MODULO 9 – I cinque mattoncini narrativi

 
La lettura di narrativa è un processo di simulazione: il lettore mette in scena la storia, in base alle informazioni riportate sulla pagina e ad altre che pur non presenti sono comunque suggerite dal contesto (secondo il cosiddetto iceberg di Hemingway).

Questo principio generale va ora tradotto in un modello operativo di scrittura per l’autore.

Perché leggiamo narrativa? Non lo hai dimenticato, vero? Noi leggiamo narrativa per vivere la vita di un altro.
 
Vivere. La. Vita.

Nel mondo della pagina dobbiamo perciò ritrovare tutti e soli quegli elementi concreti che costituiscono la vita, gli unici che il cervello può simulare. E di cosa è fatta la vita, in concreto? La vita vera, la nostra vita di ogni giorno nel mondo reale – quella che dovremo poi trasporre elegantemente nel mondo della pagina – è fatta di cinque elementi, soltanto cinque.

[A] = Azioni: “riempire un bicchiere di vino” è un’azione; “aprire il rubinetto della doccia” è un’altra azione, “passeggiare in un parco” è un’altra azione ancora; “saltare sugli spalti di uno stadio” è ancora un’azione; “infilare gli arrosticini nel forno” è sempre un’azione; e non serve fare altri esempi, giusto? Si, giusto: non vorrei offendere la tua intelligenza.

[PS] = Percezioni Sensoriali: il “sapore corposo del vino” è una percezione sensoriale (gusto); “l’acqua della doccia che bagna la pelle” è una percezione sensoriale (tatto); una “bella ragazza che mi viene incontro” è una percezione sensoriale (vista); il “boato dello stadio al goal” è una percezione sensoriale (udito); la “puzza di bruciato che proviene dal forno” è una percezione sensoriale (olfatto). Ti è chiaro cosa sia una percezione sensoriale? Sì, ti è chiaro.

[P] = Pensieri: sono i fraseggi interiori del personaggio, coerenti con la situazione che sta vivendo; hai sorseggiato il vino e… davvero eccellente, ottima lavorazione; sei sotto la doccia e… stasera voglio essere perfetta, deve vedermi bellissima; hai incrociato una bella ragazza al parco e… oh, questa devo fermarla per forza, qualcosa le devo dire, non posso farla scappare così; sei allo stadio, la tua squadra ha pareggiato a cinque minuti dalla fine e… forza, forza, che c’è ancora tempo per vincerla; dal forno di casa arriva uno strano odore e… cavolo, gli arrosticini: me ne ero dimenticato!;  e via così. Oh, mica ti devo spiegare sul serio cosa sia un pensiero, vero?

[D] = Dialoghi: sono il modo verbale con cui entriamo in relazione con gli altri; e qui davvero non vorrei offenderti, aggiungendo altre spiegazioni.

[PP] = Percezione Psicologiche: qui, invece, due parole è il caso di spenderle. 
 
Marco mi viene incontro sorridendo

Questa è una percezione sensoriale ([PS]), e precisamente visiva: il personaggio vede Marco venirgli incontro con un sorriso. È tutto molto oggettivo, il personaggio vede quello che vedrebbe chiunque altro: Marco che gli viene incontro, sorridendo

Ma se la stessa frase la scriviamo così:

Il ciccione mi viene incontro con un sorriso da ebete

allora abbiamo una percezione psicologica ([PP]), la rielaborazione soggettiva della situazione oggettiva, realizzata dal personaggio in base al suo profilo psicologico.

Il personaggio non vede più “Marco” (realtà oggettiva) ma un “ciccione” (soggettivizza la realtà: Marco – nella percezione psicologica del personaggio – è “ciccione”) e non lo vede più semplicemente sorridente, ma con “un sorriso da ebete” (di nuovo, soggettivizza la realtà, dà un giudizio su ciò che vede: quel sorriso – per lui, per il nostro personaggio – è  “da ebete”).

Attenzione! Noi non sappiamo se Marco sia o no in sovrappeso (se sia “ciccione”, per dirlo col nostro personaggio). Forse non lo è. Magari è il nostro personaggio a vedere “ciccioni” un po’ ovunque, in chiunque non sia in forma smagliante, perché è lui, il nostro personaggio, a esser fissato con diete e palestre; e per lui, per il nostro personaggio, chi non si preoccupa del proprio fisico è solo un “ebete”. Questa percezione psicologica (la persona è grassa) e il modo stesso con cui è formulata (“ciccione”) non ci dice nulla di Marco, ma se opportunamente contestualizzata può dirci molto del nostro personaggio.

Riprendiamo la prima frase del racconto L’ultimo caffè (rewriting).

Suono al citofono della troia.

Laura è una troia? Laura fa sesso con chiunque sia disposto a pagarla? No, ovviamente. Ma il personaggio, dato il suo stato d’animo, di uomo tradito, la percepisce come “una troia”.

Da notare: il personaggio la vede come “una troia”, e non ad esempio come “una prostituta”. Le due parole hanno lo stesso significato – individuano una donna disposta a concedersi a pagamento – ma il loro valore emotivo è ben diverso: “prostituta” è una parola priva di qualunque giudizio valoriale, serve solo a identificare la fattispecie, se così si può dire; “troia” è invece una parola carica di emotività, con un chiaro significato dispregiativo.

È fondamentale che le parole scelte per veicolare la soggettivazione della realtà siano effettivamente espressione della psicologia del personaggio e del suo stato d’animo nella situazione in cui si trova. Ragiona a fondo, prima di usare una percezione psicologica, e collauda sempre la compatibilità tra gli elementi che concorrono a formarla, la giustificano e la sostengono.
 
Estratto dalla “Lezione 26 – Aggettivi, riflettiamo prima di usarli”, di Giuseppe Pontiggia.

Se a citofonare a Laura non fosse Valerio (il fidanzato tradito) ma la madre (che magari è una mamma coccolona, che vive in un’altra città, non vede mai la figlia, e ora è venuta a trovarla) allora la percezione psicologica potrebbe prendere una di queste forme:

Suono al citofono della mia bimba

Suono al citofono della mia cucciola

Suono al citofono del mio angelo


Di nuovo: Laura non è né una bimba né una cucciola né un angelo, ma per la sua mamma – nella percezione psicologica di un cuore di mamma – può benissimo essere una o più di queste tre cose.
 
Se invece a suonare il citofono fosse semplicemente una delle tante amiche di Laura, allora potremmo scrivere con altrettanta semplicità:

Suono al citofono di Laura

e non sarebbe più una percezione psicologica ma un’azione ([A]).
 
Ma se a citofonare è l’amica del cuore, l’amica che Laura si porta dietro dai tempi dell’asilo, con cui ha condiviso tutte le esperienze significative di vita, con cui magari ha fatto anche tante follie, a volte per sua iniziativa, a volte per quella della stessa Laura, allora la frase potrebbe essere qualcosa del tipo:
 
Suono al citofono di quella svalvolata di Laura

e così recupereremmo la percezione psicologica – d’intonazione affettuosa – all’interno dell’azione.
 
