Modulo 24L – Costruzione di un colpo di scena: il caso della serie tv “Squid Game”

 

Cos'è Squid Game?

Ma sul serio devo dirti cos’è Squid Game?

Dai, su, per favore.

Non puoi dare a intendere di voler imparare a sceneggiare, e non aver visto Squid Game.

Anche Squid Game ha i suoi problemini – l’empatia tarda un po’ ad arrivare, ad esempio – ma rimane un’opera notevole, e il successo di pubblico è qui lo specchio di una sceneggiatura davvero ben fatta.

Presumo quindi che tu sappia cos’è Squid Game, e perciò non serve che io te lo presenti.
 
Ti suggerisco piuttosto di ascoltare l’analisi di Violeta Rock – non proprio tecnica, ma di sicuro la migliore disponibile – che ti sarà utile per mettere eventi e personaggi in prospettiva, così da apprezzarli al meglio.
 
 

Che cos'è un "colpo di scena"?

Un “colpo di scena” è un evento che produce stupore, meraviglia, che fa restare lo spettatore a bocca aperta: “incredibile… non ci credo… non è possibile!”

E come si inserisce un “colpo di scena” in flusso narrativo che – da manuale – è una rigida sequenza di cause ed effetti?

Se tutto ciò che lo spettatore vede nella scena k deve essere giustificato e spiegabile da ciò che gli è stato mostrato nelle k-1 scene precedenti, com’è possibile che ora rimanga “sorpreso”, visto che la storia gli ha già fornito tutti gli elementi a sostegno di ciò che ha sotto gli occhi?

Possiamo avviare la discussione stralciando un passaggio del modulo 17.


Mettiamola così: tutto deve avere una spiegazione, ma ciò non significa che la spiegazione debba essere banale, ovvia, scontata.
 
Posso scrivere la sequenza numerica:

1, 2, 3, 4, 5, 6, …

e tu non avresti difficoltà a proseguire:

…, 7, 8, 9, 10, 11, 12, …

Ma se scrivo la sequenza:

1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, …

saresti in grado di completarla?

Può non essere così immediato capire cosa venga dopo il 21, e alcuni, forse, ti diranno che non c’è nulla da capire, che i numeri sono buttati lì a casaccio, che il solo vincolo da rispettare (forse) è scrivere un numero superiore a 21 (visto che la sequenza è crescente, a parte i due 1 iniziali).

Già.

E ora guarda qui:

1

1 = 1

1 + 1 = 2

2 + 1 = 3

3 + 2 = 5

5 + 3 = 8

8 + 5 = 13

13 + 8 = 21

e via così.

Il primo 1 (il numero in posizione “1”) inizializza la serie; ogni numero successivo, in posizione “k”, si ottiene sommando i numeri in posizione “k-1” e “k-2”.

Quindi, in posizione “1” mettiamo arbitrariamente il numero 1; in posizione “2” troviamo ancora 1, perché non ci sono ancora due numeri precedenti al primo 1; in posizione “3” troviamo il 2, che è la somma dei numeri in posizione “2” e “1” (entrambi pari a 1); in posizione “5” c’è il 5, somma di 3 e 2 (che sono i numeri in posizione “4” e “3”); in posizione “6” c’è l’8, cioè la somma di 5 e 3 (i numeri che occupano le posizioni “5” e “4”); in posizione “7” troviamo il 13, vale a dire 8 più 5 (i numeri che si trovano in posizione “6” e “5”); in posizione “8” c’è il 21 (somma di 13 e 8, i numeri in posizione “7” e “6”).

È ovvio – a questo punto – cosa scrivere in posizione “9”:

21 + 13 = 34

e più in generale come proseguire:

1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89,144, 233, 377, 610, 987, 1597, 2584, 4181, 6765, 10946, 17711, … 
 
avendo così la celeberrima sequenza di Fibonacci.
 
Poter spiegare un evento (o una sequenza di numeri) non significa riuscirci all’istante, e qui, nella gestione del “colpo di scena”, si rivela la capacità affabulatoria dello scrittore, il suo essere un mago.

Ne avevamo accennato nel modulo 18E, in un altro contesto e con altre finalità, e ti riporto lo stralcio che può aiutarti a entrare nel giusto ordine di idee.
 
 
Qui dobbiamo riprendere lo stesso principio ed esaltarlo.

Da un lato, lo sceneggiatore deve disseminare – lungo tutte le k-1 scene – degli elementi informativi chiari e memorizzabili, per poter poi sostenere e giustificare – alla scena k – il colpo di scena.
 
Dall’altro, però, deve tenere l’attenzione dello spettatore concentrata altrove, in modo da non fargli pensare troppo a quelle informazioni che pur gli ha fornito.

Si gioca su un equilibrio delicato: bisogna passare al lettore-spettatore un flusso informativo inequivocabile che, se riesaminato col beneficio della retrospettiva, giustifichi senza incertezze ciò che sul momento gli ha suscitato una sensazione di meraviglia (il “colpo di scena”); ma al tempo stesso bisogna far sì che il lettore-spettatore, nel registrare quel flusso in tempo reale, non gli dia l’importanza che effettivamente possiede perché troppo preso e coinvolto da altri eventi.

Non esiste una regola meccanica per realizzare questo bilanciamento; si può solo prendere spunto dai casi migliori in cui è stato messo in pratica, e trarre ispirazione.
 
E Squid Game è un caso di scuola eccellente.
 

Il "colpo di scena" in Squid Game

“Occupati tu dei miei ospiti, per me. 
Perché guardare non sarà mai divertente come giocare… di persona”
 
Il “colpo di scena” in Squid Game arriva – ovviamente – sul finale dell’ultimo episodio: scopriamo solo allora che il giocatore 1 è la grande mente dietro la giostra malefica.

Un prolungato “oh” di meraviglia avrà sicuramente accompagnato la rivelazione, anche perché il giocatore 1 era stato “eliminato” (cioè era morto) nel gioco delle biglie (o almeno così ci era stato fatto credere).
 
Eppure si avevano tutte le informazioni per capire, se non altro, che il giocatore 1 era speciale, e persino che era ancora vivo, se gli sceneggiatori non fossero stati così abili nel tenere altrove l’attenzione dello spettatore: con una mano consegnavano informazioni significative, con l’altra invitavano a guardare da un’altra parte, e la maggioranza di noi – in effetti – guardava là dove gli si diceva di guardare, attratta da situazioni narrative molto ben congegnate.
 

La costruzione del "colpo di scena"

Gli sceneggiatori hanno fornito informazioni precise sulla peculiarità del giocatore 1 in modo sistematico, sin dalla prima puntata.

