là di tutto, il punto filosoficamente rilevante non è nel sapere cosa è vero e cosa è falso – distinzione manichea destinata a sfuggirci in eterno – ma cosa diventiamo noi, in cosa ci trasformiamo, nel credere vera una certa cosa e falsa un’altra, cosa guadagniamo o perdiamo, spiritualmente e intellettualmente, nel conformare la nostra condotta a una tesi che assumiamo vera e a tenerla distante da una che riteniamo falsa.

E  il gioco delle probabilità, te lo ripeto, è tutto a tuo favore.

La scrittura dei mattoncini – come la chiameremo dal prossimo modulo – presume il quinto postulato, e la scrittura dei mattoncini ti trasformerà in una persona migliore.

Sì, hai capito bene: in una persona migliore – più attenta, scrupolosa, precisa, raffinata – e non solo in un bravo scrittore, in uno scrittore nel senso moderno del termine.

Perché la scrittura dei mattoncini – basata sul quinto postulato – ti richiederà uno sforzo di testa, di cuore e di nervi, che sulle prime potrai maledire, perché sconosciuto ad altri approcci alla scrittura, ma che presto amerai e da cui non riuscirai più a separarti, per la quantità di spunti di riflessione, di suggestioni, di stimoli, di collegamenti, rimandi e agganci che sarà capace di produrre a getto continuo. E sarà così che la scrittura dei mattoncini) si rivelerà per quel che è in fondo ogni cosa rilevante nella vita: un pretesto – un semplice pretesto – per migliorarsi, un antidoto contro la presunzione, la vanità, l’ego, la vanagloria, e tutte le altre erbacce così facili a sbucar fuori nell’animo umano (soprattutto quando ci si  è messi in testa di essere degli scrittori).
 
Forse non saremo nelle stesse condizioni di Pascal, con “un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare”, ma il calcolo di convenienza ci è così smaccatamente favorevole che dovrebbe comunque troncare ogni incertezza, azzerare ogni esitazione: semplicemente, “bisogna dare tutto”.
 
Mia nonna nacque il 12 settembre 1918 e visse 96 anni.
Arrivò in punto di morte con un’impressionante lucidità di pensiero e parola,
e “solo un po’ di stanchezza fisica”, come diceva nei suoi ultimi giorni di vita.
Ebbe due sorelle, un fratello, un marito, e poi cinque figli
che le diedero dodici nipoti, da cui arrivarono cinque pronipoti.
E quando hai così tanta gente intorno, ne vedi di cose nella vita,
dalle più tremende – la perdita di un figlio – sino alle più belle.
E in ogni cosa – tremenda o meravigliosa – mia nonna ebbe un punto fermo:
la convinzione che Dio fosse dalla sua parte, sempre, qualunque cosa accadesse.
Non esistevano, per lei, eventi brutti o dolorosi:
c’era solo una volontà divina che non riuscivamo a decodificare.
“Quel che fa Dio, è sempre ben fatto”.
E la sua tranquillità diventava l’impegno di tutti noi a restare calmi,
a non lagnarci, a non imprecare, a non maledire, a non sperperare energie,
a concentrarle piuttosto nell’affrontare ciò con cui Dio ci stava mettendo alla prova.
E così ogni situazione complicata si risolveva in tempi rapidi e in modi sorprendenti,
proprio perché affrontata con una lucidità che proveniva tutta e solo dalla sua calma,
e quindi, in ultima analisi, dalla sua fede in Dio.
Di fronte agli eventi belli, gioiosi, ripeteva una formula che ci faceva sorridere.
“Non siamo degni di ringraziare il Signore”.
E gli eventi belli diventavano molto più che delle semplici situazioni favorevoli,
si caricavano di una dimensione trascendente, metafisica, soprannaturale,
che ce li faceva vivere con una pienezza di significati altrimenti irrealizzabile:
era la volontà di Dio che si manifestava in un modo a noi comprensibile.
Mia nonna morì il 15 maggio 2014.
Dove sarà ora?
In comunione con quel Dio in cui ha creduto fermamente per tutta la vita?
Oppure sottoterra, trasformata semplicemente in cibo per i vermi?
Boh! Chi può dirlo?
Ma sai che c’è? Che non ha nessuna importanza.
Perché la sua fede in Dio è diventata un modello di comportamento
che per 96 anni l’ha fatta vivere – letteralmente – “in grazia di Dio”,
a prescindere dell’esistenza o meno di quel Dio in cui credeva.
La sua scommessa (di Pascal) l’ha vinta comunque,
qualunque cosa sia successa dopo il 15 maggio 2014.
La sua vita mi ha lasciato questo insegnamento, che ho piacere di condividere:
l’insistenza nel dimostrare qualcosa rischia di sviare dalla questione davvero rilevante,
e cioè capire cosa si diventa se la si creda vera, e cosa si diventa se la si crede falsa.
  
