Modulo 18C – La scrittura non è il cinema

  
La pagina scritta deve essere simulabile, o per dirlo in modo più colorito, recitabile sul palco di un teatro o su un set cinematografico: la storia è ben scritta se è visualizzabile “istante per istante”, se puoi metterla in scena mentre la leggi, se puoi crearti il tuo film mentale su quel che sta accadendo nel mondo della pagina.

Il requisito della recitazione induce spesso una domanda, se vogliamo anche legittima, ma potenzialmente equivoca: se la lettura deve evocare immagini chiare, vivide, precise, e se la sequenza di immagini crea il film narrativo, vuol dire che si deve scrivere come se si stesse girando un film, come se lo scrittore fosse un regista?

Risposta secca: no, assolutamente no.

Perché il cinema e la scrittura – lo avresti mai detto? – sono due media diversi, quindi sono diversi i tecnicismi di esecuzione, anche a parità di intenti.

Dirò cose semplici, ma ti invito a leggerle con attenzione, perché i concetti cosiddetti “complicati” altro non sono che concatenazioni di concetti semplici, e se ti sembrano “complicati” (difficili da capire) è solo perché non hai chiari i concetti semplici che li vanno a formare.
 

 
Muovo da un’osservazione elementare: cinema e scrittura lavorano entrambi per immagini, ma il cinema le mostra direttamente agli occhi dello spettatore, laddove la scrittura le evoca tramite le parole.

E già qui si registra una prima frattura.

Un’inquadratura cinematografica di pochi secondi farà cadere una moltitudine di dettagli sotto lo sguardo dello spettatore, che percepirà all’istante il senso della scena. Spettatori diversi potranno essere attratti da dettagli diversi, ma sicuramente tutti vedranno la stessa immagine, in cui sono contenuti una complessità e un intreccio di elementi percepibili solo grazie alla vista.
 
Osservatori diversi noteranno dettagli diversi, in questa immagine.
Un uomo sarà forse colpito dalle curve della ragazza, messe in risalto dal vestito.
Una bambina potrebbe essere attratta dal vestitino in sé o incuriosita dai piedi scalzi.
Una signora anziana percepirà magari il lavatoio e i muri della casa,
che le ricorderanno la campagna dove trascorreva l’estate da giovane.
Ognuno noterà cose diverse, in base ai suoi interessi, alla sua sensibilità, al suo vissuto,
ma tutti hanno sotto gli occhi la stessa immagine, con tutta la sua ricchezza di dettagli.
 
In scrittura, per contro, può essere evocato solo ciò che è presente sulla pagina (il testo) e ciò che si riesce a suscitare attraverso l’iceberg di Hemingway (il sotto-testo): tutto il resto il lettore non lo vedrà mai.
 
E sulla pagina non puoi ovviamente riportare tutto, come al cinema. Il vincolo di spazio ti impone  delle scelte nette: selezionare pochi dettagli, i migliori, e disporli nel giusto ordine, affinché il lettore possa poi completare il quadro da sé, nella misura del possibile (e, al solito, sarà la conoscenza di ciò di cui stai scrivendo a suggerirti i dettagli più adatti e il loro ordine di presentazione).
 
Una scrittura che volesse produrre la stessa quantità di immagini del cinema – attraverso il testo e il sotto-testo, in un malinteso senso di competizione – sarebbe perdente in partenza, drammaticamente perdente, lasciami dire.
 
Bisognerebbe scrivere pagine e pagine… per far cosa? Per portare l’occhio della mente (del lettore) a “vedere” un paesaggio che il cinema restituirebbe in un istante all’occhio fisico (dello spettatore)?

Restiamo seri, per favore.


Davvero ti illudi di poter riprodurre esattamente questa realtà nel mondo della pagina?
 