Le ho raggruppate per aree tematiche. 

Episodio 1: il primo ad arrivare

Giocatore 456: “Lei è stato il primo ad arrivare… e… e io… sono l’ultimo”  
Giocatore 1: “Sì, so anche questo… vedi, io ho i giorni contati…”  
Giocatore 456: “Scusi?”
Giocatore 1: “Ho i giorni contati: ho un nodulo in testa, ha detto il mio medico”
Giocatore 456: “Un nodulo?”
Giocatore 1: “Tumore al cervello” 
 
Il giocatore 1 è… il numero 1, e già questo, di per sé, doveva mettere in allerta.

“Essere il primo” ha sempre un significato speciale. Pensa a tutte le tue “prime volte”, di qualunque cosa si tratti: magari non saranno state le migliori, ma quell’emozione – l’emozione della “prima volta” – non l’hai più riprovata, perché la “prima volta” fa storia a sé, si stacca da tutto il resto, ne differisce per natura e non per semplice grado.

“Essere il primo” si presta naturalmente a essere sfruttato a fini artistici. Pensa alla prima moneta guadagnata da Zio Paperone – la mitica “numero 1” –  venerata e difesa come se valesse più dell’intero deposito, posta al centro di numerose storie, e addirittura all’origine di un personaggio – la fattucchiera Amelia – ossessionata dall’impossessarsene.

“Essere il primo” vuol dire caricarsi non solo di significati emotivi, ma anche di valori venali: un francobollo antico può valere poco o nulla, essere disponibile in gran quantità e acquistabile a poche centinaia di euro (e spesso anche a molto meno); ma se quello stesso francobollo lo desideri con il timbro del giorno di emissione, se vuoi possedere “un primo giorno”, allora potresti arrivare a spendere svariate decine di migliaia di euro.

Persino la matematica ha operato per lungo tempo una distinzione tra l’1 e tutto il resto: i numeri – si argomentava – servono a contare, e il conteggio è un’operazione che ha significato solo in presenza di una moltitudine di oggetti, mentre l’1 parla semplicemente di esistenza; e il numero 1 – volendo – lo si può vedere come la sorgente da cui sgorgano tutti gli altri numeri (per somma ripetuta: 1=1, 2=1+1, 3=1+1+1, …).

Pensa all’espressione primus inter pares, con la quale, all’interno di un gruppo di individui sullo stesso livello, se ne identifica uno che ha il potere di rappresentarli tutti e perciò assume una forza e una responsabilità peculiari.

Ci sono appassionati di calcio che ti recitano a memoria l’intero albo d’oro del campionato italiano di serie A, ma faticano a dirti quali squadre, in quegli stessi campionati, si sono piazzate al secondo posto, perché il primo classificato – appunto – abbaglia in modo così potente da impedirti di vedere o ricordare il resto.

C’è per definizione qualcosa di irripetibile e speciale nell’essere il primo, nel portare addosso il numero 1, e le peculiarità del giocatore 1 in Squid Game sono chiaramente comunicate sin dal principio.

Anzitutto, è l’unica persona anziana presente nel gruppo. Anche senza sapere l’età esatta di tutti gli altri giocatori – grosso modo variabile tra i 20 e i 50 anni – si vede a colpo d’occhio che il giocatore 1 è molto più vecchio degli altri, si coglie subito il suo “staccarsi” dal resto del gruppo per un fatto anagrafico.

Lo conosciamo grazie a un dialogo col giocatore 456, in cui veniamo a sapere del suo tumore al cervello. Non sappiamo ancora cos’è che accomuna tutti i giocatori; però capiamo che si tratta di persone disperate e intuiamo che la loro disperazione sia collegata ai debiti (come per il 456, di cui già conosciamo la storia); e la nostra intuizione verrà confermata da lì a poco, quando uno dei soldati sederà un principio di rivolta sciorinando la drammatica situazione finanziaria di alcuni giocatori, lasciando intendere che anche tutti gli altri si trovano nella stessa condizione.

E qui ci sarebbe da fermarsi e porsi un paio di domande.
 
Cosa ci fa un vecchio, malato terminale, in un gioco destinato a persone tutte più giovani e con problemi finanziari? Anche lui è indebitato? Mah! Se pure fosse, il tumore se lo porterà via presto: Sorella Morte – qui più che altrove – è davvero la Grande Consolatrice. Quindi? Cosa ci fa un vecchio in mezzo a persone più giovani di lui? Cosa c’entra un malato di tumore con persone colme di debiti?
 
Sarebbero queste le domande che qualunque spettatore si porrebbe, se gli sceneggiatori non fossero stati abili nell’attirare l’attenzione e la curiosità su tutt’altro (sugli altri personaggi, sull’ambientazione, sui giochi).
 

Episodio 2: da 456 a 1, 100 vs 101

Il giocatore 1, col suo voto, decreta l’interruzione dei giochi.
 
L’episodio 2 si apre con la presa di consapevolezza della reale natura del gioco (eliminazione=morte) e di ciò che vi è in palio (45,6 miliardi di won, circa 33 milioni di euro).

Dopodiché si entra nel vivo: si vota per decidere se proseguire nei giochi o abbandonarli, conoscendone ora i rischi e le opportunità.

Non ha stretta attinenza con la peculiarità del giocatore 1, ma voglio portare all’attenzione un passaggio della scena della votazione.
  
“Azioni che ostacolano il corretto svolgimento di questo processo democratico non verranno tollerate”
 
Può far sorridere – sulle prime – sentir parlare di “processo democratico” e vedere al tempo stesso dei soldati mascherati puntare dei fucili sui votanti, ma il passaggio – in realtà – è davvero raffinato. Il processo è effettivamente “democratico” (1 vale 1) e i soldati ci tengono che sia anche “libero” (ogni giocatore deve poter votare senza condizionamenti); ma democrazia e libertà (che non sono la stessa cosa, sebbene tendano a sovrapporsi) non si producono spontaneamente, non esistono “in natura”, e richiedono sempre un’azione consapevole, energica e mirata, se necessario piantando dei mitra addosso a chi non accetta che la maggioranza si esprima liberamente.

Nell’episodio 2, dunque, si va al voto: restare nel gioco o tornare al mondo reale? 
 
Che il giocatore 1 sia speciale lo si può intuire già qui, all’inizio del secondo episodio, al momento delle votazioni. Avviene infatti un fatto curioso: si vota in ordine inverso rispetto al numero sulla pettorina, perciò il primo a votare sarà il giocatore 456 e l’ultimo il giocatore 1. Perché? Per quale ragione non si segue l’ordine naturale (crescente)? Come si giustifica l’inversione?