Gli occhi leggono parole, il cervello simula quelle parole, e se la simulazione si inceppa o va a rilento, se diventa incongruente o addirittura impossibile, ecco che l’autore – il dio creatore – compare nel mondo della pagina, ecco che il lettore si ricorda di stare solo leggendo una storia che qualcuno gli sta raccontando, ecco quindi che viene meno il patto narrativo: quello che tu scrittore mi stai raccontando è “finto”, e rimane finto anche se  preliminarmente ti sei premurato di precisare che è “tratto da una storia vera”.

Una storia non diventa vera perché l’autore ci avverte della sua verità (“ehi, è vera, te lo giuro, te lo giuro: è vera!”) ma è vera se e solo se sembra effettivamente vera. D’altra parte, se bastasse dire “tratto da una storia vera” per creare un coinvolgimento emotivo, allora potremmo dirlo sempre, a prescindere, anche quando non lo è, tanto il lettore cosa ne sa se è vera o no, ti pare? 
 
La storia deve sembrare vera: questo è tutto.

E la sensazione di verità richiede – in via preliminare, come prerequisito – di poterla simulare senza sforzo, perché – ripetiamolo – il lettore non crederà mai alla verità di qualcosa che si svolge in un modo che non può simulare in fase di lettura.

Deve sembrare vera significa – prima di tutto – che deve essere facilmente simulabile e percepita massimamente coerente.

Riprendiamo la prima frase del racconto L’ultimo caffè (rewriting).

Suono al citofono della troia, lascio il dito piantato sul pulsante.

È simulabile? Sì, lo è. Il lettore ha visualizzato qualcuno (con ogni probabilità un personaggio di sesso maschile, anche se il testo non lo dice) nell’atto di schiacciare il pulsante di un citofono, e lo vede col dito che rimane schiacciato lì.

È un gesto che tutti compiamo di continuo (quello di citofonare) e quindi non fatichiamo a simularlo, a immaginarlo nella nostra testa. Così come sarà capitato anche a noi (non sempre, ovviamente, ma qualche volta sì) di restare col dito piantato sul pulsante (e forse, quando lo abbiamo fatto, abbiamo persino sentito il rumore prolungato, anche se non eravamo in casa, perché consapevoli del rumore che stavamo creando con il tasto premuto). Di nuovo: siamo in grado di capire all’istante cosa sta accadendo nel mondo della pagina, di simulare senza fatica.

Sfruttiamo l’occasione per registrare un altro punto rilevante. Il lettore sa dove si trova, è localizzato: si trova – con tutta evidenza – davanti a un qualche edificio. Lo scrittore non ha detto altro (per il momento); gli basta (per il momento) che il lettore abbia una prima localizzazione grazie a questa frase. Il lettore sa di trovarsi davanti a una qualche palazzina, sa che sta citofonando, e sa che il suo obiettivo è andare a casa “della troia”.

Far capire – già nella prima frase – chi è il personaggio, dove si trova e qual è il suo obiettivo è segno di grande eleganza narrativa; poi, quando si diventa bravi, si riesce a fare pure un’altra cosa: mettere curiosità.

La frase:

Suono al citofono della troia, lascio il dito piantato sul pulsante.

è potente ed elegante, se riesaminata in questa prospettiva.

Quel “della troia”, unito al dito piantato sul pulsante, veicola un elemento fondamentale di ogni storia: il conflitto.

Questa frase – diciamolo per completezza – soffre pure di un limite notevole, che però riguarda la parte di sceneggiatura. Il senso lo puoi cogliere anche a intuito, se rifletti sul deficit di informazioni in cui si trova il lettore.
 