È un suicidio artistico sfidare il cinema sul suo terreno di elezione, sulla capacità di trasmettere delle immagini, perché la differenza tra vedere ed evocare sta proprio nella velocità con cui le cose entrano in testa: quando ce le propone il cinema le vediamo all’istante, le vediamo punto e basta; quando le leggiamo sulla pagina le dobbiamo decriptare.

Il cinema è veloce, la lettura è lenta – per dirlo con uno slogan – e questo spiega perché un libro “un po’ lento” (o “pesante” come spesso si dice) può ancora risultare complessivamente gradevole, mentre un film lento è insopportabile: perché in un caso la lentezza è intrinseca al media, nell’altro vi è estranea.

D’accordo, il cinema riversa sullo spettatore una quantità di immagini, di particolari e di dettagli, incommensurabili con quelli che anche la miglior scrittura può rendere. Ma il cinema – per quanto eccellente – non potrà mai trasportare la mente dello spettatore in “un altrove”, in uno stato psico-fisico differente, dentro un personaggio. Non può riuscirci perché ricorre a una telecamera esterna alla storia, che inquadra cioè la storia da fuori per portarla a conoscenza dello spettatore, il quale rimane un soggetto terzo rispetto a ciò che vede (per quanto lo possa appassionare). 
 
Ti propongo un semplice esempio, per mettere a nudo il concetto.

Immagina di essere un uomo a cui piacciono le donne formose, anche cicciottelle o abbondanti, belle piene ovunque. E ora immagina che il protagonista del film abbia invece un debole per le donne magrissime: devono essere dei “manici di scopa”, altrimenti non gli trasmettono nulla. La scena sullo schermo ti mostra il protagonista in un pub, con gli amici, quando entra una ragazza “manico di scopa” che lo lascia imbambolato, suscitando l’ilarità della compagnia. Benissimo, ma tu spettatore cosa vedi? Vedi una ragazza magra come un manico di scopa, e, accidenti, proprio non capisci come il personaggio possa trovarla attraente, visto che a te una donna non dice nulla se non ti fa ombra quando ti si piazza davanti. Il personaggio è il personaggio, e tu sei rimasto tu: non c’è modo di capire, anche solo alla lontana, come possa eccitarlo un manico di scopa, quando per te non può essere vero amore sotto un certo tot di chili.

L’esempio è banale al limite dell’imbarazzante, ma è volutamente concepito così, affinché tu ne possa produrre di migliori, magari passando in rassegna tutti i film che hai visto, e riflettendo sulla ineliminabile distanza che vi era ogni volta fra te e il protagonista.
 
La telecamera cinematografica è “democratica”, non nel senso che rende uguali tutti i personaggi – protagonista, antagonista e alte figure si situano ovviamente su livelli differenti – ma nel senso che colloca tutti i personaggi in una realtà inaccessibile allo spettatore, di cui può avere conoscenza solo osservandola da fuori, come allo zoo potrebbe osservare le gabbie che accolgono tigri e leoni.  
 
La telecamera dello scrittore – se vogliamo chiamarla così – è invece nel “Punto di Vista”: la scrittura inquadra il mondo attraverso gli occhi del “Punto di Vista”, in accordo con la sua sensibilità, e sono quindi occhi molto particolari, che a volte vedono la realtà così com’è, ma più spesso la filtrano attraverso la psicologia del personaggio, e ti consentono di cogliere la sua interiorità, di qualificare le sue azioni e le sue parole in ragione del suo profilo caratteriale, ti permettono – in due parole – di essere lui, ti portano dentro gli spazi destinati a tigri e leoni.
  
Questo enorme e impareggiabile vantaggio ha però un prezzo: ciò che tu autore puoi scrivere è solo ciò che il personaggio può realisticamente vedere, ciò che cade sotto il suo campo visivo.
 
Al cinema puoi inquadrare un’astronave dall’esterno, mostrarla ad esempio tra Giove e Saturno, e poi passare all’interno, con l’inquadratura dell’intera plancia di comando, così da rendere il senso di luogo della tua bella storia di fantascienza.