Chiaro cos’è una percezione psicologica? Sì, chiaro: è una miscela tra la percezione sensoriale [PS], o l’azione [A], e il pensiero [P]; è un modo con cui il personaggio fonde le cose, in base alla sua personalità, al suo carattere, alla sua psicologia.
 
La vita vera, la vita che viviamo ogni giorno nel mondo reale, è fatta tutta è solo di azioni, percezioni sensoriali, pensieri, dialoghi e percezioni psicologiche; e queste cinque cose, di cui è fatta la vita reale, diventano i cinque mattoncini della buona narrativa moderna.

“Scrivere bene narrativa” – oggi, anno 2023 – significa accettare la sfida di costruire un testo utilizzando solo ed esclusivamente questi cinque mattoncini, mutuati dalla vita reale; un buon testo narrativo moderno – sul piano formale – si costruisce mettendo opportunamente in sequenza i mattoncini [A], [PS], [P], [D] e [PP].

Rileggi tutti i racconti scritti con il font Quicksand: ti accorgerai che utilizzano solo questi cinque mattoncini, e potrebbe essere un ottimo esercizio individuare il mattoncino a cui corrisponde ogni frase.

Fai sempre il test del mattoncino. Cos’è quel che hai scritto? Una [A]? Una [PS]? Un [P]? Un [D]? Una [PP]? Se non è nulla di tutto ciò, si può sapere cosa ci fa nel tuo testo di narrativa? Via, via, via!

Se la frase non corrisponde a nessuno dei cinque mattoncini, quella frase è un errore, è sbagliata – secondo i parametri tecnici della scrittura moderna – senza se, senza ma, senza giustificazione alcuna.

Se la frase non corrisponde a nessun mattoncino, allora non è buona narrativa moderna. Sarà poesia messa in prosa, gratuito sfoggio di cultura, e più probabilmente un anacronistico senso dell’arte, ma di sicuro non è narrativa.
 
Non importa – non ha davvero nessuna importanza – quanto la frase ti possa sembrare bella, perché le frasi non stanno nel testo per la loro (presunta) bellezza; le frasi stanno nel testo per creare un mondo della pagina che sembri vero, reale, concreto, esattamente come il mondo in cui viviamo.
 
Quando io vedo una vanga, la chiamo vanga” fa dire Oscar Wilde a Cecilia, in The Importance to Being Earnest.

Allo stesso modo, quando sottoporrai una frase al test del mattoncino, e non avrai in esito né [A][PS][P][D][PP], tu saprai che quella frase è sbagliata: e quando vedrai una frase sbagliata, tu dirai che quella frase è sbagliata, senza se, senza ma, senza mai giustificarla in alcun modo.

Un racconto pubblicato su una piattaforma di scrittura, e poi entrato in un libro giunto alla gloria della pubblicazione, inizia così:

Angela Bannò, che tutti chiamavamo “zà Ancilicchia”, era nota per i consigli che elargiva con la prudenza di chi è restio a immischiarsi nelle faccende altrui, e soprattutto per i verdetti salomonici che emetteva con la riluttanza di chi, suo malgrado, è costretto a giudicare il prossimo.

Amava i proverbi, e spesso li citava nella convinzione che l’esperienza comune a molti è sempre frutto della verità e maestra di vita.

Nonostante fosse molto riservata, sopportava con infinita pazienza le frequenti invasioni di parenti e vicini che ricorrevano a lei per dirimere liti e controversie. Senza interrompere l’occupazione cui era dedita nel momento in cui gli invasori prendevano d’assalto la sua casa, volgeva uno sguardo rassegnato verso la porta d’ingresso, e si preparava ad assistere al solito rimpallo di minacce e reciproche accuse.

Con il distacco di un esperto di anime, zà Ancilicchia seguiva in silenzio il caotico sciorinare dei torti subiti e delle ragioni millantate dalle parti, e accoglieva con equanime indifferenza le presunte prove rese a dimostrazione dell’innocenza dell’uno o dell’altro dei litiganti. La sua impassibilità s’incrinava solo quando uno di questi commetteva l’errore d’invocare il cielo a testimone della propria innocenza.

Questo testo  è totalmente privo di valore artistico: non c’è neppure una frase che supera il test del mattoncino.

Che sia scritto in un italiano eccellente, con una prosa ricca e articolata, non ha alcuna importanza (che poi, a esser pignoli, espressioni come “verdetti salomonici” sono inflazionate, autentici cliché).

Il cervello del lettore si sforza di simulare ciò che legge, e non ci riesce.
 
… era nota per i consigli che elargiva.
 
Su cosa li elargiva questi consigli? Su quali argomenti? Non credo venisse interpellata su tutto e non credo si pronunciasse su ogni cosa possibile. E allora? Cosa devo immaginare? Mi piacerebbe sentirlo uno di questi consigli – almeno uno, soltanto uno – per capire in cosa si sostanziasse. Vorrei sentire zà Ancilicchia esprimersi con la sua voce. E invece non sento e non vedo niente, non riesco a simulare.

… con la riluttanza di chi, suo malgrado, è costretto a giudicare il prossimo.
 
Oh, bella! E perché mai zà Ancilicchia era addirittura costretta – suo malgrado, con riluttanza – a giudicare il prossimo? Chi la obbligava? Non si sa. Non so cosa immaginare, non riesco a simulare.
 
Amava i proverbi, e spesso li citava.
 
Amava i proverbi e spesso li citava? E perché io, lettore, non ne sento nemmeno uno di questi proverbi? I proverbi sono migliaia, alcuni effettivamente educativi, altri poco più che luoghi comuni. Quali sono i proverbi che citava zà Ancilicchia? Non si sa. Devo allora pescarne due o tre a caso tra quelli che preferisco io, lettore, ma – accidenti! – io sto leggendo per diventare qualcun altro, sto leggendo per essere zà Ancilicchia e sentire i suoi proverbi, i proverbi che avrebbe detto lei, e non per mettere in bocca a lei i proverbi che piacciono me.

Nonostante fosse molto riservata…
 
Cosa vuol dire “essere molto riservata”? Le persone non vanno in giro con un cartello in mano con su scritto “sono molto riservata”. La riservatezza si traduce sempre in azioni, percezioni, dialoghi e pensieri. Voglio vedere le azioni, le percezioni, i dialoghi e i pensieri di zà Ancilicchia, da cui io, lettore, possa capire da solo che era “molto riservata”. Invece non vedo nulla, non riesco a simulare nulla.
 
Con il distacco di un esperto di anime, zà Ancilicchia seguiva in silenzio il caotico sciorinare dei torti subiti e delle ragioni millantate dalle parti, e accoglieva con equanime indifferenza le presunte prove rese a dimostrazione dell’innocenza dell’uno o dell’altro dei litiganti. 
 
Cosa vuol dire? Cosa devo immaginare? Perché mi parli di zà Ancilicchia in astratto, in generale, beandoti della tua bravura nel giocherellare con le parole (“il distacco di un esperto di anime”, “il caotico sciorinare dei torti subiti e delle ragioni millantate dalle parti”, “le presunte prove rese a dimostrazione dell’innocenza”)? Piuttosto, mostrami zà Ancilicchia in azione su uno specifico caso concreto in cui ha fatto da paciere, affinché io, lettore, possa capire da solo quali fossero le sue abilità psicologiche e, da solo, possa formarmi un’idea di com’era lei, in linea con la mia sensibilità.