L’idea generale della provocazione non suscita alcuna simpatia per la collera di colui che l’ha subita” – scrive Adam Smith, nella Teoria dei Sentimenti Morali – “Sembra che la Natura ci insegni a essere contrari alla condivisione di questa passione e, finché non ne conosciamo la causa, a schierarci piuttosto contro di essa”. Rimaniamo emotivamente distanti da un personaggio aggressivo finché non conosciamo le ragioni della sua aggressività, perché le emozioni negative “non ci dispongono a simpatizzare con esse prima che veniamo informati della causa che le suscita […]. La rauca, violenta e stonata voce della collera, quando viene udita a distanza, ci ispira paura e avversione. Non ci fa correre verso di lei, come si corre verso una voce che grida di dolore e angoscia. Le pure espressioni di rancore ispirano odio solo contro chi le manifesta. […]. La loro apparenza spiacevole e violenta non suscita mai, non prepara mai, e spesso anzi disturba, la nostra simpatia”. 

Qui vediamo un personaggio animato da un risentimento violento, percepiamo un atteggiamento rude, di quelli che separano gli individui, perciò complicati da comunicare e condividere. Abbiamo sicuramente un problema di empatia in questa frase, ma dal punto di vista della pura scrittura rimane un esempio ottimo: sappiamo dove siamo (davanti a una palazzina, a un condominio); riusciamo a congetturare l’identità del personaggio (verosimilmente un uomo), sappiamo qual è il suo obiettivo (andare a casa “della troia”); e, da lettori, siamo incuriositi sul seguito della storia (perché si palesa un conflitto).

Ogni lettore – nel leggere la frase – evocherà nella sua testa un qualche palazzo, un qualche condominio, e ognuno si immaginerà qualcosa di diverso, a seconda dei palazzi o dei condomini che ha in testa, ma la rilevanza sta nel fatto è che tutti i lettori immagineranno un palazzo o un condominio (anche se diversi tra loro). Tutti i lettori stanno iniziando a partecipare al testo.

Proseguiamo.

Suono al citofono della troia, lascio il dito piantato sul pulsante.
 
Il portoncino fa uno scatto, si apre. Lo spingo e percorro il vialetto alberato a passi veloci. Forza, chiudiamo questa storia del cazzo una volta per tutte.

Cosa accade? Semplicemente quel che deve accadere, per mantenersi coerenti con ciò che è successo sinora: il portoncino fa uno scatto e si apre, altra cosa perfettamente simulabile (magari abbiamo pure sentito il click dello scatto) perché, di nuovo, sperimentata migliaia di volte da tutti noi.

Il personaggio entra e percorre un vialetto alberato. Ecco che compaiono alcuni elementi di luogo – il vialetto, gli alberi – che arricchiscono l’ambientazione e ci dicono che siamo in un posto dove, evidentemente, c’è un primo portoncino e poi un giardino o un parchetto condominiale che il personaggio sta percorrendo. Ognuno potrà raffigurarsi le cose come meglio crede, all’interno della cornice narrativa delineata dallo scrittore.

E, visto che ci siamo, anticipiamo un punto di grande rilevanza che riprenderemo nel modulo 18C: non c’è nessuna telecamera esterna che inquadra il luogo e il personaggio, in stile cinema. C’è solo un personaggio che ha piena consapevolezza delle azioni che compie (suonare con insistenza il citofono, percorrere un vialetto alberato) ed è proprio tramite questa naturale interazione tra il personaggio e il luogo che il lettore viene a conoscenza di come è fatto il luogo, ed è grazie al mix di pensieri e azioni del personaggio in quel luogo che il lettore viene a conoscenza del suo stato d’animo. Nessuno sta raccontando niente a nessuno: lo scrittore – il dio creatore – non si vede; si vede solo un personaggio che agisce, percepisce e pensa, si vedono solo cose che accadono, all’interno di un flusso di vita coerente e simulabile.

Il pensiero:

Forza, chiudiamo questa storia del cazzo una volta per tutte.

ci palesa (e ci conferma) lo stato d’animo bellicoso del personaggio: un pensiero astioso, massimamente coerente con tutto quel che viene prima (“citofono alla troia”, “dito lasciato sul pulsante”, “passi veloci” di chi vuole sbrigarsi). Vediamo confermato il conflitto, vogliamo sapere qual è “la storia a cui bisogna mettere fine” a cui si riferisce il pensiero del personaggio. Siamo incentivati a proseguire nella lettura.

Suono al citofono della troia, lascio il dito piantato sul pulsante.
 
Il portoncino fa uno scatto, si apre. Lo spingo e percorro il vialetto alberato a passi veloci. Forza, chiudiamo questa storia del cazzo una volta per tutte.