C’è da aver presente un punto generale. In una votazione palese, in cui si viene aggiornati in tempo reale sull’andamento delle preferenze, l’ordine con cui si vota può avere la sua rilevanza. Più tardi si vota, più informazioni si hanno sulla tendenza dei risultati, e quindi più consapevolezza si possiede circa la propria possibilità di influenzare l’esito finale. Magari le votazioni si sono incanalate verso una direzione precisa, e allora gli ultimi a votare potranno fare poco o nulla per invertire il trend. O magari si sono mantenute in equilibrio, e allora gli ultimi a votare possono risultare decisivi. La possibilità di essere determinanti la posseggono solo gli ultimi. I primi scelgono in sostanziale assenza di un contesto, il loro voto riecheggia nel nulla.

L’ordine inverso di votazione, quindi, serve a consegnare al giocatore 1 il potere virtuale di decidere delle sorti dell’intero gruppo, semmai si arrivasse a una situazione di parità (come in effetti avviene e pure con notevole realismo, per come è stata costruita la dinamica degli eventi).

E qui assistiamo al primo, vero, “colpo di scena”.
 
Il giocatore 1 va al voto, sapendo di essere decisivo.

Mentre il giocatore 1 si dirige verso i due pulsanti per esprimere il suo voto, il regista ci porta dentro la testa del giocatore 456 a sentirne i pensieri (che poi è il nostro stesso pensiero, da spettatori): il giocatore 1 è un malato terminale di tumore, perciò quale differenza vuoi che faccia morire qua dentro o là fuori? Se ha scelto di partecipare al gioco, da malato di tumore, perché mai ora dovrebbe rinunciarvi? Non sarà certo la prospettiva di “morire nel gioco” a fargli cambiare idea, perché tanto da qui a poco morirà comunque. E allora tanto vale rimanere a giocare, no?

Il ragionamento è impeccabile, ma viene disatteso: il giocatore 1 schiaccia il tasto rosso con la “X” e decreta così la fine dei giochi.

La decisione – ammettiamolo – ha sorpreso un po’ tutti, sul momento; ma si spiega perfettamente, conoscendo la storia.

Non è propriamente vero – come dice un soldato ai giocatori, per riportarli all’ordine – che la scelta di partecipare ai giochi è stata libera. Sì, è vero, nessuno ha costretto i giocatori a partecipare, ma è anche vero che la scelta è avvenuta in mancanza di un elemento informativo – “essere eliminati” significa morire – che, se rivelato, avrebbe forse spinto a ben altre decisioni.

Il giocatore 1 è il padrone della giostra e non vuol tenere lì gli altri giocatori solo grazie a un sofisma. Ora i giocatori sono perfettamente informati sulla natura dei giochi – sulle minacce e le opportunità, sull’entità del montepremi e su cosa si deve esser pronti a rischiare per vincerlo – e solo ora la loro scelta può essere realmente libera. Quindi i giocatori devono essere liberati, tornare nel mondo reale, e poi decidere – stavolta, sì, con piena consapevolezza – se ritornare a partecipare oppure no.

È tutto piuttosto ovvio, ma – a prova di scemo – il giocatore 1 lo preciserà al 456 nell’episodio finale.
 
“Sembra che tu lo abbia dimenticato: io non ho mai forzato nessuno a partecipare al nostro gioco.
E poi… siete… anche tornati, spontaneamente, di vostra volontà”
 

Episodio 2: che combinazione…

Numero 456: “Non posso credere di averla incontrata qui”
Numero 1: “Quante probabilità c’erano? Credo che… fosse destino che ci incontrassimo”
 
La maggioranza dei giocatori – nell’episodio 2 – sceglie di interrompere i giochi, cosicché ognuno può tornare alla sua vita, al suo mondo. Che è un inferno (da cui il titolo dell’episodio).

Conosciamo un po’ meglio alcuni giocatori e ci rendiamo conto che se la passano tutti parecchio male.
 
E qui c’è da registrare un elemento di notevole eleganza: ognuno di loro viene mostrato in una situazione di vita reale – per lui ordinaria –  che richiama il modo con cui poi morirà poi nello Squid Game: vediamo il 101 saltare da un ponte per sfuggire ai gangster e morire poi nel gioco del ponte di vetro (peraltro per mano della giocatrice 212 che l’aveva minacciato di fargliela pagare, semmai l’avesse tradita); il 218 è in una vasca da bagno a meditare il suicidio, e morirà suicida, sotto la pioggia, nel gioco finale; il 199 ha preso con la forza il denaro che gli spettava, provando a ingannare il suo datore di lavoro, e rimarrà vittima di un inganno nel gioco delle biglie; la giocatrice 67 ha minacciato di tagliare la gola a un agente governativo dell’immigrazione e morirà accoltellata prima dell’ultimo gioco.
 
Ma il fatto rilevante è che i giocatori vengono liberati a coppie, si separano e ognuno va poi per la sua strada. A eccezione del 218 e del 456 (che si conoscono già da bambini e vivono nello stesso quartiere) tutti gli altri non hanno più occasione o motivo di rincontrarsi (fuori dal gioco in cui si sono conosciuti).

E tuttavia assistiamo a un incontro “fortuito” tra i l’1 e il 456.

Lo scambio di battute è cristallino: gli sceneggiatori si sono preoccupati di precisare che, no, il giocatore 1 non abita in quel quartiere, quindi non è un evento che può ben accadere (come l’incontro tra il 218 e il 456) e viene genericamente giustificato dal giocatore 1 col fatto che lì vicino vive un suo amico; a ogni buon conto si è voluta rimarcare la stranezza dell’incontro, la sua inverosimiglianza, col fatto che fosse destino.

Ma il destino non esiste nelle storie ben fatte (o meglio: non sono il destino, il caso, la fatalità a determinare il corso della storia). Se un evento accade, c’è un motivo; e questo incontro tra i giocatori 1 e 456 – altamente inverosimile – avrebbe dovuto insospettire.

È ovvio che il giocatore 1 è deliberatamente andato a cercare il il 456, che il loro incontro non è casuale ma voluto, e precisamente voluto dal giocatore 1 per convincere il 456 a rientrare nel gioco.

La dinamica della scena doveva suonare sospetta. Perché mai il giocatore 1, dopo aver di fatto decretato col suo voto decisivo la sospensione dei giochi – quando tutti, tra l’altro, si aspettavano di vederlo votare a favore della prosecuzione – vuole ora tornare a giocare? Cos’è cambiato tra prima e dopo? A cosa sarebbe mai dovuta questa sua trasformazione? Il giocatore 1, alla fine, è solo un malato terminale di tumore: cosa mai avrebbe capito, dopo aver messo fine ai giochi, che non gli era già chiaro prima? Sembra un atteggiamento isterico, ma tutto si spiega – ex post – con la vera natura del giocatore 1, e – ex-ante – avrebbe dovuto insospettire.

