Modulo 18E – Quando il lettore ne sa più del personaggio (e non solo)

 
Tu sai chi sei? Ovvio che lo sai.
 
Sai dove di trovi? Certo!
 
Sai cosa stai facendo? Sì: stai leggendo questo post del mio blog.
 
E sai perché lo stai facendo? Sai pure questo: perché vuoi imparare a scrivere e a sceneggiare a regola d’arte, ma soprattutto perché vuoi leggere libri e vedere film e serie tv con rinnovata e più profonda consapevolezza.
 
Tu – lettore del blog, essere reale del mondo reale – sai sempre chi sei, dove ti trovi, cosa stai facendo, e perché lo stai facendo: tu sai sempre tutto di te stesso.

Non è così per gli altri, per chi ti osserva. Gli altri ti vedono davanti al computer, o con l’iPhone in mano, e non saprebbero dire in cosa sei impegnato. Per quel che ne possono sapere, stai leggendo le mail di lavoro, oppure stai cazzeggiando su qualche social, o stai scorrendo i messaggi WhatsApp o magari sei solo prigioniero di quegli automatismi in cui ormai cadiamo tutti quando ci troviamo alle prese con la tecnologia.

Tu sai sempre tutto di te stesso, laddove gli altri ne hanno sempre una conoscenza limitata.

Se ti vedono in giacca e cravatta, con una ventiquattrore in mano, alle otto del mattino, per una via centrale, penseranno che stai andando a lavorare (e magari è così). Ma non sanno che lavoro fai, per quale società o istituzione lavori, quale grado occupi in azienda, se sei single, fidanzato, sposato, divorziato, se hai figli, se hai avuto una sola donna nella vita o se sei un traditore seriale; e non sanno neppure dove e quando sei nato (al più possono congetturare l’età, dal tuo aspetto fisico) né per quale squadra tifi né quali siano le tue abitudini, se sei vegano o se adori il sushi, se vai a letto presto o se soffri di insonnia; non sanno nulla del tuo primo bacio, delle tue pratiche sessuali, dei tuoi luoghi preferiti per le vacanze; non sanno neppure il tuo nome, a dirla tutta; sanno solo che (probabilmente) stai andando al lavoro.

Il punto è generale: tu disponi di un set informativo completo su te stesso (informazione perfetta: 100% di conoscenza); gli altri hanno un set informativo incompleto, se pur da qualificare in funzione dei rapporti in cui si trovano con te, ma comunque parziale (informazione imperfetta: x% di conoscenza).
 
La stessa situazione si ritrova nel mondo della pagina, nei personaggi che lo popolano.
 
Il personaggio sa sempre tutto di sé stesso, ha una conoscenza perfetta di sé (100%); il lettore sa invece soltanto alcune cose del personaggio (conoscenza x%) e precisamente ciò che trova scritto sulla pagina e ciò che immagina attraverso l’iceberg Hemingway (ad esempio, se il personaggio è l’amministratore delegato di una grande banca, il lettore conosce la professione del personaggio, e probabilmente lo immagina laureato, anche se la pagina non di dice nulla sul suo titolo di studio).

In generale, quindi, vi è un gap di informazioni (100-x)% tra ciò che il personaggio sa di sé stesso e ciò che il lettore sa del personaggio; e siccome lo scopo del gioco è far immedesimare il lettore nel personaggio, far sì che il lettore diventi il personaggio, l’abilità dello scrittore sta nel mettere in sordina il gap informativo, in modo che il lettore non lo avverta o che comunque non ne sia infastidito. 

Ci saranno sempre infinite cose del personaggio di cui il lettore rimarrà all’oscuro; e tuttavia, in una storia ben fatta, queste cose avranno un peso marginale, se non irrisorio. Non è perciò importante conoscere tutto del personaggio (100%); va bene – deve andar bene, per vincoli di spazio – anche una conoscenza parziale x%, con x anche “piccolo”, purché la parte di conoscenza mancante (100-x)%, anche se “grande”, non ostacoli il processo di immedesimazione. Non è tanto un fatto di mere quantità (100, x, 100-x), che pure hanno la loro rilevanza, ma di qualità nella selezione delle informazioni da passare al lettore (di elementi con cui riempire quell’x% di conoscenza); non importa se si ignorano certe cose del personaggio, fossero pure molte cose, perché le poche cose conosciute siano sufficienti a far capire quel che è importante capire.