Il cervello del lettore si sforza di riempiere di contenuti concreti e visualizzabili tutte queste belle parole, non ci riesce come vorrebbe e si stanca inutilmente.

Ma poi, di là di tutto, si può sapere cosa sta accadendo nel mondo della pagina? Ricordiamo ciò che dice Wittgenstein: “il mondo è tutto ciò che accade, il mondo è la totalità dei fatti, il mondo è determinato dai fatti”.

E cosa sta accadendo nel mondo della pagina? Quali sono i fatti che lo determinano?

La verità è che non sta accadendo nulla, e quindi non c’è nessuna storia, nessun mondo narrativo.

La verità è che lo scrittore – il dio creatore – è apparso nel mondo della pagina, lo ha invaso e si sta rivolgendo direttamente a noi lettori per parlarci del personaggio zà Ancilicchia.

Se fossimo a teatro, è come se sul palco ci fosse la zà Ancilicchia immobilizzata su una sedia, in silenzio, e il regista che passeggia su e giù, avanti e indietro, girandole intorno, rivolgendosi a noi spettatori per decantarne tutte le virtù col suo eloquio evoluto e raffinato.

Quanto resisteresti a una cosa del genere, se fossi al teatro anziché sulle pagine di un libro? E se una cosa del genere, a teatro, ti darebbe enormemente fastidio, com’è possibile che la tolleri in scrittura? Pensi forse che la scrittura sia la cuginetta tonta del teatro?
 
Altro giro, altro racconto, altro personaggio.
 
Agostina ha cinquant’anni. Agostina ha cinquant’anni e cinque figli, cinque perle grezze di un rosario tutto da sgranare, giorno dopo giorno. Agostina ha cinquant’anni, cinque figli e nessun amore, il più grande, l'unico, se l’è portato via una fiammata che non si sarebbe dovuta sprigionare proprio in quel posto e proprio in quel momento.
 
Dove sono – di nuovo – i fatti che accadono? Cosa devo immaginare? Cosa sta succedendo nel mondo della pagina?

Sta succedendo – di nuovo – che lo scrittore, il dio creatore, ha invaso la sua creazione, ci si è piazzato in mezzo in tutta la sua persona, e ora si sta rivolgendo a noi, lettori, per “spiegarci cose” su questa Agostina.

Prima era zà Ancilicchia a stare seduta immobile su una sedia al centro del palco, col regista che le girava intorno e ne delineava, a noi spettatori, il suo profilo caratteriale. Ora zà Ancilicchia si è alzata per lasciare il posto ad Agostina, anche lei sempre ferma e immobile, e c’è un altro regista che, come il precedente, ce la sta presentando in tutta la sua bellezza.
 
E ora tieniti forte, perché il meglio peggio te l’ho riservato alla fine.

Mi chiamo Achille Moretti, sono dirigente di primo livello al centro cardiologico di M.
 
Alla fine di ogni turno sento il bisogno, l’urgenza addirittura, di riattivare la circolazione nelle gambe e liberare la mente. Sono sfinito dallo sforzo continuo di sorridere, mi fa male tutto. Durante l’intera giornata oppongo il mio sorriso alle geremiadi dei ricoverati, sono accondiscendente con i colleghi, anche con il primario di cardiochirurgia che è uno stronzo arrogante. Sono Achille, il dottore gentile, quello gentile con tutti.

Qui abbiamo un angelo ribelle: un personaggio che si è alzato dalla sedia, ha dato un calcio in culo al dio creatore, e si è preso la scena per rivolgersi lui direttamente a lettori.

Ora, tutto ciò che accade nel mondo della pagina ha sempre un correlato nel mondo reale, e quindi c’è da chiedersi a cosa corrisponda – nel mondo reale – un personaggio così. Riflettici, prima di leggere la mia spiegazione.


Hai riflettuto? Sì? Bravo.

Sarebbe bello poter dire che un personaggio così – che si rivolge direttamente ai lettori, cioè a esseri che stanno fuori dal mondo della pagina e che perciò lui, il nostro personaggio, non può né vedere né sentire – è l’equivalente di una persona che parla da sola. Sarebbe bello poterlo dire, ma non si può.

Perché chi parla da solo, nel mondo reale, il più delle volte sta semplicemente pensando ad alta voce, perché verbalizzare i propri pensieri è un modo potente per disciplinarli, renderli coerenti e consequenziali, per averne il controllo. I pensieri volano, le parole camminano, e allora, sì, parliamo pure da soli, per riportare “a terra” ciò che altrimenti svolazzerebbe via da tutte le parti.

Chi parla da solo – nel mondo reale – sa benissimo che non c’è nessuno a cui si sta rivolgendo; è consapevole che il parlare con sé stessi è solo un espediente per mettere ordine nella propria testa; e non crede vi sia qualcuno che lo sta ascoltando.

Ma qui – nel mondo della pagina di Achille Moretti, dirigente di primo livello al centro cardiologico di M. (sic!) – abbiamo un personaggio che parla da solo, convinto di parlare a qualcun altro, un qualcun altro, il lettore, che chiaramente non può percepire perché esterno al suo mondo, al mondo della pagina, ma a cui tuttavia si rivolge ugualmente per informarlo di chi è lui e di cosa fa nella vita.

Per essere chiari: immagina di incontrarmi – di incontrare proprio me, autore di questo blog nel mondo reale – nel bistrot sotto casa, sul treno o nella hall di un albergo dove di regola scrivo i post, e di vedermi fissare un punto nel vuoto, con sguardo spiritato, mentre dico qualcosa del tipo “io sono il Signor Fabiani, ma se vuoi puoi pure chiamarmi Ferdinando Borbone; sono siciliano, e mi sono laureato a Roma in Scienze Statistiche Attuariali; nel tempo ho imparato ad amare la matematica, ma sin da bambino ho avuto anche una passione per la scrittura; i miei colleghi mi chiamano il filosofo, le donne invece…”.

No, dico, ti sembrerebbe una cosa normale? Penseresti che sono uno totalmente fuori di testa, di quei matti che se ne vanno in giro parlando da soli, convinti di parlare a qualcun altro. Dubito che avresti voglia di fare la mia conoscenza.

E allora, dimmi, perché mai dovresti trovare interessante il Dottor Achille Moretti, che è esattamente questo, un mattoide che parla da solo convinto di parlare a qualcuno?

Potrei parlarmi per ore, senza fermarmi…

Ti piace vincere facile, mi dirai. Prendi testi scritti da dilettanti, e li massacri. Ma non c’è da meravigliarsi se i dilettanti scrivono da dilettanti, no?

Sì, hai ragione: non meraviglia che i dilettanti scrivano da dilettanti, ovvio.

Ma sai perché scrivono così? Perché copiano i cosiddetti “professionisti”.


Quel che hai appena letto è l’incipit del libro Le otto montagne, di Paolo Cognetti, premio Strega 2017.

