Modulo 18A – A sua immagine e somiglianza: il “Punto di Vista” narrativo


Narratore esterno, narratore interno; narratore onnisciente, narratore inaffidabile, narratore invadente; narratore intradiegetico, extradiegetico, omodiegetico, eterodiegetico; narratore di qua, narratore di là, narratore di su, narratore di giù…

Fatti un regalo a costo zero, se vuoi imparare a scrivere, oggi, anno 2023: prendi tutta questa roba maleodorante, impacchettala per bene, e buttala pure nell’indifferenziata; disfatene in fretta, però, ché il cestino potrebbe impuzzolentirsi irreparabilmente; e a ogni buon conto, dopo, abbonda con la candeggina per disinfettare tutto.
 
Le milleuno sfaccettature del cosiddetto narratore saranno forse utili per superare con 30 e lode il prossimo esame alla facoltà di Lettere, o per alimentare discussioni nei circoli letterari, oppure per vincere premi prestigiosi o – nella più favorevole delle ipotesi –  per accrescere la tua cultura alla voce “storia della letteratura” (perché, sì, il cammino delle idee va comunque conosciuto).

Ma non potrai mai produrre nulla di buono – oggi, nel 2023 – se ti ostini nel dare attualità a un concetto che a partire dall’800, da Flaubert in poi, ci si è sforzati di far sparire, e oggi è definitivamente passato agli archivi per chi voglia scrivere secondo i migliori standard disponibili.
 
 
Una coppia – lui e lei, un marito e una moglie – divorzia. Questo è il fatto. Ma ora, tu, scrittore, questo fatto devi metterlo in scena nel mondo della pagina. Da quale prospettiva lo mostrerai?

Potresti adottare il punto di vista del marito, ed enfatizzare che la moglie ha avuto diverse relazioni extraconiugali, negli ultimi anni. Oppure adottare il punto di vista della moglie, per far capire che quelle relazioni non erano “voglia di cazzo”, ma bisogno d’affetto, di attenzioni, che un marito sempre più coinvolto nel suo lavoro le negava da tempo. Ma se il punto di vista fosse quello del marito, allora potresti rimarcare che l’impegno indefesso sul lavoro serviva a preservare uno stile di vita a cui la signora si era abituata e non voleva rinunciare. E se invece il punto di vista fosse quello della moglie…
 
Chiariamoci: tu, scrittore, dio creatore, non devi nascondere informazioni. Devi assolutamente mostrare tutto ciò che è rilevante per la comprensione della tua storia, per restituirne le emozioni più intense e i significati più profondi; e quindi i tradimenti della moglie verranno fuori comunque, qualunque sia la prospettiva da cui si mostra la storia; ma se il “Punto di Vista” è la moglie, li filtrerai attraverso gli stati d’animo della moglie, li colorerai con i sentimenti della moglie, li giustificherai con il corredo di interpretazioni tipico della parte traditrice, li sosterrai cioè con un blocco di argomentazioni che verrebbero meno all’istante se il personaggio “Punto di Vista” fosse il marito.
 
Il mondo è tutto ciò che accade, il mondo è la totalità dei fatti, il mondo è determinato dai fatti” – scrive Wittgenstein, nel suo Trattato Logico-Filosofico – ma poi il fatto bisogna interpretarlo, va messo in prospettiva, se lo si vuole far stare in piedi e comunicare con efficacia.
 
 
Cosa vorresti fare d’altra parte? Mostrare il tradimento nella sua purezza, nel suo significato intrinseco, nel suo valore assoluto, il tradimento come si trova in natura prima di “farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato”, senza inquinarlo con l’interpretazione?

È questo che vuoi? Mi spiace, ma pretendi l’impossibile. Il tradimento – come qualsiasi altro fatto – è tutto e solo “dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato”, legittimamente variabili da un individuo all’altro, e che tu vedi ingenuamente come distorsioni della realtà, quando invece ne rappresentano la linfa vitale: perché non c’è realtà al di fuori di quelle ragioni e di quei sentimenti.
 
La verità oggettiva non esiste per nessuno, in nessuna disciplina.

Lo scetticismo verso la pretesa oggettività del reale lo ritroviamo in matematica (con le geometrie non-euclidee), in probabilità (con la teoria soggettiva di de Finetti-Savage), in fisica (col dualismo onda-particella), in filosofia (col relativismo opposto al positivismo).
 
È una coincidenza di vedute, in campi di studio disparati, che invoglia a ricercarne la matrice comune sotto la diversità di parole, simboli e fatti.
 
Estratto dal romanzo Il teorema del pappagallo, di Denis Guedj.

Sforzati anche tu di non essere un uomo piano”, di acquistare una visione più rotonda delle cose”,  se vuoi scrivere oggi, nel 2023, e – cosa più importante  se vuoi stare al mondo con consapevolezza.

Non è mai troppo tardi, ma neppure troppo presto, per uscire dalla setta dei dogmatisti ingenui”, per chiamarsi fuori dalla schiera degli ingenui entusiasti”. 

Tu cosa aspetti?

Estratto da La scienza e l’ipotesi, di Henri Poincaré.


 
 
Estratto da Che cos’è la matematica, di Richard Courant e Herbert Robbins

Le cose in sé, la verità ultima, la più riposta essenza del mondo non sono conoscibili, per quanto possa essere psicologicamente arduo da accettare. 

Il pensiero moderno spinge a ricercare i rapporti tra la cose, perché non c’è, non può esserci, realtà conoscibile al di fuori di questi rapporti.

Nello spostare l’attenzione dalle cose ai rapporti tra le cose si può forse avere la sensazione che tutto riposi su basi fragili, su sabbie mobili, perché questi rapporti bisogna inventarli, e quindi entra in gioco la soggettività dell’inventore, lo spassionato esame di coscienza per acquisire piena consapevolezza della propria opinione.

Ma non vi è scelta: “la verità” – con le parole di Adriano Tilgher – “non è più in un’immaginaria equazione dello spirito con ciò che è fuori di lui, e che, se è fuori di lui, non si vede in che modo potrebbe toccarlo ed esserne appreso: essa è nell’atto stesso del pensiero che pensa”. 

Estratto dal saggio Probabilismo, di Bruno de Finetti.

Dobbiamo inventare il mondo per inquadrarvi le nostre sensazioni, considerarlo come il risultato provvisorio di uno sforzo di sintesi, nella consapevolezza che i nostri concetti non sono i protagonisti di una commedia finita, in cui ciascuno ha la sua parte e il suo ruolo, ma saranno sempre dei personaggi in cerca d’autore.

  
“Ho cominciato fin da ragazzo a comprendere
che il concetto di ‘verità’ è incomprensibile.
E ho cercato allora di analizzare
– caso per caso, più o meno inconsciamente –
cos’è che in sostanza intendiamo dire quando diciamo,
secondo la locuzione comune, che qualche cosa ‘è vero’.
Ora soltanto la mia sete di sviscerare questo problema
si sente, nel fondo, appagata”.
(Bruno de Finetti)



L’invenzione della verità la vediamo all’opera persino nella Fisica,
per secoli considerata la cassaforte delle verità assolute.
Gli oggetti della Fisica – detto alla buona – sono di due tipi: onde e corpuscoli.
Le onde sono – ad esempio – le onde del mare, i suoni di ogni tipo, la “olà” allo stadio. 
I corpuscoli sono tutti i corpi materiali, spesso stilizzati nell’immagine di palline o biglie.
Distinguere un’onda da un corpuscolo sembra un’operazione immediata, oggettiva:
chi non si accorge della differenza tra le onde del mare e una biglia?   
Ma come la mettiamo con la luce?
È un’onda o un insieme di corpuscoli?
Cosa accade quando accendiamo una lampadina?
È come se si diffondessero onde nell’aria, similmente alle onde del mare,
o è come se dalla lampadina partissero un’infinità di biglie minuscole?
Una delle differenze tra onde corpuscoli, a livello sperimentale,
sta nel diverso comportamento di fronte agli ostacoli:
i corpuscoli si bloccano, le onde li oltrepassano.
Se sei chiuso in una stanza, e lanci una pallina da tennis contro la porta,
la vedrai rimbalzare e tornare indietro: l’ostacolo la blocca.
Se parli con un tono normale, forse nessuno ti sentirà;
se però ti metti a gridare, la tua voce uscirà dalla stanza:
l’ostacolo – la porta – è stato superato.
E la luce? Come si comporta la luce? La luce è ambigua.
Alcuni esperimenti ne mostrano il carattere ondulatorio,
altri ne rivelano le proprietà tipiche dei corpuscoli.
E quindi? Cos’è la luce? Un’onda o un corpuscolo?
Qual è la sua vera natura, la sua essenza più riposta?
Non lo sappiamo, e non c’è modo di saperlo.
A volte si comporta come un’onda, a volte come un corpuscolo,
sebbene le nostre facoltà non concepiscono enti che siano entrambe le cose.
 
 
 
La luce, la semplice luce, che cade sotto le nostre immediate percezioni sensoriali,
mette già in crisi i paradigmi di “onda” e “corpuscolo”
attraverso cui la Fisica guarda e interpreta il mondo.
E gli schemi saltano del tutto, quando si scende a livello subatomico.
Nessuno di noi può vedere un elettrone come vede una biglia o un’onda del mare.
L’elettrone – così come creato da Madre Natura – è inconoscibile.
Possiamo saperne qualcosa solo attraverso la mediazione degli esperimenti,
e qui accadano cose sconvolgenti per il senso comune.
L’elettrone a volte si comporta come un’onda e a volte come un corpuscolo,
esattamente come accade con gli esperimenti sulla natura della luce,
ma c’è una differenza fondamentale, rispetto alla luce:
 l’elettrone è ora un corpuscolo, ora un’onda, in funzione della presenza o meno dellosservatore!
L’elettrone mostra le proprietà fisiche caratteristiche delle onde, finché “lo lasciamo in pace”;
ma appena gli si piazza sopra locchio dello sperimentatore”, si comporta come un corpuscolo.
Si dice – con una certa enfasi – che “l’osservatore determina la realtà”,
perché l’elettrone, di per sé, non è né un’onda né un corpuscolo, e Dio solo sa cosa sia,
ma noi esseri umani consociamo solo le onde e i corpuscoli,
dobbiamo riportare ogni cosa a onde o corpuscoli,
e l’elettrone si comporta da onda o da corpuscolo
in dipendenza del momento in cui avviene la nostra osservazione.
Quindi, in definitiva, non puoi osservare qualcosa senza alterala,
ma finché non la osservi non la puoi conoscere,
perciò l’unica realtà conoscibile, la sola realtà a cui abbiamo accesso, 
è quella in cui l’oggettività del reale si fonde con la soggettività dell’osservatore.

La tendenza moderna – in tutti i campi – è caratterizzata dalla rinuncia a la Verità in nome di una verità, di un punto di vista circoscritto, delimitato nel suo campo di osservazione.

Questa è la tendenza moderna, dappertutto.

Perché mai la narrativa dovrebbe essere un’eccezione?
 
Estratto dalla Lezione 20 Quando K. arrivò, di Giuseppe Pontiggia.
 
L’intonazione pessimistica di Pontiggia appare oggi anacronistica e fuori luogo.

Aver perso “la possibilità di conoscere” – sottinteso la Verità – “attraverso il racconto”, non avere più il Manzoni di turno che spiega cosa pensare di questo o quel personaggio e dell’intera storia, è una delle più grandi conquiste dell’arte narrativa.

Pontiggia parla di “crisi del narratore onnisciente”, col rammarico di chi vede venir meno ciò che sino a quel momento ha considerato un caposaldo del racconto; ma cos’è una “crisi”, a volersi esprimere con rigore?

Crisi vuol dire mutazione repentina. Siamo noi che gli assegniamo un significato negativo, perché abituati a collegarla al passaggio da una situazione favorevole a una sfavorevole (crisi economica, crisi sociale, rapporto sentimentale in crisi, …) ma il termine in sé non preclude un senso di marcia opposto, da una situazione sfavorevole a una favorevole.

La crisi può essere semplicemente un modo – parecchio doloroso, ammettiamolo – con cui un sistema ripristina la normalità, l’equilibrio fisiologico.

Pensa al vomito, all’atto del vomitare: sicuramente innaturale e irritante, eppure necessario per ristabilire – all’istante, in un sol colpo – una stabilità fisica.

La cosiddetta “crisi del narratore onnisciente” la puoi vedere come una potente scarica di vomito, indispensabile per consegnare stabilità artistica all’intero corpo narrativo e rinnovarne l’interesse.
 
Estratto dalla Lezione 20 – Quando K. arrivò, di Giuseppe Pontiggia.