Questa è la situazione standard: il personaggio sa sempre tutto – sa chi è, dove si trova, cosa sta facendo e perché lo sta facendo – e lo scrittore ha il problema di trasferire sulla pagina una parte del set informativo del personaggio (per definizione completo) affinché il lettore (che sa solo quello che vede scritto) possa capire cosa stia succedendo. 

E poi c’è l’ironia drammatica.
 
 
Si crea ironia drammatica tutte le volte che il lettore capisce qualcosa che sfugge al personaggio; formalmente, l’ironia drammatica si ha quando x%>100%.

La situazione è ironica, se ci pensi: com’è possibile che il lettore capisca delle cose che il personaggio non coglie, se il personaggio è a conoscenza di tutto, e il lettore si trova invece in deficit di informazioni? Ironico, non ti pare?

E perché questa situazione ironica la qualifichiamo drammatica? Semplice: perché ciò che il lettore capisce, e che al personaggio invece sfugge, lo fa temere per lui, lo tiene in apprensione per quel che può succedergli.
 
Ripensa alla favola di Cappuccetto rosso: il personaggio (Cappuccetto) non ha capito il significato dell’incontro con il lupo nel bosco, ma qualunque bambino intuisce che incrociare un lupo nel bosco avrà delle conseguenze; il bambino capisce qualcosa che a Cappuccetto è sfuggita, e che ora lo tiene in tensione per le sue sorti, per il destino di Cappuccetto, e lo invoglia a sapere come proseguirà la storia.

Ti renderai conto di aver avuto diverse esperienze di ironia drammatica nella vita vera, nel mondo reale, per quel minimo di riflessione che vorrai dedicare all’argomento: hai sperimentato l’ironia drammatica tutte le volte che hai visto un conoscente, un collega, un amico o un figlio compiere delle scelte manifestamente azzardate, o sbagliate tout-court, senza riuscire a riportarlo alla ragione, a fargli intendere che non ne sarebbe seguito nulla di buono; tu capivi, lui no, e questo scarto di consapevolezza ti teneva in apprensione per lui, per ciò che gli sarebbe potuto capitare.
 
Sul piano della tecnica narrativa l’ironia drammatica è la versione elegante – o più semplicemente la versione corretta – di un espediente abominevole che contraddistingue i pessimi scrittori.
 
Alessandra era al settimo cielo quando firmò il nuovo contratto di lavoro: non poteva immaginare che proprio quella firma sarebbe stata all’origine di tutto il suo dolore.
 
Non so come la chiami tu questa cosa, ma questa cosa ha un nome suo proprio: spoiler.
 
L’autore sta a tutti gli effetti spoilerando la storia, ne sta anticipando un passaggio ad alto contenuto drammatico, nella speranza di invogliare nella lettura, per scoprire in che modo un evento sul momento favorevole (la firma del nuovo contratto) si rivelerà poi un disastro (la causa di un grande dolore). Già. Peccato che le persone normali odiano gli spoiler.
 
Ti invito a notare l’abisso rispetto alla soluzione adottata in Cappuccetto rosso: nessuno spoilera nulla, nella favola, e tutto ciò che si trova sulla pagina rimane sempre interno alla storia (Cappuccetto trasgredisce all’indicazione della madre, passa per il bosco, incontra il lupo e si ferma a fare due chiacchiere); non c’è l’autore a dirti, dall’esterno, che il lupo è malintenzionato, che quelle chiacchiere con Cappuccetto hanno un secondo fine; lo capisci da solo, senza che nessuno ti dica nulla, anche se hai solo cinque anni.

Mi dirai che più nessuno usa l’espediente dello spoiler, che l’esempio l’ho creato io bell’apposta solo per far capire il concetto; ti pare che uno scrittore pubblicato oggi, anno 2023, potrebbe mai scrivere una cosa del genere?
 