Per chiudere: già il primo episodio aveva fornito una significativa quantità di informazioni che, pur senza far balzare alla conclusione che il giocatore 1 fosse il padrone del gioco, dovevano mettere in allerta sulla reale natura del personaggio, se l’attenzione di tutti noi non fosse stata spostata altrove.
 

Episodio 3: sono tornati tutti!


“Sono tornate… molte persone”
 
L’episodio 3 ci mostra la scelta della stragrande maggioranza di ritornare a giocare. Si partiva già da una buona base (era scontato il rientro dei 100 favorevoli a proseguire) ma anche la quasi totalità dell’altra metà, alla fine, ha deciso di rimettersi in gioco (mancano all’appello solo tredici giocatori).
 
Di là dei numeri, comunque significativi, vanno enfatizzati i motivi della scelta, già comunicati nell’episodio iniziale al momento delle votazioni.


“Cosa ci aspetta fuori? Una vita schifosa fatta di sofferenza e tormento”
 
 
 


“Io non ho un posto dove tornare. Almeno qui ho un’occasione.
E lì fuori? No, non ho niente fuori. Preferisco tentare fino alla morte!” 
   
Non ti sarà sfuggito – nell’episodio 1 – che il primo giocatore a giustificare apertamente il desiderio di restare – il 212, una donna – è lo stesso che per primo aveva implorato la liberazione, per di più in modo melodrammatico (tirando in ballo la presunta esistenza di un figlio da battezzare). Così come il giocatore che ricorda a tutti la clausola 3 – i giochi possono terminare, se la maggioranza è d’accordo – vota poi senza alcun indugio per la prosecuzione. L’esatta cognizione di ciò che è in gioco ha alterato la loro visione del mondo, ha rivoluzionato la gerarchia dei valori, e ha comunque posto un serio problema di scelta anche per tutti gli altri.
 
Citando Violetta Rocks: “Nella vita reale i giocatori si sono già giocati tutto. Quel gioco perverso e folle sarà comunque migliore della loro esistenza fuori di lì. Al di fuori di quel gioco degli orrori, infatti, c’è un gioco più grande e più angosciante, la vita reale, in cui però hanno perso tutto e non hanno più partite da giocare: li aspetta solo il fallimento e la morte, ormai. 
 
Cosa conviene, quindi, di più? Avere un’ultima, seppur sadica chance, e magari rischiare di vincere, o arrendersi senza neanche aver tentato?
 
E si intuisce così ciò che sarà poi esplicitato a più riprese negli episodi successivi: la giostra in cui si trovano i giocatori non è più crudele del mondo là fuori, semplicemente rende manifesta la sua crudeltà, e in compenso offre condizioni di equità che il mondo là fuori non avrà mai.
 

“Non vogliamo farvi del male o riscuotere i vostri debiti.
Vi ricordo che siamo qui per darvi una possibilità”
 
 

“Hai corrotto la caratteristica più importante di questo posto: l’uguaglianza.
Tutti i partecipanti giocano alla pari, qui.
I giocatori competono nei nostri giochi alle medesime condizioni.
Sono persone che hanno subito discriminazioni e ingiustizie.
E qui diamo loro l’ultima possibilità di lottare e vincere”
 
 
 
“Davanti a voi avete il destino di coloro che per il proprio tornaconto
hanno violato le regole di questo mondo e hanno contaminato l’ideologia pura su cui è fondato.
In questo mondo siete considerati tutti uguali
con le stesse opportunità e senza alcuna forma di discriminazione.
Faremo in modo che simili disgrazie non si ripetano mai più
e ci scusiamo sinceramente per questa tragedia”
 
 
 
“Nessuno comanda, qui. Siamo tutti uguali” 



“Per quelli con la maschera sono… l’anello debole.
Quando eravamo piccoli chiamavamo così chi rimaneva senza compagno.
Dai, lo sapete tutti, lo so! L’anello debole!
E poi sono stati così gentili da riaccompagnarmi qui.
Beh… per loro non abbandonare il bambino più debole era una regola bellissima,
per evitare che il bambino più debole venisse emarginato.
Non è una grandissima ficata?”
 
La stragrande maggioranza ha scelto dunque di tornare a giocare, di cogliere la possibilità che gli è stata offerta.
 
E ora torna all’immagine iniziale, del giocatore 1 che osserva sorridente e compiaciuto lo stanzone di nuovo pieno: “sono tornate molte persone”.
 
È lui il padrone del gioco ed è comprensibilmente felice di rivedere il suo parco-giochi di nuovo affollato, di sapere che i suoi giochi hanno la loro attrattiva per tutte queste persone che  hanno deciso di tornare, spontaneamente, sapendo a cosa stanno andando incontro.
 

Episodi 1, 3, 4, 5, 6: che ridere!

“Quando ero bambino, qualunque cosa facessi con gli amici,
mi divertivo talmente che perdevo la cognizione del tempo.
Volevo provare la medesima sensazione prima di morire.
Una cosa che non puoi mai provare se sei una spettatore.
Volevo quella sensazione” 
 
Il giocatore 1 è la mente dietro la mastodontica organizzazione del gioco: un montepremi di 45,6 miliardi di won (33 milioni di euro) a cui si devono sommare i costi per la creazione e la manutenzione della giostra (con ogni probabilità più elevati del montepremi stesso).

E tutto questo denaro… per cosa? Per poter rivivere – prima di morire – le emozioni di un bambino!

La motivazione – sulle prime – può spiazzare il senso comune, e non a caso lo stesso concetto era già stato introdotto durante i giochi, così da sensibilizzare lo spettatore e prepararlo psicologicamente alla rivelazione finale.  
   

“Tutte le sere, quando tornavo dal lavoro,
il mio figliolo si divertiva così tanto con tutti i suoi amici, da non rendersi conto che ero tornato.
Io mi nascondevo dietro quel palo del telefono e di nascosto lo guardavo giocare con i suoi amici.
Si divertivano così tanto, quei ragazzi…” 

È comunque facile cadere nella banalità: possibile che – con tutto quel denaro a disposizione – non ci fossero alternative migliori per divertirsi?
 
Capisco la domanda, se hai intorno ai vent’anni; posso ancora a tollerarla, se ne hai più o meno trenta; già a quaranta, però, non ti seguo più; e se veleggi allegramente verso i cinquanta, o li hai addirittura superati, allora non ti capisco proprio (anzi, capisco una cosa: che il tempo, per te, è trascorso invano, che cinquant’anni e passa di vita non ti hanno insegnato nulla).