Abbiamo un personaggio che si rivolge direttamente a noi lettori – minchia, quanti fuori di testa circolano nel mondo della pagina! – per raccontarci “cose” di suo padre e sua madre.

Dov’è che hai già visto una cosa di simile? Pensa, pensa, pensa…


Ma sì, l’hai vista nel modulo 5, in uno dei brani che ti avevo proposto per metterti in guardia contro le invasioni nel mondo della pagina.


E cosa avevamo detto? Che approcciare al testo con lo stile da “narratori della memoria” – addirittura in un incipit, il passaggio più delicato in assoluto – è un errore, senza se, senza ma.

Estratto dalla Lezione 9 - Quei temerari che imitano Proust, di Giuseppe Pontiggia.

Dovrei averti tolto la sete col prosciutto, o almeno spero.

Mi auguro di non sentirti mai più dire cose del tipo “eh, ma questo libro ha vinto il premio Kazza Bambola!”, perché la mia risposta, a questo punto, sarebbe invariabilmente la stessa…


Prima di scrivere, pensati lettore, per parafrasare la Ferragni: quanto riusciresti a sopportare, da lettore, la vicinanza di un personaggio ingessato nella descrizione esplicita che manifestamente ne fa qualcun altro, o addirittura lui stesso, un personaggio che non ti lascia scampo, che di te non ha alcun bisogno, se non per assecondare la vanagloria di chi l’ha creato?

Estratto dalla “Introduzione” di John D. MacDonald ad A volte ritornano, di Stephen King.
 
Ti sento perplesso.
 
Non è vero che nella vita ci sono solo le azioni, le percezioni sensoriali, i dialoghi, i pensieri e le percezioni psicologiche. Nella vita ci sono anche – e direi soprattutto – i sentimenti, gli stati d’animo e le emozioni; che fine hanno fatto?

Ragioniamo.

Poniamo che tu sia innamorato: sei nello stato d’animo di innamoramento, provi un sentimento di amore e di conseguenza senti agitarsi in te tutte le emozioni proprie dell’essere innamorati.

Ma ora – dimmi – chi ti osserva da fuori come fa a sapere che sei innamorato? Vai forse in giro con un cartello appeso al collo, con su scritto “sono innamorato”?

Le persone non vanno in giro con cartellini attaccati addosso che ne palesano lo stato d’animo. Se cammini per strada non vedi persone con un post-it sulla fronte con su scritto “sono felice”, “sono triste”, “sono annoiato”, “sono arrabbiato”, “sono sereno” e via così. Vedi persone che sorridono e altre che sbuffano, ne vedi di imbronciate e di chiacchierone, senti persone che parlano con voce squillante e altre mugugnano.

Quindi, ripeto, come faccio io, da fuori, a capire che tu sei innamorato?

Lo capisco da come agisci, da come parli, da come ti comporti e – se avessi la possibilità di saperlo – da cosa pensi o da come percepisci il mondo. Lo capisco da ciò che posso osservare.

Così avviene nel mondo reale, e quel che avviene nel mondo reale si clona nel mondo della pagina, col vantaggio che in scrittura possiamo osservare tutto (relativamente al personaggio “Punto di Vista”) e osservare abbastanza (rispetto agli altri personaggi). Io, lettore, capisco che il personaggio è innamorato dalla specifica sequenza, costruita con i mattoncini [A], [PS], [P], [D], [PP], caratteristica di una persona innamorata.

Dichiarare esplicitamente lo stato d’animo – magari infilandolo dentro il mattoncino [P], mettendo in testa al personaggio un pensiero del tipo “quanto sono innamorato, non sono mai stato così innamorato in vita mia”, convinti di aver fatto la furbata – è un marchio di infamia agli occhi di chiunque possegga un minimo di elementi di stile.

Bisogna evitare in ogni modo di spiattellare sulla pagina che il personaggio “è innamorato”; è fondamentale che l’innamoramento appaia da sé, attraverso una sapiente selezione di [A], [PS], [P], [D], [PP]; altrimenti si perderanno i presupposti e le implicazioni dell’innamoramento, e alla fine anche l’impressione di innamoramento sarà minima, se non nulla.

Vale per l’innamoramento, come per qualsiasi altro sentimento, stato d’animo o emozione, che si paleseranno a noi – lettori – con la loro specifica concatenazione di [A], [PS], [P], [D], [PP].

Leggi qui.

Devo concentrarmi, ignorare le domande e la paura che sale dalle viscere.

Oppure qui.

Stavo godendo così tanto, cosa stava succedendo?

Tu, lettore, hai sentito “paura” perché l’autore ha scritto “paura”, e hai “goduto così tanto”, perché l’autore ha scritto “stavo godendo così tanto”?

Se bastasse scrivere “paura”, per far spaventare il lettore, per fargli provare la stessa paura del personaggio, se bastasse scrivere “sto godendo”, per far godere anche il lettore come sta godendo il personaggio, beh, saremmo tutti scrittori, non trovi?

Non dichiarare mai apertamente gli stati d’animo, le emozioni e i sentimenti dei personaggi. Mostra piuttosto le conseguenze di quegli stati d’animo in termini di azioni, pensieri, percezioni e dialoghi, le uniche cose che il lettore può  simulare in fase di lettura, e quindi capire.

A più forte ragione, tieniti lontano da simili obbrobri.

Non potranno mai esserci parole adeguate per descrivere il coraggio dei sommergibilisti.

Non potranno mai esserci parole adeguate? Accidenti! Ma tu sei uno scrittore, e il tuo compito è esattamente questo: trovare le parole adeguate (per descrivere il coraggio dei sommergibilisti). Se non sei capace di farlo, rinuncia a scrivere. Ma non credere che io, lettore, riuscirò a capire il coraggio (dei sommergibilisti) perché tu mi hai detto che non ci sono parole per descriverlo.
 
Osserva continuamente le persone con spirito critico:
annota i loro gesti, le loro espressioni, le loro parole,
 in corrispondenza dei vari stati d’animo che stanno vivendo,
e congettura su quali possano essere i loro pensieri e le loro percezioni.
È il mimino, se vuoi essere uno scrittore.

Fai sempre il test del mattoncino, quando scrivi: prendi la frase che hai scritto e testala. Cos’è? Una [A]? Una [PS]? Un [P]? Un [D]? Una [PP]? Se non è nulla di ciò… via, via, via!
 
Il test del mattoncino non è negoziabile, lo devi accettare come accetti la forza di gravità.
 
Devi sentirti scemo come gli scemi che sostengono la possibilità di dividere per zero, quando metti in discussione il test del mattoncino: perché gne-gne se a×b=c, è pure vero che a=c/b, e quindi, gne-gne, se 0×0=0 come sicuramente è, allora è anche  0/0=0, gne-gne, e vedi allora che si può dividere per zero, gne-gne
 
Genio! Dividi pure per zero, continua pure a questionare sul test del mattoncino: vedrai a quali fenomenali conclusioni arriverai
 

Il test del mattoncino è ineludibile, ma non può ovviamente garantire la qualità complessiva del testo, perché il test  è “locale”, opera frase per frase, su una frase alla volta, laddove in scrittura – ne parleremo nel modulo 22 – vale un principio di non-additività, non è cioè la somma a fare il totale, per cui frasi tutte singolarmente corrette (che hanno tutte superato il test del mattoncino) non è detto che rimangano valide quando vengono disposte in sequenza per costruire il flusso narrativo (come vedremo nel modulo 10).