La signora Luisa arranca verso di me, ricurva, appoggiata a un bastone e col barboncino al guinzaglio.

«Buon pomeriggio, Valerio! Stai andando da Laura, sì?»

Abbozzo un sorriso e me la lascio alle spalle. Sì, vado dalla troia.

Il personaggio vede sul vialetto la signora Luisa, ricurva, appoggiata a un bastone e col barboncino al guinzaglio.

Questi dettagli concreti riferiti alla signora Luisa – l’essere ricurva e appoggiata al bastone, elementi facilmente visualizzabili – ci trasmettono la sensazione di una signora anziana, di una vecchietta.

La parole “vecchietta” o “anziana” non compaiono sulla pagina, ma nella testa del lettore si è proprio formata l’immagine di una vecchietta. D’altra parte, le parole “vecchietta” e “anziana” sono vaghe, generiche (cosa dovremmo immaginare?). Le parole “ricurva” e “appoggiata a un bastone” sono specifiche, concrete (sappiamo cosa vedere). Tutti, leggendo “ricurva” e “appoggiata a un bastone”, capiscono che si tratta di una vecchietta, e ognuno evocherà nella propria testa l’immagine di una vecchietta, e ne completerà le fattezze, l’aspetto fisico, in base alla propria esperienza sull’aspetto delle signore anziane. Il barboncino – di nuovo: non un generico “cane”, ma un barboncino, che il personaggio riconosce come tale e così dà al lettore la possibilità di vedere qualcosa di specifico – non è un elemento caratteristico di una signora anziana, ma è pur vero che una signora anziana con un cane di piccola taglia è un quadretto abbastanza tipico.
 
Il personaggio, poi, non vede una generica signora ricurva e appoggiata a un bastone. Il personaggio vede “la signora Luisa” perché lui – il personaggio – la riconosce. Per intendersi: è come se tu incontrassi la tua vicina di casa, poniamo si chiami Fabiana, con cui sei in confidenza. Se la incontri – sul pianerottolo, nel giardino condominiale, al bar o in qualunque altro luogo – tu non vedi una generica, anonima, sconosciuta “vicina di casa”. Tu vedi Fabiana, percepisci Fabiana. Perché la conosci e la riconosci.

Quindi, il nostro personaggio riconosce ciò che vede e lo percepisce col suo nome.

Il dialogo tra i due è veloce e di contenuti espliciti apparentemente piatti, ma solo apparentemente: c’è una forza che è tutta nel cosiddetto sotto-testo.

E cosa ci dice il sotto-testo? Cosa stiamo presupponendo, per scrivere un dialogo di quel tipo?

È ovvio che quello scambio di battute può avvenire solo tra persone che si conoscono, e pure bene.

Il personaggio ha riconosciuto la signora Luisa, la signora Luisa ha riconosciuto il personaggio, la signora Luisa gli chiede se sta andando a trovare Laura (“la troia” adesso ha un nome) e tutto questo ci fa capire – anche solo inconsciamente – che il personaggio è un habitué del condominio; non è casa sua, ma con tutta evidenza frequenta il luogo da tempo, se uno dei condomini (la signora Luisa) lo conosce per nome e sa pure che è il fidanzato di Laura.
 
Da nessuna parte, nel testo, si dice esplicitamente che Valerio e Laura sono fidanzati, e da nessuna parte si dice che Laura ha tradito Valerio; è la dinamica complessiva della scena, dall’inizio sino al punto in cui siamo arrivati, a renderlo chiaro. Di nuovo: nessuno sta raccontando niente, lo scrittore – il dio creatore – non si vede; c’è solo un personaggio che pensa, agisce, percepisce, interagisce con altri personaggi, e torna a pensare e ad agire; si vede solo tutto ciò che accade, all’interno di un flusso di vita coerente e simulabile, e da questa simulazione il lettore capisce cosa sta accadendo nel mondo della pagina.

Abbiamo così passato informazioni rilevanti al lettore, dall’interno della storia stessa, come conseguenza di ciò che i personaggi fanno spontaneamente nella situazione in cui lo scrittore, il dio creatore, li ha messi, senza mai invadere la pagina per spiattellare al lettore che “Valerio stava con Laura da cinque anni, e per cinque anni era andato a casa sua tutti i week-end, poi però Laura lo ha tradito a causa delle sue continue indecisioni sul loro futuro, e allora bla-bla-bla…”.