La questione è sottile, ricca di sfumature. Un suo risvolto è presentato direttamente dal giocatore 1, nell’episodio finale.

“Lo sai che cos’hanno in comune una persona senza soldi
e una persona che al contrario ne possiede una quantità eccessiva?
Lo sai?
Per loro la vita non è affatto divertente.
Se possiedi troppo denaro, non importa cosa compri, mangi o bevi.
Alla fine diventa tutto molto noioso.
A un certo punto i miei clienti hanno iniziato a dirmi tutti la stessa cosa:
che non provavano più alcuna gioia, nonostante il denaro che avevano.
Quindi ci siamo riuniti, e abbiamo riflettuto un po’:
che possiamo fare per rendere la vita più divertente?”
 
Non serviva Squid Game, per saperlo. Già Seneca annotava che la giusta misura del denaro è quella che non scende mai sotto la soglia di povertà, ma che neppure se ne allontana. Rimane ovviamente un’ineliminabile ambiguità di fondo – quando (sotto quale soglia) il denaro è troppo poco e quando (sopra quale soglia) diventa troppo? – ma va colto il senso generale del punto di vista.

La vita – prima o poi – impartisce a tutti la stessa lezione: il denaro ha poco a che fare con la felicità, ne può rappresentare un coadiuvante, per dirlo al modo dei farmacisti, ma non ne è mai il principio attivo, e ciò che ogni essere umano desidera – alla fine – è proprio la felicità, e null’altro.

“Il denaro non fa la felicità” è un luogo comune – una frase fatta, un cliché – solo per chi lo rende tale, per chi non ha mai riesaminato la propria vita in retrospettiva per capire esattamente dove, come, quando e perché è stato felice.

Dopodiché, se davvero il denaro può ripristinare le pre-condizioni per essere di nuovo felici, per ricreare una situazione che si riconosce essere di grande felicità, va da sé che non si esiterà a dare tutto il denaro che serve, pur di realizzarla.

Perché la vita e troppo breve, per permettersi il lusso di essere infelici.

“La vita è… breve”
 
Il giocatore 1 voleva essere felice, divertirsi così tanto da perdere la cognizione del tempo, come gli accadeva da bambino: “volevo quella sensazione”.
 
E “quella sensazione” (di felicità) è comunicata sistematicamente, a ogni gioco, e risalta ancor di più dal confronto con le sensazioni di tutti gli altri giocatori.

Il numero 1 al gioco della bambola (“Un, due, tre, stella”)
 
 
 
Il numero 1 al gioco delle formine.
 
 
 
Il numero 1 all’inizio del gioco della fune.
 
 
 
Il numero 1 all
a fine del gioco della fune.
 
 
 
Il numero 1 al gioco delle biglie.
 
Il giocatore 1 si diverte sempre da matti, in tutti i giochi a cui partecipa, e basta osservarne le espressioni facciali per capirlo: sorride sempre, con un sorriso ogni volta diverso, ma che invariabilmente è una manifestazione di felicità, di gioia, di leggerezza.

Osserva – per confronto – le espressioni di tutti gli altri giocatori, alla fine di ogni gioco a cui sono sopravvissuti: i loro visi comunicano sempre tensione, angoscia, paura (che proprio non riescono ad andar via, anche se sono vivi) o nel migliore dei casi un sollievo (per averla scampata) comunque frammisto a una chiara sofferenza; e i pochi sorrisi che si vedono sono più che altro isterici, nevrotici, segno di instabilità emotiva.

La situazione è cristallina, per chi riesce a osservarla con un minimo di distacco emotivo (e l’abilità degli sceneggiatori sta proprio qui: nel far sì che l’onda emotiva travolga lo spettatore e lo privi di lucidità) ma, a prova di scemo, nel primo episodio – durante il gioco della bambola (“Un, due, tre, stella”) – viene palesata in modo imbarazzante.

Tutti i giocatori sono colti dal panico, quando realizzano le conseguenze dell’esser beccati in movimento dalla bambola. Una buona metà tenta di scappare, e muore. L’altra metà rimane paralizzata dalla paura. E qui assistiamo a una sequenza massimamente imboccata.

Per ben due volte di seguito la bambola ripete il suo ritornello – “un, due, tre, stella” – e per ben due volte tutti i giocatori rimangono fermi, ancora sconvolti da ciò che hanno visto e terrorizzati di poter fare la stessa fine. Tutti restano fermi, per due giri consecutivi, tranne uno: il giocatore 1.
 
Lui – a differenza degli altri  – si muove per ben due volte, in mezzo a una massa di giocatori immobilizzati dalla paura, e la prima volta lo fa addirittura in maniera teatrale (osserva in particolare il modo con cui si blocca, sul finire del ritornello “un, due, tre, stella”); e sarà il primo a tagliare il traguardo, come ricorda lui stesso nel secondo episodio.
 
È stata la bravura degli sceneggiatori – ancora una volta – a sviare l’attenzione degli spettatori da dinamiche di per sé comunicate in modo inequivocabile, e che, se recepite, avrebbero dovuto far sorgere più d’un sospetto sulla natura del giocatore 1. 
  

Episodio 4: ora basta!

Giocatore 1: “Vi prego… fermatevi! Io… ho… paura!
Di questo passo, moriremo tutti, tutti, tutti, moriremo tutti, qui…
Basta! Ho tanta paura… fermatevi”
 
Arrivati all’episodio 4, nel mezzo della serie, abbiamo capito come funzionano le cose: i giocatori vengono “eliminati” (muoiono) se non superano i giochi in programma, ma nulla gli vieta di eliminarsi tra loro (di uccidersi l’un l’altro) al di fuori delle regole della giostra.

C’è un clima di tensione crescente: i giocatori si sono raggruppati in faide, alcuni sono tentati di sbarazzarsi “fuori dai giochi” di una parte della concorrenza, e gli altri – pur pacifici – hanno la consapevolezza di doversi comunque difendere.

Una notte – inevitabilmente, dati i presupposti – scoppia una guerriglia. Alcuni giocatori si dirigono verso la porta d’uscita, e battono ripetutamente dei colpi per attirare l’attenzione dei soldati, un modo per domandare il loro intervento, affinché mettano fine a ciò che si sta trasformando in un massacro. Nulla da fare: la porta resta chiusa e la guerriglia prosegue.

