Modulo 18B – Briciole sparse sui “Punti di Vista” multipli


Sei su questo blog perché vuoi imparare a scrivere (e di riflesso a leggere e a vedere film e serie tv) e non perché sei già uno scrittore affermato. Quindi ti ribadisco la mia indicazione di base: scegli un “Punto di Vista”, uno solo, ed entra nel personaggio affinché anch’io, lettore, possa essere lui, il personaggio, attraverso la tua creazione.

Una storia, un “Punto di Vista”, una storia, un arco di trasformazione, come imparerai a dire a conclusione del modulo 23.

Dopodiché, però, due parole diciamole sui “Punti di Vista” multipli, non fosse altro per non lasciare insoddisfatta una sciocca curiosità che potrebbe pregiudicare il tuo apprendimento.

Ti darò solo delle briciole, nulla di sistematico e strutturato, non ora almeno, perché non ne vale la pena. Forse, un domani, tornerò su questo modulo per arricchirlo. Per ora rimaniamo sull’essenziale, con l’obiettivo di toglierti ogni prurito.

Vi dovete spaventare – ho voglia di urlare a là Richard Benson – all’idea di usare “Punti di Vista” multipli, e quindi, sostanzialmente, lasciarli perdere.

 
Partiamo da un dato di fatto: quando si parla di “Punti di Vista” multipli si aprono ∞ casistiche. Chiunque affermi il contrario, e ti voglia dare a intendere che vi sono solo n situazioni possibili, non sa di cosa sta parlando (come se qualcuno ti dicesse che le note sono solo 7: evidentemente ignora il procedimento per intercalarle nella scala musicale). Qualunque elenco con pretese esaustive risulterebbe al tempo stesso incompleto e prolisso.

L’unica distinzione significativa – perché utile per analizzare molte sceneggiature – e tra “Punti di Vista” multipli detenuti da personaggi coprotagonisti e “Punti di Vista” multipli detenuti da personaggi strutturalmente diversi.
 

I coprotagonisti: molteplicità apparente

Immagina un’ambientazione in stile L’attimo fuggente.

Il nostro personaggio è un ragazzino di sedici anni, con l’anima agitata da tutti i tormenti tipici di quell’età (come vediamo nel film). Buttiamo giù una possibile lista di cose che il nostro ragazzino deve imparare:
  • emanciparsi dalla famiglia, capire che lui non è la sua famiglia, che le aspettative dei genitori non sono obblighi da assolvere, sempre e comunque, anche quando contrastano violentemente con la propria anima;
  • vincere la timidezza che lo porta a isolarsi e a perdere così quelle esperienze che se non le vivi ora, che sei un ragazzo, probabilmente non le vivrai più, e che sicuramente non avranno mai lo stesso gusto del viverle adesso, quando devono essere vissute;
  • evitare quelle reazioni scomposte con cui a volte cerca di vincere la timidezza, che non producono però nessun risultato, se non farlo stare peggio a livello emotivo e a subire punizioni;
  • trovare la forza per manifestare i propri sentimenti verso le ragazze, per mettersi in gioco, per rischiare se occorre, perché forse, chissà, quella ragazza non sta aspettando altro. 
Questi sono i tratti generali del profilo caratteriale del nostro personaggio, da tradurre poi in comportamenti effettivi, in accordo con lo schema anticipato nel modulo 15A e che riprenderemo nel modulo 18D.

È tanta roba, accidenti. Infilare tutte queste cose in un unico personaggio non è una passeggiata. E poi, in questo caso specifico, si rischia di creare una macchietta, lo sfigato della scuola, il nerd, se non si è particolarmente abili a declinare in fattispecie concrete i tratti generali, dosandoli al punto giusto.

E allora cosa si fa? Semplice: si creano quattro personaggi diversi – che chiameremo coprotagonisti – tutti emanazione dell’ideale personaggio iniziale – il personaggio “padre” – e ognuno portatore di uno specifico profilo caratteriale.

È proprio la situazione creata nel film L’attimo fuggente: Neil Perry (il ragazzo suicida), Todd Anderson (il primo a salire sul banco), Charlie Dalton (il casinista che sarà espulso) e Knox Overstreet (il ragazzo innamorato della biondina già fidanzata) esprimono ognuno un tratto – e solo quello – del personaggio ideale costruito a tavolino: sono “le quattro parti di un’anima”.
 
Noi vediamo quattro personaggi diversi, ma ognuno di loro è una manifestazione specifica di un unico personaggio che sarebbe stato complicato o sconveniente gestire come un monolite.
 