Pontiggia denuncia l’aleatorietà implicita nell’attacco di Moby Dick di Melville, quel “chiamatemi Ismaele” in cui l’autorità biblica si fonde con la potenza emotiva, da cui un’ambiguità irrisolvibile, giacché il vero nome del protagonista non sarà mai dichiarato nel corso della narrazione.
 
Ma se il personaggio vuol essere chiamato Ismaele, se lui, il personaggio, sente di essere Ismaele, se si riconosce in questo nome auto-attribuito, e non nel suo originario, se questa è la realtà della pagina, allora tu, scrittore, devi rispettare questa sua volontà, e mostrarlo per come lui, il personaggio, sente di essere attraverso il nome che si è scelto. Il suo vero nome non ha più rilevanza, se per il personaggio quel nome non ha più valore.

È lo stesso Pontiggia, d’altra parte, a riconosce la centralità del “Punto di Vista” narrativo, quando mette in guardia – per esperienza personale – dal voler forzare i nome dei personaggi, in contrasto con ciò che i personaggi sono per sé stessi: lo scrittore, il dio creatore, deve rispettare le sue creature, perché il libero arbitrio esiste nel mondo reale come in quello della pagina, e i personaggi vanno lasciati liberi di essere quel che sono, o che sentono di essere, senza imporgli sovrastrutture gratuite, in un malinteso ossequio ai canoni.
  
Dalla Lezione 6 E se invece di Renzo e Lucia li chiamassimo Lui e Lei?”, di Giuseppe Pontiggia.

Dopodiché – beninteso – l’inafferrabilità del reale non implica la rinuncia a un’investigazione del reale stesso, alla messa a punto e all’affinamento degli strumenti interpretativi di ciò che sta sotto il dominio delle nostre percezioni.

I dati di fatto rimarranno elementi di giudizio fondamentali, ma la verità rimarrà nel proprio stato d’animo, che nessun fatto potrà vincolare, e che tuttavia ai fatti potrà spontaneamente sentirsi vincolato.

Estratto dal saggio Probabilismo, di Bruno de Finetti.

Anche tu, scrittore, devi essere consapevole che la tua storia “ha una forma sua propria”, ma “varia a seconda del punto di vista”, senza possibilità di istituire una gerarchia, perché “ogni punto di vista è, a priori, equivalente ad ogni altro” e sarà solo il tuo gusto a guidarti nella scelta, che potrà essere più o meno allineato al “gusto estetico della maggioranza, o, ammettiamolo pure, della totalità”, senza però “interpretare una libera coincidenza di gusti e di opinioni come l’espressione di un'arcana verità metafisica”.

Quindi – per ritornare al punto da cui siamo partiti – nulla ti vieta di rigettare sia il punto di vista della moglie che del marito, per adottare – a esempio – quello della figlia, a cui non importa se il papà è uno “stronzo” (secondo la moglie) e la mamma una “troia” (secondo il marito) perché lei vorrebbe solo che papà e mamma rimanessero assieme, senza curarsi di chi abbia ragione e chi torto. E sarebbe ovviamente tutta un’altra storia, anche se innestata sullo stesso identico fatto (il divorzio).

Oppure, volendo, potresti adottare il punto di vista di una collega del marito, segretamente innamorata, che ora può venire allo scoperto. O, ancora, potresti mostrare la storia dal punto di vista dei genitori di lui o di lei, o dei rispettivi avvocati. O magari scegliere il punto di vista del vicino di casa, felice di non sentir più litigare marito e moglie (difficile farne venire fuori fuori qualcosa di interessante, da questo angolo visuale, ma nulla ti vieta di provarci).

Ci sono infinite prospettive da cui guardare uno stesso fatto (il divorzio, in questo esempio) e ogni prospettiva ti restituirà una visione delle cose, che non sarà né vera né falsa, che sarà qualcosa di formalmente assai meno, ma sostanzialmente assai più, di una verità assoluta: sarà un punto di vista, che il lettore potrà far suo, se saprai scriverlo a regola d’arte.

Il mondo è tutto ciò che accade, il mondo è la totalità dei fatti, il mondo è determinato dai fatti” – scrive Wittgenstein – ma sono solo le loro interpretazioni a renderceli visibili ed emozionanti.

 
Bello, bello, bello! Ho capito tutto, davvero: la verità non esiste, c’è solo un punto di vista da cui io, scrittore, devo mostrare la storia.

Ho capito.

E, senti, se volessi mostrare la storia da due o più punti di vista, così da recuperare quanta più oggettività è possibile? Si può fare, eh, si può fare, sì?


 
Questa tua domanda – posso mostrare la storia da più punti di vista? – la dice tutta su quanto poco hai capito di ciò che ti ho detto sinora.

Prospetti la possibilità di mostrare una storia da più punti di vista, ma – prima di entrare nel merito di cosa siano tecnicamente più punti di vista – tu sai cos’è una storia?

No, non lo sai. Perché se lo sapessi – come lo saprai alla fine del modulo 23 – non avresti questa pretesa di mostrarla da più punti di vista.

Che poi, a dirla tutta, poni una domanda di cui non saresti neppure in grado di capire la risposta. Parli di più punti di vista, ma cosa intendi esattamente? Una storia con dei coprotagonisti o una storia corale? Non conosci la differenza tra le due? Ma allora si può sapere cosa mi stai chiedendo? Non è che – niente, niente – stai confondendo la scrittura con il cinema, e vorresti replicare nel mondo della pagina ciò che vedi sullo schermo?

E comunque, senza scomodare i tecnicismi, ti basterebbe pensare a quei libri che ti hanno impressionato sino a cambiarti nel profondo, che suggerisci sempre agli altri di leggere. È probabile che siano tutte storie in cui l’autore ha gestito bene il “Punto di Vista”, ne ha scelto uno e vi si è vincolato, proprio per impossessarsi della tua anima.

Quindi, ora, fai una bella cosa: torna all’inizio del post e rileggilo daccapo; se alla fine della rilettura hai ancora il prurito di mostrare la storia da più punti di vista, torna di nuovo in cima al post e rileggilo; e procedi così, di rilettura in rilettura, finché non ti persuadi che – se non sai cos’è una storia né cosa voglia dire più punti di vista – l’unica cosa sensata è scegliere uno ed un solo personaggio “Punto di Vista” e mostrare la storia attraverso di lui.

Che è già una cosa maledettamente complicata.
 

Essere il "Punto di Vista"

 


E tu sai trasformarti nel "Punto di Vista"?

Estratto da La scienza dello storytelling, di Will Storr.

Mi è capitato – negli anni – di leggere racconti in cui il personaggio “Punto di Vista” era di volta in volta un toro, un murales, un divano, un posacenere.

Ti lascio immaginare la resa stilistica.

Il toro ragionava con la sensibilità e l’intelligenza proprie di un essere umano (animalista, ovviamente, e contrario alle corride); il divano aveva l’incredibile capacità di andarsene in giro per casa, tant’è che ne conosceva ogni angolo; il murales, pure lui, era a conoscenza non solo di ciò che aveva davanti, ma pure di quel che gli stava ai lati e persino alle spalle (una situazione irreale per un essere che vive schiacciato sul muro); e il posacenere richiamava in tutto e per tutto le peggiori pettegole dei paesini.

Questi sedicenti “Punti di Vista” non-standard altro non erano che esseri umani, banalissimi esseri umani, che avevano semplicemente indossato un costume di carnevale – da toro, murales, divano, posacenere – e si divertivano a sciorinare il loro monologhino, dai massimi sistemi sino a questioni di bassa cucina, coperti da una maschera ridicola scambiata per chissà quale inventiva artistica.

Roba da dilettanti, mi dirai. Sì, è vero. Ma, al solito, a chi si ispirano i dilettanti? Ai cosiddetti “professionisti” regolarmente pubblicati.
 
 
Tu magari scrivi di alieni con teste enormi, corpi da grissino e occhi a palla; poi, però, i lettori hanno la chiara sensazione che in questi cosiddetti “alieni” si agitano le nostre stesse pulsioni, gli stessi desideri, le stesse paure, gli stessi modi di fare; risultano alla fine più “alieni” i giapponesi – con le loro usanze assurde, per noi occidentali – che non le creature uscite fuori dalla tua (povera) fantasia.
 
Estratto da L’invenzione della verità, di Bruno de Finetti.

Quindi ora fermati, fai un bel respiro, metti ordine in tutto ciò che abbiamo detto sin qui, e verifica quel che hai capito.

Come minimo dovresti aver capito l’assurdità della frase – pronunciata con insopportabile leggerezza – “se io fossi al tuo posto, farei diversamente”.

No!

Se tu fossi realmente al mio posto, se stessi davvero osservando le cose dal mio punto di vista, in accordo con la mia sensibilità e il mio vissuto, allora non potresti fare diversamente da me, “per la contraddizion che nol consente” avrebbe detto Dante: se davvero tu fossi me, allora dovresti pensare e agire come me.

Estratto dal saggio Probabilismo, di Bruno de Finetti. 
 
Trasformarsi nel “Punto di Vista” significa esattamente questo: “spogliarmi di quanto nel mio pensiero è creazione mia”, per “riconoscere che non ho nessuna ragione di preferire lo stato d’animo mio” a quello di un altro.
 
E non servono a esempi volutamente paradossali – come quello del superstizioso, ideato per colpire l’attenzione – per capire quanto sia complessa e travagliata questa operazione di “messa a nudo di sé stessi”, per abbracciare la prospettiva dell’altro. 
 
Sono sufficienti normali situazioni di vita familiare.

Estratto da Teoria dei Sentimenti Morali, di Adam Smith.
 
 
 
Estratto da Il precipizio dell’amore, di Mariangela Tarì.

Ricordi quel tormentone estivo di ormai più di venti anni fa?
 
Che il bianco sia bianco…

che il nero sia nero

che uno e uno siano due
 
che la scienza dice il vero
 
dipende 

Dipende? E da che dipende? Da che punto guardi il mondo, tutto dipende!
 

Può anche darsi che io non dica nulla di nuovo, di profondo, ma lo dico con la piena consapevolezza di tutte le conseguenze che una simile posizione porta irrimediabilmente con sé.

Come ora vedrai.

Codardia o coraggio?

… ed eccovi dannati al meraviglioso supplizio d’aver davanti, accanto,
qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l’uno dall’altra.
 
Sei un bell’uomo che veleggia splendidamente verso i cinquant’anni. Fai il lavoro perfetto, quello che hai sempre desiderato, che ti piace, ti fa guadagnare ma ti lascia anche del tempo per te stesso, per coltivare le tue passioni. Hai una bella famiglia, una moglie e due figli adolescenti, un maschio e una femmina. Sei sposato da vent’anni, e pur tra inevitabili alti e bassi, puoi dire che sono stati vent’anni vissuti alla grande. L’affinità con tua moglie è sempre stata irreale, da tutti i punti di vista. Persino il sesso rimane ancora una gran bella cosa, anche se forse è venuto meno giusto un filo di esuberanza.
 
È tutto perfetto, per quanto possano esserlo le cose di questo mondo. O quasi. Da qualche mese – forse un anno? – una patina grigia sembra avvolgere tutto. Chissà cosa sarà. Forse i figli che stanno crescendo, ormai grandi e autonomi, non più interessanti a tutte quelle cose che da bambini li divertivano tanto, e soprattutto divertivano te, nel farle insieme a loro. Forse tua moglie, splendida come sempre, ma ogni giorno sempre un po’ più stanca, più annoiata. Forse è anche colpa tua, o forse no. Forse è solo il tempo che passa e non ci si può far niente. Chissà. Di sicuro è tutto un po’ più routinario, più meccanico. Non sai dire cosa sia, perché all’apparenza nulla è cambiato, eppure sembra che ogni giorno sia tutto un po’ diverso, un po’ peggio, a dirla tutta. C’è una vita che scorre, ma che non riesci più ad assaporare.
 
Poi, un giorno, conosci una donna a un meeting di lavoro. Quanti anni avrà? Così, a occhio, dieci o quindici meno di te, non di più. Non è una “figa”, proprio no. Non ti volteresti a guadarla, semmai la incrociassi per strada. Fisicamente è come tante altre, carina, sì, ma nulla di speciale. La classica donna che può piacere o non piacere.
 
Però ti ha colpito, appena l’hai vista. Ci scambi due parole di presentazione, e in pausa andate a prendere un caffè. Le scappa una mezza frase su Il piccolo libraio di Archangelsk, e un altro po’ ti versi il caffè sulla cravatta, per la meraviglia.

“Conosci ll piccolo libraio di Archangelsk?”.

Affila lo sguardo. “Tutti conoscono ll piccolo libraio di Archangelsk!”. Esplode in una risata, e tu con lei.
 