Questo è l’incipit – la parte più delicata di una storia – di un thriller storico regolarmente pubblicato.
 
Già quel “Treviso A.D. 2014” in cima alla pagina non lascia presagire nulla di buono, come già osservato nel modulo modulo 15G (e come vedremo meglio nel modulo 18F). E infatti… “non poteva sapere che quello sarebbe stato l’ultimo giorno di tranquillità”.

Fenomenale! Come fanno certi autori ad avere trovate così geniali per tenere il lettore incollato alla pagina? Come ci riescono? Perché io non ne sono capace?
  

Padroneggiare l’ironia drammatica richiede abilità notevoli.

Innanzitutto, è proprio difficile introdurla nella storia. A differenza di tutti gli altri snodi del cosiddetto arco di trasformazione del personaggio, l’ironia drammatica non è preventivabile, non la si può progettare a tavolino: deve venire da sé, o se preferisci, bisogna pensarci di continuo, in modo da riconoscere gli spazi della storia in cui si possa inserire con naturalezza, oppure si deve creare una buona varietà di scene che ne aumenti le possibilità di manifestazione.

E poi – ammesso di averla introdotta – bisogna saperla gestire.
 
L’ironia drammatica produce un’inversione di conoscenza, non assoluta, ovviamente, ma relativa alla situazione in cui ci si trova: limitatamente alla scena sotto i tuoi occhi, tu, lettore, ne sai ora più del personaggio, e il rischio è che sapendone più di lui, tu non sia più lui, che ti senta staccato da lui.
 
Quando si crea ironia drammatica si ha cioè il problema speculare a quello standard: se di base esiste un rischio di scollamento tra il personaggio e il lettore, dovuto a un deficit di informazioni (100-x)% mal gestito, ora lo stesso rischio si ripropone in senso inverso, nel non saper maneggiare il surplus di informazioni (x-100)%, con la complicazione che se tutti sanno più o meno come gestire la normalità (100-x)%, nessuno ha ben chiaro cosa fare col suo opposto (x-100)%.

Governare la situazione ordinaria – il gap informativo (100-x)% – è un’abilità che si acquisisce in fretta, per quel minimo di impegno che ci si mette.
 
È un’abilità simile a quella di un mago. Cosa fa un mago? Tiene l’attenzione dello spettatore dove vuole lui, e la distoglie da tutto il resto, così da poter eseguire la sua magia. Lo scrittore fa lo stesso: tiene concentrato il lettore su cose interessanti e che può ben capire, per non fargli pensare a tutto ciò che non conosce; e se poi è particolarmente bravo, allora dissemina la narrazione di tante piccole curiosità, su cui il lettore avanzerà delle congetture, che di lì a poco saranno confermate.

Non so se l’immagine può aiutarti a focalizzare il punto, ma un lettore davanti a un testo ben scritto è come un pesce che di quando in quando salta fuori dall’acqua, per rientrarvi dopo pochi secondi: ci può ben stare – quando si gestisce la differenza (100-x)% – che il lettore ogni tanto non colga alcune cose, e quindi sia “fuori dalla storia”, proprio come il pesce che salta fuori dall’acqua e si ritrova fuori dal suo habitat naturale; ma se la storia è ben scritta, allora il fastidio di non sapere o non capire sarà marginale, oppure riassorbito nel giro di poche righe, proprio come il pesce che ritorna in acqua dopo esserne balzato fuori per pochi secondi; tutto sta nel far sì che il lettore resti complessivamente dentro la storia, come il pesce rimane sostanzialmente in acqua, anche se di quando in quando salta fuori; riformulato in negativo, non deve mai accadere che il lettore resti per troppo tempo con dubbi, incomprensioni o curiosità irrisolte, che il pesce finisca sugli scogli senza sapere come tornare in mare.

Nulla di particolarmente complicato, e forse più difficile a dirsi che a farsi, come confermerà chiunque si sia cimentato seriamente nell’arte della scrittura.
 