L’attimo fuggente è uno dei film più fraintesi della storia.
Tanto è piaciuto, quanto poco è stato capito.
Qui ne vedi una dimostrazione:
la signora “Sapore di Libri” pensava che il protagonista fosse Neil, e poi invece ha capito che è Todd.
Ha sbagliato prima, ha capito male dopo, e continuerà a dire “cose a caso”
(che per avventura potranno pure rivelarsi giuste, ma più probabilmente rimarranno errate)
com’è inevitabile quando si danno giudizi a intuito, a buon senso, e più spesso “a cazzo”.
Il protagonista del film è un immaginario ragazzo di sedici anni 
che nessuno vede mai per intero, ma solo a sezioni attraverso i coprotagonisti.
 Todd è (co)protagonista quanto lo è Neil.
E il fatto che l’arco di Todd sia eroico, e quello di Neil invece tragico,
serve a denunciare tutta l’ambiguità dei metodi di insegnamento di Keating.
L’opera è chiarissima nel comunicarlo.
A Cameron viene messa in bocca una battuta che chiude ogni discorso:
“Noi siamo le vittime. Noi e Neil.
Ce l’hanno col professor Keating, col capitano in persona.
Non penserete che lui non abbia nessuna responsabilità, vero?
Tutte quelle balle non ce le ha messe in mente Keating?
Se non fosse stato per Keating, adesso Neil se ne starebbe nella sua stanza
a studiare chimica e a sognare di diventare medico”.
Se poi uno non vuol sentirlo, o vuole capirlo “a modo suo” (e cioè “a cazzo”) faccia pure.
Ma l’opera lo dice chiaramente: “Non penserete che lui non abbia nessuna responsabilità, vero?”.
Ovvio che Keating ha la sua quota di responsabilità,
perché è un fatto che, senza Keating, “Neil se ne starebbe nella sua stanza a studiare”.
E la responsabilità di Keating – come già notato nel modulo 18A
è nell’aver spinto i ragazzi direttamente verso il vertice della piramide di Maslow
quando ancora non avevano conquistato i livelli intermedi.
L’arco tragico di Neil è il prezzo da pagare per l’arco eroico di Todd.
Un prezzo piuttosto alto, non trovi?
Perché – e siamo al punto – il film restituisce un messaggio cristallino,
per chi sa guardarlo senza pregiudizi e col cervello acceso:
la scuola aveva ragione, il professor Keating si sbagliava.
Tu puoi pure pensare che sia meraviglioso avere un Keating come insegnante,
ma L’attimo fuggente è del parere contrario.
 
 
 
Da quando strappare libri è diventata un’azione educativa?
Quale sarebbe la differenza rispetto ai roghi dei nazisti?
Non sei d’accordo sul contenuto del testo?
Criticalo, contro-argomenta, spiega il tuo punto di vista.
Ma non strapparlo, per l’amor del cielo!
E hai notato chi è il primo studente a strappare la pagina?
Charlie Dalton. Pensi sia un caso? Ovvio che no.
Perché anche l’arco di Charlie è tragico.
Anche Charile, come Neil, non riesce a superare il suo difetto fatale,
perché Keating li ha messi di fronte a sfide troppo più grandi di loro. 
Cavolo quanto è costata quella salita finale sui banchi, capitanata da Tom Anderson! 

Imparerai a esprimerti correttamente nel modulo 23B, e allora dirai che i coprotagonisti si rendono necessari quando il difetto fatale del protagonista è così articolato e ricco di sfumature, da suggerirne la spalmatura su più personaggi.

Per ora facciamola semplice: abbiamo “Punti di Vista” multipli con coprotagonisti quando un unico personaggio ideale viene scisso funzionalmente in n personaggi reali, ognuno espressione di uno specifico tratto del calco iniziale.

È quindi relativamente facile intrecciare le storie dei coprotagonisti, perché tutti provengono dalla stessa matrice, e quindi si potrà tenerli assieme in una stessa trama con un minimo di accortezza e sensibilità artistica.
 
Proprio come avviene nel film L’attimo fuggente.
 
I profili caratteriali del protagonista ideale,
materializzati nei coprotagonisti del film L’attimo fuggente.
 

I protagonisti separati: molteplicità reale

Le storie con coprotagonisti sono l’esempio più semplice di storie corali: è una coralità apparente, superficiale, nel senso letterale di “stare in superficie”, perché poi, sotto, i coprotagonisti sgorgano tutti dalla stessa fonte, da un unico personaggio ideale, e quindi si trovano nativamente connessi (è come se venissero fuori da un parto plurigemellare eterozigoto).

Le cose cambiano quando si parla di storie corali in senso stretto, con n personaggi realmente diversi, strutturalmente separati all’origine.