Da quel momento inizia un sottile gioco di sponde. Tu dici una cosa, lei completa la frase, lei dice una cosa, tu la raffini: è un continuo colpire di fioretto, con le parole e i gesti, giorno dopo giorno. Qualche confronto, a volte, si rivela un po’ “muscolare”, ma te la fa apprezzare ancor di più, la rende ancora più affascinante.
 
Te la ritrovi al centro dei pensieri con una frequenza sempre più alta. Speri sempre sia lei, quando senti uno squillo di WhatsApp o vedi della nuova posta in arrivo nella mail. Ci rimani male quando è solo uno dei tanti messaggi, una delle tante mail, quando è soltanto il rumore del mondo; ma quando invece è il suo messaggio, la sua mail, allora hai un fremito. Non importa cosa dica. Conta solo che è un suo messaggio, una sua mail. Conta che è lei.
 
Nella tua vita familiare, intanto, si fa tutto ogni giorno più opaco, smunto, insipido. Non c’è nulla che manchi davvero, ma è come se mancasse tutto. Quel tutto che, giorno dopo giorno, sembra essere lì, dall’altra parte, in una mail o in un WhatsApp, per quanto semplici siano i contenuti.
 
Dipendesse da te, la bombarderesti senza sosta – di messaggi, di mail, di tutto – se la paura di rovinare ogni cosa non fosse lì a bloccarti. Chissà se anche lei ha cominciato pensare a te come tu stai pensando a lei, ormai da tempo.

Sei sicuro di averla colpita, non hai dubbi, anche perché più di una volta te lo a detto apertamente, sino a suscitarti un lieve imbarazzo. Qualche volta, qua e là, c’è stato pure qualche blando riferimento al sesso, ma non hai mai percepito un chiaro invito a farti avanti. Per quel minimo di lucidità che riesci a recuperare, per quel poco di razionalità che chiami a raccolta, ti rendi conto che delle situazioni simili le vivi anche con altre amiche e colleghe, e in nessuna di queste altre situazioni ti verrebbe di pensare a una finalità latente, oltre le apparenze. Forse stai solo edificando castelli sulle nuvole. O forse no.

Perché il matrimonio è testo, ma il corteggiamento è sotto-testo. In un matrimonio, le cose che si dicono corrispondono esattamente a ciò che si vuole dire. In un corteggiamento, le cose che si dicono sono il sottofondo del baule in cui contrabbandare messaggi di altro tipo. Cosa ti sta dicendo? Quali messaggi ti sta inviando? Perché qualcosa ti sta comunicando, e però va decodificato. Va capito cosa si nasconde nel sottofondo del baule.

Da quanto tempo non fai più l’amore con tua moglie? Un mese? Forse due. Forse addirittura di più. Non era mai successo – in vent’anni – che rimaneste così lontani per così tanto tempo.

Però c’è lei, e il vostro aperitivo del venerdì pomeriggio, ormai diventato un appuntamento fisso. Non è una “figa”, proprio no, e nel locale è un continuo alternarsi di donne molto più belle e appariscenti, per tutti i gusti. Che a te sembrano solo delle barbie: tutte uguali, tutte rigide allo stesso modo. Hai occhi e cuore solo per lei. E non solo occhi e cuore. Non è una “figa”, ma si porta addosso una carica erotica che ti impone un auto-controllo fuori dall’ordinario.

Ti prende una mano, la stringe. “Tutto a posto? Sei silenzioso, oggi”.

Può bastare così: all or nothing. “Tutto a posto, sì”. Le rivolgi il più innamorato dei sorrisi. “Ho solo una voglia pazzesca di fare l’amore con te”.

Quant’era che non lo facevi così, in questo modo, con tutto questo trasporto, con questa forza, con questa voglia? Mesi? Anni? O forse, chissà, non lo avevi mai fatto così, nemmeno a vent’anni. Vabbè, ora non esageriamo. Ma che importa? Certo è che ti ha rimesso al mondo. Non è una “figa”, proprio no, ma emana una forza attrattiva che le deriva dall’essere lei, battagliera di fondo, a tratti spigolosa, tenera se vuole, ma sempre pronta a tornare sfidante e abrasiva. Hai la sensazione di fare l’amore con lei in ogni istante, sempre, non solo quando lo fate davvero: quando parlate, quando passeggiate, quando vi guardate, quando ridete, quando restate in silenzio. Cinquanta sfumature di mille piaceri perduti e ora ritrovati.

Hai ricominciato a vivere, finalmente; ma dall’altra parte c’è un’altra vita, che poi sarebbe la tua vita – moglie e figli, con tutto quel che segue – che tuttavia non senti più tua, che non ti appartiene più; e anche per loro – moglie e figli – tu non sembri in fondo essere più così importante, o almeno non come una volta. Compiere il passo decisivo, rompere tutto per ricostruire tutto da un’altra parte, rimane maledettamente complicato, una prospettiva che ti riempie la testa di pensieri, che ti toglie sonno e appetito; e però la scelta va fatta, perché così non può continuare.

Fa caldo, nello studio dell’avvocato di tua moglie. Sganci l’ultimo bottone della camicia, allenti la cravatta e firmi tutti ciò che serve firmare. Passi i fogli e la penna a tua moglie, che resta immobile.

“Sei solo un codardo, un fottuto codardo. Questo sei: uno che ha trovato più comodo mollare tutto e tutti, alla prima difficoltà; uno che ha scelto la via più semplice di tutte… come un fottuto codardo”.

Una vita è finita, un’altra sta per iniziare. E tra un paio di giorni sarà il tuo compleanno: sì, la vita può pure iniziare a cinquant’anni.

Apri il portone dello studio dell’avvocato, e lei è lì, appoggiata allo sportello della macchina: ti viene incontro a passo veloce, con sorriso che ti risolleva; ti bacia, infila dentro anche la lingua, ti morde le labbra; mugola e ride divertita.

Ti stringe il viso tra le mani, gli occhi le brillano. “L’ho capito dal primo istante avevi un coraggio fuori dal comune: hai preso la scelta più difficile di tutte, come solo un uomo coraggioso può fare”.
 

Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere

Gli uomini vorrebbero essere sempre il primo amore di una donna.
Alle donne piace essere l’ultimo amore di un uomo.

Ti invito a una riflessione, che nella sua semplicità è rivelatrice della difficoltà ad adottare un “Punto di Vista”: per uomo è complesso creare un personaggio “Punto di Vista” donna, e specularmente per una donna è complesso creare un “Punto di Vista” uomo, perché gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, e tutti ci siamo poi ritrovati qui sulla Terra. Per quante critiche siano state mosse al libro di John Gray, per quanti strafalcioni possa contenere, il punto essenziale rimane: uomini e donne, complessivamente considerati, sono strutturalmente diversi, nel fisico come nella psiche.

Di esempi se ne potrebbero esibire a piacere. Il rapporto con il sesso è il grande classico, su cui non serve dire molto. Puoi anche pensare – per non essere banali – al diverso modo di vivere la competizione sul lavoro: per gli uomini, il confronto rimane sempre confinato all’ambito professionale, per quanto possa essere aspro; le donne hanno invece la tendenza a dilatarlo a ogni aspetto della vita, a trasformarlo in un “me contro te” a tutto campo (finendo a volte col coinvolgere cose che nulla hanno a che fare con il lavoro, come l’aspetto fisico, le scelte di abbigliamento, i mariti, i figli, e via così). E si potrebbe procedere all’infinito, perché qualunque cosa tu possa immaginare, di qualunque argomento tu voglia parlare, troverai sempre – in aggregato, neutralizzando le bizzarrie dei singoli casi – un modo di pensare e agire chiaramente diverso, tra uomini e donne.

Per tutto ciò, quando un uomo scrive di un “Punto di Vista” donna, senza avere il pieno dominio di sé, lo stretto controllo di ciò che sta creando, finirà inevitabilmente col travasare nel corpo di una donna lo spirito di un uomo, o il che è lo stesso, di costruire una donna come gli uomini immaginano che le donne siano.

Il caso più buffo mi capitò alcuni anni fa, nel leggere un racconto di un amico (uomo) in cui il “Punto di Vista” era una donna disinibita, audace, parecchio intraprendente con gli uomini. Puoi immaginare quanto grottesco risultò il personaggio: un’accozzaglia di cliché e luoghi comuni, una mostruosa ibridazione tra un porno e i film degli anni ’80 con Lino Banfi ed Edwige Fenech (ti dico solo che, nel saltare addosso alla sua ultima conquista, le veniva messa in bocca la battuta “non te lo immaginavi che ero così maialona, vero?”).

Forse conoscerai già questo indovinello stupido: chi è quell’animale cha la testa del gatto, il corpo del gatto, la coda del gatto, che miagola come un gatto, ma non è un gatto? È la gatta.

E chi è invece quella donna che il nome di una donna, le tette di una donna, i capelli di una donna, la gonna, i tacchi, gli orecchini e il mascara di una donna, ma non è una donna? È una donna creata da un uomo (e lo stesso – cambiando quel che c’è da cambiare – vale per una donna che voglia scrivere di un “Punto di Vista” uomo).

Ti invito a riflettere su questo fatto, per quanto possa sembrare ovvio: già il più semplice cambio di “Punto di Vista” – di un marziano che vuole scrivere di una venusiana e viceversa – impone uno stravolgimento di mentalità e atteggiamento.
 
E a volte – più spesso di quanto si immagina – incomprensioni irrisolvibili sorgono pure all’interno della stessa specie.


Quel che hai appena letto è il commento di una donna al racconto L’ultimo caffè.

Viene da chiedersi se questa donna abbia davvero letto il racconto o se lo abbia semplicemente giudicato sulla base di un pregiudizio. Quel “ribadisco ciò che avevo scritto” fa proprio pensare che non si sia mai mossa dalle sue convinzioni, e che non intenda farlo, a dispetto di ciò che si trova esplicitamente dichiarato nel testo narrativo.

Perché il racconto è chiarissimo, sia nella versione originaria che in quella riscritta. Lei – il personaggio femminile – non è colta di sorpresa da uno sconosciuto, portata in un vicolo buio e violentata. Si trova a casa sua, con quello che sino a qualche giorno prima era il suo fidanzato storico; si sente in colpa per averlo tradito, perché le indecisioni di lui sul loro futuro – ora – non le sembrano poter giustificare la follia di una notte; nel profondo, forse, vorrebbe riaggiustare le cose, semmai fosse possibile; tant’è che sorride ed è felice quando lui inizia a toccarla, perché lo interpreta come un gesto di riappacificazione; anche dopo, quando lui diventa più violento, lei non fa nulla per ribellarsi; nella versione riscritta – in particolare – non chiede aiuto quando sente le voci dei vicini sul pianerottolo; d’accordo, sì dirà, forse era semplicemente paralizzata dalla paura; sì, forse è così, o magari no; anzi, sicuramente no, perché il finale – sia nella versione originale che in quella riscritta – è cristallino nel comunicare l’esatto stato d’animo della ragazza.

Riesci per un istante – giusto il tempo del racconto – a rinunciare a te stessa, nel nome del personaggio?

Ti punge il dubbio che forse – almeno un forse conceditelo – può esserci nel sesso una brutalità latente che è proprio ciò che i due personaggi stavano cercando, ma che sinora non avevano avuto il coraggio di palesare e che ora è finalmente venuta fuori, e magari li farà tornare insieme e cambierà la prospettiva di entrambi sul loro rapporto?

E se quell’episodio fosse l’inizio di una nuova storia, che li condurrà sull’altare, a sfornare figli e a festeggiare le nozze d’oro? Ci ha mai pensato?

Perché precludersi a priori questa eventualità? Tu stai leggendo per diventare qualcun altro, non per giudicare i personaggi con i tuoi schemi prefabbricati.

E se non sei in grado diventare qualcun altro, da lettore, come pensi di poterci riuscire da scrittore

Perché – chiariamo questo punto – tu devi sì scrivere solo di ciò che conosci, ma il testo, alla fine, ne deve sapere più di te: non deve limitarsi ad accogliere ciò che sai, ma deve averti condotto oltre, a scoprire ciò che non sapevi, e che ora conosci grazie all’opera di scrittura.
 
Altrimenti non stai scrivendo – in senso proprio, in senso forte – ma solo trascrivendo.

Estratto dalla “Seconda Lezione, di Giuseppe Pontiggia.

Se scrivi solo per inchiodare sulla pagina ciò che già sei, se la tua scrittura si riduce una mera trascrizione, a una pedissequa riproposizione infinite copie di te stesso, se mettere la tua conoscenza per iscritto non ti genera nessuna curiosità verso ciò che sta venendo fuori grazie alla scrittura, mi spieghi quale emozione potrai mai trasmettere a chi ti legge?
 
Estratto dalla Lezione 33 – Se non c’è curiosità l’incipit è sbagliato, di Giuseppe Pontiggia.
 