Ma come si gestisce invece la differenza (x-100)%? Qui il lettore non è più in deficit, ma in surplus di informazione, quindi il problema è qualitativamente diverso. Come può un’eccedenza informativa non sbalzare fuori dal personaggio?

È difficile sentirsi Cappuccetto, essere lei, quando tu hai capito da subito che nel letto c’è il lupo e lei no (e le ci vuole persino un po’ di tempo per comprenderlo, con continue domande sulle singolari fattezze fisiche della nonna): in questo frangente stai probabilmente osservando la storia da fuori, e non più vivendola da dentro il personaggio come dovresti.
  
Estratto dal romanzo La cittadella, di Archibald Joseph Cronin.

Eccolo qui un bell’esempio di ironia drammatica: il personaggio è un entusiasta medico novellino, che non vede l’ora di mettersi all’opera per far del bene al prossimo; è tutto bello, per lui, dal suo punto di vista, proprio tutto; e quel “lo scoprirete da voi” gli scivola addosso come il lupo a Cappuccetto rosso.

Ma noi, lettori, abbiamo capito: c’è una situazione da cui tutti scappano (“È raro che si fermino qui a noi”) e lui, il personaggio, ci si sta andando a infilare senza capire ciò che lo aspetta (mentre noi lettori non intravediamo nulla di buono).

E questa ironia drammatica va avanti ancora per qualche pagina, giocando su quel filo sottile che ci fa temere per lui – perché lui non capisce e noi sì – senza però esser sbalzati fuori da lui, rimanendo cioè dentro il personaggio.
 
Volendo dare una regola generale – la cui applicazione è rimessa alla sensibilità dell’autore – potremmo dire che il surplus di informazioni che genera ironia drammatica non deve mai essere eccessivo nella quantità (non ci devono essere “troppe cose” che noi capiamo e il personaggio no) e nell’estensione temporale (non deve durare “troppo a lungo”).
 
L’ironia drammatica – per così dire – serve a far stare il lettore col fiato sospeso, ma non deve metterlo in apnea.
 

Hamartia: cenni e rinvio

Alla base dell’ironia drammatica vi è un errore di giudizio del personaggio, che viene registrato dal lettore: tu capisci che l’incontro con il lupo avrà conseguenze, Cappuccetto no; tu capisci che il dottor Manson sta andando a prestare servizio in una cittadina complicata, lui invece no; la situazione oggettiva è la stessa per entrambi – lettore e personaggio – ma il lettore capisce (valuta correttamente) e il personaggio no (commette un errore di giudizio).
 
L’ironia drammatica è spesso presentata insieme alla hamartia.
 
Si genera hamartia quando è il lettore a cadere in un errore di giudizio, e precisamente quando spera che il personaggio compia delle azioni che lui, lettore, sa bene essere sbagliate, e tuttavia desidera ugualmente vederle compiere al personaggio, perché il contesto e la dinamica della storia glielo fanno desiderare in modo progressivamente più intenso; e il personaggio finirà con l’assecondare il desiderio torbido del lettore, compirà quelle azioni sbagliate, con piena approvazione e gran soddisfazione del lettore, salvo poi vedersi presentato il conto del proprio errore, lui come il lettore.

L’hamartia ha un valore pedagogico immenso.

C’è in tutti noi la tendenza a sottovalutare il male, a reinterpretarlo sino a mistificarlo, a scambiare il male per il bene, a vedere talvolta nel male una via obbligata verso il bene, a fare il male e dire “in fondo non sto facendo nulla di male”, e al limite ad auto-assolversi con il “così fan tutti”.

E l’hamartia risuona allora come l’ammonimento evangelico: “sia il vostro parlare: ‘Sì, il sì’, ‘No, il no’; il di più viene dal Maligno” (Matteo 5, 17-37).

Lo vedremo nell’analisi del romanzo La cittadella.

Commenti

Post popolari in questo blog

L’ARTE DI EMOZIONARE

MODULO 19 – Infodump e rottura della quarta parete: il marchio dei dilettanti

Modulo 18F – Il luogo è un personaggio