Solo un giocatore si è chiamato fuori, non appena ha intuito ciò che stava per accadere: è il numero 1. Si è subito arrampicato sul letto più alto, così da sottrarsi all’onda di violenza, ed è rimasto lì sopra a osservare ciò che accadeva. E ora – dalla sua posizione relativamente sicura – implora tutti di fermarsi, sebbene nessuno possa ovviamente sentirlo.

O meglio: non può sentirlo nessuno dei giocatori lì presenti, e impegnati a scannarsi l’un l’altro, ma il Front-Man – che monitora il tutto a distanza – coglie la sua richiesta e ordina subito ai soldati di intervenire, per mettere fine alla rissa.

La dinamica della scena è molto veloce, e la sua sottigliezza può sfuggire durante la visione, ma l’informazione è stata fornita con estrema chiarezza.

Il giocatore 1 dice di aver paura, supplica gli altri di fermarsi, perché altrimenti – ripete ossessivamente – “moriremo tutti”. E lui – il numero 1 – non lo vuole. È ovvio che alla fine ne rimarrà solo uno, e si può ancora tollerare che qualche giocatore sia “eliminato” fuori dai giochi; ed è anche vero che quella guerriglia era prevista dagli organizzatori del gioco e in un certo senso fomentata tenendo i giocatori affamati; ma sì è lì per giocare all’interno della giostra, prendere parte ai giochi, per far sì che siano i giochi a decidere le sorti dei partecipanti; se invece la maggioranza dei giocatori si auto-elimina in una lotta diretta, fuori dalla giostra, dove mai starebbe il divertimento? Il ragionamento è impeccabile, nella prospettiva del proprietario della giostra, non trovi?

E doveva risultare sospetta la decisione del Front-Man di far intervenire i soldati per bloccare la rissa, una volta colta la supplica del giocatore 1.

Le “forze dell’ordine” – se così vogliamo chiamarle – ci sono state mostrate invariabilmente spietate, insensibili a qualunque richiesta proveniente dai giocatori (persino la semplice richiesta della giocatrice 212 di andare in bagno incontra opposizione). E ora, invece, il direttore dei giochi accoglie all’istante la richiesta del numero 1. Ovvio: il numero 1 è il proprietario della giostra, e tutti devono sottomettersi alla sua volontà.
 
L’informazione – la decisione del Front-Man – magari di per sé non era sufficiente a far balzare alla conclusione – il numero 1 è il padrone del gioco – ma di sicuro doveva insospettire, se – ancora una volta – gli sceneggiatori non fossero stati incredibilmente abili nel tenere altrove l’attenzione dello spettatore.
 

Episodi 5 e 6: mischiamo le carte

 
Alla fine del quarto episodio, al giro di boa della serie, gli sceneggiatori hanno passato agli spettatori una gran quantità di informazioni sulla natura peculiare del giocatore 1. E per quanto siano stati bravi nel loro gioco di prestigio – con una mano ti passo informazioni rilevanti, con l’altra ti invito a guardare altrove – c’era il rischio che qualche spettatore un po’ più “smart” avesse subodorato qualcosa, che avesse avuto dei presagi su ciò che – nelle intenzioni – deve rimanere nascosto sino alla fine (pur essendo visibile durante gli episodi). Arriva quindi il momento di mischiare le carte, di azzerare i sospetti, semmai ne fossero sorti.
 
Nell’episodio 5 vediamo un soldato tenere un atteggiamento oltremodo severo verso il giocatore 1: gli ordina di alzarsi – con tanto di fucile puntato addosso – perché stanno per iniziare i giochi, ed è del tutto incurante sia delle condizioni precarie in cui si trova il vecchietto (che si è pure fatto la pipì addosso) che dell’intervento del giocatore 456 accorso in suo aiuto.
  
L’immagine è forte – rimane impressa, non si dimentica – e dà la sensazione che il numero 1 sia un giocatore come un altro, trattato allo stesso modo di tutti gli altri.

Un ulteriore elemento distrattivo viene poi rilasciato nel sesto episodio, a conclusione del gioco delle biglie.

Assistiamo a una dinamica in fotocopia tra le coppie di giocatori 1 e 456 da un lato, e 67 e 240 dall’altro. Vediamo in entrambi i casi un giocatore che si sacrifica per l’altro, che consegna le sue biglie altro col sorriso sulle labbra. Sentiamo, in entrambi i casi, un giocatore che ringrazia l’altro per aver scelto di giocare con lui, prima di avviarsi serenamente alla morte.
 
“Ti ringrazio… per tutto quanto. Grazie al tuo aiuto mi sono divertito… qui dentro”
 
 
 
“Grazie, per aver giocato con me” 
 
La somiglianza di situazioni induce a equiparare i personaggi che vi sono coinvolti, mette in rilievo la loro capacità di un’analisi lucida della situazione – c’è qualcuno che ha ragioni migliori delle mie per sopravvivere – e la loro forza di portarla sino alle conseguenze ultime – devo sacrificarmi per lui – esaltata dal fatto che in altre coppie di giocatori si sono invece avuti comportamenti meschini, traditori o fintamente pietosi.
 
Ti invito però a osservare – in generale – come nessuno degli elementi distrattivi forniti nel quinto e nel sesto episodio sia in contraddizione con le informazioni rilasciate sino al quel momento sulla natura speciale del giocatore 1. È semplicemente un mischiare le carte, un invito – a voce un po’ più alta – a guardare da un’altra parte, per riportare l’attenzione dello spettatore laddove si vuole che quell’attenzione sia concentrata.
 
È una gran bella lezione di sceneggiatura, che ti suggerisco di tenere a mente, se anche tu vuoi realizzare un colpo di scena: mischia le carte, ogni tanto, senza però mai entrare in conflitto con ciò che hai realizzato sino a quel momento.

Episodio 5: assente giustificato

 
L’infiltrato è una figura ricorrente – diciamo pure obbligata – in tutte le storie che si svolgono in ambientazioni “anomale” (pensa a Tom Cruise in Eyes Wide Shut, e tutto dovrebbe esserti chiaro).

Sapere che nel luogo della storia è presente un personaggio che non dovrebbe esserci – che non ha titolo a stare lì, e invece c’è e sta correndo molti più rischi di quelli che crede – accresce la partecipazione emotiva all’opera (è una freccia in più a disposizione del cinema e delle serie tv, che la scrittura non possiede, a meno che l’infiltrato non sia il personaggio “Punto di Vista”).

L’infiltrato – in Squid Game – è un poliziotto sulle tracce del fratello scomparso (che poi si scoprirà essere niente meno che il Front-Man). E l’infiltrato fa parecchia strada nelle sue ricerche: arriva sin dentro la stanza dei bottoni, dove sono custoditi i faldoni con le schede dei partecipanti alle varie edizioni dei giochi, e qui inizia a scartabellare i fascicoli alla ricerca del nome di suo fratello.

