MODULO 16 – Ottimizzare la scrittura: l’iceberg di Hemingway e la pistola di Cechov

 
L’essenza della matematica è la libertà”.
 
Le parole di Georg Cantor meraviglieranno i poeti, questi imbottigliatori di nuvole, ignari delle mirabolanti acrobazie realizzabili sulla barra fissa della matematica: le regole matematiche rendono liberi, massimamente liberi, perché nulla come il loro rigore insegna a usare la libertà, a non mortificarla, a trarne il meglio possibile.
 
Come accade peraltro nella vita sociale ben civilizzata, dove è la legge – e solo la legge – a garantire la libertà: legum servi sumus ut liberi esse possimus – siamo schiavi delle leggi, per poter esseri liberi – con le parole di Marco Tullio Cicerone.
 
Le regole  – in matematica, nella società, in scrittura, e in definitiva ovunque – sono lì a tutelare la libertà che si invoca, perché se non si è schiavi delle regole allora lo si diventa dei propri capricci, dei pregiudizi, della vanità, della pigrizia.

Sin qui abbiamo presentato un set di regole di “micro-scrittura”, da applicare a singole frasi o a loro concatenazioni. Dobbiamo ora passare alle regole “macro”, con cui si imposta e si sviluppa il testo, in vista delle modalità di scrittura di una singola scena (modulo 22) e di un’intera storia (modulo 23).

L’iceberg di Hemingway

 
Mi sdraio sul prato del parco, l’erba mi solletica le braccia.

Questa frase è l’esempio più semplice di iceberg di Hemingway.

Analizziamola.

Mi sdraio sul prato del parco,

Abbiamo usato un’azione (un mattoncino [A]) per localizzare il personaggio (in un parco) e lo visualizziamo nell’atto di sdraiarsi.
 
La parola “parco” – notiamolo, visto che ne abbiamo occasione – è di per sé vuota, priva di significato: leggiamo “parco” e… cosa dobbiamo immaginare?
 
Se lo scrittore non ha mostrato in precedenza il parco nei suoi dettagli concreti, il lettore non ha nulla a cui appigliarsi per avviare la simulazione della pagina; ma siccome il cervello si sforza comunque di simulare ciò che legge, è probabile che ogni lettore evocherà “il suo parco”, quello che conosce, che frequenta, con cui ha maggiore familiarità o di cui trattiene bei ricordi.
 
Vuoi lasciare il lettore libero di immaginare il parco che desidera (“il suo parco”) o vuoi dargli indicazioni precise su come è fatto il parco in cui si muove il personaggio (“il tuo parco”)?
 
Tendenzialmente opterai per la seconda ipotesi, perché l’immaginazione va sempre pilotata, in misura più o meno rigida, ma un controllo ci vuole sempre, per evitare che il lettore immagini delle cose che poi deve riconfigurare, quando sulla pagina appariranno elementi discordati rispetto a ciò che aveva ipotizzato.

Questa digressione sul significato reale delle parole – su ciò che il lettore visualizza quando legge – andava fatta sia per motivi d’opportunità generale (è bene richiamare, in contesti diversi, nozioni già studiate) sia perché tornerà utile a fine sezione per precisare meglio l’argomento in esame (e quindi ha pure una sua pertinenza col modulo).
 
Proseguiamo.

l’erba mi solletica le braccia.

Abbiamo qui una percezione tattile – mattoncino [PST] – come conseguenza dell’azione compiuta in precedenza: la simuliamo senza difficoltà, perché a tutti sarà capitato di provarla almeno una volta, e tanto basta a richiamarla alla memoria.

Quindi – in definitiva – abbiamo letto delle parole e creato in parallelo un breve film mentale. Il processo immaginativo è automatico, inconsapevole, ma è esattamente la risposta del cervello quando si legge: gli occhi leggono e il cervello visualizza. Sin qui nulla di diverso rispetto a quanto già discusso nel modulo 8.

Qual è il punto nuovo? Che gli occhi leggono e il cervello visualizza, ma se il testo è conforme all’iceberg di Hemingway, allora il cervello visualizzerà qualcosa in più di ciò che si trova esplicitamente scritto nella pagina.

Se mi sdraio sul prato del parco, e l’erba mi solletica le braccia, ciò significa che indosso una maglietta sbracciata, perché altrimenti la sensazione di solletico alle braccia non sarebbe possibile. Il testo rimane silente sull’abbigliamento del personaggio, e d’altra parte sarebbe una pessima scelta stilistica mettersi lì a dettagliarne il vestiario (anzi, sarebbe un errore: una spiegazione dall’esterno – un infodump – a uso esclusivo del lettore). E invece il lettore si forma un’idea dell’abbigliamento del personaggio per via indiretta, quasi inconsapevolmente, deducendola anche solo a livello inconscio da una sua percezione fisica indotta da un’azione.