E più in generale, e in modo più drammatico, se non riesci a essere tollerante all’interno del mondo della pagina – che rimane un mondo protetto, dove si può sperimentare la vita di un altro senza correre rischi – come puoi dare a intendere di essere tollerante in quel gran casino che è il mondo reale?

Vuoi davvero trasformarti in un “Punto di Vista”?
Allora smettila di dare giudizi
– “una donna non può fare porno”, “non hai rispetto per te”,
“soffri di anaffettività”, “vai da uno psichiatra” – 
in base a schemi precostituiti e immodificabili.


 
Ci sono donne che amano gli smalti, altre che amano gli spalti.
Anche loro soffrono di anaffettività e hanno bisogno di uno psichiatra?
 
Ogni facoltà in un uomo è il metro per giudicare la stessa facoltà in un altro uomo” – ci ricorda Smith, nella Teoria dei Sentimenti Morali – “Giudico la tua vista attraverso la mia vista, il tuo udito attraverso il mio udito, la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore. Non ho, né posso avere, alcun altro modo per giudicarle”.

Rimarrai fatalmente te stesso, fintantoché giudicherai: riporterai inevitabilmente ogni cosa al tuo sistema di valori, alle tue convinzioni, ai tuoi principî e alle tue regole, perché non c’è altro modo di giudicare le cose del mondo, se non prendere sé stessi come unità di misura.
 
Ma tu non vuoi giudicare. Tu vuoi capire.


Perciò, tieni bene a mente la regola numero uno per trasformarsi in un “Punto di Vista”: smettere di giudicare, sforzarsi di capire.
 

Abbracciare Sorella Morte

 
Arriva la morte che taglia le teste,
arriva la notte per l’uomo che muore,
arriva la pena per l’uomo che resta,
arriva la mano che sparge dolore, 
arriva la falce che lacera i gridi,
arriva la morte che suscita i pianti,
arriva la mano che strazia le madri,
arriva la morte che tutti livella,
arriva la falce che mai si riposa,
arriva la mano che strazia e flagella,
arriva la morte la finta pietosa.
Eppure Francesco la immagina bella,
eppure Francesco la chiama sua sposa,
eppure Francesco la chiama sorella…
 
L’universo ringioisce ogni volta che nasce un bambino, ma… qualcuno si è mai chiesto – e riesce a rappresentare – cosa prova il bambino?
 
Passare da un luogo chiuso, protetto, con temperatura costante, in cui non conosci mai alcun fastidio, dove c’è un cordone con cui giocare tutto il giorno, un luogo che ti sta via via più stretto, è vero, ma che puoi liberamente prendere a pugni e calci per farti spazio, ebbene, passare da questo luogo meraviglioso a un ambiente sterminato, sconosciuto, che a mala pena percepisci, e pur ti bombarda continuamente di rumori, luci e odori, un ambiente dove sei sballottato da una parte all’altra, senza mai capire dove ti trovi, in cui scopri cose come freddo, caldo, fame, sete, sporcizia, dolore, pianto… 
 
E per colmo d’impostura, per arrivare in questo inferno devi passare da lì, cimentarti nell’atto fisico di uscire dalla pancia: riesci a immaginarlo in tutta la sua drammaticità, e quindi a scriverlo congruentemente, oppure è tutto, sempre e solo un incessante “che bello, è nato, è nato!”?
 
Osserva questo neonato, ma osservalo davvero, senza mettere la tua conoscenza dentro di lui.
Ti sembra forse felice, gioioso, rilassato, curioso di sapere cosa lo aspetta?
Questi sono i tuoi stati d’animo di chi sa che la vita è sempre meravigliosa  
ma non possono certo essere i suoi, e la sua sofferenza è chiarissima a tutti,
o almeno a tutti coloro che la smettono di essere sé stessi, per sposare il punto di vista dell’altro.
E l’argomentazione, volendo, si potrebbe anche innalzare a un livello metafisico.
Non ricordo più dove ho letto forse in Lo scrivano di Dio, di Jakob Lorber –
che noi piangiamo e ci rattristiamo quando una persona cara ci lascia,
e ci rallegriamo e gioiamo quando viene al mondo una nuova vita,
solo perché non abbiamo idea della felicità di un’anima quando esce dal corpo
e del suo infinito dolore quando invece si deve incarnare.  
 
Specularmente, ti ha mai sfiorato il dubbio che la morte – se naturale, graduale, per vecchiaia, sul proprio letto di casa – possa essere un momento di straordinaria bellezza e liberazione, come un orgasmo incredibilmente inteso?
 
La petite mort – la piccola morte – è l’espressione francese per indicare un orgasmo totalizzante che condurrebbe alcune donne a uno stato di annullamento. Verità? Mitologia? Un po’ l’uno e un po’ l’altro?
 
Non lo so, ma suona verosimile. E a ogni modo – se ne hai la forza e la possibilità – puoi approssimare la sensazione semplicemente facendo sesso in una sauna (al limite va bene anche una doccia molto calda, e, se sei un uomo, meglio che sia la seconda o terza volta).
 
Non ti convince? Troppo impegnativo? Fa niente. Pensa allora a un’esperienza massimamente simile alla morte, che sperimenti ogni giorno: quella dell’addormentarsi.

Gli occhi si chiudono, e il primo senso a sparire è la vista; i suoni si fanno ovattati e l’udito via via scompare, così come l’olfatto; poi smarrisci persino la cognizione di trovarti su un letto, e così anche il tatto non c’è più; il respiro rallenta, i ritmi si abbassano, stai dormendo… sei morto.
 
Cosa c’è di drammatico? Riesci a scrivere serenamente del momento della morte, prendendo come spunto l’esperienza più prossima che ne hai, quella del sonno – come peraltro ampiamente documentato in tutte le filosofie orientali – oppure sei anche tu prigioniero della solita tiritera “condoglianze, quanto mi dispiace, che disgrazia”?
  
Proviamo simpatia anche per i defunti, e […] siamo commossi soprattutto da quelle circostanze che colpiscono i nostri sensi, ma che non possono avere alcuna influenza sulla loro felicità – scrive Smith nella Teoria dei Sentimenti Morali È triste, pensiamo, essere privati della luce del sole, essere esclusi dalla vita e dalla conversazione, esser posti nella fredda tomba, preda della decomposizione e dei vermi della terra, non esser più pensati in questo mondo, ma venir cancellati in breve tempo dagli affetti, e persino dalla memoria dei più cari amici e parenti”.
 
Ma quanto sono giustificati questi nostri stati d’animo? In che modo ci mettono in sintonia con i defunti? Come possiamo dire  di essergli vicino, sino a diventare loro, se rielaboriamo ogni cosa rimanendo noi stessi? 
 
La felicità dei defunti, tuttavia, certamente non è intaccata da nessuna di queste circostanze, né il pensiero di queste cose può mai disturbare la profonda sicurezza del loro riposo. L’idea di quella tetra e infinita malinconia che la fantasia istintivamente attribuisce alla loro condizione sorge certamente dal fatto che noi colleghiamo al mutamento che si è prodotto in loro la nostra coscienza di quel mutamento, dal fatto che ci mettiamo nella loro situazione, che poniamo, se mi si concede l’espressione, le nostre anime vive nei loro corpi inanimati, e quindi dal fatto che ci rappresentiamo quali sarebbero le nostre emozioni in una tale situazione. È per questa vera e propria illusione dell’immaginazione che la previsione del nostro annullamento ci risulta così terribile, e che l’idea di quelle circostanze, che senza dubbio non possono procurarci dolore da morti, ci rende così tristi da vivi”.
 
Questo porre “le nostre anime vive nei loro corpi inanimati” è ciò che più d’ogni altra cosa ci impedisce di avere un rapporto sano con la morte – e come puoi vivere bene, senza coltivare un buon rapporto con l’inevitabile? – e precisamente è il motivo per cui “la previsione del nostro annullamento ci risulta così terribile”.
 
E diciamola tutta, sino in fondo, visto che siamo arrivati qui.
 


Tu vorresti vivere, vivere, vivere, come se ogni giorno della tua vita fosse straordinario, incantevole, stupefacente, come se ogni singolo giorno rappresentasse un inno a tutta la vita, ma – sinceramente – è davvero così che procede la tua vita, in accordo con una struttura frattale in cui nella semplicità di ogni giorno riecheggia la maestosità del tutto? O non è forse vero il contrario? E cioè che tu vuoi sì vivere, vivere, vivere, ma poi – all’atto pratico – sperperi giorni di vita ogni settimana, settimane di vita ogni mese, mesi di vita ogni anno, e anni ogni vita.

Vuoi vivere, ma poi sprechi la vita, non gli dai valore, perché vivi da immortale all’interno della tua mortalità, come se i tuoi giorni non dovessero finire mai, e quindi non servisse renderli tutti sacri.

Citando il Dalai Lama: Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”.
 
Quando qualcuno muore si chiede sempre “quanti anni aveva?”,
– come se cinque, dieci o vent’anni in più o in meno cambiassero davvero qualcosa –
e nessuno domanda mai “come ha vissuto?”, che poi è l’unica cosa che conta.
 
Eppure basterebbe poco per riacquistare la corretta visione delle cose. Rivolgere ogni giorno un pensiero veloce, un saluto rapido a Sorella Morte, prima di tuffarsi nel tran-tran quotidiano: io un giorno morirò, e quel giorno potrebbe essere domani, o forse già oggi… sono pronto?


Se non ti sei mai mosso dalla battuta di Massimo Troisi – lui fu un genio a idearla, tu sei solo uno stupido a ripeterla – se sai che un giorno dovrai morire, ma non capisci che quel giorno può essere pure domani, allora vuol dire che non stai vivendo, o almeno non come dovresti, e se non stai vivendo come dovresti, mi spieghi cosa credi di poter scrivere?
  

Oh, Agostino! Ago-Ago-Agostino... goal!

Agostino Di Bartolomei sistema il pallone sul dischetto del rigore,
nella finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984.

Il 30 maggio 1984 la città di Roma è un cuore solo, una sola anima. Giallorossa, ovviamente.

Alle 20.15, allo Stadio Olimpico di Roma, va in scena Roma-Liverpool, la finale della 29a edizione della Coppa dei Campioni.

Gli inglesi passano in vantaggio nei minuti iniziali, sugli sviluppi concitati di un calcio d’angolo, che oggi  – con il VAR – sarebbero stati chiaramente riconosciuti irregolari. La Roma pareggia sul finale del primo tempo, con un colpo di testa di Roberto Pruzzo. Il risultato rimarrà piantato sull’uno a uno sino al novantesimo e oltre. Per la prima volta nella storia della Coppa dei Campioni, il titolo sarà assegnato ai calci di rigore.

Il giocatore inglese sbaglia il primo tiro.

Per la Roma va sul dischetto il capitano Agostino Di Bartolomei: goal.

La Roma è in vantaggio.
 
Mancano ancora quattro tiri per parte: il Liverpool non ne sbaglia più, Graziani e Conti – per la Roma – spediscono i loro rigori alle stelle.

Il 30 maggio 1984, sotto il cielo di Roma, il Liverpool è campione d’Europa.

Il 30 maggio 1994, all’età di 39 anni, Agostino Di Bartolomei si spara un colpo di pistola al cuore.
 
 
Il capitano della Roma Agostino Di Bartolomei con suo figlio Luca
e il “Barone” Nils Liedholm, allenatore della Roma finalista di Coppa Campioni.

Venerdì 24 marzo 2023, Luca Di Bartolomei rilascia un intervista al quotidiano Il Corriere della Sera.
 
Dice di essere “diventato più vecchio di mio padre”, di aver “raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto”, e di aver trovato  “la forza di andare sulla sua tomba… cosa che non faccio praticamente mai”.
 
Racconta di essersi finalmente liberato “da un senso di colpa che non doveva appartenermi ma mi ha accompagnato per quasi ventinove anni”. E alla meraviglia del giornalista nel sentirlo parlare di sensi di colpa, quando all’epoca aveva solo 11 anni, replica spalancando una finestra sull’animo umano. “Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch’io una parte di responsabilità”.
 
L’intervista vira inevitabilmente su Roma-Liverpool, e su un gesto estremo che – combinazione –  cadde proprio nel decennale di quella maledetta finale.

 
Luca Di Bartolomei è il figlio di un padre suicida, e nessuno può e deve permettersi un solo fiato sulle sue parole.
 
Ma sai che c’è? Che tu non sei Luca Di Bartolomei, e quindi nulla ti vieta di guardare il mondo dal punto di vista di suo padre, Agostino Di Bartolomei. Riesci a farlo?
 
Lascia che ti dia delle coordinate per orientarti.

Agostino nasce a a Roma l’8 aprile 1955, nel quartiere popolare di Tor Marancia.
 
