Modulo 18C – La scrittura non è il cinema
Il requisito della recitazione induce spesso una domanda, se vogliamo anche legittima, ma potenzialmente equivoca: se la lettura deve evocare immagini chiare, vivide, precise, e se la sequenza di immagini crea il film narrativo, vuol dire che si deve scrivere come se si stesse girando un film, come se lo scrittore fosse un regista?
Risposta secca: no, assolutamente no.
Perché il cinema e la scrittura – lo avresti mai detto? – sono due media diversi, quindi sono diversi i tecnicismi di esecuzione, anche a parità di intenti.
Dirò cose semplici, ma ti invito a leggerle con attenzione, perché i concetti cosiddetti “complicati” altro non sono che concatenazioni di concetti semplici, e se ti sembrano “complicati” (difficili da capire) è solo perché non hai chiari i concetti semplici che li vanno a formare.
E già qui si registra una prima frattura.
Un’inquadratura cinematografica di pochi secondi farà cadere una moltitudine di dettagli sotto lo sguardo dello spettatore, che percepirà all’istante il senso della scena. Spettatori diversi potranno essere attratti da dettagli diversi, ma sicuramente tutti vedranno la stessa immagine, in cui sono contenuti una complessità e un intreccio di elementi percepibili solo grazie alla vista.
D’accordo, il cinema riversa sullo spettatore una quantità di immagini, di particolari e di dettagli, incommensurabili con quelli che anche la miglior scrittura può rendere. Ma il cinema – per quanto eccellente – non potrà mai trasportare la mente dello spettatore in “un altrove”, in uno stato psico-fisico differente, dentro un personaggio. Non può riuscirci perché ricorre a una telecamera esterna alla storia, che inquadra cioè la storia da fuori per portarla a conoscenza dello spettatore, il quale rimane un soggetto terzo rispetto a ciò che vede (per quanto lo possa appassionare).
Immagina di essere un uomo a cui piacciono le donne formose, anche cicciottelle o abbondanti, belle piene ovunque. E ora immagina che il protagonista del film abbia invece un debole per le donne magrissime: devono essere dei “manici di scopa”, altrimenti non gli trasmettono nulla. La scena sullo schermo ti mostra il protagonista in un pub, con gli amici, quando entra una ragazza “manico di scopa” che lo lascia imbambolato, suscitando l’ilarità della compagnia. Benissimo, ma tu spettatore cosa vedi? Vedi una ragazza magra come un manico di scopa, e, accidenti, proprio non capisci come il personaggio possa trovarla attraente, visto che a te una donna non dice nulla se non ti fa ombra quando ti si piazza davanti. Il personaggio è il personaggio, e tu sei rimasto tu: non c’è modo di capire, anche solo alla lontana, come possa eccitarlo un manico di scopa, quando per te non può essere vero amore sotto un certo tot di chili.
L’esempio è banale al limite dell’imbarazzante, ma è volutamente concepito così, affinché tu ne possa produrre di migliori, magari passando in rassegna tutti i film che hai visto, e riflettendo sulla ineliminabile distanza che vi era ogni volta fra te e il protagonista.
La telecamera cinematografica è “democratica”, non nel senso che rende uguali tutti i personaggi – protagonista, antagonista e alte figure si situano ovviamente su livelli differenti – ma nel senso che colloca tutti i personaggi in una realtà inaccessibile allo spettatore, di cui può avere conoscenza solo osservandola da fuori, come allo zoo potrebbe osservare le gabbie che accolgono tigri e leoni.
Ma cosa sarebbe – in scrittura – l’immagine dell’astronave tra Giove e Saturno? Chi la sta osservando? Dove mai si troverebbe il “Punto di Vista”? Fuori dall’astronave a galleggiare nello spazio? E – se pure fosse – quale apertura angolare e profondità visiva dovrebbe mai avere, per riuscire a cogliere l’astronave tra Giove e Saturno? E come avrebbe fatto, poi, a rientrare dentro l’astronave? E, una volta dentro, come fa a vedere la plancia di comando in tutta la sua estensione?
Capisci da solo – spero – che una scena simile non ha senso sulla pagina: perché equivale a inquadrare le cose dall’esterno, a comportarsi come l’ipotetico regista di un film che volesse restituire al lettore i grandi paesaggi e le larghe vedute tipiche del cinema, per poi magari zoomare sui dettagli, quando un personaggio “Punto di Vista” è vincolato alla sua fisicità e – con i suoi occhi – può percepire soltanto una cosa alla volta, per poi procedere semmai in senso inverso, dal particolare al generale.
Tutti molto bello e poetico, ma il “Punto di Vista” dov’è?
È ovvio che non c’è, perché un “Punto di Vista” non potrebbe mai vedere la realtà rappresentata in queste righe, che sono manifestamente figlie di un maldestro tentativo di replicare ciò che si vedrebbe sul grande schermo.
Devi entrare nell’ordine di idee che al cinema puoi prenderti tutte le libertà espressive possibili proprio perché sei in esterna, laddove in scrittura sei massimamente vincolato proprio perché ti trovi dentro il personaggio.