Il test del mattoncino – per dirlo con linguaggio matematico – è una condizione necessaria, ma largamente insufficiente. Esprime però una necessità che non si può evitare, che non vi è modo di eludere. Il test del mattoncino non sarà tutto – e per certi versi è molto poco, il minimo davvero – ma senza la convalida preliminare del test del mattoncino tutto il resto non ha senso.

Probabilmente ricorderai il gioco televisivo Chi vuol essere milionario, condotto da Jerry Scotti: quindici domande, progressivamente più difficili, con un valore che andava grosso modo al raddoppio man mano che si procedeva nel gioco, con la prima che valeva 500 euro e l’ultima 1.000.000 di euro.

Jerry Scotti aveva preso l’abitudine di inscenare un teatrino, all’inizio del gioco. Chiedeva al concorrente quale fosse il valore della prima domanda, della domanda iniziale, e quando si sentiva rispondere “500 euro”, scuoteva la testa, sorridendo. “No. La prima domanda vale 1.000.000 di euro, perché se la sbagli, il gioco finisce”.

Il test del mattoncino è l’equivalente della prima domanda di Chi vuol essere milionario: falliscilo, e il gioco della scrittura termina ancor prima di iniziare.

 

Aperitivo letterario

Dario fa segno alla cameriera di attendere. Fruga in una tasca dei pantaloni, passa all’altra, si batte le mani sulla giacca blu e fa una smorfia di sofferenza.

La cameriera lo fissa, con un sorriso sul viso e il POS in mano.
 
Conta, sì, il denaro, altro che no! 

Me ne accorgo soprattutto quando, quando non ne ho
 
Anacleto sgrana gli occhi e alza l’indice per farmi notare la canzone di Vasco in sottofondo. «Oh, Fabiani, manco a farlo apposta, eh?»

Vabbè, ho capito: mi tocca di pagare un
’altra volta.

Avvicino la mia carta di credito al POS, la macchina emette un flebile bip e sputa fuori la ricevuta del pagamento. La cameriera me la porge, la ricambio con cinque euro di mancia. Gli occhi le si illuminano.

«Grazie!»

Sorrido e la congedo col pollice alzato.
 
Dario agita le mani per scusarsi. «Perdonami Fabiani, ogni volta finisce che paghi sempre tu.»

Già, finisce sempre così. «Senti Dario, sei un bravo guaglione, ma la devi smettere, d’accordo?»

«Fabiani, credimi! Il portafoglio l’ho dimen—»

Batto un pugno sul tavolino. «La devi smettere di dire cazzate!»
 
Abbassa lo sguardo, infila l’indice nel vassoietto vuoto e minuscoli frammenti di patatine gli rimangono incollati sul dito. Lo infila in bocca e succhia.

Lo afferro per il polso e gli abbasso il braccio. Guarda che figure mi tocca fare…
 
«L’ho dimenticato davvero il portafoglio,» sussurra, incrociando le mani sotto al tavolo.

«Non parlo del portafoglio, parlo della scrittura.» Gli tolgo il vassoietto davanti, non sia mai ricominci daccapo. «La devi smettere di ripetere sul forum questa cazzata della terza persona oggettiva, capito?»

Anacleto annuisce. «Ascolta il Fabiani, il Fabiani ha sempre ragione, neh.» Mi strizza l’occhio, sorride «Sempre.»

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto…

Eh sì, Guccini, tu magari avresti fatto lo stesso… io col cavolo che m’imbarcavo con questi due scappati di casa.
 
Dario tira fuori l’iPhone dalla tasca interna della giacca. Giocherella un po’ e mi mostra lo schermo.

«Su questo sito di narrativa c’è scritto che—»  

Batto il pugno sul tavolino, il vassoietto trema. «Frega cazzi di ciò che sta scritto in siti del cazzo!» Chiudo gli occhi, inspiro più che posso e butto via l’aria come fosse una raffica di vento. Okay, stiamo calmi.

«Allora, Dario, ora ti dico io quello che tu volevi dire, d’accordo?»

Annuisce con piccoli movimenti ripetuti. «Ah, oh… ehm… sì…» Inclina la testa e si infila il mignolo nell’orecchio, scava a fondo e uno occhi gli si chiude.

Lo afferro ancora una volta per il polso e gli sbatto il braccio sul tavolo.

Sospiro. Calma, restiamo calmi. «Allora, Dario, non è che la scrittura in prima è di parte e soggettiva, e la scrittura in terza è invece distaccata e oggettiva
 
Spalanca la bocca, lo immobilizzo in quella posizione ridicola con un altolà della mano.

«Il punto, Dario, è che quando scrivi in terza tu sei obbligato, da ragioni di stile, a limitare enormemente il ricorso ai pensieri.»

Arriccia il naso, si gratta una guancia ricoperta da una barba sfatta come se dovesse radersi con le unghie.

Con un lieve battito di mani lo invito a ricomporsi. «Dunque, Dario, ripetiamo la lezione numero uno: quali sono i cinque mattoncini con cui si costruisce un buon testo narrativo?»

Anacleto lo guarda e stringe entrambi i pugni per trasmettergli coraggio.

«Lo so, lo so.» Dario alza il pollice. «Le azioni.» Alza l’indice. «I dialoghi» Solleva assieme medio e anulare. «Le percezioni fisiche e psicologiche.» Spalanca la mano con le dita ben allargate. «E infine i pensieri.»

Mi fissa con occhi spiritati, la bocca aperta e la lingua di fuori: pare un cagnolino che attende la sua ricompensa.

Santo cielo! Ma come si fa ad andare in giro con uno così?

Gli do un buffetto sulla guancia. «Bravo Dario! Se una frase non è un’azione, né una battuta di dialogo, né una percezione, fisica o psicologica, e neppure un pensiero, allora quella frase non è narrativa.» Che pazienza che ci vuole.

Schiocco le dita di fronte ad Anacleto. «Ohi, ce l’hai qui il libro che ti ho dato da studiare?»

Dal borsello caccia fuori “La cittadella” di Cronin e me lo porge. «Questo?»

«Esatto!» Lo afferro e lo sventolo sotto lo sguardo di Dario. «Vedi, questo libro è un capolavoro di sceneggiatura, e pure la scrittura non è male, se pensi che è stato scritto un secolo fa.»

Apro il libro su una pagina a caso, gli infilo dentro la ricevuta del pagamento dell’aperitivo. «Ma se metti uno scontrino dentro il libro, non è che lo scontrino diventa narrativa, chiaro?» Poggio il libro sul tavolino e ci tamburello sopra. «Allo stesso modo, se infili in un testo narrativo qualcosa che non è azione, pensiero, percezione o dialogo, non è che quella cosa diventa narrativa.»