Lo vediamo consultare il fascicolo dell’anno 2020 – la tornata corrente, attualmente in corso – e qui viene data un’informazione cruciale, decisiva.

La scena è rapida, e l’ambientazione è parecchio scura, ma l’informazione c’è ed è probabilmente la più rilevante in assoluto: la prima scheda presente nel fascicolo è riferita al giocatore numero 2 o, se preferisci, manca la scheda del giocatore 1.

Ripeto: la scena è veloce – anzi, velocissima – e di fatto si svolge al buio (e una rivelazione di questa portata, d’altra parte, doveva essere mitigata in qualche modo, se non si voleva bruciare il colpo di scena); ma l’informazione c’è ed è visibile, anche se per poco, e comunque senza fatica (perché la foto del giocatore 2 è nitida).

L’organizzazione dietro la giostra è una macchina pressoché perfetta: gli organizzatori sanno tutto di tutti, vedono tutto, conoscono tutto, registrano ogni cosa (ti basti pensare all’indicazione del Front-Man di continuare a seguire le vite dei 13 giocatori che hanno scelto di non tornare, o all’indicazione data al vincitore – “prendi quell’aereo, lo dico per il tuo bene” – a giochi ormai conclusi da tempo). Com’è possibile che non abbiano la scheda di un giocatore? Non ha senso! A meno che…
 
A meno che il numero 1 non sia esso stesso un membro dell’organizzazione, di cui non serve quindi censire alcunché.
 
Qui – più che altrove – la natura speciale del numero 1 diventa evidente, manifesta, se la preoccupazione degli spettatori per le sorti dell’infiltrato non avesse messo in secondo piano un’informazione così palese.
 

Episodio 6: chi l'ha visto?

Voce fuori campo: “Giocatore 1, eliminato”
 
Ti invito a notare la ricorrenza di una situazione, se vogliamo ovvia, ma dalle implicazioni decisive: lo spettatore ha sempre la certezza assoluta della morte di tutti i personaggi più significativi della storia.

Di regola li vede proprio morire sotto i suoi occhi, ma nel sesto episodio si introduce una variante: non si vedono morire né il giocatore 1 né il giocatore 199; semplicemente si sente la voce fuori campo che ne annuncia l’eliminazione; viene cioè affermata la loro morte, senza però mostrarla, a differenza di ciò che era sempre avvenuto sino a quel momento.

Ma come si apre il settimo episodio? Con l’immagine del giocatore 199 dentro la bara.

È un depistaggio favoloso: alla fine del sesto episodio si accomunano i giocatori 1 e 199 col fatto di non averli mostrati morti, ma già nell’istante successivo, e cioè a all’inizio del settimo episodio, si spaiano le carte e si toglie ogni dubbio sul decesso del numero 199.

L’informazione a questo punto è stata rilasciata, anche se all’intero di un flusso narrativo discontinuo – a cavallo tra il sesto e il settimo episodio – per non renderla troppo evidente: si ha certezza della morte di tutti i personaggi principali perché effettivamente li si è visti morire oppure già morti, ma non si è mai visto nessun soldato sparare al numero 1 (nell’ultimo frame disponibile lo si vede solo puntargli una pistola, e l’inquadratura si sposta poi altrove, sull’intero paesaggio, quando la voce fuori campo ne annuncia l’eliminazione) né si è mai visto il numero 1 dentro una bara.

Che il giocatore 1 sia stato eliminato – cioè che sia morto – ce lo hanno detto, ma non ce l’hanno mai mostrato, ed è l’unico giocatore per cui si crea un divario tra ciò che lo spettatore ritiene di sapere (perché glielo hanno detto) e ciò che effettivamente sa (perché lo ha potuto vedere con i suoi occhi). 
 
Una frattura così evidente sarebbe balzata subito all’attenzione – o almeno all’attenzione di chi guarda la storia con l’idea di anticiparne gli esiti – se la curiosità di tutti non fosse ormai fatalmente indirizzata verso il gioco successivo.
 

Squid Game 2:

quale relazione tra l'1 e il 456?


Squid Game non avrebbe dovuto avere un seguito, nelle intenzioni dichiarate. E tuttavia gli sceneggiatori vi hanno inserito una valanga di cliffhanger, di agganci, di sponde, di spunti per una eventuale seconda stagione. Il finale stesso lascia chiaramente presagire un seguito – o comunque ne offre la possibilità – ma non serve arrivare sino alla fine per sentire sorgere delle curiosità.

Sappiamo – ad esempio – che il Front-Man è stato un giocatore in una delle edizioni passate, e – con tutta evidenza – deve averla vinta. E perché mai, ora, si ritrova a dirigere i giochi? Lo vediamo spietato, quando c’è da punire chi trasgredisce alle regole del gioco: gli spara sempre alla testa, sempre. Ma non a suo fratello, al poliziotto infiltrato, che viene colpito solo alla spalla (una ferita di per sé non mortale, che lo stesso Front-Man ha subito, rimanendo vivo). Il poliziotto è dunque ancora vivo, dato che alla fine l’abbiamo solo visto cadere in mare?
 
Dai discorsi dei VIP, poi, vien fuori che lo stesso gioco si svolge in più paesi: l’organizzazione è dunque molto più grade di quel che pensiamo?
 
E chi è il misterioso reclutatore dei giocatori (uno dei personaggi secondari più intriganti)?
 
Le domande lasciate in sospeso sono tante, ma ce n’è una che le sovrasta tutte, alla luce delle informazioni rilasciate nella prima stagione: quale relazione c’è – se c’è – tra i giocatori 1 e 456?

C’è anzitutto una simmetria che non può sfuggire: i numeri 1 e 456 sono il primo e l’ultimo (come viene chiarito già nel primo episodio: “lei è stato il primo ad arrivare… e… e io… sono l’ultimo”), l’ideatore del gioco da una parte, il vincitore dall’altro, e già tanto basta a drizzare le antenne.

Ma è solo l’inizio.

Perché il giocatore 1 va a cercare proprio il 456, per convincerlo a tornare nel gioco? Perché proprio lui – il 456 – e non un altro? Sappiamo che nulla avviene per caso, in una storia ben fatta. Se il numero 1 ha scelto di incontrare proprio il 456, allora un motivo deve esserci (se la storia è ben progettata). E quale sarà mai?

Esiste forse un legame di parentela tra i numeri 1 e 456? Sono padre e figlio, come si sente dire con insistenza tra i fan dell’opera?