Il testo – si dice in gergo – ha generato un sotto-testo, ha prodotto informazioni aggiuntive rispetto alle parole scritte sulla pagina.

E non è finita qui. Se mi sdraio sul prato del parco, e l’erba mi solletica le braccia, e se quindi sto indossando una maglietta sbracciata (o comunque ho un abbigliamento leggero che lascia scoperte le braccia) allora molto probabilmente è una bella giornata di primavera o d’estate, perché è esperienza comune trascorrere una giornata di una bella stagione in un parco.

Di nuovo: il testo non dice nulla sul periodo dell’anno in cui ci troviamo – e anche qui sarebbe una scelta suicida mettersi a descrivere il tempo, magari con lo stile di un meteorologo colto da un raptus poetico – ma la concatenazione di informazioni – esplicite e implicite – ne induce un’altra: con ogni probabilità, è una bella giornata di primavera (o d’estate) e la “bella giornata di primavera” – per quanto vaga, come è inevitabile con il sotto-testo – darà un primo setting a cui l’autore potrà poi agganciarsi nello sviluppo del testo, fornendo dettagli specifici che consentano di concretizzarla.
 
Per riassumere: al primo stadio, il testo (erba che solletica le braccia) ha generato un sotto-testo (maglietta sbracciata); al secondo stadio, il sotto-testo precedente (maglietta sbracciata) ha generato altro sotto-testo (è primavera o estate) che alza la palla all’autore per il seguito della narrazione.

Questo è l’iceberg di Hemingway, un’immagine che ambisce addirittura a dare un’indicazione quantitativa sulla proporzione ottima tra testo è sotto-testo: un ottavo di cose ben scelte e ben scritte (la parte visibile dell’iceberg) deve riuscire a far immaginare al lettore i sette ottavi di cose non scritte (la parte sommersa).
 
Puoi anche chiamarlo principio di economicità dello stile, se preferisci una dizione più sobria: poche cose (ben scelte e ben scritte) per crearne tante altre (senza nominarle).

Estratto dalla “Lezione 24 – Uso e abuso degli aggettivi”, di Giuseppe Pontiggia.

L’iceberg di Hemingway (l’economicità dello stile) è un invito a ragionare con intensità e finezza.

Si presume anzitutto che tu conosca ciò di cui stai scrivendo, e quindi che tu disponga di una gran quantità di dettagli concreti, specifici, vividi, per scrivere una determinata scena.

Ma non basta avere un deposito ben assortito di dettagli. Bisogna poi saperli selezionare. Quali sono i dettagli migliori? Sono quelli che, combinandosi tra loro, riescono a evocare una massa di altri dettagli, che non servirà pertanto scrivere, proprio come la visione della punta dell’iceberg che affiora dal mare fa automaticamente immaginare l’enormità sommersa, anche se non la si vede.

Se ti sembra un artificio di complessa realizzazione, sappi che in realtà lo è molto di più, e l’ammonimento iniziale di Pontiggia – “se non aggiungo qualcosa, sottraggo qualcosa” – ti avrebbe già dovuto allertare.

 
Estratto dalla “Lezione 24 – Uso e abuso degli aggettivi”, di Giuseppe Pontiggia.

Tu, scrittore  di oggi e del futuro, del 2023 e degli anni a venire, proprio non vuoi “aggettivazioni barocche” – Dio ce ne liberi! – ma il punto generale rimane e va colto nella sua filosofia di fondo: se hai già inserito n dettagli – che assicurano una data visione della parte sommersa dell’iceberg – e ne inserisci un altro, se passi cioè da n a n+1 dettagli, la nuova evocazione della parte sommersa sarà migliore o peggiore della precedente, ma di sicuro non uguale.

Ogni dettaglio conta, nel bene o nel male: se col dettaglio aggiuntivo non allarghi la visione della parte sommersa, allora la riduci; se non guadagni, allora perdi, per riprendere le parole di Pontiggia.

Possiamo anche dire che il segno “=” non esiste, nella matematica della scrittura: non ci sono parole neutrali o innocenti, che se omesse o inserite lasciano le cose invariate; il testo è un ecosistema, che modifica i suoi equilibri non appena introduci o rimuovi qualcosa; perciò bisogna saper ascoltare quel che il contesto suggerisce, prestare orecchio alla singola scena e alla storia in cui si inserisce.