Shock in my town, velvet underground…

Anacleto balla al ritmo di Battiato. «Fabiani sei il number one, the best in the world!» Mi fa un applauso. «Dovresti farti pagare, Fabiani… altroché.»

Mah, mi basterebbe che per una volta l’aperitivo l’offriste voi.
 
Dario fissa un punto nel vuoto, gli passo la mano davanti al viso per ridestarlo.

«Quando scrivi in terza, ti dicevo, tu sei obbligato da ragioni stilistiche a limitare moltissimo i pensieri.»

Sorrido alla cameriera che sta sparecchiando il tavolo accanto al nostro, Dario le lancia occhiata lasciva nella scollatura generosa. Con uno scappellotto riporto il suo viso di fronte al mio.

«Quando scrivi in terza, dicevo, non solo perdi un mattoncino nella costruzione delle tue frasi, ma per di più perdi un mattoncino particolarmente importante per comunicare l’interiorità del personaggio, e pure le percezioni psicologiche ne escono mutilate.» Questo non lo dice il tuo sito del cazzo, vero?

Mando giù le ultime due dita di prosecco. «Le narrazioni in terza sembrano più distaccate proprio perché spesso sono povere di pensieri e sovrabbondano di percezioni fisiche, e questa sproporzione può dare appunto una sensazione di oggettività.»

Spalanco gli occhi come per ipnotizzarlo. «Ma tu non vuoi che la tua narrazione sia distaccata e oggettiva.» Scuoto la testa. «Proprio no, no, no…»

Anacleto mi imita. «No, no, no…»

«No, no, no…» sussurra Dario.

Dai che l’ipnosi sta funzionando! «Perché scrivere in terza, Dario, è una cosa da… una cosa da…»

«Da cogl—»

«Scusi, lei è uno scrittore?» La cameriera ci sorride e si passa le mani su jeans strappati. «Perdonatemi, non volevo interrompere, solo che…»

Dio mio, fa che non lo dica, fa che non lo dica!

«Solo che anch’io ho scritto un romanzo.»

Ecco, l’ha detto.

Con le mani mi fa segno di aspettare. «Non scappate, che lo vado a prendere.»

Si allontana di corsa sculettando, la coda bionda oscilla, si gira, sorride e fa ancora segno di aspettare.

Anacleto mi stritola il braccio. «A’ Fabia’, per favore, per favore eh…» Congiunge le mani sotto il naso a mo’ di preghiera. «Famme er favore, nun comuncia’ come ar solito tuo.» Mima due tette giganti. «Una con quelle poppe può scrivere come le pare, nun rompe er cazzo!»

Con uno schiaffo gli abbasso entrambe le mani. «Ma sei scemo? Tra un po’ abbiamo 150 anni in tre, e lei ne avrà sì e no una ventina.» Scuoto la testa. «E poi da quand’è che parli romanesco?»

La cameriera marcia a gran passo verso il nostro tavolo, le tette le ballano, sul ventre stringe un mazzo di fogli rilegati.
 
Anacleto ci pietrifica con lo sguardo. «Lasciate parlare me, va bene?»
 

Noterelle su “Aperitivo letterario”

I lettori più attenti del blog mi incalzeranno, dopo aver letto Aperitivo letterario.

Avevi detto – nel modulo 6 – che non c’era modo di rendere la musica in scrittura, che la musica va incontro al più classico dei lost in translation, nel passare dal mondo reale al mondo della pagina; e qui, invece, hai utilizzato ben tre canzoni, non una, non due, ma addirittura tre; come la mettiamo?

La mettiamo che dobbiamo capirci.

Ai formatori di scrittura creativa – anche ai migliori – scappa ogni tanto, involontaria come uno starnuto, l’idiozia delle regole che si possono violare, purché se ne abbia consapevolezza.

Sicuramente, in termini qualitativi, violare una regola sapendo di violarla pone su un altro livello rispetto a violare una regola perché non la si conosce, o perché si è convinti – tout-court – che in scrittura non vi siano regole. Ma la violazione rimane una violazione, e cioè un errore.
 
Se abbiamo detto che la buona narrativa moderna si costruisce tutta e solo con i mattoncini [A], [PS], [P], [D] e [PP], e se qualcuno infila in un testo narrativo qualcosa che non è né azione, né pensiero, né dialogo né percezione, quel passaggio – non conforme a nessun mattoncino – è un errore, e un errore rimane qualunque sia la ragione per cui lo si è commesso. Allo stesso modo – per ritornare al modulo 6 – disinteressarsi degli standard di scrittura, declassandoli a una mera formalità, anziché riconoscergli un ruolo fondamentale nel conferire verosimiglianza al mondo della pagina, è e rimane un errore, comunque lo si voglia giustificare.

Il punto controverso è un altro, e non riguarda il rispetto delle regole in senso stretto.
 
Le regole di scrittura non sono diverse da tutte le altre regole a presidio del buon funzionamento di un qualsiasi altro sistema, e soffrono quindi, al pari di tutte le altre regole, di un ineliminabile margine di indeterminatezza. In nessun contesto è possibile normare ogni singolo caso con tutte le sue particolarità, uniche e irripetibili. Si costruiscono piuttosto delle fattispecie, le si disciplinano, e si incasella poi il caso sotto esame in una delle fattispecie individuate, operando sì una semplificazione – tutti i casi riportati a una stessa fattispecie diventano uguali, perdono ogni loro specificità – senza la quale però nessuna scelta, nessuna decisione, sarebbe possibile.

In ogni sistema di regole rimane però implicita la presenza di cono d’ombra, di una zona grigia, di una frazione di casi – si spera non troppo grande – per i quali l’incasellamento nella fattispecie resta dubbio, e quindi è dubbio se si possa o no riferirsi alla regola associata.
 
La musica, in scrittura, sta in effetti nel cono d’ombra, nella zona grigia. Se rileggi con attenzione il modulo 6, al punto dove si parla di lost in translation, ti accorgerai della mia variazione di tono, inizialmente perentorio (sull’impossibilità di rappresentare la musica nella pagina) ma poi sfumato nel finale: c’è la regola (non puoi rappresentare la musica in scrittura) ma ci sono anche le eccezioni (“Bella ciao”, l’inno nazionale).
 

Era chiaramente una semplificazione drastica, finalizzata a tenerti lontano dall’errore del pirla, di chi crede non ci sia alcun problema a rappresentare la musica in scrittura, e si ritrova così sfanculato da qualsiasi lettore tiepido. Perché è ovvio – rimuovendo ora la semplificazione brutale – che se ci sono eccezioni vuol dire che non ci sono regole, perché l’eccezione non conferma la regola, ma la invalida. Siamo appunto nel cono d’ombra, nella zona grigia.

Di base, è vero, non puoi rappresentare la musica in scrittura, ma se a un tuo personaggio fai canticchiare “una mattina mi sono svegliato, oh bella ciao, oh bella ciao, oh bella ciao, ciao…” puoi star sicuro che tutti leggeranno la battuta attribuendogli la sua intonazione.