Ma cosa sarebbe – in scrittura – l’immagine dell’astronave tra Giove e Saturno? Chi la sta osservando? Dove mai si troverebbe il “Punto di Vista”? Fuori dall’astronave a galleggiare nello spazio? E – se pure fosse – quale apertura angolare e profondità visiva dovrebbe mai avere, per riuscire a cogliere l’astronave tra Giove e Saturno? E come avrebbe fatto, poi, a rientrare dentro l’astronave? E, una volta dentro, come fa a vedere la plancia di comando in tutta la sua estensione? 
 
Capisci da solo – spero – che una scena simile non ha senso sulla pagina: perché equivale a inquadrare le cose dall’esterno, a comportarsi come l’ipotetico regista di un film che volesse restituire al lettore i grandi paesaggi e le larghe vedute tipiche del cinema, per poi magari zoomare sui dettagli, quando un personaggio “Punto di Vista” è vincolato alla sua fisicità e – con i suoi occhi – può percepire soltanto una cosa alla volta, per poi procedere semmai in senso inverso, dal particolare al generale.
 
Sì, lo so: l’approccio cinematografico lo hai visto messo all’opera nientemeno che da Manzoni – col suo “ramo del lago di Como” e con la “vigna di Renzo” – ma tu sei forse Manzoni e scrivi nell’Ottocento? Perché, vedi, può pure essere piacevole rileggere oggi Manzoni, sapendo di leggere un autore ottocentesco che scriveva secondo i canoni ottocenteschi (con un’ideale telecamera che ora inquadra tutto, ora zooma sui particolari, poi recupera una visione ampia, e così via) ma allora – stile ottocentesco per stile ottocentesco – leggo direttamente Manzoni, che rimane pur sempre Manzoni, e non uno sconosciuto che prova a scimmiottarlo oggi, anno di grazia 2023, ti pare?
 
Guarda qui.

Poco fa il sole era un gigantesco rosso d'uovo che infiammava le facciate dei palazzi prima di scivolare piano sotto la linea dell'orizzonte, e adesso è già sera. Il muro di cinta del palazzo accanto getta la sua ombra lunga su un cortile uguale a tanti altri, teatri di giochi e schiamazzi, di chiacchiere, di papà che insegnano ai figli più piccoli ad andare in bicicletta senza le ruotine, con la mano stretta sulla sella per tenere la bici in equilibrio.

Tutti molto bello e poetico, ma il “Punto di Vista” dov’è?

È ovvio che non c’è, perché un “Punto di Vista” non potrebbe mai vedere la realtà rappresentata in queste righe, che sono manifestamente figlie di un maldestro tentativo di replicare ciò che si vedrebbe sul grande schermo.

Devi entrare nell’ordine di idee che al cinema puoi prenderti tutte le libertà espressive possibili proprio perché sei in esterna, laddove in scrittura sei massimamente vincolato proprio perché ti trovi dentro il personaggio.

Pensa ai montaggi “alternati” e in “parallelo”, o ai flashback e ai flashforward, che sono prassi al cinema e impossibili (o comunque fortemente sconsigliati) in scrittura.

Nel modulo 10 ti avevo proposto l’esempio dell’esploratore in fuga da una tribù di indigeni, per darti un primo esempio di cementazione dei mattoncini narrativi.

Immagina di essere al cinema, anziché sulla pagina.

Potresti realizzare un montaggio “alternato”, mostrando ora l’esploratore in fuga, ora gli indigeni che lo inseguono, puntare la telecamera per alcuni secondi sull’esploratore e poi spostarla per alcuni secondi sugli indigeni, e proseguire così, alternando le inquadrature tra esploratore e indigeni all’interno della stessa scena, fino alla sua conclusione (con l’esploratore che semina gli indigeni o con gli indigeni che catturano l’esploratore) per trasmettere in tempo reale le sensazioni di entrambe le parti.