Perché a quel punto la tua storia dovrà accogliere e armonizzare n storie diverse – tecnicamente: n archi di trasformazione, cioè n status quon incidenti scatenanti, n chiamate all’azione, n midpointesperienze di morte, n momenti di trasformazionen climaxn epiloghi – e non puoi certo limitarti a impilarle una sull’altra: primo, perché se una storia prende di regola 350 pagine, tu non puoi pensare di scrivere un libro di 300×n pagine; e, secondo, perché nessun lettore tiepido vuole leggere n storie separate, ma semmai una storia unica in cui se ne intrecciano n.

Devi quindi operare una riduzione dimensionale degli n archi di trasformazione, sia per rimanere entro un numero umano di pagine, sia per dare una sensatezza all’intera vicenda.

Ovviamente non ci riuscirai. E quindi sarai obbligato a imbarcati in una storia seriale che – detto molto alla buona, nella logica delle briciole sparse – significa scrivere l’ennesima trilogia di cui sinceramente nessuno sente il bisogno 

E ovviamente non manderai nulla in giro di ciò che hai scritto, finché la trilogia non sarà completa; e siccome non lo sarà mai – perché lungo il cammino ti scornerai con problemi di cui ignoravi bellamente l’esistenza – nessuno vedrà mai ciò che hai scritto; ed eccoti arrivato al primo motivo per cui il tuo libro non è stato ancora pubblicato: perché non l’hai finito.
 
Come volevasi dimostrare.
Questa autrice ha confuso la narrativa scritta con le serie tv,
la storia di un personaggio nel mondo della pagina
con una storia corale da 8 stagioni di 10 puntate ciascuna.
 
Non so a te, ma a me è venuta l’ansia a spiegarti – anche solo a grandissime linee – cosa significa creare una storia corale con “Punti di Vista” strutturalmente separati.
 
Parafrasando Aldo – del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo – “miiiii… basta! Ora mi sparo nelle ginocchia, soffro per il dolore, ma almeno mi evito di scrivere una storia corale…”.
 
Una storia con due protagonisti strutturalmente diversi:
l’arco tragico di Once-ler offre lo spunto per l’arco eroico di Tedd,
e l’arco eroico di Tedd riscatta al tempo stesso Once-lear.
“Sei stato bravo magrolino, sei stato bravo”
è l’apprezzamento finale di Lorax a Once-lear, che salda i due archi.
 

I "Punti di Vista" multipli sulla pagina


Siamo al dramma: riportare la storia corale sulla pagina.

Già, perché tu stai scrivendo, semmai te ne fossi dimenticato. Tu crei il mondo della pagina, con tutti i vincoli “fisici” a cui questo mondo devo soggiacere. Sei uno scrittore, non il regista di un film (e meno che mai di una serie tv) e la scrittura non è il cinema.

Ne parleremo nel prossimo modulo, ma sfruttiamo senz’altro l’occasione per introdurre l’argomento e acclimatarci al meglio.

Al cinema c’è una telecamera che inquadra tutto da fuori, con la prospettiva o il grado di dettaglio desiderato, per soddisfare le esigenze del regista. Siamo abituati – al cinema – a vedere un’inquadratura dell’astronave dell’esterno, tra Saturno e Giove, seguita l’istante dopo da un’inquadratura interna che ci mostra la sala comandi. Siamo abituati, al cinema, a vedere delle scene con alcuni personaggi e altre scene con altri personaggi. E nessuno si scandalizza se vi sono scene dove il protagonista non compare. La telecamera, proprio perché esterna alla storia, è libera di muoversi e di inquadrare quel che più gli conviene, e nel mondo in cui gli conviene, per trasmettere le informazioni desiderate.
 
In scrittura non c’è nulla di tutto questo. In scrittura esiste solo il personaggio “Punto di Vista”, che rappresenta la porta di accesso al mondo della pagina: tu conosci il mondo della pagina solo ed esclusivamente attraverso il filtro – fisico e psicologico – del “Punto di Vista”, che deve perciò essere costantemente in scena. Non può esistere una scena senza il “Punto di Vista”, per mostrare, che ne so, cosa sta tramando nel frattempo l’antagonista. Se il “Punto di Vista” scompare dalla scena, il mondo della pagina scompare insieme a lui, si trasforma in una pagina bianca: senza “Punto di Vista” non c’è più nulla che possa esser percepito in senso fisico o psicologico della tua bella creazione.

Ma tu – ora – hai dei “Punti di Vista” multipli (e non importa se sono coprotagonisti o meno): a chi consegnerai il portale per connettere il lettore al il mondo della pagina?

L’espediente classico è alternare i capitoli tra i vari “Punti di Vista”.

Quindi, se hai due “Punti di Vista” – chiamiamoli Valeria e Mattia – i capitoli dispari potrebbero essere di Valeria (accediamo al mondo della pagina attraverso Valeria) e i capitoli pari di Mattia (vediamo il mondo attraverso Mattia): capitolo 1, Valeria; capitolo 2, Mattia; capitolo 3, Valeria, e via così, con questa altalena Valeria-Mattia, sino al capitolo finale.