Fai attenzione, in particolare, a non incappare nella situazione n+1<n, in cui una quantità maggiore di dettagli rivela una minore capacità evocativa.
 
Ogni parola conta, e su ogni parola si ragiona senza lesinare sforzi.
 
Estratto dalla “Lezione 14 – Aforismi imperfetti ed errori di Omero”, di Giuseppe Pontiggia.
 
La scrittura è un processo di ottimizzazione: devi passare il massimo di informazioni possibili, per una fissata quantità di parole, con l’uso di dettagli specifici e scene dinamiche, che scatenino il processo immaginativo nel lettore.

L’abilità sta tutta nel capire quanti e quali particolari sono necessari per avviare una simulazione sufficientemente vivida, senza perdere di velocità nella narrazione.

Vedila nei termini propri di un obiettivo economico, se l’analogia ti può aiutare.

Un imprenditore può portare sul mercato q=100 unità del suo prodotto, e vendere ogni unità a un prezzo p=10; incasserà allora p×q=10×100=1.000 euro. Oppure può portare q=150 unità, ma allora dovrà praticare un prezzo più basso, se vuole smerciarle tutte, diciamo p=8. In questo caso incasserà p×q=8×150=1.200, ed è allora conveniente produrre di più e vendere a un prezzo unitario minore. Potrebbe volersi spingere oltre, produrre una quantità doppia, q=200, sapendo di poterla vendere per intero a un prezzo unitario p=4; in questo caso, però, incasserebbe p×q=4×200=800, e non sarebbe più conveniente rispetto alle alternative.

Quantità e prezzo si contrastano: se aumenti la quantità, devi ridurre il prezzo; se la riduci, puoi alzarlo; e tutta la bravura sta nel trovare quei due particolari valori di p e q tali che il prodotto p×q sia massimo.

Lo stesso avviene in scrittura: più inserisci dettagli, più ricca si fa la narrazione, ma anche più lenta e complessa la simulazione; se invece togli dettagli, la simulazione scorre più rapida, ma rischia essere povera e poco evocativa; devi trovare il numero n di dettagli che realizza l’ottimo tra vividezza di rappresentazione e velocità di lettura.

Quindi, per concludere con ciò con cui abbiamo iniziato, se vuoi veicolare l’immagine di un parco, non devi certo accatastare dettagli su dettagli, illudendoti così di migliorare in precisione, ma selezionarne l’esatto numero n idoneo a restituirne l’immagine più nitida e scorrevole possibile; e questo n si rivelerà un numero magico, capace di trasformare la debolezza della pagina (un mondo dove i cinque sensi sono sulle prime messi fuori gioco) in una forza ineguagliabile (un mondo a cui si accede con l’immaginazione, una risorsa potenzialmente illimitata, quindi capace di surclassare tutto ciò che cade sotto le immediate percezioni sensoriali, strutturalmente limitate al fenomeno percepito).

E chiaramente non è solo un discorso di quantità, ma anche di qualità: i dettagli devono servire a qualcosa, avere una funzione precisa, come imposto dal principio della pistola di Cechov. 
 

La pistola di Cechov

 
Il principio della pistola di Cechov non si può stilizzare in modo semplice come l’iceberg di Hemingway, perché la sua natura è intertestuale, si sviluppa lungo sequenze di testo sufficientemente estese, e quindi non è riducibile a un paio di frasi consecutive.

Nella sua forma più concisa lo si può enunciare così: tutto ha uno scopo, in una storia ben fatta.

Ogni elemento presente sulla pagina ha (deve avere) una giustificazione: può essere il presupposto per l’introduzione di elementi successivi, oppure la conseguenza di elementi introdotti in precedenza, o anche un punto fermo per consolidare la narrazione mostrata sino a quel momento.

Quindi, se nella storia compare una pistola, prima o poi quella pistola dovrà fare il suo lavoro, mostrare il suo scopo – sparare – e non puoi pensare di inserirla solo perché sei un appassionato di pistole, e allora le infili a forza in ogni storia che scrivi, perché sì.

Puoi interpretare la pistola di Cechov nei termini del principio di necessità (o causalità) del mondo della pagina, in contrapposizione all’alea (casualità) caratteristica del mondo reale.
 
Estratto dalla “Lezione 23 – Le vocali non sono innocenti” di Giuseppe Pontiggia
 
Il demone del caso – l’imprevedibile, l’imponderabile – non esiste all’interno del mondo della pagina, e, se pure esiste, non è lui a determinare il corso della storia.