Oppure potresti realizzare un montaggio “parallelo”, mostrando ad esempio ora l’esploratore chiuso nella gabbia mentre sta forzando la serratura, e ora un’animale intrappolato in una fossa da cui sta tentando di venir fuori, e andare in parallelo tra l’esploratore e l’animale, con la telecamera che inquadra ora la fuga dell’esploratore ora la fuga dell’animale, per rafforzare l’idea di un essere che sta mettendo tutto sé stesso per salvarsi.

In scrittura – nel mondo della pagina – è impossibile realizzare tutto ciò: perché in scrittura non esistono scene senza il “Punto di Vista”. Che cosa vorresti fare, quindi? Creare dei “Punti di Vista usa&getta” solo per guadagnare in libertà espressiva? Ma non sei al cinema, sei sulla pagina: ficcatelo in testa!

Lo stesso vale per i flashback e i flashforward. Avrai probabilmente letto molti libri ne fanno uso, e in effetti, con opportuni tagli di scena possono essere inseriti anche nel mondo della pagina.

Ma rimangono soluzioni spendibili nell’impostazione cinematografica, che vengono importate in scrittura per un malinteso senso di imitazione, oppure per assecondare il proprio fetish verso forme espressive esotiche, o semplicemente per incapacità a realizzare flussi narrativi migliori. La domanda ricorrente dello scrittore dilettante – “qual è il modo migliore per gestire i flashback e flashforward?” – ammette una sola risposta: “il modo migliore per gestire i flash-back e flashforward è progettare la storia in modo da non aver bisogno di flashback e flashforward”.
 
Non serve infine soffermarsi sugli effetti speciali e le colonne sonore – a volte di per sé sufficienti a decretare il successo di un film – perché chiaramente non hanno nessun equivalente nel mondo della pagina.
 
Dimentica quindi tutte le soluzioni cinematografiche: sono scommesse invariabilmente perdenti, per uno scrittore.

Il potere della scrittura – il punto su cui risulta imbattibile, se gestito a regola d’arte – è nel diventare il personaggio e imparare così sulla propria pelle (del personaggio) qualcosa in più sulla vita.
 
Pensa a Cinquanta sfumature di grigio. Se pure il successo del libro fosse stato decretato da una massa di casalinghe disperate – come a volte si dice – cosa impediva a quelle casalinghe di avventurarsi in internet alla ricerca dell’esatta sfumatura di porno desiderata? Su internet c’è tutto, tranne quello che le casalinghe stavano cercando: essere il personaggio, diventare il personaggio, vivere la sua vita.
 
E ora, dimmi, ti sembra una cosa furba rinunciare alla tua arma migliore, in nome di approcci anacronistici (in stile “narratore onnisciente”) o artistoidi (nel tentativo fallimentare di scimmiottare il cinema) o puramente espressivi (di chi vuole solo tirar fuori ciò che ha dentro, senza preoccuparsi del lettore)?
 

Estratto da L’Inumano, di Massimiliano Parente.
 
Il Risorgimento italiano è una pagina di Storia che si presta meravigliosamente a esser trasformata in pagine di un romanzo.

Quando si dice che “i vincitori scrivono la Storia” si vuol dire che il vincitore tiene la penna in mano, e così può auto-attribuirsi il ruolo di protagonista, consegnare la parte dell’antagonista a chi gli è sgradito, e tracciare per sé uno splendido arco eroico.

Ma l’antagonista di una storia può sempre diventare il protagonista della storia opposta.
 
Re Ferdinando II di Borbone è spesso presentato come l’anti-eroe del Risorgimento, ma possiamo anche vederlo come l’eroe dell’anti-Risorgimento. E questo anti-Risorgimento – questa storia mai scritta davvero sino in fondo – di eroi ne ha avuti parecchi. Una volta usciti di scena i Re, il testimone passa ai cosiddetti “briganti”.
 