Milita nella Roma dal 1972 al 1984, con la sola eccezione della stagione 1975-76, dove va in prestito al Vicenza. Con la casacca giallorossa gioca 308 partite, di cui 146 con la fascia di capitano. Segnerà 66 goal e sarà espulso una sola volta.
 
Nell’estate del 1984, dopo la finale di Coppa dei Campioni, viene inserito nella lista dei partenti: è troppo “lento” per gli schemi tattici del nuovo allenatore della Roma.

Giocherà un paio d’anni al Milan, poi al Cesena, e finirà la carriera con la Salernitana, in serie C.

E dopo? Ti sei mai chiesto cosa ci sia dopo, per un calciatore?

Perché Francesco Totti ha giocato oltre i 40 anni? Perché Ibrahimović è anche lui ancora lì, a 40 anni suonati, sebbene sempre in panchina? Perché Buffon, ultraquarantenne, ha accettato di giocare in una serie minore, dopo esser stato campione del mondo?
 
Perché tutti loro – e tanti altri – forse non avrebbero mai iniziato la carriera da calciatore, se avessero minimamente immaginato quanto sarebbe stato doloroso smettere.
 
Trascorri gli anni migliori della vita sui campi da calcio, a preparare per tutta la settimana la partita della domenica; ci sono i tifosi sugli spalti che invocano il tuo nome e le luci dei riflettori puntate sul viso; e poi le vittorie e le sconfitte, le gioie e le amarezze, e qualunque cosa accada, è comunque gloria.

Se poi parliamo di Agostino Di Bartolomei – “Ago” o “Diba”, com’era soprannominato – allora vien fuori un mondo del calcio fatto di autentici uomini, e non di ragazzini tatuati ovunque, più celebri per love-story con le veline che non per le gesta in campo. Basta guardarli in faccia questi calciatori di una volta, per capire tutto.


In questo mondo di uomini, Agostino Di Bartolomei era “un capitano vero, un leader silenzioso, schivo, simbolo di un calcio romantico fatto di cuore, polmoni e grinta”, come lo ricorderà la Federazione Italiana Gioco Calcio, il 30 maggio 2014, nel ventennale del suo suicidio (che è pure – fatalmente – il trentennale di Roma-Liverpool).

E poi, un giorno, da un giorno all’altro, tutto finisce, così, all’improvviso. Niente più partite, allenamenti e spogliatoio, niente più stadio e tifosi, giornalisti e interviste. Cambia tutto, all’istante, da un giorno all’altro.
 
Se il resto del mondo “entra nella vita” tra i 30 e i 35 anni, con un lavoro stabile, un’autonomia economica, una lunga serie di progetti da realizzare, di sogni da inseguire, un calciatore è proprio allora che “esce dalla vita”, senza nessuna prospettiva – non allora, almeno – se non quella di rivendersi in quel mondo del calcio che rimane pur sempre tutta la sua vita.

Allenatore, dirigente, direttore sportivo, addetto stampa, o anche solo commentatore. Perché il mondo del calcio non è fatto solo di calciatori. C’è sempre un posto per tutti, nel bizzarro mondo pallonaro. Possibile non se ne trovi uno anche per “Ago”?

La mattina del 30 maggio 1994 – a dieci anni da Roma-Liverpool – il capitano che portò la sua Roma al secondo tricolore, e un passo dal tetto d’Europa, si siede al tavolo della veranda di casa, in un paesino del Cilento. Moglie e figlio dormono ancora. Lui prende la sua “calibro 38”, se la punta al cuore e preme il grilletto.

Si parlò di investimenti fallimentari, di un prestito negato, di insuccessi nel mondo della politica, di ruggini familiari. Finché non saltò fuori un biglietto: “sono in un tunnel senza fine, non vogliono farmi rientrare nel mondo del calcio”.
 
Se ci fosse attenzione per il campione,
oggi sarebbe qui.
Se ci fosse più amore per il campione,
oggi saresti qui.
Ricordati di me, mio capitano,
cancella la pistola dalla mano 

Riesci, ora, a mettere a fuoco le cose, a scorgere il sottile filo rosso che parte da un calcio di rigore tirato il 30 maggio 1984 e arriva a un colo di pistola al cuore il 30 maggio 1994?
 
Riesci a capire in che senso “rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni significava ammettere un fallimento personale”?
 
Capisci perché Luca Di Bartolomei, il figlio di “Ago”, ha accettato il fatto “che ci si possa sentire manchevoli anche di fronte all’amore di un figlio e di una famiglia”, perché nulla di esterno a noi potrà mai “colmare le lacune del proprio animo”?

No, eh? Proprio non ce la fai, vero? Che pazienza che ci vuole…

Agostino Di Bartolomei si è sparato un colpo al cuore il 30 maggio 1994, nel decennale della finale contro il Liverpool. Suo figlio Luca ha sempre pensato a una “coincidenza”, a una bizzarria del destino che ha legato due cose – “una stupidissima partita di calcio” e il dramma del suicidio del padre – di per sé sconnesse. Ma ora dice di aver cambiato idea.

Riesci a intravedere quel che può essere accaduto nella testa, nel cuore e nell’animo di “Ago”?

Agostino non si è ucciso per “una stupidissima partita di calcio”, ma una “una stupidissima partita di calcio” rimane alla base del suo suicidio. Debiti, investimenti sbagliati, rancori familiari, piccoli fallimenti personali, e poi, sì, l’ingratitudine e indifferenza del mondo del calcio: un flusso di negatività che ha trovato il proprio catalizzatore in Roma-Liverpool, la 29a finale di Coppa dei Campioni, giocata a Roma, il 30 maggio 1984.

Non ci sarà mai la controprova, ovviamente, ma nel gioco del controfattuale – a prestare fede alla parole di Luca Di Bartolomei – non è da escludere che se il 30 maggio 1984 le cose fossero andate come sarebbero dovute andare, come avevano iniziato ad andare – con il Liverpool che sbagliava i rigori e la Roma che li metteva a segno, sulla scia del rigore di “Diba” – se quel 30 maggio 1984, sotto il cielo di Roma, fosse stata la Roma ad alzare la Coppa dei Campioni al cielo, forse non ci sarebbe mai stato un 30 maggio 1994.

Perché Agostino – per quanto male gli potessero andare le cose – avrebbe ancora avuto ciò che per lui, un uomo vero, un calciatore d’altri tempi, poteva essere il più grande motivo di conforto. Ho portato la mia Roma sul tetto d’Europa: la mia vita non è stata e non sarà mai inutile. E invece quel 30 maggio 1984 le cose andarono come andarono, e Roma-Liverpool si è progressivamente caricata di significati che oltrepassavano “una stupidissima partita di calcio”, sino a condurre al 30 maggio 1994.

Io non ti chiedo di giustificare il gesto di Agostino Di Bartolomei.
 
Ti chiedo di capirlo, e precisamente ti chiedo di capire – ora hai tutti gli elementi – che “l’amore di un figlio e di una famiglia non bastano a colmare le lacune del proprio animo”. Perché quando quelle lacune si allargano, un giorno dopo l’altro, senza trovare un argine o un punto di arresto, incontreranno fatalmente un evento – stupido a piacere – che farà boom. Come un colpo di pistola al cuore.

Roma-Liverpool poteva salvare Agostino, Roma-Liverpool ha ucciso Agostino. Se ancora non lo capisci, vuol dire che non sai trasformarti in un “Punto di Vista”, e allora – mi spiace – non puoi scrivere.
 

Chi cazzo è questo Carlo Bertini?

Ci sono tre modi di fare le cose:
il modo giusto, il modo sbagliato, il modo in cui le faccio io.
 
La felicità di un banchiere è stata a lungo custodita nella regola “3-6-3”: indebitati al 3%, presta il denaro al 6% e trascorri 3 mesi al sole dei tropici.

Ma nel 2008 Lehman Brothers fallisce, dichiara default, e dopo la bancarotta di Lehman nulla sarà più come prima.

“Fare il banchiere”, dopo Lehman, è un esercizio che quasi non fa presa sulle capacità umane: tassi di interesse sottozero, insolvenze una dietro l’altra, mercati in caduta libera, perdite che si accumulano in bilancio e costi di gestione che non si riescono a ridurre.

I quattro più grandi banchieri italiani – di fatto il 100% del mercato – si trasformano allora in gioiellieri. Sì, hai capito bene, in gioiellieri: propongono alla clientela “diamanti da investimento”, per un controvalore complessivo di 2 miliardi di euro.

“Rifugiarsi nei carati”, titola la rivista Il Mondo, il 30 marzo 2012 (p. 56).
 
“Meglio del mattone e dell’oro” leggiamo sul quotidiano La Stampa del 18 novembre 2013 (p. 23).
 
“Ecco perché chi investe in diamanti fa affari d’oro” ci spiega Il Venerdì di Repubblica, il 30 gennaio 2015  (p. 52).
 
“Sicuro, intoccabile e verso l’esaurimento”, afferma l’inserto A&F di Repubblica, il 24 ottobre 2016 (p. 60).
 
Tutto meraviglioso.

Peccato solo che l’investitore paga 100 un diamante che ne vale 60. Cosa? Come dici? Vuoi sapere cosa sono gli altri 40? E me lo chiedi pure? Sono le commissioni di vendita caricate dal banchiere sul valore intrinseco del diamante, da spartire con le società fornitrici.
 
E se ti venisse il prurito di restituire il diamante al banchiere che te l’ha venduto, se volessi rientrare del tuo investimento, non aspettarti di ricevere 60. Troppo facile. Come ci sono commissioni di vendita, ci sono anche commissioni di acquisto, e se liquidi l’investimento, se metti all’incasso il tuo diamante di valore 60, il banchiere te lo pagherà tra 20 e 30, ché mica siam qui a fare arricchire te, ti pare?   
 
Il bel diamante “da investimento”, al pronti-su-via, ha già realizzato una performance tra il –80% e il –70%!
 
Un diamante è per sempre.
La fregatura pure.

La vigilanza della Banca d’Italia arriva tardi sull’affaire diamanti, ma arriva: ispezioni, indagini, controlli, gruppi di lavoro.
 
E alla fine porta a casa il risultato: le banche, spintaneamente, rimborsano i clienti, si riprendono i diamanti e restituiscono il 100% dei capitali investiti.
 
Il cantante Vasco Rossi e la showgirl Federica Panicucci:
due dei nomi più famosi a cui erano stati proposti diamanti “da investimento”.

Tutti gli investitori hanno riavuto il loro denaro, grazie all’intervento della Banca d’Italia, che sarà pure stata incapace di prevenire la truffa, ma si è poi mostrata eccezionalmente efficace nel porvi rimedio.

Tutti hanno riavuto tutto, grazie alla Banca d’Italia, e nessuno alla fine si è fatto male.

Quasi nessuno.
 


Carlo Bertini, un funzionario del Servizio Supervisione Bancaria della Banca d’Italia – un “consigliere”, per usare la dizione esatta – alza la mano per fare una domanda.
 
Gli investitori sono stati tutti rimborsati, e non hanno avuto perdite, d’accordo, ma noi, come Banca d’Italia, come intendiamo regolarci verso quei banchieri che rimangono comunque responsabili di una truffa da 2 miliardi di euro?
 
 
La Banca d’Italia – come tutte le grandi organizzazioni – si muove storicamente con logica militare: il Capo Settore lascia la pratica sulla scrivania del Capo Divisione, che la porta sulla scrivania del Capo Servizio, che la fa avere al Capo Dipartimento, che la consegna ai membri del Direttorio, per atterrare infine sul tavolo del Governatore.
 
Il canale di trasmissione è inviolabile: ogni linea di comando può rapportarsi solo alle linee adiacenti, secondo la più stretta sequenzialità, e nessuno può saltare la gerarchia, per nessuna ragione.

Carlo Bertini salta la gerarchia.
 
Rimasto inascoltato dal suo Capo Divisione, si rivolge – in rapida sequenza – al Capo Servizio, al Capo Dipartimento, sino ad arrivare al Direttorio e al Governatore in persona.

Se non mi rispondete, se non mi spiegate quali misure la Banca d’Italia intende intraprendere verso i banchieri responsabili della truffa, io faccio escalation, e continuerò a fare escalation, sin tanto che non avrò soddisfazione.
 
Sulle mailbox del senior management e del board della Banca d’Italia si abbatte una tempesta di richieste di chiarimenti da parte di un oscuro Capo Settore.

Ai piani nobili di Palazzo Kock, in via Nazionale 91, comincia a circolare una domanda…
 

La Banca d’Italia si muove storicamente con logica militare, ma per tradizione ha pure un atteggiamento materno, bonario, conciliativo: non vuole casini, per dirlo in tre parole.