Pensa ai montaggi “alternati” e in “parallelo”, o ai flashback e ai flashforward, che sono prassi al cinema e impossibili (o comunque fortemente sconsigliati) in scrittura.
Nel modulo 10 ti avevo proposto l’esempio dell’esploratore in fuga da una tribù di indigeni, per darti un primo esempio di cementazione dei mattoncini narrativi.
Immagina di essere al cinema, anziché sulla pagina.
Potresti realizzare un montaggio “alternato”, mostrando ora l’esploratore in fuga, ora gli indigeni che lo inseguono, puntare la telecamera per alcuni secondi sull’esploratore e poi spostarla per alcuni secondi sugli indigeni, e proseguire così, alternando le inquadrature tra esploratore e indigeni all’interno della stessa scena, fino alla sua conclusione (con l’esploratore che semina gli indigeni o con gli indigeni che catturano l’esploratore) per trasmettere in tempo reale le sensazioni di entrambe le parti.
Oppure potresti realizzare un montaggio “parallelo”, mostrando ad esempio ora l’esploratore chiuso nella gabbia mentre sta forzando la serratura, e ora un’animale intrappolato in una fossa da cui sta tentando di venir fuori, e andare in parallelo tra l’esploratore e l’animale, con la telecamera che inquadra ora la fuga dell’esploratore ora la fuga dell’animale, per rafforzare l’idea di un essere che sta mettendo tutto sé stesso per salvarsi.
In scrittura – nel mondo della pagina – è impossibile realizzare tutto ciò: perché in scrittura non esistono scene senza il “Punto di Vista”. Che cosa vorresti fare, quindi? Creare dei “Punti di Vista usa&getta” solo per guadagnare in libertà espressiva? Ma non sei al cinema, sei sulla pagina: ficcatelo in testa!
Lo stesso vale per i flashback e i flashforward. Avrai probabilmente letto molti libri ne fanno uso, e in effetti, con opportuni tagli di scena possono essere inseriti anche nel mondo della pagina.
Ma rimangono soluzioni spendibili nell’impostazione cinematografica, che vengono importate in scrittura per un malinteso senso di imitazione, oppure per assecondare il proprio fetish verso forme espressive esotiche, o semplicemente per incapacità a realizzare flussi narrativi migliori. La domanda ricorrente dello scrittore dilettante – “qual è il modo migliore per gestire i flashback e flashforward?” – ammette una sola risposta: “il modo migliore per gestire i flash-back e flashforward è progettare la storia in modo da non aver bisogno di flashback e flashforward”.
Il potere della scrittura – il punto su cui risulta imbattibile, se gestito a regola d’arte – è nel diventare il personaggio e imparare così sulla propria pelle (del personaggio) qualcosa in più sulla vita.
Il Risorgimento italiano è una pagina di Storia che si presta meravigliosamente a esser trasformata in pagine di un romanzo.
Quando si dice che “i vincitori scrivono la Storia” si vuol dire che il vincitore tiene la penna in mano, e così può auto-attribuirsi il ruolo di protagonista, consegnare la parte dell’antagonista a chi gli è sgradito, e tracciare per sé uno splendido arco eroico.
Ma l’antagonista di una storia può sempre diventare il protagonista della storia opposta.
Ma per lungo tempo i briganti avevano anche restituito un’immagine romantica e leggendaria, per le loro battaglie contro le ingiustizie e gli abusi di potere. Le loro gesta entravano di nelle memorie locali e consegnavano a quei luoghi un motivo di vanto e distinzione, da rievocare nei racconti e nelle canzoni popolari. Perché il brigante – al fondo – aveva la sola colpa di brigare, di lottare per una cosa a cui teneva, che aveva a cuore, un significato arrivato sino a noi con l’espressione “prendersi la briga”.
Il brigante post-unitario assomma questa stratificazione secolare di percezioni, è un’icona polimorfa con un indice valoriale che cambia segno di continuo, da stigmate a dato sociale da rivendicare, e Carmine Crocco – uno dei capibanda più famosi – è un caso paradigmatico.
… favorisci con me e andiamo a casa mia…
Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi.
Vedi quel misero letto sostenuto a assicelle fradicie e cavalletti arrugginiti? Là dormono mio padre e mia madre; nell’altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini, tutti in fascio come stoccafissi. Vedi nel grosso canestro? Là, dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e tolta paglia, dorme l’ultimo nato, Marco di pochi mesi.
Eccoti mia madre che si strugge a scardar lana, osserva come è tutta unta e bisunta di olio. Guarda quel cassone affumicato, contiene segala, formentone, fave, piselli e un poco di grano con cui fare il pane bianco… È il raccolto fatto da mio padre, Dio sa quanto sudore versò per pochi legumi!
Alza il tuo sguardo al soffitto, vedi quei travi come sono anneriti dal fumo ed i muri carichi di fuliggine? Senti il tanfo delle capre, delle pecore, dei conigli, dei polli? Che ne dici? Sul davanzale d’una finta finestra stanno gli utensili di cucina, pignatte, tegami e piatti di creta, cucchiai di legno, una pentola di rame, ecco tutto.