È sconsigliato, ma non proibito, alternare i “Punti di Vista” all’interno di uno stesso capitolo. Quindi, ad esempio, se il capitolo 1 si compone di 10 scene, allora 5 potrebbero essere di Valeria e 5 di Mattia; oppure le prime 9 di Valeria e l’ultima di Mattia, in modo da alzare la palla al capitolo successivo che sarà interamente (o per lo più) dedicato a Mattia.

Quando si sceglie la soluzione ortodossa – un capitolo, un “Punto di Vista”, senza interferenze – allora è prassi segnalare il personaggio intitolando il capitolo col suo nome (rispettivamente “Valeria” e “Mattia”, nel nostro esempio); quando l’alternanza avviene all’interno di un capitolo si ricorre spesso a contrassegno identificativo (ad esempio una rosa per Valeria, un peso da palestra per Mattia) posto all’inizio della scena che lo riguarda (mi raccomando, però, la sobrietà).

E – come ripetuto ossessivamente – attenzione a non smarrire il senso di ciò che si stai creando. Capitolo 1, la storia di Valeria; capitolo 2, la storia di Mattia; capitolo 3, la storia di Valeria; capitolo 4, la storia di Mattia… sì vabbè, ma le storie di Valeria e Mattia quand’è che s’incontrano? Un lettore tiepido si infastidisce, se ha l’impressione di leggere due storie separate.

La storia è una, e una rimane, e le vicende di Valeria e Mattia devono sempre esser percepite intrecciate, non parallele: Valeria e Mattia devono danzare insieme, come si ballerebbe a un ricevimento di corte, con armonia, dolcezza, fluidità, e non come si agiterebbero in una discoteca al solo scopo di strusciarsi un po’.

Bisogna avere la sensazione forte – da lettori – di una ricchezza di contenuti e sensazioni che solo una molteplicità di prospettive (di “Punti di Vista”) può offrire. Ma il rischio di creare delle brodaglie informi è altissimo, se non una certezza, quando si è all’inizio.
 
Lo capirai da solo alla fine del modulo 23, quando avrai il saldo possesso del concetto di “storia”: è già difficile crearne una, è complicato connetterne due, diventa un’impresa fuori dalla portata umana se sali di numero e vuoi scrivere con la tecnica del mattoncino (e ti ricordo che tu vuoi – devi – scrivere con questa tecnica).

In my honest opinion


Io capisco una storia seriale con un solo protagonista: una serie di storie, ognuna raccontata in un libro diverso, con uno stesso protagonista che vive in ogni storia un diverso arco di trasformazione (e che magari dopo un po’ passa il testimone a un altro personaggio che avrà il suo arco e così via).

Capisco ancora una storia corale con coprotagonisti, dove la complessità caratteriale dell’unico protagonista ideale suggerisce di scinderlo in n personaggi reali, ognuno portatore di una sfumatura, preservando però – a livello complessivo – una sensazione di unitarietà.

Non capisco – non voglio capire? – una storia corale con protagonisti multipli, cioè n storie di n protagonisti strutturalmente diversi, inevitabilmente mischiate in m libri. Perché mai dovresti creare una simile narrazione, in scrittura?

La scrittura ha un limite spaventoso: può far uso solo di segni grafici (parole) su una pagina.

In scrittura non si vede e non si sente niente per via diretta, e tutto deve essere evocato attraverso l’immaginazione.

E allora tu che fai? Trasformi la debolezza in un punto di forza: visto che tutto deve essere evocato, tu evocherai tutto, ma proprio tutto, a cominciare da quelle cose che al cinema sono inaccessibili proprio perché al cinema le cose si vedono e si sentono, e quindi la nostra immaginazione non può plasmarle, e il nostro cervello deve accettarle per come le vede e le sente.

Tutta la bravura dello scrittore sta nel trasformare la debolezza del “non vedo, non sento” nel punto di forza “posso diventare il personaggio”, un obiettivo realizzabile solo ed esclusivamente in scrittura, all’interno del mondo della pagina.

Ma allora mi spieghi perché vuoi sballottare il lettore tra innumerevoli “Punti di Vista”, se tutta la forza della scrittura è farlo rimanere sempre in un unico “Punto di Vista”?

Chi vuol scrivere storie corali tenta più o meno consapevolmente di replicare il cinema (dove il “Punto di Vista” non esiste, a esprimersi con rigore, e lo spettatore è abituato a continui cambi di prospettiva) e proprio non capisco perché si debba battere una strada così tortuosa (e probabilmente perdente) anziché sfruttare al massimo tutte le potenzialità dello strumento che si ha tra le mani.

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