 
“Brigante” è una parola medioevale, che al principio indica un soldato a piedi, un fante di ventura. Entra nel linguaggio comune col vocabolo francese brigand, usato per identificare chi si oppone con le armi all’ordine stabilito dalla Rivoluzione, chi difende l’ancien régime, e perciò anche chi combatte per i Borbone spodestati da Napoleone. E siccome a combattere per i Borbone – col Cardinale Ruffo, nell’Esercito della Santa Fede – c’erano anche degli avventurieri armati, degli sbandati e degli uomini d’incerta posizione sociale, ecco che la figura del brigante conservò un contorno fosco anche per i napoletani.

Ma per lungo tempo i briganti avevano anche restituito un’immagine romantica e leggendaria, per le loro battaglie contro le ingiustizie e gli abusi di potere. Le loro gesta entravano di nelle memorie locali e consegnavano a quei luoghi un motivo di vanto e distinzione, da rievocare nei racconti e nelle canzoni popolari. Perché il brigante – al fondo – aveva la sola colpa di brigare, di lottare per una cosa a cui teneva, che aveva a cuore, un significato arrivato sino a noi con l’espressione “prendersi la briga”.
 
Il brigante post-unitario assomma questa stratificazione secolare di percezioni, è un’icona polimorfa con un indice valoriale che cambia segno di continuo, da stigmate a dato sociale da rivendicare, e Carmine Crocco – uno dei capibanda più famosi – è un caso paradigmatico.
  
Lo dissero brigante, invece era uno scrittore.
 
Noi oggi conosciamo la vita di Carmine Crocco grazie alle sue memorie autobiografiche scritte durante la prigionia, con l’aiuto di un militare piemontese interessato a conoscere gli avvenimenti di cui era stato protagonista.
 

… favorisci con me e andiamo a casa mia 

Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi.

Vedi quel misero letto sostenuto a assicelle fradicie e cavalletti arrugginiti? Là dormono mio padre e mia madre; nell’altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini, tutti in fascio come stoccafissi. Vedi nel grosso canestro? Là, dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e tolta paglia, dorme l’ultimo nato, Marco di pochi mesi.

Eccoti mia madre che si strugge a scardar lana, osserva come è tutta unta e bisunta di olio. Guarda quel cassone affumicato, contiene segala, formentone, fave, piselli e un poco di grano con cui fare il pane bianco… È il raccolto fatto da mio padre, Dio sa quanto sudore versò per pochi legumi!

Alza il tuo sguardo al soffitto, vedi quei travi come sono anneriti dal fumo ed i muri carichi di fuliggine? Senti il tanfo delle capre, delle pecore, dei conigli, dei polli? Che ne dici? Sul davanzale d’una finta finestra stanno gli utensili di cucina, pignatte, tegami e piatti di creta, cucchiai di legno, una pentola di rame, ecco tutto.

Approfitto della tua bontà e t'invito a sedere su queste scranne di legno, fatti a colpi di scure da mio padre, così avrò il piacere di presentarti mio zio Martino, il mio maestro di scuola…

D’accordo: gli irriducibili polemici troveranno tanti errori quanti ne vorranno, a iniziare da un autore che si rivolge direttamente al lettore. Ma qui la cosa si sistema un istante: basta immaginare cha sia arrivato un funzionario borbonico in visita nelle province del Regno, e Carmine Crocco stia parlando a lui, al funzionario borbonico, e per questa via sta passando informazioni anche a noi lettori.

Quando avrai finito di polemizzare per il gusto di polemizzare, e ti ricorderai che stiamo parlando di Carmine Crocco, di un brigante imprigionato che scriveva le sue memorie, potremo iniziare a discutere seriamente.

Non appena ti rimetti in “modalità apprendimento” – e ti suggerisco di farlo in fretta – rileggi con attenzione lo stralcio che ti ho proposto: è straordinario.