A Carlo viene offerta una promozione: da Capo Settore a Capo Divisione. Il che vuol dire diventare dirigente in un paio d’anni. Dirigente. Della. Banca. Di. Italia. Sai cosa significa? Significa incanalarsi verso una vita che il 90% delle persone non riuscirebbe a immaginare neppure nelle sue fantasie più spinte.

C’è solo una postilla. Capo Divisione, sì, ma della Divisione “Quality Assurance”, secondo il classico schema promoveatur ut amoveatur: attribuiamo una posizione gerarchica di maggior prestigio formale a una persona “scomoda”, per spostarla laddove non può dare fastidio.
 
È un modo indolore – citando Wikipedia – per sbrogliare “una situazione lavorativa caratterizzata da una velata mancanza di legalità, relativamente alla necessità di rimuovere una persona considerata un ostacolo all’andazzo comune, non perché inadeguata o incompetente ma proprio perché troppo efficiente e diligente nel proprio lavoro”.
 
Carlo rifiuta.
 


La Banca d’Italia si sente oltraggiata. E reagisce. Non hai voluto la promozione a Capo Divisione? Ti togliamo pure la qualifica di Capo Settore.

Il motivo del declassamento è infamante: mobbing.

Nel corso della gestione dell’affaire diamanti, Carlo avrebbe maltrattato i colleghi del suo team, li avrebbe sottoposti a pressioni ingiustificate, creando un clima lavorativo insostenibile, e comunque incompatibile con uno “stile Bankit” orientato a promuovere condizioni di lavoro il più possibile distese, vista la tensione già strutturalmente implicita nell’attività esercitata.
 
Carlo ha mobbizzato la sua squadra, secondo la Banca d’Italia. La stessa squadra che poi – a titolo d’esempio – gli inviava mail di questo tenore.
 
 
La guerra è iniziata, Davide su un fronte, Golia sull’altro, e non sembrano esserci dubbi su come finirà.

Ma ogni tentativo del gigante Bankitalia di annichilire la volontà del piccolo funzionario ribelle non sortisce altro effetto che accrescerne la determinazione a resistere.

I colleghi assistono – attoniti – a qualcosa che oltrepassa ogni orizzonte conosciuto e immaginabile.

È difficile parlare con Carlo, ricondurlo a una condotta ordinaria, “farlo ragionare”, come si sussurra nei corridoi di via Nazionale. È così complicato che la Banca d’Italia ne dispone una visita psichiatrica, per accertare “se ci sta ancora con la testa”.
 
Lo psichiatra è netto, nelle conclusioni: Carlo sta bene, è capace di intendere e volere, non ha nessun disturbo, neanche minimo, è solo stressato per tutta la vicenda – chi non lo sarebbe? – e se invece volete sentirvi dire che è pazzo, beh, non sarò io a dirvelo.

Carlo è forte e sano – “idoneo alla mansione specifica”, con le parole esatte dello psichiatra – e insiste nel chiedere spiegazioni: vuole sapere perché il suo lavoro di mesi, di anni, si è risolto in un nulla di fatto, solo perché i banchieri hanno chiesto scusa e rimborsato i clienti.

Se un ladro ruba, e poi lo beccano e restituisce il maltolto, lo lascereste andare bellamente in giro, solo perché nessuno ha subito danni? Perché non volete sanzionare i banchieri? Di cosa avete paura?

I colleghi abbassano lo sguardo, si voltano dall’altra parte, hanno altro da fare; i capi gli ricordano che tutti gli incartamenti sono stati trasmessi alla magistratura, e se ci sono davvero profili penali allora “la giustizia farà il suo corso”, come si dice con grande stile.

Sì, d’accordo, la giustizia farà il suo corso, ma perché la Banca d’Italia non procede per via amministrativa contro i principali banchieri italiani coinvolti in una truffa da 2 miliardi di euro?

Niente da fare, nessuna risposta.

Carlo cambia strategia: si rivolge all’Internal Audit, il Servizio della Banca d’Italia deputato a verificare che tutti i lavori della stessa Banca d’Italia siano eseguiti in conformità alle procedure stabilite dai regolamenti interni.

Venite, venite! Venite nel Servizio Supervisione Bancaria, cari colleghi dell’Internal Audit, per verificare se nella gestione del “caso diamanti” sono state rispettate tutte le procedure previste, o se interi passaggi sono stati allegramente saltati a piè pari, per non dare fastidio ai banchieri più potenti d’Italia…

L’Internal Audit archivia la denuncia di Carlo: non ci sono gli estremi per avviare una verifica interna, dati gli elementi informativi prodotti.

L’Audit non interviene, ma Carlo ha passato il segno, e non si può più far finta di niente.

Lunedì 25 ottobre 2021 il personale della Banca di Italia si sveglia con una mail – inviata il sabato prima – che per quanto prevedibile col senno di poi, lascia comunque esterrefatti.
  
 
C’è un’imprecisione, nel messaggio urbi et orbi di Carlo.

La sospensione non è – non può essere – “a tempo indefinito”. La sospensione è – per definizione – una misura temporanea: ti sospendo in attesa di prendere una decisione, nei termini fissati dalla legge.

Il messaggio della Banca d’Italia è cristallino: torna all’istante nei ranghi, rimettiti in riga, smettila di piantare casini, abbassa la voce, anzi no, azzittati proprio, e fingeremo che non sia successo nulla; altrimenti…

Carlo abbozza un sorriso e alza un sopracciglio.

Non avete voluto dare spiegazioni a me? Le darete all’Italia intera.

Lunedì 13 dicembre 2021, alle 21.00, su Rai3, va in onda il primo whistleblower di via Nazionale.
 
 
La Banca d’Italia, se non a pezzi, ne esce comunque malconcia: passa il messaggio che Palazzo Koch sia popolato da una massa di burocrati capaci solo a giocare al rimpallo delle responsabilità, preoccupati unicamente di salvaguardare la propria carriera.

L’imbarazzo istituzionale è tutto nella registrazione delle parole della Vice Direttrice Generale Alessandra Perrazzelli, la quota rosa nel Direttorio della Banca d’Italia, che spiega a Carlo – e a tutti noi – come si sta al mondo, in questo mondo di ladri.
 
 
Il 16 dicembre, a tre giorni dalla puntata di Report, il Direttore Generale della Banca d’Italia si rivolge all’intera compagine attraverso una lettera aperta, pubblicata sulla intranet aziendale.

Si parla di “pesanti insinuazioni”, di una ricostruzione dei fatti “lacunosa e distorta”, e si invocano i “vincoli di riservatezza” per rimandare alle sedi opportune “i passi necessari per tutelare la reputazione e l’onore della Banca d’Italia”.

Per quanto è possibile divulgare pubblicamente, si fa rinvio a “una nota che contiene elementi utili a far chiarezza”, tenendo a precisare che “le ipotesi di oscuri condizionamenti esterni sono pura fantasia”.


Che l’istituzione difenda sé stessa, che i vertici della Banca d’Italia ci mettano la faccia per tutelare il proprio prestigio, è più che comprensibile.

Ciò che spiazza è il sommovimento “dal basso”.

Le prime linee si compattano, fanno muro, e il 21 gennaio 2022, sotto lo pseudonimo “BANKITALIA”, spediscono una lettera anonima a Carlo, per intimarlo di smetterla “di infangare la Banca e tutti noiperché i conflitti vanno gestiti all’interno della Banca, perché la Banca garantisce la possibilità di farlo”.


 
Carlo era stato avvisato. Gli erano state date delle spiegazioni. Ma non si è arreso.

Il 18 luglio 2022 la Banca d’Italia emette il suo verdetto: il consigliere Bertini viene destituito, congedato con disonore per alto tradimento.
 

Carlo Bertini ha violato tutti i regolamenti interni e i codici di disciplina della Banca d’Italia? Sì. 
 
Carlo Bertini meritava il licenziamento? Probabilmente sì. 
 
Carlo Bertini si è andato a cercare lo stigma dei colleghi? Diciamo di sì, diciamo. 
 
Carlo Bertini ha trasferito sulle spalle della moglie una quantità di stress, ansia e angoscia che avrebbero ucciso un toro? Sì.
 
Carlo Bertini ha compromesso in modo irreparabile, non solo la sua vita, di cui può anche non importargli nulla, ma soprattutto le prospettive e le possibilità delle sue due figlie? Sicuramente sì.
 
Carlo Bertini si è procurato da solo tutto il male che gli è accaduto? Sì.
 

Io non ti chiedo di essere dalla parte di Carlo Bertini.

Ti chiedo però di capirlo, almeno un po’.
 
E nel chiederti di capire Carlo Bertini, ti sto invitando a verificare la tua conoscenza di un principio fondamentale della natura umana, codificato nella cosiddetta piramide di Maslow.
 
Ti avevo detto – nel modulo 14 – di studiare bene la piramide di Maslow.
Lo hai fatto, sì?
Anche perché, altrimenti, come farai a capire la posta in gioco
,
quando parleremo di sceneggiatura?

Maslow ti dice – molto alla buona – che devi prima smarcare i bisogni collegati alla sopravvivenza (devi rimanere vivo, la base della piramide); solo dopo ha senso conseguire  la sicurezza personale (una casa, un lavoro, il primo livello della piramide); a quel punto puoi iniziare a coltivare il mondo degli affetti (amore e amicizia, i livelli successivi); puoi quindi passare alle esigenze dello spirito (reputazione, credibilità e stima, i livelli superiori); e infine votarti all’autorealizzazione (per entrare in contatto con la dimensione mistica, il vertice della piramide).

La piramide di Maslow traduce e formalizza un’intuizione che rimane ancora valida, per quante critiche possa aver ricevuto nel tempo: per scalare un gradino più alto bisogna prima aver acquisito e consolidato tutti i gradini precedenti,  la piramide si costruisce cioè uno strato dopo l’altro, con una stretta sequenzialità.

Qual era il problema del professor Keating – notiamolo, vista l’occasione – nel film L’attimo fuggente? Perché mai – nel modulo 4 – lo avevamo definito un falso amico? Semplice: perché Keating spingeva i ragazzi verso il livello più alto della piramide – l’autorealizzazione – quando ai ragazzi mancavano tutti i livelli precedenti, o meglio, quando quei livelli non erano ancora sotto il loro pieno controllo, non erano consolidati. È rischioso scalare la piramide, se i piedi poggiano su strati  friabili. Puoi pure riuscirci, ma puoi anche fallire. Esattamente come avviene nel film L’attimo fuggente.

E ora presta la massima attenzione: sì, la piramide la scali uno strato dopo l’altro, secondo una rigida gradualità, ma quando ti trovi sul vertice, quando difendi un principio etico, morale o religioso, quando senti di dover rendere conto esclusivamente alla parte migliore di te, allora sei pronto a mettere in gioco tutto, persino la sopravvivenza, pur di non cedere la tua posta in gioco.

La piramide la costruisci un gradino alla volta, ma se arrivi sulla vetta, se stai lottando per l’autorealizzazione, allora sei pronto a schiantarti al suolo in un solo istante, pur di tenere duro sul tuo ideale.
 
Estratto da Teoria dei Sentimenti Morali, di Adam Smith.
 
Ora riesci a capire Carlo Bertini?


Se ancora non ce la fai, allora significa che non sai adottare un punto di vista, e di conseguenza – mi spiace – non puoi scrivere.

Essere Monica Paniconi

Per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakovskij, malfatto,
continuarono gli altri, fino a leggermi matto…
 
Di tutte le calamità a cui la condizione della mortalità espone il genere umano, la perdita della ragione appare, a coloro che abbiano il minimo barlume di umanità, di gran lunga la più terribile, ed essi guardano a quell’ultimo stadio dell’infelicità umana con la più profonda commiserazione – ci fa notare il solito Smith, nella Teoria dei Sentimenti Morali Ma il povero infelice che la vive di persona forse ride e canta, e non si accorge affatto della sua disgrazia. L’angoscia che l’umanità prova a una simile vista, perciò, non può essere il riflesso di qualche sentimento della persona sofferente. La compassione dello spettatore deve sorgere interamente dalla considerazione di ciò che lui stesso proverebbe se fosse ridotto nella stessa infelice situazione, rimanendo, cosa forse impossibile, allo stesso tempo capace di osservarla con la sua attuale ragione e il suo attuale giudizio”.
 
È sempre il solito problema, la solita storia: la madre che trasferisce le sue paure nel corpo del bambino sofferente, l’uomo che si trasporta dentro una donna, i vivi che si immaginano morti, e ora i “normali” che si raffigurano “pazzi”; ma tutti, ogni volta, rimanendo sempre sé stessi – una madre, un uomo, un vivo, un “normale” – incapaci di essere l’altro, di trasformarsi nell’altro, di osservare e vivere il mondo dal punto di vista dell’altro, di un bambino, di una donna, di un morto, di un “pazzo”.