Tra una musica intraducibile nella pagina e “Bella ciao” si apre il cono d’ombra, la zona grigia. È vietato piazzarsi nel cono d’ombra, nella zona grigia? No. Però è rischioso: ogni volta che lo fai, ti stai prendendo un rischio.

Capiamoci. “Prendersi un rischio” non vuol dire scrivere a cazzo (delle strofe) e poi sperare che vada tutto bene (che il lettore le conosca possa quindi canticchiarle in testa). “Prendersi un rischio” significa sapere quanto si sta rischiando. Significa – in pratica, come minimo – aver eseguito dei test preliminari.
 
Seleziona dieci persone diverse – per età, sesso, gusti, sensibilità – e declamagli, come fosse una poesia, senza cantare, “conta sì il denaro, altro che chiacchiere”, e poi osserva la loro reazione: se 8 su 10 completano la frase (“me ne accorgo soprattutto quando, quando non ne ho”) magari canticchiandola, allora – per quanto il campione sia esiguo, ma alla fine lavorerai sempre con campioni esigui – può aver senso “prendersi il rischio” di utilizzare la strofa nella narrazione. Se con “ma se io avessi previsto tutto questo” o “shocking in my town”, il responso è tra 4 e 6 su 10, il rischio inizia a farsi consistente, e starà a te decidere come regolarti.

Sembra superfluo doverlo precisare, ma precisiamolo lo stesso, perché non si sa mai quali disastri stai covando nel tuo animo: che non ti venga mai in mente di rappresentare la musica scrivendo la sequenza di note corrispondenti. “Nessuno di noi sente le note quando sente un brano, nemmeno chi lo esegue o chi lo concepisce, con buona pace di Guido d’Arezzo”, mi conferma una lettrice del blog, proprio come nessuno di noi vede le lettere C, A, N, E quando sente o legge “cane”.
 
Tanto dovrebbe bastarti, ma vediamolo con un caso pratico.

DO-RE-MI-DO-DO-RE-MI-DO-MI-FA-SOL-MI-FA-SOL…
 
Allora, cosa hai sentito? Nulla, ovviamente. O già conosci questa sequenza musicale (e allora tanto valeva mettere le strofe) oppure non la conosci (e allora sono solo monosillabi che si susseguono). Eppure è una cosa che hai sicuramente sentito centinaia di volte: Fra Martino, campanaro, dormi tu, dormi tu, suona le campane, suona le campane…

E – per l’amor del cielo! – che non ti salti in testa di dirmi che la musica è dolce, che deve essere una sonata di Chopin o Beethoven, che non hai mai sentito niente di così toccante, che tutto ciò è una delizia per l’orecchio, ma soprattutto per l’anima
 
 
Posso sapere, di grazia, cosa devo simulare?

Rappresentare la musica in scrittura è rischioso, e lo è molto più di quel che pensi, come mi è stato fatto rilevare da una lettrice.

Se hai la (s)fortuna di ‘pizzicare’ un lettore che conosce quella canzone specifica, ti porterai inevitabilmente dietro, nella sua esperienza di simulazione, tutti i ricordi ‘specifici’ ad essa associati nella mente del lettore: un bagaglio imponderabile, che non sai come maneggiare adeguatamente, dalla consistenza volatile e altamente instabile. […].

I dettagli che evoca la musica, per qualunque lettore ne riconosca le sembianze o la memoria nel testo di narrativa, sono di per sé emotivamente precisi al millimetro e cristallizzati, non possono in alcun modo essere modificati dal testo di narrativa: sono bagaglio emotivo del lettore, sono micro o meso ricordi associati a precisi stati emotivi – e le emozioni non si modulano, non si abbozzano, specialmente quelle che abbiamo provato nella vita reale.

Se il lettore ha un qualche tipo di legame emotivo con un brano che conosce, e che riconosce nel testo, stai ben certo che porterà il suo legame (il suo bond) dentro alla storia, con effetti imprevedibili per chi scrive.

Nella vita reale funziona in questo modo: io ascolto una melodia (nel senso che mi ci soffermo, ripongo attenzione, non nel senso che la ‘odo’) e la prima domanda che il mio cervello si pone è se siamo di fronte ad una melodia nota oppure sconosciuta.

Se la melodia è nota, il mio cervello si mette alla ricerca di un ricordo, e non è appagato finché non lo trova. Al netto della considerazione (tutt’altro che irrilevante) circa la forza ‘distrattiva’ di tale operazione cerebrale se parametrata al tipo di immersività ricercata dallo scrittore; va tenuto comunque presente che tale operazione del cervello è ingovernabile e non eludibile”.

Ti è chiaro il pericolo contro cui ti sta mettendo in guardia la lettrice del blog? Dovrebbe, perché l’esposizione è cristallina.

La musica non è mai neutrale: se conosci una canzone, e la riconosci quando la senti o ne leggi le strofe, è perché quella canzone è intrecciata a un ricordo, a un’esperienza, a una fase della tua vita, e tutto ciò verrà evocato all’istante non appena sentirai quella canzone (fosse pure sotto l’intermediazione della pagina).
 
E tu – come scrittore – non puoi sapere quale mondo di sensazioni si verrà a creare nella testa del lettore, al riconoscimento di quella canzone. “Potrebbe finire benissimo che il tuo lettore è stato picchiato dai bulli alle scuole medie mentre la ascoltava nel suo walkman…  e carissimi saluti all’eventuale setting ‘delicato, evocativo’ che magari tu scrittore volevi rendere. È proprio una scommessa difficile, in questi termini”.

Già, proprio una scommessa difficile. Lancia pure i tuoi dadi e corri i tuoi rischi, ma sappi che stai giocando con dadi di dinamite, pericolosi anche solo a rigirarseli tra le mani: il lettore può riconoscere o non riconoscere la musica che tu, scrittore, vuoi fargli sentire; se non la riconosce, hai perso, hai rotto l’immersione nella storia; se invece la riconosce, potrebbe associarla a sensazioni diverse, e magari opposte, a quelle che volevi suscitargli; e tu, scrittore, hai perso di nuovo.

Qui, sì, nessuno può darti indicazioni precise; sarà solo la tua esperienza a suggerirti di volta in volta quali rischi vale la pena prendersi e quali invece è meglio tenere alla larga, per la musica e più in generale per tutto ciò che si trova nel cono d’ombra, nella zona grigia.

Ma se proprio non ci vuoi stare, se pretendi un modo per tener sotto controllo il batticuore quando inserisci della musica nella pagina, o meglio, se vuoi un metodo per fare musica nella pagina che non sia un giro di roulette russa, allora ti rimando al modulo 15F.


Il tema della musica in scrittura ne chiama un altro all’apparenza speculare: il silenzio.
 
Come si fa a rendere il silenzio nel mondo della pagina?

Voglio sperare che più nessuno, oggi, si metta a scrivere cose del tipo “non si sentiva volare una mosca, primo, perché è la più inflazionata delle espressioni, e secondo, perché le mosche non fanno rumore quando volano (semmai sono i mosconi a farlo, oppure le zanzare).