Il mondo è percepito attraverso Carmine Crocco, sia a livello sensoriale che emotivo, e non si viene mai sbalzati fuori dal personaggio, neanche per un istante.

Nota la saggia rinuncia a dire tutto, a mostrare tutto, nella consapevolezza che è impossibile farlo, a favore di  pochi dettagli ben scelti – concreti, visualizzabili, vividi – presentati nel giusto ordine per creare un mondo, che non è solo la casa di Carmine Crocco, ma l’insieme delle province contadine del Regno delle Due Sicilie (che nella casa di Crocco trova la sua perfetta rappresentazione su piccola scala: “se vuoi parlare del mondo intero, parla di un uomo solo”, per riprendere uno slogan tipico della narrativa).

Osserva come, scrivendo di qualcosa che conosce alla perfezione, a Croco basta poco per restituire il senso del tutto, e nota pure quanto sia parsimonioso l’uso di figure retoriche (una soltanto, perfettamente coerente col “Punto di Vista”, come deve essere).

E presta attenzione alla naturalezza di ciò che al cinema definiremmo “il movimento di camera”, per mostrarci luoghi e personaggi: sono sempre e solo gli occhi di Crocco che inquadrano il mondo, e filtrandolo la scena – a volte in misura più accentuata, altre volte in modo più blando – ci permettono di percepire la realtà come se fossimo lui.

Un applauso, infine, a una scrittura trasparente, limpida, che non attrae mai l’attenzione su di sé, ma scompare sotto gli occhi, per lasciare tutto lo spazio all’emozione dell’esperienza vissuta.
 
Il giorno 27 marzo dei 1889 dal bagno di S. Stefano, ove sconto la mia pena, comincio a scrivere i miei ricordi”, scriveva Carmine Crocco all’inizio di una autobiografia che non cederà mai al micidiale stile da “narratore della memoria”, e che può dare lezioni ad almeno la metà degli autori pubblicati oggi, anno 2023.
 
Cinema vs Scrittura, telecamera esterna vs “Punto di Vista”.
 
Il concetto di “Punto di Vista” è caratteristico della scrittura, non ha un equivalente nel cinema, ed è l’unica freccia all’arco dello scrittore in grado di ribaltare i rapporti di forza tra cinema e scrittura.
 
Il cinema, peraltro, tenta spesso di recuperare lo svantaggio competitivo sul “Punto di Vista” (che gli è estraneo) con l’uso del cosiddetto “personaggio catalizzatore”.


 
Prendiamo il primo Ritorno al futuro, il capostipite della trilogia. Chi è il protagonista del film? I più ti diranno Marty McFly (l’attore Michael J. Fox, che interpreta McFly junior, il ragazzo che viaggia nel tempo e conosce i suoi genitori da giovani). E questo la dice tutta su quanto i più ne sappiano poco di sceneggiatura.

Lo vedremo in dettaglio nel modulo 23, ma possiamo anticiparlo sin d’ora: il protagonista di una storia è – per definizione – il personaggio che cambia o che comunque si sforza di cambiare a seguito degli eventi che lo colpiscono, o per dirlo ancora meglio, il personaggio per il quale è più evidente il (tentativo di) cambiamento all’interno della storia.
 
Guarda al personaggio che più degli altri è impegnato in un percorso di cambiamento, se vuoi sapere chi sia il protagonista di una storia (indipendentemente dal media con cui è rappresentata).
 
Estratto da The Art of Dramatic Writing, di Lajos Egri.
 
Ti sembra che Marty McFly subisca un cambiamento, nel corso della storia? Direi proprio di no. Il Marty McFly che vediamo alla fine del film è sostanzialmente lo stesso Marty McFly che abbiamo conosciuto all’inizio.
 
Chi è il personaggio che più di ogni altro è consapevolmente impegnato in un processo di cambiamento? George McFly, McFly senior, il padre di Marty. Il film è chiarissimo nel comunicare il cambiamento di George, con il classico epilogo “a specchio” rispetto alla scena iniziale. Riguarda il film, se ne hai occasione: ciò che viene mostrato alla fine è speculare a ciò che veniva mostrato all’inizio.
 