I pazzi ti suscitano compassione solo perché tu operi uno scambio fallace di posizioni, ti immagini come loro senza essere davvero loro, ti raffiguri una tua ipotetica vita da “pazzo”, continuando però a intenderla con la tua sensibilità da “normale”.

Dovresti chiederti cosa ne sai davvero dei “pazzi”, se vuoi davvero capire cosa voglia dire “essere pazzi”.

Posso dirti cosa ne so io, per via indiretta, per aver avuto una mamma che per oltre quarant’anni ha lavorato in un centro per disabili – l’AIAS di Catania, dove mi portava da bambino quando non sapeva con chi lasciarmi – e cosa ne so per via diretta, per averlo appreso durante l’anno di servizio civile presso l’Istituto “Leonarda Vaccari” di Roma (un’esperienza breve ma intensa, anche perché vivevo là dentro, mangiavo e dormivo lì, quindi era come se fossi sempre in servizio).

E cos’è – secondo te – che ti posso dire? Sicuramente quel che già dovresti sapere: che l’universo della disabilità è complesso, vario, articolato, ricco di sfumature, come tutti gli universi che meritano di essere conosciuti. E all’interno dell’universo della disabilità c’è il mondo di coloro con deficit intellettivi, i matti.

La matta dell’Istituto Vaccari si chiamava Monica Paniconi: cicciottella e un filo sgraziata nei movimenti, ma fisicamente abile e perfettamente autonoma in tutto; avresti pure potuto parlarci per un’ora buona, forse anche di più, senza esser sfiorato dal dubbio che – come dicevano i medici – aveva un gravissimo deficit di comprensione del mondo; ti sarebbe sembrata un po’ matta, sì, ma non più matta di tanti matti che vedi in giro per strada, o a cui magari ti rapporti pure ogni giorno; poi, certo, alla lunga lo capivi che non ci stava granché con la testa, ma – con buona pace dei medici e della loro diagnosi – era l’esempio più vivido che “non tutti quelli che ci sono, lo sono, e non tutti quello che lo sono, ci sono”, come si dice fosse scritto all’entrata di un vecchio manicomio.

Se ne andava in giro per i corridoi dell’Istituto con entrambe le mani stracolme di monete da cento e duecento lire – era il 1999 – le mostrava a tutti quelli che incontrava, e tra una risata e l’altra gli ricordava che “io so’ ricca, ammazza quanto so’ ricca!”.
 
Perché – com’è tipico dei bambini – attribuiva più valore al metallo che alla carta. Non c’era verso di convincerla a effettuare un cambio di banconote contro monete, semmai ti fossero serviti degli spicci per un caffè alle macchinette. Potevi anche offrirle – come le proposi più volte – una banconota da mille lire in cambio di una moneta da cinquecento, e potevi spiegarle con la santa pazienza che il cambio le era vantaggioso, perché “mille è molto di più di cinquecento”; ma non c’era verso, le monete non te la dava. “Aho, io mica so’ scema, sa’?”.

Quando – non saprei dire come – si ritrovava tra le mani delle banconote, la sua premura era di cambiarle all’istante in moneta. E allora c’era da divertirsi.

La portavo fuori, in giro, un po’ più lontano dalla zona dell’Istituto – dove tutti la conoscevano, e tutti, baristi, farmacisti e negozianti, le regalavano delle monete senza volere nulla in cambio – per metterla al cospetto di chi non l’aveva mai vista.

Entravamo in un bar, io ordinavo un caffè, mi sedevo al tavolino e le indicavo la cassa. “Vai Monica, vai a chiedere se ti cambiano le banconote”.

E lei andava alla cassa, con in mano diecimila lire, a chiedere la conversione in monetine.

Follia, no? Alla cassa di un bar – semmai – consegni monetine per avere banconote, così siete tutti felici, tu che ti sei disfatto di quel peso e il barista che sta sempre a corto di spicci.

I dialoghi tra Monica e le cassiere si sarebbero dovuti filmare, se ce ne fosse stata l’opportunità, e sono virtualmente impossibili da rendere in un racconto. Superato l’effetto sorpresa per quella insolita richiesta, la cassiera diceva di non aver abbastanza moneta, ma mica la sbolognavi così Monica Paniconi.

“Aho, guarda che ’o visto che c’hai ’n sacco de monetine, sa’?”.

E al rifiuto ostinato della cassiera, si imponeva con tutta la prepotenza romana. “Tu non hai capito! A me quei sordi me sevvono”.

A quel punto mi alzavo, la prendevo sotto braccio e l’allontanavo. “Dai Monica, si è fatto tardi, andiamo… magari proviamo da un’altra parte”.

La cassiera ci fissava allibita, si guardava intorno incredula, come se da un momento all’altro potesse apparire lo striscione “Sorridi, sei su scherzi a parte!”.

La trascinavo fuori a gran fatica, ma prima di uscire spesso si voltava, fissava la cassiera e con l’indice si picchettava la tempia. “Tu sei scema, tutta scema! Senti a me, sei proprio scema!”.

C’era un’altra cosa che la intristiva: quando, in Istituto, non le permettevano di telefonare “al mi regazzo”.

“Il mi regazzo” era un altro disabile, che la mattina stava in Istituto e il pomeriggio tornava a casa. E lei, Monica, tutte le sere infilava le sue preziose monete nel telefono a gettoni dell’Istituto – sì, era ancora l’epoca in cui era normale infilare gettoni in un telefono – per parlare “col mi regazzo”. Finché la famiglia del ragazzo non si lagnò per tutte quelle telefonate serali, e chiese espressamente di non essere più disturbata.

“Perché non mi fanno telefonare al mi regazzo? Io ci devo parlare, ci devo”.

Le pizzicavo la guancia e sorridevo. “Dai, Monica, tanto domani è di nuovo qui e lo rivedi, no?”.

E sul viso le ritornava un principio di felicità.

Con queste due uniche eccezioni – il rifiuto a cambiarle banconote in monete, il divieto di telefonare al suo ragazzo – Monica Paniconi era un raggio di sole perenne: sempre allegra e sorridente, sempre, con un tono di voce invariabilmente squillante, e un’impressionante voglia di vivere e di fare, di esistere, di far sapere al mondo che lei c’era, perché… “io mica so’ scema, sa’?”.

Per tutti noi, Monica Paniconi era la matta dell’Istituto – una ragazza con gravissimi deficit intellettivi, dicevano i medici – e sicuramente, sì, nessuno di noi avrebbe mai voluto essere come lei, “essere Monica Paniconi”.

Perché noi siamo normali.

Noi siamo capaci di guastarci un’intera giornata, a causa di una discussione sui social.

Noi consacriamo una vita intera alla “carriera”, a scalare questa curiosa montagna friabile che si affossa e si avvalla al nostro passaggio, lasciandoci solo la sgradevole sensazione di essere sempre fermi al punto di partenza, per quanto in alto si possa essere arrivati.

Noi soffriamo di continuo per raggiungere una felicità che abbiamo legato a noi come le finte lepri vengono legate ai levrieri impegnati in una competizione di corsa.

Noi sacrifichiamo tutto, in cambio di niente, perché tutto quello che conquisteremo in vita sarà un giorno confiscato da Sorella Morte, a cui però ci rifiutiamo di pensare, per rimanere poi sconvolti quando arriva, pur essendo l’unica certezza della vita.

Noi siamo normali, normalissimi, non come Monica Paniconi, affetta da gravissimi deficit intellettivi.

Non tutti i matti sono come Monica Paniconi, ovviamente, ma i matti sono anche Monica Paniconi, e come avrebbe cantato Cristicchi, “ora prendete un telescopio, misurate le distanze, e dite tra me e voi chi è più pericoloso”; ma dite pure chi è più felice e gioioso, chi si sta davvero godendo la vita, istante dopo istante, e chi invece quella vita la sta buttando nel cesso, giorno dopo giorno.

E se tutto questo mio discorso ti suona un po’ finto, artefatto, di plastica, se ancora non riesci a capire che la vita di un matto, vissuta dal didentro di un matto, con lo stato d’animo del matto, non solo non è così tremenda, ma può essere meravigliosa, così straordinaria da apparire tale anche a un individuo “normale” con un minimo di spirito di osservazione, allora potresti essere tu ad essere affetto da un gravissimo deficit interpretativo.

Permettimi di aiutarti.

Io non so nulla di musica, proprio come tu non sai nulla – non sapevi nulla, prima di questo manuale – di tecniche di scrittura e progettazione delle storie. Quel che io posso dire della musica è semplicemente se mi piace o non mi piace, se mi mette di buonumore o mi intristisce, se la trovo dolce, melanconica, soporifera.

E quando ascolto Un matto di De André, dalla sua personale Antologia di Spoon River, già la musica, soltanto la musica, mi mette allegria e spensieratezza, mi dà l’idea di un clima scanzonato, senza problemi.

È come se lo percepissi – grazie alla musica – quel “mondo nel cuore” che “non riesci ad esprimere con le parole”, ed è la musica a lasciarmi intendere che quel mondo non è come lo immagino, che può rivelare sorprese; e questa musica spensierata, briosa, che mi ha accompagnato per tutta la vita del matto, si intreccia a parole leggere e ricche di speranza quando il matto arriva a dormire sulla collina, quando “le mie ossa regalano ancora alla vita, le regalano ancora erba fiorita”.
 
Un matto.
 
E ora ascolta – per confronto – Un giudice, sempre dall’Antologia di Spoon River.
 
È una musica che restituisce un clima cupo, che fa avvertire tutta la la tristezza del “trovarsi adulti, senza essere cresciuti”; le vedi proprio le “notti insonni vegliate al lume del rancore” e lo senti il livore di chi trasforma le condanne a morte in “un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dall’addio”.
 
Un giudice.

E prosegui pure da solo con l’infinita malinconia di Un malato di cuore, di una musica che come nessun’altra riesce a “farsi narrare la vita dagli occhi”, a raccontare l’esistenza di chi si chiede continuamente “come diavolo fanno a riprendere fiato”, di chi ha conosciuto un solo istante di felicità, quando “la baciai” e “il cuore impazzì e ora no, non ricordo, da quale orizzonte sfumasse la luce…”.

Un malato di cuore.

Io non ti chiedo di desiderare di essere Monica Paniconi.
 
Ti chiedo però di capire che la vita di Monica Paniconi non è quell’inferno che credi, che la sua esistenza, di là delle apparenze, vale tanto quanto – e forse di più – di quella dei cosiddetti “normali”, perché non è meno ricca di significati, di scopi, di felicità, e forse lo è anche di più.

Se non lo capisci, mi spiace, ma non puoi scrivere.
 

Rimanere sé stessi

Il processo che ha condotto dall’ameba all’uomo
è apparso ai filosofi come segno di un evidente progresso.
Non si conosce al riguardo l’opinione dell’ameba.

L’arte dello scrittore è l’arte di un trasformista, e in ciò è massimamente affine all’attore, che per interpretare un personaggio deve abbandonare la propria forma d’essere.
 
E la difficoltà ad assumere il “Punto di Vista” di un altro non è mai così grande – tautologicamente – come quando si conserva il proprio, perché, sì, da scrittore hai anche questa possibilità: rimanere te stesso, costruire il personaggio attraverso un tuo calco, a tua immagine e somiglianza.

Esteriormente il tuo personaggio potrà essere qualunque cosa – un teenager, un calciatore un soldato, un medico, una strega – ma alla fine sei sempre e solo tu, solo che ti sei mascherato, assecondando lo stesso atteggiamento di chi si maschera da toro, divano, murales, posacenere. Cambia il costume di carnevale, ma non l’approccio, la mentalità. Stai solo scrivendo di te stesso, ti stai replicando, solo sotto forme diverse.

Puoi pure farlo, per carità, ma sai qual è il problema? Che non potrai scrivere più di una storia. Perché già alla seconda, e figurarsi alle successive, il lettore tiepido noterà subito l’ovvio: che buffo… questa strega assomiglia tanto a quel medico, che pareva proprio uguale al soldato, che era identico al calciatore, che era la fotocopia del teenager.

Sempreché, si intende, non ti abbia già sfanculato alla prima pagina della storia del teenager.
 
Non commettere l’errore di Claudio Amendola: 
non avere paura di interpretare un ruolo,
trova il coraggio di trasformarti in un “Punto di Vista”.
 
 
 
Questo è esattamente ciò che NON DEVI FARE.
Se intendi scrivere venti romanzi con venti storie diverse,
ma sai bene che è sempre e solo la tua storia che stai raccontando,
se intendi passare la vita a rivoltare il tuo passato
nel tentativo di metterlo in ordine sulla pagina,
fai un favore all’umanità intera:
NON PUBBLICARE NULLA.
Ogni anno, in Italia, si stampano 85.000 libri,
e non serve aggiungere altri strati di merda a questa montagnola.
 