Tutto ciò che accade in una storia accade per cause precise – che l’imprevedibile può al più “colorare”, ma mai determinare – e quindi ciò che scrivi ora deve trovare una sua piena giustificazione in ciò che hai scritto prima, e se introduci nuovi elementi ora è perché ti serviranno a giustificare ciò che scriverai dopo.

Se abbiamo introdotto una pistola (una causa) ne dobbiamo poi vedere gli effetti (lo sparo) perché una storia è una concatenazione di cause ed effetti, di cause che provocano effetti, e di effetti che diventano cause di nuovi effetti e così via sino alla conclusione. D’altra parte, se così non fosse, se la storia procedesse a botte di culo e colpi di sfiga, o se si ammassassero elementi inutili sulla pagina solo per assecondare i fetish dell’autore, come sarebbe possibile restituire un messaggio al lettore, persuaderlo della propria tesi?

Potresti sentir parlare della pistola di Cechov – nei manuali o nei corsi di scrittura – in termini di set-up (tradotto in “semine”) e pay-off (“raccolti”): prima semini (fissi le cause) e poi raccogli (mostri gli effetti).

Io – in ossequio al rasoio di Occam – preferisco non moltiplicare le entità, non introdurre sovrastrutture gratuite, perché il rischio è di ritrovarsi in un ginepraio di regolette stupide, con pregiudizio per la qualità delle soluzioni (stilistiche).

Quando si introducono esplicitamente i concetti di “semina” e “raccolto”, come fossero due requisiti da applicare “dall’esterno”, si finisce anche solo inconsciamente col separarli dalla scena, si pensa cioè di poter scrivere quel che si vuole, pur di introdurre uno o più elementi di “semina”, e di poter continuare a scrivere ciò che si desidera, rassicurati dal poter mietere il proprio “raccolto”. 

Questo atteggiamento (censurabile) dà segni di sé quando ci si chiede – ad esempio – quante “semine” siano necessarie per realizzare un certo “raccolto”, o se un dato elemento raggiunga o meno la soglia di rilevanza informativa per essere considerato una “semina” (e dover quindi generare un “raccolto”),  e di questo passo ci si ritrova ingabbiati in pseudo-problemi creati da pseudo-concetti che nelle intenzioni dovevano essere d’aiuto, e nei fatti si sono rivelati d’ostacolo a una buona progettazione.

Tutte le domande poste in termini di “semine” e “raccolti” ammettono solo risposte tautologiche.

Quando chiesero a Lama Michael Rinpoche come mai i cosiddetti anelli dell’esistenza – gli strati dei reami in cui si può nascere: diabolico, umano e divino – fossero proprio 12, e non un altro numero, la sua risposta fu semplicemente perché 11 sarebbero stati pochi e 13 troppi.

Allo stesso modo, se vuoi sapere dopo quante “semine” sei autorizzato a mietere il tuo “raccolto” – per usare il gergo di chi si esprime così – la risposta è “dopo tutte le semine che servono, non una in più, non una in meno”.

L’arte della scrittura ha già le sue rigidità strutturali, come ogni arte, e non serve introdurne di fittizie.

Tutta la scena deve essere una “immensa semina” e un “continuo raccolto”, se così vogliamo dire. Non staccare le cose, non separare i concetti, non liofilizzare il flusso narrativo.

Mantieni il cervello accesso, ragiona a fondo sulla scena, su tutto ciò che vi fai comparire, e chiediti sempre come sia possibile sfruttare ogni elemento al meglio, in modo che abbia un suo ruolo (anche piccolo) nella narrazione, e se possibile più d’uno, e nei casi più rilevanti che massimizzi il suo impatto lungo tutta la storia.

Perché se invece ragioni apposta in termini di  “semine” e “raccolti”, allora finirai – fatalmente – con appiccicarle a una storia che sta andando per conto suo (e nessuno sa dove, forse neanche tu che la stai scrivendo) e il lettore tiepido avvertirà l’artificiosità della costruzione, scorgerà il nesso di causa-effetto, quando dovrebbe soltanto trattenere una forte sensazione generale di coerenza, senza notare i meccanismi che l’hanno resa possibile.

Come osservato all’inizio, e ora qualificato in dettaglio, la pistola di Cechov non ammette rappresentazioni didattiche immediatamente spendibili.

Però puoi rileggere i racconti Aperitivo letterario e Vita da editor, e notare, rispettivamente, il ruolo giocato dallo scontrino (che compare all’inizio e ritorna a metà) e dal gatto Byron (che viene fatto lavorare come un mulo).
 
Puoi anche tornare al modulo 15C, e alla correlata appendice, in particolare nei passaggi su “come far accadere gli eventi in scena”. 

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