Ma c’è di più. Non è solo George McFly a essere cambiato, ma è tutto il mondo intorno a lui a essere diverso. La nuova realtà in cui si ritrova George McFly – a seguito della avventura intertemporale del figlio Marty – è rovesciata rispetto alla realtà da cui era partito. Osserva: tutto è cambiato, tutto è speculare, rispetto all’inizio, e solo Marty McFly, per il momento, è rimasto grosso modo lo stesso, è sempre lui, nel mondo di partenza come in quello di arrivo.

Ma perché, allora, i più hanno l’impressione che sia Marty il protagonista? Perché la storia – con abuso di linguaggio – ci è mostrata dal suo “punto di vista” (scritto minuscolo per non confonderlo col  “Punto di Vista” narrativo) o per dirlo con un’espressione più sfumata “dalla sua prospettiva”. Noi vediamo la storia come la vedrebbe Marty – pur non riuscendo realmente a diventare Marty – e quindi abbiamo la sensazione che sia lui il protagonista.

Ma un personaggio che non cambia, quando il mondo intorno a lui si modifica per conformarsi al suo sistema di valori, non è, non può essere, il protagonista: è il catalizzatore.
 
Per enfatizzare il concetto si dice a volte che il personaggio catalizzatore è “già perfetto”, quindi non ha bisogno di cambiare e deve piuttosto aiutare gli altri a cambiare (e se possibile indurre un cambiamento nel mondo intero, per renderlo migliore). È un’affermazione sbagliata, che genera equivoci da cui si rischia di non venir più fuori. Ricorda quel che ci dice zio Egri: “You may think you know someone who never has changed, and never will. But no such person has ever existed. […]. There is only one realm in which characters defy natural laws and remain the same – the realm of bad writing”. Chiaro, sì? C’è un solo luogo dove i personaggi non cambiano mai, e quel luogo è il Regno della Cattiva Letteratura.
 
Tutti i personaggi di una storia – protagonista, antagonisti, catalizzatore, figure secondarie, etc. – si trovano ognuno all’interno del proprio arco di trasformazione, solo che tu – spettatore – di tutti questi archi ne vedi solo uno, quello sui cui la storia ha scelto di concentrarsi. Ma se potessi seguire tutte le storie di tutti i personaggi, allora vedresti anche tutti gli altri archi. Proprio come avviene con Marty McFly, se ci pensi, il cui arco di trasformazione è visibile solo all’interno della trilogia completa. Anche Marty, quindi, è impegnato in un suo personale processo di cambiamento, solo che nel primo episodio è messo in ombra a favore del cambiamento del padre, e servirà arrivare alla fine del terzo episodio per vederlo anche in Marty. Insomma, il fatto che Marty sia il catalizzatore nel primo episodio, non significa affatto che sia perfetto – non lo è sicuramente: pensa a come reagisce quando lo accusano di essere un codardo o a come vive eventuali rifiuti – solo che per il momento le sue imperfezioni non sono al cento dell’attenzione.
 
La stessa struttura si ritrova in Ratatouille.
 
Il protagonista non è il topolino Rémy, come molti credono, solo perché la storia ci viene mostrata dalla sua prospettiva. Il protagonista è Alfredo Linguini, che conosciamo come sguattero e ritroviamo alla fine come cuoco. È lui che cambia nel corso della storia, è lui il protagonista. E anche qui, di nuovo, insieme a Linguini cambia tutto il mondo circostante. La comunità dei topi (storicamente timorosa verso gli umani) e la comunità umana (storicamente ostile verso i topi) si ritrovano in convivenza pacifica nel finale della storia. L’amicizia tra un singolo topo e un singolo umano ha prodotto una comunione d’intenti in due mondi per natura distanti.