E la storia va avanti così, con parole che diventano immagini, suoni, odori, sapori, sensazioni, pensieri, dialoghi, e la sequenza narrativa crea il film mentale nella testa del lettore, che a tutti gli effetti sta mettendo in scena la storia, la sta vivendo come se fosse vera.

E ora – per confronto – prendiamo questa frase con cui si apre un racconto pubblicato su una piattaforma di scrittura (e poi confluito in un libro giunto alla gloria della pubblicazione).

Quel due novembre, il trambusto domestico aveva il brio di una scampanata a festa.
 
Che vuol dire? Cosa devo immaginare?

C’è una bambina che corre per tutta la casa, con una gonnellina rossa svolazzante? Ce n’è un’altra, senza i denti davanti, che salta sul divano con gli occhi di fuori e le trecce bionde che fanno su e giù? Ce n’è una terza che strattona il maglione della mamma per richiamare la sua attenzione? C’è una mamma che l’accarezza e le chiede di aspettare, perché deve finire di preparare le frittelle? C’è un papà che osserva sorridente tutta la scena?

Cosa devo immaginare? Cosa. Devo. Immaginare.

Ah, beh, non lo so: dai, su, tanto hai capito, no? Ti sarà capitato di vivere un “trambusto domestico”, saprai cos’è una “scampanata a festa”; dai, su, non essere polemico come al solito: hai capito benissimo quel che lo scrittore voleva dire…

E invece no. Non ho capito nulla. Perché non so cosa devo immaginare. Dov’è l’esperienza reale del personaggio, vissuta qui e ora? Dove sono i dettagli specifici, vividi, concreti? Dove sono gli equivalenti del citofono, del pulsante, del dito, del vialetto alberato, della signora Luisa ricurva, del bastone, del barboncino? La scrittura è fatta di dettagli. Dove sono i dettagli? Dove sono le cose che posso visualizzare all’istante, le cose che accadono e che il lettore può simulare senza sforzo?

Siamo esattamente nel caso – denunciato da Pontiggia e discusso nel modulo 6 – in cui vogliamo “evocare una esperienza che è associata a una miriade di aspetti, di particolari, di dettagli, che concorrono alla sua ricchezza emotiva”, solo che, non padroneggiando gli artifici e le convenzioni della parola scritta, accade che “non solo non riusciamo ad evocarli, ma che addirittura li eludiamo, li dimentichiamo, proprio perché li diamo per acquisiti”. Sprovvisti di principî, regole e tecniche di scrittura – e quindi del controllo della pagina – “finiamo per dare come presupposto quello che il lettore ignora perché non glielo abbiamo detto”. Semplicemente, “la nostra memoria integra inconsapevolmente quello che la pagina non dice”. Peccato, però, che se la pagina non lo dice, il lettore non può immaginarlo.
 
Rifletti, per l’amor del cielo! È solo perché ciò che sta esplicitamente scritto sulla pagina può essere simulato senza sforzo, che il cervello del lettore può poi attivarsi per simulare, da solo, tutto quello che sulla pagina non sta scritto, e partecipare così alla creazione della storia.

Ma se invece tu – scrittore, dio creatore – obblighi il cervello del lettore a sforzarsi di simulare persino quello che sta scritto esplicitamente, se non gli dai nessun elemento reale, concreto, specifico, vivido, che sia da innesco immediato alla simulazione complessiva, allora il cervello del tuo lettore si stancherà, sì, ma non della stanchezza che vogliamo noi (positiva, bella, rigenerante, per aver vissuto la vita di un altro) bensì di una stanchezza della peggior specie (snervante e deprimente, per aver dovuto simulare il “trambusto domestico” e “il brio di una scampanata a festa”, per aver dovuto decodificare da solo, in dettagli concreti, il significato di queste frasi vaghe).

La scrittura di buona narrativa moderna è fatta tutta e solo di cose specifiche, concrete, precise, vivide, visualizzabili. Perché sono queste le uniche cose che il cervello riesce a capire, perché sono queste le uniche cose capaci di attivare la simulazione di ciò che si trova sulla pagina, e in definitiva di far partecipare attivamente il lettore alla storia, di viverla dal di dentro, e non come semplice spettatore.
 
E ora è il momento di tradurre il tutto in un modello operativo di scrittura.

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