Lascia perplessi pure la scelta di qualificare il silenzio con aggettivazioni anche qui parecchio usurate: assoluto, tombale, spettrale, imbarazzante, e via così, di banalità in banalità. Il nostro disciplinare d’uso di avverbi e aggettivit ci proibisce di usare le aggettivazioni in modo così sciatto e pigro, e il motivo di fondo lo puoi capire già ora. Silenzio assoluto? Silenzio spettrale? Silenzio imbarazzante? Sì, vabbè, ma… cosa devo immaginare? Conta solo quel che riesco a simulare nella mia testa, e se silenzio e silenzio assoluto danno luogo alla stessa simulazione, allora tanto vale scrivere silenzio, semplicemente silenzio.
 
Un minimo di riflessione ci porta poi a concludere che il silenzio non esiste nel mondo reale.

Noi diciamo che c’è silenzio, nel mondo reale, non già quando c’è davvero silenzio, ma quando riusciamo a percepire suoni che di regola ci sfuggono, come a esempio il ronzio delle zanzare la notte (che la mattina non avvertiamo).

E per quanto possiamo volerci insonorizzare, percepiamo sempre qualcosa. Persino quando ci si trova in una camera anecoica – come nell’esperimento di Cage – si sentono cose che mai si sarebbe pensato di poter avvertire: il battito del cuore (che di regola avvertiamo solo quando aumenta di intensità), il normale respiro (che, di nuovo, avvertiamo solo se abbiamo il fiatone), ma anche il suono alto del sistema nervoso e quello basso della circolazione sanguina (entriamo insomma in contatto con il nostro corpo sottile, per dirlo con le categorie delle filosofie orientali). 
 
Il silenzio in senso proprio, in senso stretto, il silenzio come totale assenza di percezioni uditive, non c’è mai, non è una realtà conosciuta dal cervello, e quindi non può essere simulata.

Anche in scrittura, quindi, il silenzio viene comunicato attraverso una percezione uditiva del personaggio particolarmente spiccata: sapendo che il personaggio sente il ronzio della zanzara, capiamo che tutto intorno c’è silenzio (altrimenti non sentirebbe il ronzio); oppure puoi amplificare oltremodo la sua percezione sensoriale, magari sconfinando in quella psicologica, e far sì che soffi e respiri – di cui in condizioni normali non si accorgerebbe – producano chissà quali rumori, visto il silenzio in cui rimbombano.



Musica e silenzio sono due fenomeni perfettamente distinguibili nel mondo reale, e potremmo addirittura classificarli come opposti; e tuttavia vanno entrambi incontro a uno stesso problema di lost in translation, quando li vogliamo trasportare nel mondo della pagina. Possono paradossalmente diventare la stessa cosa, se tentiamo di rendere una musicalità che non viene colta dal lettore, e si riduce quindi a semplici parole impossibili da simulare, da sentire per quel che in realtà sono. Curioso: due fenomeni ben distinti nel mondo reale si possono sovrapporre, quando li trasferiamo nella pagina.

Questo tema è generale, e cogliamo senz’altro l’occasione offerta dalla musica e dal silenzio per prospettarlo nella sua interezza, anche per dare un seguito alle considerazioni sulla fragilità del mondo della pagina, così da concettualizzarle meglio. 
 
Il mondo reale è un mondo tridimensionale e penta-sensoriale, che si muove lungo la linea del tempo; il mondo della pagina – per contro – è statico, adimensionale e a-sensoriale. Ogni volta che scrivi narrativa – che crei una storia sulla pagina – tu stai schiacciando una realtà dinamica, tridimensionale e penta-sensoriale in una realtà statica, adimensionale e a-sensoriale, nella convinzione di poter comunque evocare nella testa del lettore tutti i principali elementi del mondo reale.
 
Saper scrivere narrativa significa avere il polso di cosa accade quando ci si cimenta in questa riduzione dimensionale. Se hai una cultura matematica di base, allora devi solo ricordarti cos’è uno spazio vettoriale e un suo sotto-spazio, e cosa vuol dire proiettare il primo nel secondo. Se invece appartiene alla schiera di quelli che notte di lacrime e preghiere, la matematica non sarà mai il mio mestiere – a proposito: l’hai letta canticchiandola? – non preoccuparti: te lo spiego nel modo più semplice possibile, e se non lo capisci così, allora non lo capirai mai.
 
Immagina un mondo a due dimensioni, in cui tutti i fenomeni sono rappresentabili con l’incrocio di due coordinate, x e y.

 
In questo nostro mondo bidimensionale, racchiuso nel piano (x, y), abbiamo due fenomeni segnalati con altrettante stelline, una azzurra e l’altra gialla.

Non ci interessa sapere o capire cosa siano esattamente queste stelline, quali fenomeni rappresentino, ma se proprio vuoi materializzarle, puoi vederle come la “musica” e il “silenzio” (però ti suggerisco di ragionare con ampiezza di vedute, in termini più astratti e generali, per cogliere meglio il messaggio di fondo).

Questi due fenomeni – la stellina azzurra e la stellina gialla – sono chiaramente diversi: li separa – nel mondo (x, y) – una distanza significativa, ben visibile e facilmente apprezzabile a occhio nudo, e non c’è modo – in (x, y) – di confondere la stellina azzurra con la gialla o viceversa.

Tutto chiaro? Dai, sì: tutto chiaro.
 
Cosa significherebbe scrivere narrativa, per un abitante del mondo (x, y)? Potrebbe significare – nella migliore delle ipotesi – rinunciare alla sua dimensione naturale, il piano (x, y), per calare tutte le cose del suo mondo sulla sola retta x.
 
 
Accidenti! I due fenomeni bidimensionali – le nostre due stelline, azzurra e gialla – ben separati e  distinguibili finché sostavano nel loro ambiente naturale – il piano (x, y) – si sono avvicinati straordinariamente, una volta schiacciati nella narrazione sulla retta x. Ora sembrano sfiorarsi, e sarebbe bastato un nulla – una localizzazione un filo più a sud-ovest della stellina gialla, o a sud-est dell’azzurra, sul piano (x, y) – per renderli indistinguibili.
 
Questo è – in generale – il fenomeno della lost in transaltion: la perdita delle esatte proporzioni tra le cose, nel passare da un mondo ad un altro (in questo esempio, dal piano (x, y) alla retta x).

Con una complicazione enorme, nel tuo caso.

Se la scrittura, per il nostro ipotetico autore bidimensionale, significava passare da un piano (x, y) a una retta x, cioè dalla dimensione 2 alla dimensione 1, per te, autore del mondo reale, la scrittura implica il passaggio dalle dimensioni 3 (spaziale) e 5 (sensoriale) alla dimensione 0.

Tutto, in scrittura, è come se collassasse in un punto. Dovrà poi essere il cervello del lettore a recuperare la tridimensionalità dello spazio, la linea del tempo, e la penta-sensorialità, grazie a un tecnicismo di scrittura che ripristini – per quanto possibile – la proporzionalità originaria tra le cose.

Saper scrivere narrativa significa esattamente questo: avere consapevolezza di tutte le distorsioni create nel passare da un mondo pluridimensionale a un mondo adimensionale, e far sì che la resa stilistica non ne soffra troppo.

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