E il finale è preannunciato da uno scambio di battute tra Remy e suo padre, in tempi non sospetti, dove c’è tutta l’essenza di una grande sceneggiatura.
 
 
Padre: “Non puoi cambiare la natura”.
Rémy: “Cambiare fa parte della natura,
ed è la parte della natura che possiamo influenzare,
e comincia quando lo decidiamo noi”.
Padre: “Dove vai?” 
Rémy: “Con un po’ di fortuna, avanti”.
 
Cambiano tutti, uomini e topi, e cambia persino il temibilissimo critico Anton Ego, con una recensione che rimane memorabile.

Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio.
 
Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale.
 
Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero... ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori!

Tutto il mondo è cambiato. E anche Remy è cambiato – volendo se ne può anche rintracciare un piccolo arco all’interno della storia – ma il suo cambiamento è relativamente più contenuto, perché partiva già da una posizione evoluta. Come definiresti altrimenti un topo che dice “so che dovrei odiare gli umani ma non ci riesco: loro non si limitano a mangiare, loro sperimentano, creano”? Sono tutti gli altri a dover cambiare radicalmente – e l’accento è posto sul cambiamento di Linguini – se vogliono progredire. E chi è il personaggio che induce il cambiamento? Remy, il catalizzatore.
 
Lascio a te, come facile esercizio, ritrovare la stessa struttura in La bella e la bestia: la storia è presentata dalla prospettiva di Belle, ma il personaggio soggetto a cambiamento è la Bestia, e il suo cambiamento avviene grazie a Belle, e alla fine della storia troviamo un modo speculare a quello iniziale, eccetera, eccetera…
 
Oppure – e ancora meglio –  pensa a Pretty Women: Julia Robert (il catalizzatore) favorisce il grande cambiamento di Richard Gere (il protagonista) ma lei stessa cambia nel corso della vicenda.
 
And so on…    

 
L’espediente del personaggio catalizzatore è ricorrente nel cinema, perché con la dissociazione tra il protagonista (impegnato nel cambiamento) e il catalizzatore (che lo supporta) è “come se” si recuperasse una prospettiva interna alla storia, che così non apparirà più presentata da fuori – inquadrata dalla telecamera – ma vissuta dall’angolo visuale del catalizzatore.

Tutto molto bello, ma accendi il cervello prima di replicare lo stesso schema nel mondo della pagina.
 
La scissione del personaggio “Punto di Vista” (che interpreta il mondo) dal personaggio “Protagonista” (impegnato in un percorso di cambiamento) può funzionare al cinema per colmare (in parte) il gap di una telecamera esterna; ma in scrittura, nel mondo della pagina, tu sei già dentro il personaggio.
 
Mettiamola così: se la forza della scrittura è tutta e solo nel diventare il personaggio protagonista – e quindi, per tornare all’esempio banale, nel capire i motivi per cui un uomo è attratto da un “manico di scopa”, quando a te piacciono le BBW – e se già ti trovi dentro il personaggio, quale sarebbe la furbizia nel separare le cose, nel vivere la storia dalla prospettiva di un personaggio “Punto di Vista”, delegando però a un altro personaggio, alle sue vicende, la dimostrazione della tesi di cui vuoi persuadere il lettore?
 
Ovviamente nulla ti vieta di introdurre un personaggio catalizzatore anche sulla pagina, ma è raro riscontrarlo perché – appunto – non se ne ha uno stretto bisogno (l’unico esempio che conosco è nel racconto I palloni del Signor Kurz) e comunque, quando c’è, non rappresenta il personaggio “Punto di Vista”.
 
Per chiudere: la scrittura sarà invariabilmente perdente nel confronto col cinema, fin quando tenterà di imitarlo, ma potrà superarlo se accetterà di puntare tutto sull’unica carta che marca una differenza a suo favore, se offrirà al lettore la possibilità di vivere un’altra vita attraverso un “Punto di Vista”.

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