Approfitto della tua bontà e t'invito a sedere su queste scranne di legno, fatti a colpi di scure da mio padre, così avrò il piacere di presentarti mio zio Martino, il mio maestro di scuola…
D’accordo: gli irriducibili polemici troveranno tanti
errori quanti ne vorranno, a iniziare da un autore che si rivolge direttamente al lettore. Ma qui la cosa si sistema
un istante: basta immaginare cha sia arrivato un funzionario borbonico
in visita nelle province del Regno, e Carmine Crocco stia parlando a lui,
al funzionario borbonico, e per questa via sta passando informazioni anche a noi lettori.
Non appena ti rimetti in “modalità apprendimento” – e ti suggerisco di farlo in fretta – rileggi con attenzione lo stralcio che ti ho proposto: è straordinario.
Il mondo è percepito attraverso Carmine Crocco, sia a livello sensoriale che emotivo, e non si viene mai sbalzati fuori dal personaggio, neanche per un istante.
Nota la saggia rinuncia a dire tutto, a mostrare tutto, nella consapevolezza che è impossibile farlo, a favore di pochi dettagli ben scelti – concreti, visualizzabili, vividi – presentati nel giusto ordine per creare un mondo, che non è solo la casa di Carmine Crocco, ma l’insieme delle province contadine del Regno delle Due Sicilie (che nella casa di Crocco trova la sua perfetta rappresentazione su piccola scala: “se vuoi parlare del mondo intero, parla di un uomo solo”, per riprendere uno slogan tipico della narrativa).
Osserva come, scrivendo di qualcosa che conosce alla perfezione, a Croco basta poco per restituire il senso del tutto, e nota pure quanto sia parsimonioso l’uso di figure retoriche (una soltanto, perfettamente coerente col “Punto di Vista”, come deve essere).
E presta attenzione alla naturalezza di ciò che al cinema definiremmo “il movimento di camera”, per mostrarci luoghi e personaggi: sono sempre e solo gli occhi di Crocco che inquadrano il mondo, e filtrandolo la scena – a volte in misura più accentuata, altre volte in modo più blando – ci permettono di percepire la realtà come se fossimo lui.
Un applauso, infine, a una scrittura trasparente, limpida, che non attrae mai l’attenzione su di sé, ma scompare sotto gli occhi, per lasciare tutto lo spazio all’emozione dell’esperienza vissuta.
Lo vedremo in dettaglio nel modulo 23, ma possiamo anticiparlo sin d’ora: il protagonista di una storia è – per definizione – il personaggio che cambia o che comunque si sforza di cambiare a seguito degli eventi che lo colpiscono, o per dirlo ancora meglio, il personaggio per il quale è più evidente il (tentativo di) cambiamento all’interno della storia.
Ma perché, allora, i più hanno l’impressione che sia Marty il protagonista? Perché la storia – con abuso di linguaggio – ci è mostrata dal suo “punto di vista” (scritto minuscolo per non confonderlo col “Punto di Vista” narrativo) o per dirlo con un’espressione più sfumata “dalla sua prospettiva”. Noi vediamo la storia come la vedrebbe Marty – pur non riuscendo realmente a diventare Marty – e quindi abbiamo la sensazione che sia lui il protagonista.
Ma un personaggio che non cambia, quando il mondo intorno a lui si modifica per conformarsi al suo sistema di valori, non è, non può essere, il protagonista: è il catalizzatore.
E il finale è preannunciato da uno scambio di battute tra Remy e suo padre, in tempi non sospetti, dove c’è tutta l’essenza di una grande sceneggiatura.
Cambiano tutti, uomini e topi, e cambia persino il temibilissimo critico Anton Ego, con una recensione che rimane memorabile.
“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio.
Tutto il mondo è cambiato. E anche Remy è cambiato – volendo se ne può anche rintracciare un piccolo arco all’interno della storia – ma il suo cambiamento è relativamente più contenuto, perché partiva già da una posizione evoluta. Come definiresti altrimenti un topo che dice “so che dovrei odiare gli umani ma non ci riesco: loro non si limitano a mangiare, loro sperimentano, creano”? Sono tutti gli altri a dover cambiare radicalmente – e l’accento è posto sul cambiamento di Linguini – se vogliono progredire. E chi è il personaggio che induce il cambiamento? Remy, il catalizzatore.
Lascio a te, come facile esercizio, ritrovare la stessa struttura in La bella e la bestia: la storia è presentata dalla prospettiva di Belle, ma il personaggio soggetto a cambiamento è la Bestia, e il suo cambiamento avviene grazie a Belle, e alla fine della storia troviamo un modo speculare a quello iniziale, eccetera, eccetera…
L’espediente del personaggio catalizzatore è ricorrente nel cinema, perché con la dissociazione tra il protagonista (impegnato nel cambiamento) e il catalizzatore (che lo supporta) è “come se” si recuperasse una prospettiva interna alla storia, che così non apparirà più presentata da fuori – inquadrata dalla telecamera – ma vissuta dall’angolo visuale del catalizzatore.
Tutto molto bello, ma accendi il cervello prima di replicare lo stesso schema nel mondo della pagina.
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