 
 
Minuto 0.33:
 
“Lei scrive sempre lo stesso libro, tante varianti diverse, ma alla fine è sempre la stessa cosa.
È un po’ come il polpettone: ci puoi mettere ingredienti diversi,
ma viene sempre un polpettone, sa sempre di polpettone”.


Fabiana

La campanella delle undici annuncia la ricreazione. Il rumore delle sedie nell’aula è un tutt’uno col vociare della classe; dal corridoio arrivano grida e risate, battiti di mani e lo scalpiccio di una folla in movimento giù per le scale.

Sulla lavagna c’è ancora un festival di x e y, una S stiracchiata davanti a (x+c)dx e un x→0 sotto un lim.

Mi gratto la nuca. Come faceva quella canzone? La matematica non sarà mai il mio mestiere. Appunto: questa roba non la capirò mai.

Monica le dà uno scappellotto. «Alza il culo, Fabiana!»

«Arrivo, rispondo a un messaggio e arrivo.» Rimane piantata sulla sedia, a giocherellare con l’iPhone. Solleva appena lo sguardo, mi fissa per un istante e torna con gli occhi sullo schermo. Che attrice che è...

Il frastuono va a scemare, gli schiamazzi dei ritardatari si affievoliscono, il silenzio torna padrone del piano.

Fabiana tortura un ricciolo, sorride e mi fa l’occhiolino. «Andiamo?»

Passa tra i banchi come una modella a una sfilata. Mi prende per mano, ride e mi trascina verso la porta. Mi libero di scatto.

«Oh, ma sei scema?»

«E dai, su! Bagno dei maschi o delle femmine?»

«Dei maschi, dei maschi.»

Dalle finestre filtra la luce di un  sole pallido, in un corridoio deserto. Il mio cuore batte al ritmo dei suoi stivali neri: che follia! Lei è pazza, e io più di lei. Accelero il passo, la supero. Due matti, siamo due matti veri.

Ci blocchiamo davanti ai bagni. Spedisce in su le sopracciglia sottili e fa un sorriso che le solleva tutte le lentiggini.

«Beh?! Che stiamo aspettando?» 

Con l’indice sul naso le intimo di stare zitta. Trattengo il respiro, apro la porta e mi sporgo: campo libero. Le faccio segno di aspettare fuori ed entro. Una porta dei cessi è spalancata, le altre tre socchiuse. Spingo la prima: nessuno. La seconda: nessuno. La terza: nessuno. Perfetto.
 
«Dai, entra, sbrigati!»
 
La strattono per un braccio e la porto nell’ultimo dei cessi. Giro la levetta, appoggio le spalle al muro e sospiro. Il water perde acqua, un vento gelido entra dalla finestrella in alto. La chiudo con una manata. Due pazzi, ecco quello che siamo: due pazzi.

Fabiana mi balza addosso, azzanna il collo e succhia. Un brivido mi attraversa il corpo. L’allontano di forza.

«Mi lasci il segno, smettila…»

Ride e mi sbottona la camicia. Le sue unghie sono artigli bianchi, con sopra fiorellini rosa su rami neri. Mi passa la lingua intorno a un capezzolo e artiglia le spalle, dà slinguate qua e là. Le infilo la mano tra i riccioli biondi e le premo il viso sul petto. Gli artigli affondano, graffiano. Soffoco un grido mordendomi un labbro, un gemito riempie il bagno.

Si inginocchia, mi slaccia la cintura e tira giù la cerniera. Con un colpo deciso abbassa insieme boxer e pantaloni: lo prende in mano e lo sega; lascia partire una smitragliata di bacetti su tutta la cappella; stringe le palle, le massaggia. Ansimo in silenzio: che fantastica che è!

Le metto una mano sulla nuca per bloccarla e glielo ficco in bocca. «Dai!»

Mi agguanta le chiappe e va avanti e indietro con la testa. Infilza le unghie nel culo e aumenta il ritmo, i riccioli dondolano, la cappella s’ingrossa. Tiene gli occhi chiusi e mugola.

«Dai, daii!» 

Si stacca  e sbuffa come alla fine di una corsa. La tengo ferma e glielo rinfilo più in fondo che posso, do una serie di colpi di bacino. Si stacca un’altra volta e sorride.

Le tiro i capelli e le porto giù la testa. «Leccami le palle.»

Le stuzzica con la punta della lingua, ne prende una in bocca e succhia. Serro le labbra e mi sego. Molla la preda e si lancia sull’altra. Se continua così, sborro.

«Dai, dai» La mia mano corre veloce «Dai, così… sì»

Le allontano la testa e sulla faccia le arrivano tre schizzi abbondanti. Ancora un colpo ed e esce il resto, gli ultimi sgoccioli mi sporcano le mani.

Una smorfia sorridente le storpia il visino. Strappo un pezzo di carta igienica e glielo le pulisco.

«Alzati, dobbiamo tornare in classe.»

Sbatte le palpebre, si tasta la fronte, le guance e stira una ciocca e si guarda la mano. Sgrana gli occhioni azzurri.  «Cazzo, ma pure sui capelli?! Ma vaffanculo!»

«Oh, ma sei scema? Abbassa la voce.»

«Va-fan-cu-lo,» sussurra.

«Alzati e andiamo: sbrigati!»

Apro la porta principale del bagno: il corridoio è ancora deserto, perfetto. Le faccio segno di uscire; con una pacca sul culo la invito a sbrigarsi ad andare via. Si alza sulle punte, mi schiocca un bacio in bocca e s’incammina svelta verso l’aula. Che culo fantastico!

La campanella delle undici e venti spezza il silenzio. Sospiro, anche stavolta è andata.

Procedo a passi lenti lungo il corridoio, mi blocco vicino al tavolino del bidello e mi affaccio alla finestra: una massa di ragazzi è in marcia verso l’ingresso. Okay, aspettiamo che rientri un po’ di gente.
 
Un gruppetto di ragazze mi viene incontro. Ridono e spariscono dentro un’aula. Il corridoio si ripopola, le voci si accavallano, la professoressa Santoro mi saluta con un sorriso e la ricambio con cenna dalla mano.

Okay: ora posso tornare in aula anch’io.

Il baccano della classe sfuma in un bisbiglio. Salgo sulla pedana della cattedra e il bisbiglio diventa silenzio.

«Giuffrida, fai il favore: cancella la lavagna.»

La spugnetta passa su quei geroglifici, le x e le y scompaiono sotto colpi regolari, piccole nuvole di polvere di gesso invadono l’aria e si dissolvono. Ma la Santoro la capirà davvero questa roba che insegna?

Monica mi sorride e torna al suo posto. Ha un culo che fa provincia, ma qualche lezione privata la darei anche a lei.

Apro la cover del tablet, do un colpo sull’icona del registro del docente e un colpo sul registro voti: Barbanera, Barbagallo, Bartilotti, Cavallaro. Il dito scorre sullo schermo: Russo, Scuderi, Silvestri. Cazzo! Silvestri ha una sola interrogazione, più di due mesi fa.

Piazzo i gomiti sulla cattedra e mi scrocchio le dita. «Silvestri.»

Ha la testa piegata sul banco, i riccioli biondi le nascondono il viso. Cavallaro mi guarda e le dà una gomitata. Niente, non si muove. Giuffrida si gira verso di lei, con la mano che le copre la bocca.

«Silvestri, interrogata,» grido battendo il pugno sulla cattedra.

Trascina la sedia sino al muro, prende il libro dallo zaino e si avvicina imbronciata. Sbatte “Inferno” sulla cattedra e reclina la testa, i riccioli tornano a coprirle il viso.

«Stronzo,» sussurra.

Sospiro. «Silvestri e…» Passo in rassegna la classe con uno sguardo. «… Barbanera.»

Il panzone solleva i suoi cento chili e barcolla verso la cattedra infilandosi la camicia azzurra dentro i pantaloni. 

Ma sì, dai, facciamo questa bella accoppiata: la bella e la bestia.

«Allora Barbanera, andiamo all’inizio del canto trentatré: lettura e commento.»

Apre il libro e lo sfoglia. Deglutisce. «La bocca sollevò dal fiero pasto»

La risata della bella immobilizza la bestia, che con lo sguardo mi chiede il permesso di proseguire la lettura. Gli faccio cenno di andare avanti.
 
Tira su col naso, si sistema gli occhiali a fondo di bottiglia e china il faccione sul libro.

«Quel peccator, forbendola a capelli del cap»

Fabiana sogghigna a testa bassa, le mani congiunte le coprono naso e bocca, mi fissa con gli occhi sgranati: che impunità che è.

«Silvestri, lo trovi divertente?»

«No, professore.» Rialza la testa e agita le mani. «Mi scusi.»

«Vuoi commentarlo, Silvestri? Così magari la smetti di ridere.»

«Si, professore, mi scusi.» Prende un bel respiro, tira fuori un fiocca viola dai jeans e si lega la chioma dorata. «Siamo al fondo dell’inferno, nel girone dei traditori. Dante incontra il conte Ugolino della Gherardesca, di famiglia ghibellina, poi passato alla fazione guelfa, anche per l’amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti. Il fiero pasto è niente meno che il cranio dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini…»
 
Gesticola come se volesse dar vita al girone infernale e ai personaggi che popolano. Le tette le formano una duna sul maglione rosso: la prossima volta voglio giocarci un po. Le mani volteggiano, pare stia suonando un pianoforte per accompagnare la spiegazione. Chissà quanto le ci vorrà per conciarsi le unghie in quel modo?

«… e tutta la vicenda si svolge nella cosiddetta Antenòra, la seconda delle zone in cui è distinto il nono cerchio, che punisce i traditori della patria o del partito…»

Mi massaggio il pizzetto, annuisco e le sorrido. È porca, ma è brava. Ha studiato, cazzo se ha studiato: ne ero sicuro. È pur sempre la prima della classe…
 

Perché ti ho proposto Fabiana?
 
Perché rischi di addormentarti, se ogni tanto non ti piazzo una bagattella porno? Sì, può darsi.
 
Oppure per allentare la tensione di un post diventato insopportabilmente pesante? Sì, anche.

Ma sai qual è il vero motivo? Ti ho proposto Fabiana per diffidarti dal fare quel che si fa in Fabiana. Sto parlando del creare ambiguità nel “Punto di Vista”. Cosa avevi capito?

Chi è il “Punto di Vista”, in Fabiana? Il professore. Già. Ma quando lo hai capito? Solo due su dieci ci erano arrivati, nel mio campione di test, prima che la dinamica della scena lo rivelasse. Per tutti gli altri, il “Punto di Vista” era un compagno di classe di Fabiana, e tutti si sono lasciati andare a un’esclamazione di stupore quando lo hanno visto… salire in cattedra.

No, no, no, e ancora no. Non è così che si fa. L’ho fatto io, solo per farti capire cosa non devi fare tu. Ricordi la regola dei colpi di scena? L’abbiamo enunciata nel modulo 10: il lettore non può sorprendersi, se il personaggio non si sorprende. Questa bambinata di sorprendere il lettore, creando ambiguità di “Punto di Vista”, lasciala appunto ai bambini, intesi?
 
Comunica chiaramente il “Punto di Vista” sin dalle righe iniziali e rimani dentro il “Punto di Vista”: pensa, parla, percepisci e agisci esattamente come farebbe il personaggio “Punto di Vista”, e tutto andrà alla grande.
 
Un pompino non si materializzerà per magia davanti agli occhi del lettore
soltanto perché tu sei stato così geniale da scrivere la parola “pompino”.
Se il pompino è rilevante ai fini della storia, allora mostrerai il pompino “in azione”,
senza mai scrivere esplicitamente la parola “pompino”, ma chiarendo in cosa consiste.
Se il pompino non è rilevante, ma vuoi far capire che è avvenuto, allora realizzerai un taglio di scena.
Lei potrebbe abbassargli i pantaloni e inginocchiarsi,
e lui potrebbe dirle qualcosa del tipo “sbrighiamoci, tra dieci minuti dobbiamo essere in classe”.
A quel punto scatta il taglio di scena – spesso segnalato da tre asterischi – 
e i personaggi li ritroviamo in classe, a scambiarsi un sorriso complice;
e il lettore, che non è un cretino totale, capirà da sé quel che è successo tra i due,
nell’intervallo temporale che lo scrittore ha omesso di riportare sulla pagina.
Mostrare la dinamica di un pompino non è volgare.
Occultare un pompino, lasciando intendere che è avvenuto, non è volgare.
L’unica, autentica, volgarità artistica è scrivere “pompino”,
credendo di aver così evocato un pompino nella testa del lettore.

Commenti

Post popolari in questo blog

L’ARTE DI EMOZIONARE

MODULO 19 – Infodump e rottura della quarta parete: il marchio dei dilettanti

Modulo 18F – Il luogo è un personaggio