L’ipotesi suona inverosimile, ad analizzarla con lucidità.

Il numero 1 è un miliardario che può permettersi il lusso di orchestrare la giostra dello Squid Game, il 456 è un disgraziato che vive di stenti alle spalle della madre. Quale mai sarebbe il filo narrativo che collega le due situazioni? È vero, da un lato, che noi non vediamo mai il padre del 456 (anzi, non ne sappiamo proprio nulla, perché non viene mai nominato) ma immaginare che si tratti del numero 1 richiederebbe un’inventiva notevole. I due dovrebbero essersi separati quando il 456 era ancora molto piccolo, così da averne perso memoria. Ma perché si sono separati? Possibile che non vi fossero vie alternative – meno estreme – per ricongiungersi?

È oggettivamente complicato intrecciare degli eventi per far sì che il numero 1 risulti il padre del 456, senza perdere in verosimiglianza. Però è sicuro – perché dichiarato – che il 456 è simile al figlio del numero 1.

Giocatore 1: “Ascolta: mi sa che da piccolo, tuo padre ti ha sculacciato spesso” 
Giocatore 456: “Come fa a saperlo?” 
Giocatore 1: “Vedi, mio figlio era esattamente come te”
 
Così come è sicuro che entrambi vivevano in un quartiere dalle fattezze simili all’ambientazione creata ad arte per il gioco delle biglie.

Giocatore 1: “Un tempo abitavo in un quartiere come questo”
 Giocatore 456: “Anche io: vivevo in vicolo proprio come questo, da ragazzino” 
Giocatore 1: “Ah, sì?”
 
E poi, sì, al gioco delle biglie, sia all’inizio che alla fine, vediamo il numero 1 avere un atteggiamento decisamente paterno verso il 456, e insistere sul fatto che loro due sono così uniti da potersi considerare la stessa persona.
 
“Dobbiamo fare un patto e diventare Gganbu… mio o tuo non ha importanza, con lui condividi tutto”
 
 
 
 “Noi siamo… Gganbu, giusto? Te lo ricordi?
Ci siamo giurati di essere il Gganbu l’uno dell’altro.
E, tra due Gganbu, mio o tuo non ha importanza.
Tranquillo: tutto andrà per il meglio”
 
Nel quinto episodio vediamo ancora insieme i giocatori 1 e 456 a fare il turno di guardia contro i possibili attacchi di altri giocatori. Il 456 racconta di essere stato impegnato in uno sciopero in fabbrica, in cui morì un suo collega, proprio il giorno in cui nasceva sua figlia; il numero 1 si mostra sinceramente dispiaciuto e afferma di aver seguito la vicenda al telegiornale. Piuttosto curioso, decisamente singolare, che un miliardario si preoccupi di un generico sciopero in una generica fabbrica.

E infine abbiamo la scena dello scambio delle felpe, che se ha davvero un significato, allora rappresenta un eccellente esempio di economicità dello stile, espressione della capacità di sfruttare una stessa scena per massimizzare il flusso informativo verso lo spettatore.

Abbiamo già osservato che nella costruzione di un “colpo di scena” arriva un momento in cui serve mischiare le carte, per controbilanciare tutte le rivelazioni disseminate lungo la storia, che potrebbero all’improvviso connettersi nella testa dello spettatore e anticipargli il finale.

Nel quinto episodio, quando vediamo un soldato puntare il mitra verso il numero 1, per intimargli di alzarsi dal letto, maturiamo sicuramente la sensazione che sia un giocatore come gli altri, verso cui non vi sono riguardi particolari: è solo un vecchietto, che non riesce ad alzarsi e si è pure fatto la pipì addosso, eppure il soldato minaccia di ucciderlo, se non si sbriga a mettersi in piedi per partecipare al gioco.

Ma vediamo pure – in quella stessa scena – il numero 456 prenderne le difese, e prestargli la giacca della sua tuta per coprire la chiazza di pipì.
 
E poco più tardi il numero 1 ricambierà il favore consegnandogli la sua giacca – col numero 1 – accompagnando il gesto con una raccomandazione che suona ancora una volta molto paterna.

“Devi metterti questo: ti guarderanno dall’alto in basso se vedranno che non indossi il tuo giacchetto”

In diverse scene successive sarà evidente la classificazione ibrida del 456, che porta addosso la maglietta col suo numero originario (il 456) ma la giacca con un altro numero, e precisamente quel numero 1 che ha con un significato speciale per chi si trova dietro le quinte del gioco.
 
 Alcune immagini che mostrano la compresenza dei numeri 1 e 456
addosso al giocatore che sarà poi il vincitore dello Squid Game.

Viene suscitata la suggestione per cui il numero 1 abbia voluto proteggere il 456, mandando un segnale a tutti coloro che a vario titolo sono chiamati a dirigere e supervisionare i giochi: il 456 ha la mia giacca, la giacca col numero 1, abbiate ora per lui le stesse attenzioni che dovevate avere con me, non permettete che gli accada nulla di male.

È solo una suggestione, s’intende, ma almeno in parte si concilia con quel che vediamo dopo.

Nel gioco del ponte di vetro, quando i giocatori devono scegliere le pettorine numerate, senza ancora sapere nulla di ciò che li attende, il Front-Man dà una precisazione (“il numero che sceglierete determinerà l’ordine in cui giocherete”) quando ancora il 456 deve prendere la sua pettorina, come se volesse dargli un vantaggio nella scelta. Ovviamente nessuno sa dire se convenga giocare per primi o per ultimi, ma sicuramente giocare per ultimi significa poter imparare dell’esperienza degli altri. Il 456, poi, sceglierà la pettorina 1 (la peggiore in assoluto) e solo la supplica di un altro giocatore di voler essere lui il primo a giocare lo catapulterà in fondo alla fila (in astratto la posizione migliore, anche se non priva di pericoli).

Rimane complessivamente poco decifrabile il modo in cui il Front-Man e i soldati avrebbero potuto trarre in salvo il 456, semmai le cose si fossero male. Lo stesso Front-Man si mostrerà stupito della vittoria del 456, durante il viaggio di ritorno nel mondo normale.
 
“Complimenti, è stata una bella gara.
Non me l’aspettavo, non pensavo che saresti arrivato sin qui”
 
Alla fine c’è solo un punto fermo: tra i giocatori 1 e 456 deve esserci una relazione, vista la gran quantità di intrecci tra i due personaggi.

Congetturare sull’esatta natura dei loro rapporti – avendo presente l’asimmetria informativa: il 456 non ha riconosciuto il numero 1 – può essere un ottimo esercizio, in attesa della seconda stagione della serie.

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